ALIGHIERI corso Dante Alighieri
Corrisponde all’attuale corso L.A. Martinetti, al quale ha ceduto la titolazione dopo l’ultimo conflitto nel 1946.
A sua volta, il nome del poeta aveva sostituito il più suggestivo titolo di “corso dei Colli” (-vedi-; con questo nome la strada fu aperta forse quando fu scelta la sommità del colle per aprire il cimitero secondo le leggi napoleoniche; e fu conosciuta in forma ufficiale dal 1882. Prima di allora, esisteva solo il tracciato che oggi è salita Belvedere. Le due strade si sovrapposero nella parte bassa dentro il borgo.
Risulta che già era stata cambiata la titolazione al corso, preferendo il sommo poeta, leggendo una ingiunzione dell’Ufficio Sanità ed Igiene, datata 17 ago 1925, indirizzata ai fratelli Lagorara quali proprietari dell’appartamento (e per essi, al loro agente sig. Zaccheo Giacomo residente in via Imperiale n.1) perchè al civ. 26/1 di corso D.Alighieri era morta in casa tale Virginia Cavazza per malattia infettiva, e si ingiunge imbiancare con doppia mano di latte di calce cucina e cesso.
Nel 1926 quando nacque la Grande Genova al tracciato già era stato dato il nome di ‘corso Dante Alighieri’; ma fu ufficializzato con delibera del podestà solo il 19 ago.1935.
Al civico 51, nell’aprile 1933 c’era il Patronato san Vincenzo de’ Paoli
Nel Costa/1928 si segnalano sul corso al civ.29 e31, la liquoreria di Sosso Giuseppe; e non specificato il civ., di due fabbriche per la lavorazione della Latta (di: Bozzolo &C., e di Conte Cesare); e di Grondona Giulio, trasporti.
Nel 1937 al civ. 13 c’era l’officina meccanica – costruzioni in ferro / ditta Cesare Conte, che nel 1939 aveva telefono 41-040; era ancora funzionante nel 1961 e possedeva macchinari per costruzioni in ferro, e stampi per la lavorazione della latta. In quell’anno il suo numero telefonico era identico.
DEDICATA al “giove” della letteratura italiana, nato a Firenze il 5 giu. 1265.
Universalmente è conosciuto per nome; anche in tante enciclopedie non viene elencato per il cognome (la famiglia Alighieri, piccoli possidenti senza spicco nella storia della città. L’antenato bisnonno ricordato nella Divina Commedia, è Cacciaguida -1100 ca-1147, cavaliere di Corrado III, la cui moglie – della famiglia degli Aldighieri – forse darà il cognome ai discendenti: così al nipote Alighiero di Bellincione, padre di Dante) ma confidenzialmente col nome (come se il vicino D’Annunzio venisse descritto a Gabriele. Potenza della notorietà).
Conosciamo gli esordi in attività politica solo dopo i 30 anni di età con presenza nella corporazione medici e speziali; e, in conseguenziale, membro del consiglio speciale del capitano del popolo, membro del consiglio dei cento, priore (quale massima carica della città).
Si schierò con i Bianchi (corrente fiorentina nata da una divisione del partito dei guelfi, contraria all’ingerenza del clero e degli angioini; sorretta dalla famiglia dei Cerchi, dal popolo minuto e dall’aristocrazia fondiaria (mentre i Neri, rappresentati dalla famiglias Donati e dall’aristocrazia mercantile e bancaria, sostenevano una politica più aggressiva)); sconfitti in battaglia, i Bianchi confluirono nei Ghibellini (e ovviamente i Neri si ritrovarono nei Guelfi)) e, da loro incaricato, fu inviato -1301- come ambasciatore da papa BonifacioVIII per dissuaderlo dall’inviare a Firenze Carlo di Valois favorevole ai Neri, i quali però prevalsero (se Bianchi e Neri sono nomi fiorentini, i guelfi e ghibellini nacquero nel XII secolo in Germania nel 1125 alla morte senza eredi dell’imperatore EnricoV: servivano a distinguere due famiglie –Baviera-Sassoni contro Svevi- in lotta per la corona. In Italia, il corrispondente significato lo si ritrova per primi a Firenze nel 1215, ad indicare opposte fazioni; nel caso però, divennero ghibellini i favorevoli all’impero, e guelfi alla gestione in politica del clero colto e del papa. Forse dalla veste del papa, i suoi seguaci furono detti anche ‘Bianchi’, contrapposti ai ’ Neri’ dell’imperatore. In realtà però, le opposte fazioni non sempre avevano così alti scopi politico-territoriali, ma semplici diatribe per interessi locali, tra famiglie e famiglie: a Genova i Mascherati (i Ghibellini) e Rampini (i Guelfi) (Teofilo Ossian De Negri li definisce “un guelfismo ed un ghibellinismo veri e propri Genova non li conobbe mai – inteso che conobbe eminentemente solo i propri interessi -; solo nel 1241 gli Annali danno un nome alle due parti contrapposte; questi nomi che affioreranno solo di riflesso, più per un gioco storiografico che per una realtà consapevole, sopravviveranno anche quando, verso la fine del secolo, l'opposizione delle due parti non sarà più un fatto contingente ed occasionale, ma una tradizione inveterata, e quasi istituzionale)-
Così, coinvolto nelle guerre di fazione fu, in quanto ghibellino -1302-, condannato a morte in contumacia; visse pertanto gli ulteriori 19 anni da esiliato dalla città natale, deluso dall’incosisteza politica dei suoi alleati e sperando invece nell’imperatore Arrigo VII per poter rientrare.
Autore di molte opere, è conosciuto soprattutto per la “Divina Commedia” ove, per primo ed unico, espresse in maniera incomparabile la sua epoca, trattando di etica, filosofia, religione, motivi di avvenimenti storici, costumi e persone dei suoi tempi, bistrattando in modo severo o elogiando tanti personaggi e città italiane. Tra esse, Genova (mirando però più a Branca d’Oria che alla città), rea dei più gravi misfatti come di pensare ai fatti delle proprie fazioni anziché all’unità dell’Italia (come lui sperava sotto il governo dell’Impero); da qui l’invettiva contro i genovesi: “... non stanno senza guerra - li vivi suoi e l’un l’altro si rode ...”.
È sicuro che sia stato ai confini della Repubblica, ospite in Val Fontanabuona dai Fieschi (la più potente famiglia guelfa; nata nel X secolo come consorteria dei conti di Lavagna, nel
castello dei Roccatagliata, ove Dante ebbe a conoscere la storia di Ottobono.
Giustiniani propone l’origine dal termine Flisci, ovvero vigilanti la riscossione del fisco imperiale -e quindi in origine- ghibellini. divennero capi dei guelfi nella diatriba tra Federico ed Innocenzo IV). All’inizio del XIII, forse Opizzo, arrivò a stabilirsi a Genova, agregando via via varie famiglie minori: Bianchi, Casanova, Cavaronchi, Cogoreno,
Della Torre, Penelli, Ravaschieri, Scorza, San Salvatore.
L’arma dei Fieschi è costituitaa un fondo bianco (argento) con tre bande d’azzurro a rappresentare le tre virtù principali; sinceritdelle azioni e altezza di propositi. La famiglia diede due papi (Innocenzo IV e Adriano V – la casa era in Carignano; la chiesa santaMaria in via Lata
allegoria della famiglia-sotto le piume, il gatto
Aumentando di numero e potere, nella seconda metà del 1100 si divisero in due rami: di Savignone (di Opizzo, con sul cimiero ‘il Gatto’; animale simbolo anche della casa di Baviera. In ogni occasione di vittoria o di acclamazione il grido del popolo era ‘viva il gatto’, animale che ricorda il motto ’sedens ago’ ovvero perenne accortezza e sapienza, preferendo l’intelletto all’azione avventata); e di Torriglia (iniziata con Tedisio e che si estinse nel XIX secolo- con sul cimiero ‘il Dragone’; voluto dal papa al posto dell’aquila; ma qualcuno lo legge come una serpe; anch’essi poi adottarono il gatto ed è con quel grido che diede le mosse GianLuigi il giovane, nella famosa congiura.
Oltre a questi due simboli, fu per primo Giovanni Antono Fieschi, 1442, quando sbarcò a Ge per costringere il doge Tommaso Fregoso a dimettersi, ad assumere per tutti una frase da scrivere su un nastro sotto lo scudo (detta ‘divisa’) che fu “agnoscit tempus” (col significato di ‘sappiamo quando agire’)
Per taluni Storici, Dante sarebbe passato, quando andò in Francia: proveniente da Chiavari risalì l’Entella ed il Lavagna soffermandosi al castello posizionato nell’interno; così ebbe convenienza proseguire fino al Passo del Portello per arrivare a Tortona, da dove seguendo parte della Postumia scese a Vada Sabatia, da dove proseguì per la via Julia Augusta. Ognuno è libero di esprimere le sue idee anche se sembrano mirate a demolire ipotesi semplici – e troppo spesso, ed appunto perché tali, usate poi da altri per fare storia campanilistica; infatti ci sarebbe solo da obiettare che da Chiavari pare assurdo fare tutto quel lungo e per nulla facile giro, per arrivare a Savona. Comunque, dalla sosta in quel castello, nacque il famoso verso, riguardante papa AdrianoV dei Fieschi: “intra Siestri e Chiavari s’adima / una fiumana bella, e il suo nome / lo titol del mio sangue fa sua cima.” (Purg.XIX-100). Questi Storici sconfessano anche chi afferma che la Siestri descritta sia SestriLevante; per essi è invece una minuscola castellania posta nei vasti terreni dei Fieschi, i quali possedevano anche quelle di Roccatagliata e di Neirone site sui monti sopra Chiavari. Dopo la famosa congiura, la Repubblica trasformò la castellania di Roccatagliata in podesteria soggetta direttamente a Genova e tolta ai Fieschi. Quindi Sietri è una frazioncina posta alle pendici del monte Lavagnola sulla strada che saliva in val Trebbia, e da lì in val Padana, ed era posto di cambio dei muli e cavalli. Di conseguenza,pr loro il torrente è il Lavagna -e non l’Entella- visto che “s’adima” vuol significare “precipita in basso” ovvero scende precipitoso da Siestri –posto in alto- a Chiavari –posta in basso-
E sia è sicuro sia stato in Lunigiana nel 1306 dai Malaspina (nel loro castello, eretto sulla sommità di un colle nei pressi di Mulazzo, in val di Magra, -ne esiste ancora una torre diruta) ospite di Alagia Fieschi (Pur. XIX.142), cugina del vescovo Antonio e moglie di Moroello Malaspina (fu capitano guelfo di parte nera: nel 1302 sconfisse i Bianchi a Campo Piceno ed è ricordato come ‘vapor di Val di Magra’ nell’Inf. XXIV.145). Vi rimase per oltre due anni, espletando per loro funzioni di ambasciatore; e sia ancora di Franceschino (ghibellino), che lo chiamò e protesse - quando lui era fuoruscito ed ormai impossibilitato a rientrare in Toscana-). Dal notaio Giovanni di Parente di Stupio ricevette una procura in bianco (per tutto il casato dei Malaspina, ramo Spino Secco, in genere, fieri ghibellini) e fu inviato (lui guelfo bianco) a Sarzana per trattare col vescovo di Luni (Antonio Nuvolone da Camilla, colà trasferitosi da Luni, ormai decadente, e - con altra sede vescovile, il castello di Castelnuovo Magra), concludendo con lui una azione diplomatica relativa ai confini in Lunigiana (Arcola, Beverino, Bolano, Calice) stipulando la pace di Castelnuovo, 6 ott.1306; ultima di una serie di pace, intervallate da guerre, sempre per lo stesso secolare motivo riemergente (il vescovo precedente, Enrico da Fucecchio, aveva decapitato tre ambasciatori dei Malaspina). Lui ringrazierà la famiglia, sia ricordando Corrado Malaspina il giovane (Pur.VIII.115), sia il casato (Pur.VIII.124).
Nulla prova invece, in forma sicura, che Dante sia arrivato a Genova: si suppone solo nel 1311-12, quando in città dimorò temporaneamente anche l’imperatore Enrico (Arrigo) VII (1269-1313. Dal 1308 imperatore romano-germanico della Boemia, figlio di Enrico II di Lussemburgo. Concepì il sogno di una monarchia universale, giurando di unire e pacificare l’ Italia: programma corrispondente all’ideale del Poeta che lo invocò a scendere nelle nostre terre. Egli, dopo aver sottomesso Milano, passò da Genova per allestire le navi e riunire in città -tradizionalmente guelfa- tutti i fuorusciti delle varie città italiane, entusiasti e pieni di speranza per l’impresa promessa di arrivare a Roma; tra essi, anche il padre del Petrarca; e quindi forse anche l’Alighieri che in quei tempi stava scrivendo il Purgatorio. A Roma fu incoronato nel 1312 ma l’impresa non ebbe seguito per la sua morte improvvisa, l’anno dopo a Buonconvento mentre si apprestava a conquistare il reame di Napoli). Ma alla fine è più logico affermare che non ci arrivò, visto che a quei tempi era giocoforza viaggiare via nave e lui di simile esperienza non ne parla mai (come invece fece il Petrarca fanciullo, rimanendo impresionato per i boschi ed i superbi palazzi visti da prospettiva diversa). A questo punto si innesta la possibilità, non remota, di una acredine particolare verso Genova, secondaria innanzi tutto alla sua inclinazione politica, come già detto sopra, filo imperiale e quindi contraria ad una Repubblica svincolata dall’unità proposta dal duce straniero; ma anche una partecipazione all’ira dei suoi graziosi ospiti, sia dei Malaspina che dei Fieschi, i quali avevano dovuto subire una forzata e per loro odiosa restrizione alla loro potenza: ambedue feudatari irrequieti, ricchi e di grosse aspirazioni, avevano dovuto scendere a patti con la Repubblica, chinare il capo e sottomettersi, perdendo buona parte dei diritti e poteri (anche se il riconoscimento della superiorità politica, giuridica e militare e quindi del licet all’espansione territoriale di Genova, era stato concesso proprio da Federico I Barbarossa nel 1162 con una costituzione poi ripresa ma pressoché non modificata da Enrico IV nel 1191 e da Federico II nel 1220).
Nel poema, dimostra più volte conoscere bene ---sia il dialetto (usando alcune parole tipiche, tipo fiumara ed, essere appruovo); ---sia la geografia (mai cita Genova. Però nomina, a parte Noli, la vernaccia delle Cinque Terre e quasi tutti i borghi del levante: Lerici, Turbia, Chiavari con il torrente Lavagna -definito la ‘fiumana bella’- e Siestri (una borgata a nord di Chiavari al confine tra la castellania dei Fieschi e la podesteria di Genova, sul percorso detto ‘via Patrania’ che collega Chiavari a Scoffera –e da qui o a Busalla o a Torriglia–); nonché i confini della Repubblica (a ponente con la Francia (invisa al poeta); ricorda Turbia (paragona la scoscesa scogliera ligure alla salita del purgatorio “Tra Lerice e Turbìa la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole e aperta”-Purg.III.49); ed il torrente Magra (che nel tratto finale separava la Liguria dalla Toscana “tra Ebro e Macra, che per cammin corto lo Genovese separa dal Toscano”-Par.IX.89); ---sia la storia, in particolare tre personaggi:
Alagia Fieschi, è solo citata dallo zio come unica pura della famiglia, e quindi posta a méta di salvezza e speranza.
Ottobono Fieschi di Lavagna, posto tra gli avari nella V cornice del Purgatorio, canto XIX verso 100, supino a terra a mordere perennemente la polvere (“perché i nostri diretri rivolga il cielo a sé”), perché mentre consumò la sua gioventù nell’accumulare ricchezze pieno di ambizioni, solo quando per assai breve durata raggiunto il soglio papale col nome di Adriano V seppe prendere provvedimenti (“la mia conversione, ohimé!, fu tarda”), seppur, giudicati dal Poeta retti e virili: svincolarsi dalla soggezione francese e chiamare a soccorso – guarda caso - l’imperatore Rodolfo perché aiutasse la nazione; il suo pentimento è racchiuso in un concetto filosofico e nella consapevolezza che tutto ciò che viene bramato in terra, ha breve fiamma: una volta raggiunto perde il suo valore e non mette il cuore in pace. Non è facile intuire il perché di tanta severità del poeta verso il papa ligure; storicamente ricordato invece come cardinale di grande cultura – teologica e scientifica -; come fruttuoso ambasciatore del Papa presso regnanti dell’epoca: Carlo d’Angiò, EnricoIII, Rodolfo d’Asburgo; come relatore al Concilio di Lione; come delegato della s.Sede in Francia per dirimere delicatissime questioni sull’eresia e sulle sette non riconosciute da Roma.
Più incisivo il personaggio di Brancaleone, o semplicemente Branca Doria, posto nel IX cerchio il più profondo dell’Inferno, nel XXXIII canto. Ghibellino, era ancora vivo quando il poeta lo descrisse tra i traditori, accusato di aver ucciso nell’anno 1275 il suocero, vent’anni dopo le nozze, stufo di non poter entrare in possesso della dote promessa alla sua sposa Caterina da Sassari del Giudicato di Logodoro in Sardegna.
Questo titolo era di proprietà del suocero Michele Zanche (e quindi di futura eredità di Branca. Anche Zanche viene descritto all’inferno, tra i barattieri nel XXII canto) il quale per politica tollerava che la moglie (madre di Caterina, regina a Torres e Gallura) desse gli onori del suo letto ad amici, nemici, potenti – come a Enzo, figlio di Federico II e futuro imperatore di Sardegna - in un mare di corna e di potere. L’assassinio avvenne durante un banchetto, suscitando l’ira dell’Alighieri che al suo nominare prorompe nella famosa invettiva «Ahi Genovesi, uomini diversi - d’ogne costume e pien d’ogne magagna, - perché non siete voi del mondo spersi?» , assai dura ma di pretta intenzionalità politica essendo assai simile a quella verso i Pisani rei di aver barbaramente ucciso il conte Ugolino. In realtà il Branca Doria, residente in città nel suo palazzo di piazza s.Matteo, fu un folle fascinoso delinquente, simpatico e dannato, spregiudicato e folle: dalla iniziale carriera ecclesiastica passò all’omicidio – prima del suocero e poi anche del fratello per assicurarsi la primogenitura -: e questi i più noti; per finire a guerriero; con qualche sprazzo di magnanimità come l’aver concesso al priore di san Fruttuoso di esportare prodotti del luogo senza pagare gabella. Qualche scusante l’aveva anche lui: la madre non fu meno intrigante, incestuosa, turpe e traditrice in un periodo quando la morale dei potenti era nel complesso ben sotto la soglia dello zero. Un tipo così non poteva morire nel suo letto: infatti fu impiccato. Ma da qui, a renderlo rappresentativo dei genovesi, il passo è un po’ troppo lungo anche per il signor Alighieri di cui non tutto è da prendersi come verità assoluta, ma al contrario abbastanza deformata da un’ottica privata.
Morì a Ravenna il 14 sett.1321, presso il signore Guido Novello da Polenta, che l’aveva ospitato, essendo definitivamente esule da Firenze. Ed a Ravenna venne sepolto davanti alla porta della Chiesa Maggiore.
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-DeNegri TO-Storia di Genova- 1974-p.303, 338
-Enciclopedia Sonzogno
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-Il Secolo XIX del 22.1.86 +
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