Articoli pubblicati nel 2009
n. 1 gennaio - pag. 12 brevetto di inventore: le diete ........................ alleg. 4
n. 2 febbraio - pag. 12 come eravamo il secondo valico, la Camionale - alleg. 1
n. 3 marzo - pag. 12 come eravamo il piazzale della Camionale ....... alleg. 5
13 largo ai giovani (firmato Riccardo.................... alleg. 25
n. 4 aprile - pag. 12 via GB Monti ....................................................
16 medicina: comportamento=giocare con la lingua- alleg. 2
n. 4 bis supplemento Certosa-Rivarolo –pag. 6 notizie storiche ................. alleg. 3
-pag. 17 sBartolomeo della Certosa
n. 5 maggio - pag. 2 via G.Carducci .................................................. alleg. 6
9 sfrattato il Club Nautico ................................. alleg. 7
n. 6 giugno - pag. 5 villa Scassi-inauguraz. del salone ......................... alleg.10
9 come eravamo = i confini ........................................ alleg. 9
10 come eravamo = la sabbia di SPdA ........................... alleg.12
12 medicina = cancro prostatico –PSA ....................... alleg. 8
16 medicina = la leishmaniosi ------------------------------ alleg.
18 come eravamo = il Club Nautico+brevissima+loppa.. alleg.11
19 necrologio = Carlo Pastorino .................................. alleg.13
n. 6 bis supplemento estate –pag. 15 responsabilità di avere un cane
n. 7 settembre –pag. 5 omicidio-suicidio ................................................ all. 14
14 circolo PGS ...................................................... 15
n. 8 ottobre -pag. 13 iconografia di SPdA ............................................. 16
n. 9 novembre-pag. 7 Influenza ......................................................... 19
10 Franzone ............................................... alleg.17
12 Lapide medievale in via Rolando 8 ......................... 21
16 Australiano ................................................................. 20
19 Orengo di Roma, Zena nel cuore...................... 18
Monaco ................................................................... 22
n. 10 dicembre-pag. 9 tradizioni e confusione ........................................... 23
11 pelle e bellezza ..........................................................24
allegato n. 1 - Il secondo valico: la CAMIONALE
Oggi la chiamiamo autostrada; e in termini freddamente tecnici A7, con deviazione a monte nella A11 ed A2000 e un tot (le quali, nella mia mente che ha più un solo neurone, vanno assieme ai vari moderni Pin, Pil, Pet, Pum, Bin, Bum, Ba, ecc. da mandare a memoria).
Ma autocamionale è il suo primo nome, e così si chiamò quando teoricamente nacque nel 1931 a Monaco. Qui, al VII Congresso internazionale della Strada, l’Italia -che già vantava 20mila km di strade nazionali – propose per prima in Europa l’apertura di un nuovo percorso ad uso esclusivo del traffico dei camion. Era un problema molto sentito nell’ambito del trasporto e del porto; così rapidamente la soluzione fu accettata da pressoché tutte le nazioni. Da noi, questa scelta faceva iniziare la competizione tra le ferrovie e... la Fiat, con l’inizio delle disavventure della prima, vissute a tutt’oggi come essere ‘alla frutta’, a vantaggio del trasporto su gomma che dona grandi...ansietà agli abitanti di via Molteni e via Cantore.
Genova allora, era da trent’anni e più che desiderava un secondo valico verso Milano, ma l’inerzia dello Stato e la Prima Grande Guerra avevano fatto naufragare tutti i progetti; nel 1920 all’ing. Puricelli era stato chiesto studiare un tracciato che spostasse su esso il traffico verso la pianura padana, in quanto fino ad allora doveva transitare con grande fatica attraverso il passo dei Giovi, strada iniziata in epoca napoleonica, aperta al traffico nel 1821, e sino ad allora rimasta eguale. Infatti contati nel 1928, dal Passo transitavano giornalmente 105 autocarri (570 nel 1933) dei quali 42 con rimorchio (367/1933), 204 autovetture (582/1933) e 35 motocicli (90)1933.
Da Roma fu accettato il progetto di questa ‘direttissima’(settimo in Italia), che – come detto -andò a scapito di uno identico, però ferroviario. I puristi della lingua avrebbero voluto chiamarla ‘autocamionabile’, visto il fine a cui era destinata; ma alla fine prevalse il nome dato per primo dal progettista: ‘autocamionale Genova-Valle del Po’, ovvero Genova-Serravalle, pari a 50 km. attraverso l’Appennino. Innovative erano le 11 gallerie, mai aperte fino allora (la più lunga quella dei Giovi, ancor oggi in uso in direzione Milano, di 902 metri, a 413 m/slm); problematico l’isolamento dal traffico stradale e ferroviario; eccezionali la pendenza non superiore al 4%; curve con raggio non inferiore a 100 metri; larghezza 10 metri per tre piste. Previsti 28 viadotti, 12 cavalcavia, 112 sottopassaggi, le rampe di accesso. Tutto doveva essere, oltreché funzionale, anche esteticamente bello: l’ingresso delle gallerie bugnato, i muri alle stazioni decorati con marmo verde di Pietralavezzara; le case cantoniere dipinte di rosso mattone.
La burocrazia stavolta fu celere: Mussolini diede il via al progetto nel febbraio 1932, promettendo totale investimento dello Stato (previsti 175 milioni); il 18 giugno avvenne la regia approvazione; il 6 ottobre si diede il via ai lavori con la prima ‘picconata’ simbolica di fronte all’antica abbazia di san Bartolomeo del Fossato sul versante del colle di Promontorio,. Con epicentro a Busalla, erano stati reclutati 26.882 operai; il serpentone era stato diviso in 22 lotti dati in appalto a 28 imprese. Nei lavori, fatti a picconate, carriolate ed a colpi di dinamite (124.800 kg), morirono 26 operai ricordati in una lapide (della quale parleremo prossimamente). La camionale fu inaugurata tre anni dopo, il 28 ottobre 1935, percorsa per primo dal re Vittorio Emanuele III.
Mussolini si dichiarò assente, sentendosi occupato dall’avventura iniziata venticinque giorni prima quando aveva dato il via alla conquista dell’impero, invadendo l’Etiopia.
In San Pier d’arena il percorso interessa quasi esclusivamente la zona del Fossato, sia territorialmente – anche se non ne fu stravolto in forma irreparabile, in quanto effettuato a mezza costa rispetto la antica strada che scorre a fondovalle; e sia, per il rumore di fondo, interessante le case di via Fanti e viciniori.
Ci ripromettiamo parlare ancora del piazzale e del ponte Morandi, i quali con la loro invadente presenza sono invece più presenti sul tessuto urbano, quotidianamente vissuto dalla popolazione.
EBaglini
Pubblicato su 2/09-pag.12
Allegato 2 - GIOCARE con la lingua
Lingua italiana, intendo. La quale al contrario delle lingue anglosassoni, ed anche se non sempre ce ne rendiamo conto, è un meccanismo molto preciso: ogni inflessione o tono di suono, qualità e modalità delle plurime situazioni, ha un suo nome preciso.
Per esempio, potrei dire ‘rumore’, e forse dire tutto; la nostra lingua invece distingue esistere, con significati diversi: vocio, tramestio, tonfo, baccano, balbettio, botto, cagnara, clamore, colpo, rantolo, ronco, scalpitio, tramestio e trapestio, stormire, bailamme, bisbiglio, cigolio, crepitio, frastuono, chiasso, gorgoglio, ronzio, rumorio, sparo, borbottio. E, sicuramente, ne ho dimenticato altrettanto. Ma sufficiente per sottolineare che - per chi parla o scrive, e nella vita di relazione - è necessario stare attenti a come ci si esprime, perché cambia -con la parola - il concetto.
Mi riferisco a due parole sulle quali si gioca, e spesso con gravi danni: amicizia ed amore.
Per la prima parola, l‘italiano suggerisce come sinonimi compagnia, vicinanza, partecipazione, fratellanza, simpatia, … Tutti sappiamo che esiste l’amicizia e l’Amicizia e che tra una e l’altra c’è una grande sfumatura, molto personale. Potrei personalmente suggerire che la differenza sta nella “disponibilità” a essere presente, con proprio sacrificio e senza attesa di riscontro. Ci sono dei beni forti che – tutti d’accordo - possono essere posti davanti all’Amicizia: la vita, la famiglia, l’onore ed altro da valutare individualmente. Altri beni, possono essere controversi come il denaro, le regole sociali, certi interessi personali. Allora, scendendo al pratico, se un conoscente è in difficoltà e chiede aiuto, quando inizia l’Amicizia? Ognuno risponda a se stesso: deve collocare questo appello come su un gradino di una scala e determinare cosa c’è sopra (più importante) e cosa sotto (meno importante). Sarà più facile stabilire come intervenire e quando (per esempio, se al richiamo del conoscente preferisco andare a giocare a carte con altri ‘amici’, o andare in villeggiatura o a teatro, o starmene alla TV e limitarmi a suggerire cosa fare... il famoso, te l’avevo detto!). Ci giocano i mafiosi, dando dell’infame a chi antepone i consimili (la società) agli interessi dell’amico.
L’amore è ancora più complesso. Come sopra, sappiamo che esiste amore ed Amore. Anche qui, l’italiano suggerisce alternative che stanno nella sfumatura di mezzo, come infatuazione, passione, attrazione, cotta, simpatia, stare assieme; fino al pratico ‘fare sesso’. Amore, con la A maiuscola, secondo me, è “dare”, senza ricevere; ovvero quando il pensiero mette il preferito/a (partner) incessantemente al primo posto, con rinuncia e sacrificio dei propri vantaggi. Le coppie che si separano, prima di sposarsi hanno equivocato sul termine Amore; perché un conto è l’empatia, l’attrazione fisica, la simbiosi emotiva, e ben altro è Amore.
Ma poiché la colpa, come sempre, è degli altri, in questo caso specifico è degli insegnanti che, a scuola, non hanno insegnato l’italiano.
Allegato 3 – Governo di RIVAROLO a pag. 6
Nell’opera “Jl Dominio della serenissima Repubblica di Genova” di Matteo Vinzoni, pubblicato nell’agosto 1773, l’ingegnere descrive il “Governo di Rivarolo ossia della Polcevera”, quale “una delle tre Podestarie della Città Dominante”.
Precisa che “Il Governatore risiede in Rivarolo, che viene eletto dalla Rep.ca per due Anni dell’Ordine Nobile, e del n° del Minor Consiglio con l’annuo salario di £:5222..., et un Dottore per Vicario; et ha soggetti li infrascritti Luoghi. cioè Pieve di....
Inizia citando “Sanpierdarena”, inclusa in detto Governo, descritta come “valle amenisima per la bellezza, e sontuosità degli Edificj, e Giardini, che vi si vedono, e particolarm.te in Sanpierdarena, che non ve ne sono pari in Europa”, e “distinta in 3 Quartieri cioè... comprendente anche Cornigliano, Campi, Rivarolo sotto, Promontorio e Gallieno”.
Seconda, la “Pieve di Rivarolo”, suddivisa in vari Quartieri: “Rivarolo Superiore. Morta. Teglia. Bolzoneto. Costa. Cremeno. Garbo. Braxile.”.
É seguita dalle Pievi di Mignanego, san Cipriano, Ceranesi, Serra, S.Stefano e S.Ulcese.
Nelle annotazioni segnala, in Rivarolo, i conventi “De Certosini”; “Minori Rif.ti”; e dei “Casinensi al Boschetto”.
ALLEGATO 4
Brevetto da inventore : le diete
Tra i venditori di parole , focalizzati in altro articolo, limitato alla medicina, trovo una altra categoria che sta ‘prendendo campo’. I dietologi.
La medicina che professo io - e la quasi totalità dei medici - è quella che si basa sulla dimostrazione di un dato scientifico: medicina dell’evidenza. Ovvero qualsiasi evento deve essere documentato con la serietà che si richiede a tutte le informazioni scientifiche. E, allo scopo, la mia medicina, pone come responsabile dell’alimentazione, il medico ‘specializzato in dietologia’.
I miei colleghi con tale patente hanno però due gravi difetti. Il primo, è che potendolo fare legalmente, alcuni si aiutano troppo spesso con farmaci al limite della legalità, comunque tutti psicofarmaci, di prescrivibilità psichiatrica (e non loro); il secondo è che basandosi sulle calorie da consumare, stilano liste di cibi che dopo due giorni finiscono in qualche cassetto della cucina, impossibili da pesare e soprattutto da seguire, sia se in casa nessun altro segue quelle indicazioni, e sia perché in genere sconvolgono l’abitudine alimentare “della mamma”, la quale è inconsciamente ed istintivamente da tutti giudicata sana ed inamovibile.
Proseguiamo con i ‘ma’. Primo: non ci sarebbero dubbi se la medicina fosse una scienza matematica. Ripeto spesso all’amico Bampi che, se per un ingegnere, due più due fa inequivocabilmente quattro, in medicina invece due più due fa più o meno infinito. Proprio perché non ci sono mai due malati eguali, anche di fronte ad una unica malattia; e così vale per una dieta. Secondo: per non incorrere nei vincoli della legge, basta non scrivere la parola ‘specialista’ e tutto va bene ed è legalmente fattibile. Questi due permettono l’inserimento di tante variabili. Infatti, sia per le reclame sui quotidiani o riviste, e sia per i singoli cittadini, facile così diventare dal mattino a sera degli alimentaristi, o nutrizionisti, o dietisti, o...cibisti, o... aiutatemi voi quanti sinonimi esistono nella nostra lingua fantasiosa. Chiunque, appena si sveglia, dopo aver fatto l’insegnante in una palestra (vedi Striscia la Notizia) o allenatore di una squadra sportiva, o cuoco, fantino, pilota d’aereo, o infermiere in ospedale, o... può mettersi a scrivere diete di sua invenzione, appoggiate a miracolosi ‘integratori’. Viva la libertà. Qualche allocco lo trova sempre; anche perché poi, di – a chi va male - non lo saprà nessuno; contando invece su quelli che ne hanno tratto giovamento i quali diventano potenti portavoce. Ad esempio, le statistiche dicono che gli allergici al glutine sono il dieci per cento della popolazione? Almeno il medico può chiedere gli esami del sangue a riprova; ma chi non ha diritto a richiederli né a prescrivere farmaci, che fa? toglie il glutine a tutti ed è chiaro che un dieci per cento se ne gioverà; e - stando meglio - quel dieci gliene procura cento, ai quali spillare soldi.
Viva la libertà, specie per quelli che – credendosi furbi - si vantano di non credere ai farmaci... e con essi (non sempre a torto) ai medici e quindi alle diete mediche.
ALLEGATO 5 CAMIONALE, IL PIAZZALE
Una volta che il governo fascista decise l’incremento del trasporto su gomma a scapito di quello per ferrovia, per noi - al fine del funzionamento del porto - nacque la necessità non solo di aprire una nuova strada – come già descritto nel numero scorso – ma anche di organizzare aree idonee a raccogliere e smistare i vari automezzi.
Era da anni che aleggiava il desiderio di sbancare definitivamente il colle di san Benigno: l’intervento economico statale divenne l’occasione buona sia per realizzare questa definitiva comunicazione col ponente, e sia – col riporto - per riempire il mare davanti a San Pier d’Arena ed aumentare la superficie del porto.
Continuando lo scavo di certe ‘cave’, già aperte sui due versanti di san Benigno, dopo averle messe in comunicazione con un nuovo tunnel di 196 metri, dopo aver demolito le caserme, fu eliminata la barriera del colle - fatta metà di roccia calcarea (dalla parte di Genova) e metà di scisti (dalla parte di San Pier d’Arena) - usando mine giganti pari ad un peso di 2300 kg di dinamite. Furono asportate 1.100mila m³ di roccia utilizzando una apposita ferrovia a due binari. Di questi massi, 50mila m³ furono utilizzati per allargare ulteriormente il piazzale e – per pareggiarlo - innalzarlo nella parte rivolta al torrente di san Bartolomeo. Allo scopo, esso venne deviato verso ponente orientando il deflusso delle sue acque verso via Bottego, distogliendole dal normale antico percorso che si compiva in linea con via GB Carpaneto.
Rimase così un vasto piazzale, messo in sicurezza da un alto muro relativo alla sola metà scistosa del colle, alto 70 metri, lungo 150, a maglie larghe. Nell’interno dei riquadri del muro, nel 2003 dal Comune fu inaugurata una serie di ‘pitture acrobatiche’ dipinte sulle rocce da Mario Nebiolo, il quale abbarbicato sulla parete, utilizzando rilievi e scanalature naturali, dipinse figure umane nell’atto arrampicatorio, visibili ancora ai giorni nostri.
Sul piazzale l’ing. Calza Bini fece erigere una stazione, adatta ad albergo a quattro stelle, con 16 camere; nonché bar, ristorante, diurno, pronto soccorso, rifornimento e altri confort per i viaggiatori.
A mare, il CAP diresse - su proprio territorio - l’elevazione di una vasta elicoidale necessaria a smaltire il traffico da/verso il porto (campata alta 13 m., e 40 m. di larghezza sopra via di Francia; curvatura con raggio di 50m.; a più corsie). Il negativo di questa innovativa costruzione, è che essa favorì il distacco fisico di tutta la zona della Coscia dal tessuto cittadino, cosicché dopo neanche sessant’anni, essa ‘non appartiene più’ al contesto urbano e, in piena indifferenza anche dei più vecchi tradizionalisti, ha consentito prima l’insediamento abusivo, poi lo spianamento, in attesa di fondi per innalzare grattacieli, pratici ma per nulla ... poetici come era quell’angolo (assomigliava a Boccadasse).
Tornando al piazzale, solo in seguito vi hanno trovato sede una caserma di polizia stradale e tutta una serie di baracche necessarie per i vari servizi. Esse nascondono opportunamente uno scomodo monumento lì trasferito - scolpito da Antonio Morera - dedicato ai 26 morti sul lavoro (in tre anni di lavoro; i più, bergamaschi. Tema di ancor attuale pesante gravità; loro poverini sarebbero memorabili, ma le sacre pietre riportano frasi di colore orbace, che è molto più opportuno far finta di ignorare).
Piazzale della Camionale, ed autostrada, furono inaugurati da sua maestà V.Emanuele III, arrivato a Serravalle da san Rossore; e – come a dimostrare che il tragitto era “da Milano a Genova”, e non viceversa, ‘scese’ su auto scoperta seguito da tutto il corteo di gerarchi, militari, prelati e nobili, per arrivare alle 11 sul piazzale, ove, al suono di fanfare, fu detto ufficialmente al popolo – da poco vessato anche dalle inique sanzioni - che l’opera era “anticipazione, e geniale dimostrazione, della potenza creatrice italica, degna dei figli dell’antica Roma”. Il re scoprì sia la stele posta all’ingresso che il monumento su descritto; si sorbì il dannunziano finale èia èia èia, alalà mirato a ricordare sua eccellenza, assente per ‘affari di stato’ e, in una ala di folla tripudiante, andò a riposare in palazzo reale di via Balbi. Il giorno dopo mentre l’autostrada veniva aperta al normale traffico pubblico; costava - pedaggio anticipato - 4 lire per le vetture e 35 per i grossi veicoli con rimorchio (i quali -ed ancora negli anni 1965- se te ne trovavi uno davanti dopo Bolzaneto, era impossibile sorpassare sino oltre l’uscita della galleria dei Giovi), sua maestà era atteso da altre cerimonie, fino a sera; al rientro in Toscana, da Brignole, via treno..
ALLEGATO 6 San Pê d’Ænn-a antîga, da non scordâ Via Giosué Carducci
Dal 1899 si parlava di aprire una nuova grande strada di comunicazione con Genova, che avrebbe attraversato - sacrificandoli - orti e giardini della città di San Pier d’Arena. Ma, oltrepassare san Benigno, era un duro ostacolo per i mezzi di allora.
Nel 1910 il Comune cercò essere più concreto, ed il progetto sembrò prendere forma, con una titolazione scritta a mano sul bordo (via Giosué Carducci, grande arteria tendente al taglio di san Benigno); era ancora incompleto e non approvato, né inserito in un piano regolatore, prevedeva espropriare case e terreni, adeguarsi ad alcune rare residenze già esistenti, abbatterne altre.
Ma ciò favorì alcuni costruttori che ai bordi del primo lotto del tracciato, 125 metri, dai confini della villa Spinola a quelli della villa Imperiale-Scassi, innalzarono a monte - su orti e giardini ormai sviliti nel prezzo - alcuni palazzi i quali alla realizzazione della strada, avrebbero sicuramente acquistato maggiore valore; però furono obbligati ad aprire i portoni – come è ancor oggi - verso quella via allora unica esistente, poi chiamata via G.Pittaluga. Tra i primi, subentrò la farmacia –allora chiamata Chiappori, del dr. Saglietto.
La guerra del 1915 bloccò tutto; il che permise, a monte della villa Spinola, dove sino ad un anno fa era un distributore di benzina, di aprire un primo e fugace campo sportivo, dette “de-e Mòneghe” (collegio di suore che dal 1848 occupavano la villa, prima le Dame del Sacro Cuore, poi le Figlie della Carità).
Arriviamo al 1925, quando il Comune ripropose il vecchio progetto dell’ing. P.Sirtori; ma l’anno dopo si dovette procedere alla nascita della Grande Genova, e il tutto fu affidato all’ing.L.Connio.
La lentezza della burocrazia amministrativa, favorì l’equivoco applicativo della regola relativa alla nuova strada, in avanzata fase di progettazione, vanto del nuovo regime. La regola era che la strada doveva essere larga oltre 24 metri, grandiosa, affiancata da palazzi signorili, distanziati almeno 10 metri uno dall’altro, muniti di porticati ad uso pubblico, non superiori ai sette piani in altezza.
Negli anni vicino al 1930 tutto procedette più velocemente: mentre dalla parte di Genova, in suo ex territorio si sbancava la collina e si progetta il piazzale dell’autostrada, i progetti relativi alla delegazione furono nuovamente anticipati dagli imprenditori edili: essi, appena avuto sicurezza del tracciato innalzarono nuovi palazzi, con un certo tenore estetico si, ma senza portici da loro intesi come ‘furto’ di spazio da dedicare a ben più fruttuosi attività artigianali o commerciali. Nacquero così, a mare, i palazzi, oggi civici dal 10 al 24 (quest’ultimo, del 1908), tra i quali quello col grifo, detto ‘del san Giorgio’ (del 1926) per la statua e relativa scritta, tratta dalle “Rime Nuove” del Carducci. Mentre si dava mano (1931) ad un secondo lotto di 252 metri, fino alle Franzoniane ed ai palazzi ‘gemelli’ di via Masnata (la quale oggi non esiste più, mentre - dei due - ne rimane solo uno, il civ. 31A).
Tutti i sentieri che salivano verso le colline, subirono un taglio subito dopo il loro distacco dalla antica via Daste; alcuni furono addirittura spostati (via S.B.d.Fossato), alcuni cambiarono nome (salita Belvedere), alcuni furono corretti con scalinate (salita s.Barborino e salita inf. S.Rosa).
Ultimo ostacolo da abbattere, prima di poter sfociare in piazza Montano, furono delle case e l’Oratorio della Morte ed Orazione; appena essi furono demoliti la nuova arteria fu definitivamente totalmente percorribile. Fu inaugurata ufficialmente il 15 maggio 1938 (XVII dell’era fascista), ma con nuovo nome già deliberato dal podestà nel 1935 e ratificato il 29 giu.1939: “via Antonio Cantore”. Infatti, Genova aveva già una via G.Carducci e dal 1926 aveva obbligato la delegazione a cambiare nome; qui, era dal 1915 che si voleva onorare il generale alpino morto sulle Tofane, e già gli era stato intitolato un tratto della attuale via Daste. La nuova grande via, nella scia dell’entusiasmo della vittoria, sembrò più degna per onorare l’eroico concittadino, medaglia d’oro al Valore Militare, chiamato ‘il papà degli alpini’.
ALLEGATO 7 - Club Nautico Sampierdarenese
Q uando noi sampierdarenesi mugugniamo perché ci hanno reso come gli alessandrini, i quali – con quella faccia un po’ così - se vogliono vedere il mare dobbiamo prendere il treno, dobbiamo fare una sosta, perché non è tutto vero: c’è rimasto un angolino di pochi metri sulla riva, ancora ad uso locale, anche se non proprio sul mare aperto ma solo alla foce del torrente.
In una conferenza il prof. Monteverde ha detto che l’identità di Sestri e Cornigliano è industriale e operaia (non ha citato San Pier d’Arena, ma lo ha lasciato intendere). Riteniamo non sia vero: l’industria ha sì incisivamente occupato e anche distrutto il territorio, ma per solo centocinquant’anni anni. San Pier d’Arena, e le vicine, ne contano mille di anni di età; quindi la loro vera identità rimane quella della città di mare ed accettabile il professore solo quando appariva che il mare ce l’avessero irrimediabilmente e totalmente cancellato.
Invece un angolino c’è ancora, e con lui si conserverà questa benedetta ma antichissima identità sampierdarenese: città sul mare, di naviganti barcaioli.
Ce ne accorgiamo nel momento che – anche quel microspazio altamente simbolico - ce lo vogliono levare. Ed allora sarà totale e senza ritorno, visto l’andazzo ed i presupposti,.
É occupato dall’antico “Club Nautico Sampierdarenese”, ove attraccano una quindicina di barche, ove si ritrovano quotidianamente i soci mantenendo un servizio sociale importante e di alto livello, ove possono ritrovarsi gli appassionati di pesca e quelli che allo scopo abbisognano di collegamento con la diga foranea.
Sono stati sfrattati, con la motivazione della necessità anche del loro microspazio per la messa in opera e realizzazione cantieristica del ponte e raccordi della futura viabilità in zona Polcevera-Lungomare Canepa.
Siamo andati a vedere; ed in effetti lo spazio in questione è così decentrato e piccolo, da non dover essere necessario coinvolgerlo; se non per favorire altri spazi attorno, appetiti da tanti, dei quali non si fa nome – mancando le prove dirette – ma... In sostanza, pare che il sacrificio venga chiesto ai più piccini, perché con meno voce. Allora, non è giusto che ai tempi d’oggi questo succeda; e Tursi neanche dovrebbe chiedercelo. I sampierdarenesi tutti dovranno insorgere perché questo ultimo nucleo di “simbolo dell’identità sampierdarenese” non venga distrutto.
Il Gazzettino si fa portavoce della popolazione, purché essa non assista passiva ed indolente a questo ultima punizione territoriale.
ALLEGATO 8 . NEL DIAGNOSTICARE IL CANCRO PROSTATICO, IL PSA SERVE? NI
La prostata soffre prevalentemente di due disturbi: l’ipertrofia (aumento di volume; benigna, anche se con sequela di pesanti disturbi funzionali) ed il tumore (benigno, o maligno mortale: il 9% dei decessi per neoplasia).
Prima, l’urologo aveva a disposizione solo tre esami, nessuno preventivo: quello diretto della visita e l’eco (i quali si sovrappongono nella rilevazione del male) e l’ago biopsia (eco guidata).
Venti anni fa circa, fu lanciato il test del PSA (prostatic specific antigen), valutato molto importante e divenuto inizialmente sempre più usuale, nel momento che il cancro prostatico era al secondo posto nell’elenco della mortalità tumorale maschile; e che, come test, era di semplice esecuzione nel contesto di altri esami del sangue.
Da un lustro ad oggi però, tanto ottimismo si è smorzato notevolmente.
Se all’inizio apparve come indispensabile campanello di allarme (permettendo riscontro di un boom di diagnosi precoci di cancro prostatico, e con possibilità di intervento –parziale o totale della ghiandola- anticipando così la metastasi), a ridimensionare tanta euforia, sono avvenute due ricerche statistiche su vasta scala: una - su 160mila uomini - ha dato esito che con l’uso del test la mortalità si è ridotta solo del 20%; altra - su 76mila - addirittura non sono stati rilevate differenze significative.
Mentre questi risultati conducono oggi a valutare l’esame “poco attendibile”, sono intervenute altre considerazioni, tipo: --riscontro che il 30% dei tumori, è di tipo non aggressivo (specie nei più anziani) e quindi che non sempre - ad un valore alto - corrisponde altrettanta pericolosità; --e che il tempo ha dimostrato esistere anche una alta incisività di ‘falsi positivi’. Per questo, il PSA è stato titolato di ‘test a doppio taglio’, creando notevoli perplessità nei politici (costo/beneficio) e nei pazienti, a seconda della scelta del proprio urologo/oncologo (due specialità non sempre in sintonia sulla competenza e sulla reciproca collaborazione). Specialmente, a complicare la situazione, è stato il loro comportamento al momento della scelta terapeutica: mentre essa è generalmente univoca quando PSA, eco, visita e biopsia concordano per esito eguale; diverso ed in disaccordo è divenuto quando il PSA è alto, ma non comprovato dagli altri esami: ovvero in caso di solo sospetto. Inizialmente si adottò unica variante nell’eseguire l’agobiopsia, non più solo mirata ma composta di plurimi e diffusi frustoli. Ma non fu sufficiente.
Così il fronte degli specialisti si è rotto in due correnti principali a) prevenire sempre in maniera drastica, ovviamente più sicuro sulla sopravvivenza; ma con troppi casi di ‘overtrattamento’ e pesanti disagi nella qualità di vita; b) attendere: è il sistema preferito, ma senza sicurezza; chiamato “di sorveglianza attiva”, basato sulla razionalità ed equilibrio nel valutare la aggressività del male, sul controllo periodico dei quattro esami, e sull’attenzione a dimostrati fattori esogeni quali alcool, dieta, abitudini sessuali.
É allo studio un nuovo esame molecolare, più preciso per l’individuazione dei metaboliti del carcinoma (ricerca della sarcosina nelle urine: discrimina il benigno dal maligno ed è più precisa nel diagnosticarlo), ma è ancora presto.
ALLEGATO 9 - CONFINI
Il colle di san Benigno, è sempre stato il confine naturale tra Genova e San Pier d’Arena. In nessun atto, si leggono discordanze o diatribe tra i due Comuni. Il colle stesso, dalla parte nostra era a parete rocciosa ripida – quasi a taglio verticale -, erta ed impervia, tale da costituire già di per sé un vero e proprio baluardo naturale decisamente non praticabile; mentre dalla parte di Genova era a panettone con sopra – prima - l’abbazia omonima e poi le caserme. Nel 1630, quando Genova costruì l’ultima cerchia di mura dalla Lanterna a Porta degli Angeli ed oltre, pur innalzandole a ridosso del nostro strapiombo, non risulta abbia mai utilizzato il nostro versante per rifornire materiale necessario; e vicino alla abbazia di SBdFossato era stato scavato nella roccia un unico impraticabile sentiero, non per nulla chiamato Rompicollo. Quindi il confine è sempre stato quello naturale del colle, dalla sua parte a ponente.
Chi fece esplodere il problema fu l’applicazione del dazio e della sua ‘cinta’, negli anni attorno al 1886. Mentre sul confine, posto a livello del dirupo ci fu poco da dire da ambedue i Comuni, nacque contestazione per la strada che dalla Porta della Lanterna scendeva, alla Coscia, in largo Lanterna.
Da principio fu proposto la divisione lungo il centro; ma nella discussione, i due comuni si irrigidirono nelle proprie convinzioni, istituendo commissioni di studio con relative ricerche negli archivi; nonché riunioni con i proprietari dei terreni, con i rappresentanti del Genio militare, del Dazio, delle Commissioni censuarie; fino ad appelli alla Camera dei Conti. Non trovando accordo, nel 1890 si istituì addirittura una Commissione Censuaria specifica per il caso. A quel punto, il delegato di “Sampierdarena” (sic) si trovò completamente sprovvisto di documenti, e propose solo antiche tacite convenzioni e che il ‘sasso del SS.Salvatore’ dipinto vicino alla porta, era stato destinato alla chiesa di san Martino. Mentre invece Genova poté vantare alcune carte francesi napoleoniche, in possesso all’Ufficio lavori pubblici del Comune, le quali attestavano essere loro territorio anche questa strada, interpretata come “accesso al borgo”; e che quindi essa aveva confine con la scogliera a ponente e non con le mura. Non risolvendosi egualmente, tutto ristagnò; ma nell’attesa di definire il problema, il gabbiotto delle guardie fu messo al di qua del colle, in largo Lanterna, all’ingresso nostro della galleria del tram ed all’inizio della salita alla Lanterna: un ovvio ed implicito dire che San Pier d’Arena finiva lì; e che da lì a levante (ovvero tutto il colle) era Genova.
Ma sotto la brace... il fuoco ridivampò quando nel 1914, per stabilire il dazio sul trasporto del materiale pietroso dalla collina al mare effettuato per l’ampliamento del porto, la soc.an. Lavori del Porto risollevò il problema. Vennero rispolverati e riproposti gli stessi argomenti; ed egualmente la contestazione non trovò soluzione. I bollenti ardori non ebbero soddisfazione di una decisione definitiva, perché - arrivati al 1926 - fu istituita “la Grande Genova” ed il Comune di San Pier d’Arena cessò di vivere.
Ai giorni d’oggi è anacronistico parlare di confine; ma tant’è, esiste ancora anche se sbancato il colle: sia “sotto terra”, per mamma Natura, essendo SPdA con rocce scistose e Genova calcaree; “sopra”, in una linea teorica tracciata tra il fianco est di sBdFossato e la Lanterna, interpuntata dalle sei imboccature delle gallerie ferroviarie ancora presenti; e burocraticamente per il Municipio, la demarcazione tra la quinta U.Urbanistica di s.B.d.Fossato, confinante con quella degli Angeli e san Teodoro.
ALLEGATO 10 - MUNICIPIO IN VILLA SCASSI
Nei giorni 5 E 6 giugno il Municipio ha celebrato una significativa e tangibile vittoria culturale: con una spesa pari ad un milione di euro circa, ha curato il ripristino e ripintura sia della facciata a monte della villa Imperiale Scassi (anche se tutti sappiamo che è secondaria a quella di largo Gozzano; ma che è pur quella che vediamo noi ed eventuali turisti transitando per via Cantore) che del salone principale della stessa villa.
Così essa, comunemente definita ‘la Bellezza’, lo è a maggior ragione perché confermata nella funzione (scuola pubblica) e ripristinata nell’estetica.
La cerimonia ha visto l’inaugurazione con l’apertura del salone da parte di una rappresentante del Sindaco (ovviamente, in tutt’altre faccende affacendato). É stata resa: interessante, da relazioni di valenti studiosi, suggestiva, da scene in costume; popolare, dagli allievi della scuola quali ciceroni; e conclusa da bravissimi cantori e suonatori di musiche dell’epoca.
Non possiamo non essere grati a tutti gli esponenti della Municipalità che hanno determinato questa scelta, a vantaggio di tutti noi abitanti, solitamente mugugnoni, ma stavolta entusiasti partecipanti.
ALLEGATO 11 -
LA LOPPA
La loppa è una scoria della ghisa. Quando nell’altoforno corniglianese quest’ultima veniva fusa e resa fluida, la scoria veniva separata e buttata nel torrente. Proprio nel punto in cui il Polcevera finisce in mare l’accumulo della loppa ha creato una montagna che sbarra, come una diga, lo sfogo in mare delle acque; poche decine di centimetri sotto il livello delle acque nel periodo piovoso, ma che emerge significativamente nei periodi di secca. A fine aprile, un gommone - con pochissima immersione quindi - se vuole risalire dalla diga alla sede del CNS, deve viaggiare lentamente ed a strettissima vicinanza con il muraglione corniglianese, perché già tre metri verso il centro si incaglierebbe (cosa già avvenuta a molte sprovvedute imbarcazioni, anche della Polizia, nel tentativo di fare manovra nel posto.
É alta preoccupazione del Comune e dei Verdi tenere sgombri - da alberi, detriti, e ostacoli al deflusso - i torrenti che scaricano le acque del versante appenninico, ma da anni nulla viene fatto per questa vera e propria diga, pietrificata, che sbarra le acque del Polcevera proprio nel punto del suo sbocco. Questo disinteresse è un mistero per noi poveri sprovveduti lontani dal Palazzo; ma ciò non toglie che siamo seriamente preoccupati.
Il CLUB NAUTICO
Nacque nel 1901, con presidente G.Pestalozza e con promotore l’ appassionato L.Oneto proprietario di un saponificio. Su terreno demaniale della spiaggia, fu costruito uno chalet con palafitte, tutto in legno di pitch-pine, su progetto dell’ing. Ratto, capace di ricoverare sotto la costruzione le imbarcazioni tirate a riva e dell’alto seguire quelle in mare. La febbre delle regate spostava con i mezzi di allora, da Voltri a Nervi, ampia massa di popolazione entusiasta, quale oggi il foot ball; tutti tifosi del proprio borgo o club. Nel 1903 avvenne la prima edizione di gara velica “Coppa Città di San Pier d’Arena”, ripetuta annualmente sino all’immediato dopoguerra della seconda mondiale.
Nel 1926 quando - per trasferirsi ove è attuale - la pubblica assistenza Croce d’Oro abbandonò una sua prima sede (costruita in cemento, di fianco a levante dello chalet, e vicina pure al teatro Ristori), il Club Nautico si disfece della sede in legno (essa, acquistata dal club Vela di Pegli, fu smontata e parimenti ricostruita dove ancor adesso si può ammirare sul suo lido), e si trasferì in quella costruzione innalzata di un piano. Era presidente allora Manlio Diana, benestante proprietario della fabbrica di latta per conserve ubicata nella via Giovanetti e nella villa Crosa; nonché presidente del club caccia e tiro al piccione; nonché nostro sindaco, ultimo perché sotto lui avvenne l’assorbimento nella Grande Genova.
La palazzina, avuta dal CAP in affitto simbolico di lire una, ospitava anche il Club Canottieri Sampierdarenesi, ora trasferiti a Sestri ma sempre col nostro nome e, con ottimi risultati sul piano nazionale.
Quando l’arenile fu occupato dal porto, il club velistico si adattò a varie sedi provvisorie finché nel 1950 approdò a Nervi per rimanervi.
Nell’angolino tra porto e torrente, di fronte alla riva corniglianese, su terreno del Demanio ma con cointeressi del Comune, Provincia e Regione, è rimasto in vita il C.N.S. che con i suoi oltre trecento soci si dedica alla pesca con partecipazione ed organizzazione di gare anche a livello nazionale.
ALLEGATO 12 - LA SABBIA DI SAN PIER D’ARENA
A ponente di via De Marini, esisteva un rione triangolare di case, racchiuso anche dalle antiche via Balleydier (e l’elicoidale) e la ex via Vittorio Emanuele II (che, diritta verso ponente e percorsa dai tram, dalla galleria sotto san Benigno proseguiva sbucando in piazza N.Barabino e proseguendo in quella che oggi si chiama G.Buranello. Negli anni 80-90, le ripetute invasioni di poveri sbandati, prevalentemente romeni, fecero prima chiudere quegli edifici, poi abbatterli, lasciando in sito i ruderi, che negli anni si coprirono di vegetazione spontanea.
Questa larga area è rimasta così per decenni, in attesa forse che le sorti economiche genovesi permettessero erigere altri grattacieli e, soprattutto vendere gli spazi a società operative.
Adesso hanno aperto un cantiere, nel quale hanno sbancato tutto, e scavato in profondità. Ecco così riaffiorare la sabbia, quella che faceva parte del lido più bello del genovesato e che è stato ricoperto di cemento per il porto: ovunque, dalla Fiumara a levante, escluso qui. Solo per ora.
Deformato dalla professione, ho letto un parallelismo: abbiamo visto fila di camion prelevare la sabbia, e trasportarla – così mi è stato detto - al rimpascimento di spiagge di paesi vicini della riviera: una specie di trapianto di organi. I vecchi sampierdarenesi osservano impotenti questa reliquia, conoscendo l’inevitabile esito del sito; ma si pacano il cuore sapendo che la sabbia andrà a rivivere in altri centri più fortunati.
ALLEGATO 13 - Necrologio Pastorino
Quando intrapresi l’attività professionale, l’organizzazione del Pronto Soccorso ospedaliero non esisteva come unità a se stante rispetto i padiglioni di medicina e chirurgia ed il servizio era affidato alla rotazione dei vari componenti di tutto l’organico.
Carlo Pastorino fu il primo ad organizzare un servizio esclusivo del Pronto Soccorso chirurgico, composto da specialisti che vivendo unicamente quell’ambiente, andarono ad acquisire una ultraspecializzazione, la chirurgia d’urgenza, che fino ad allora non esisteva.
Proveniva dalla guerra vissuta sui monti da partigiano e dalla gavetta medica: l’iter delle carriere professionali, allora, era: in successione, studiare per laurearsi; fare volontariato in ospedale e contemporaneamente fare anche il medico della mutua per sopravvivere; frequenza assidua; studiare per specializzarsi; meriti di particolare bravura con riconoscimento della Direzione; studiare per aggiornarsi.
Dal 1970 al 1989 Carlo Pastorino è stato primario del Pronto Soccorso chirurgico dell’attuale Ospedale Villa Scassi, insegnando a tutti i suoi allievi la prioritaria gravosissima responsabilità decisionale, e la rigorosa manualità mirata alla sopravvivenza dell’assistito - quando non esistevano esami strumentali escluso sangue, raggi ed ecg, e di fronte ad un malato spesso urgentissimo ma sconosciuto nella sua personale storia medica. E quindi, ‘occhio clinico’ e ‘stomaco di ferro’ erano le armi di cui dotarsi per affrontare il dilemma di decidere della vita di un infermo. La struttura funzionò e migliorò, raggiungendo gradatamente i vertici di un ospedale di prima categoria.
Dalla data della pensione, si ritirò dalla vita professionale, godendosi la vita di campagna, semplice, familiare, sino all’ultimo saluto di chi gli ha voluto bene e di chi gli è riconoscente.
Allegato 14 OMICIDIO – SUICIDIO per settembre09
Sono stato, per lunghi anni, incaricato dell’ambulatorio “tentati suicidi” dei Servizi allora chiamati di Igiene Mentale, in stretta collaborazione con la compianta prof. Formigoni, psicologa.
Difficile sintetizzare in poche righe un commento sul doppio complesso evento. Nel tristissimo leggere ciò che è accaduto in corso Martinetti, l’infanticidio - unico motivo del fascicolo in Magistratura - è indissolubilmente legato al successivo suicidio. Quindi, se crudele il primo, di maggiore interesse medico il suicidio, giudicando che ha prevalso, nella madre infelice, il desiderio di ‘scomparire con i propri beni’ (se ci fosse stato un messaggio scritto, l’interpretazione sarebbe di aver così agito per scatenare un senso di colpa nei ritenuti colpevoli del proprio disagio).
Con molta delicatezza, tento esprimere qualche pensiero.
Fantastica e impenetrabile, la nostra mente. Fantastica per come è adeguabile alle mille e mille necessità della vita ‘normale’: dall’amore, all’odio; dalla gioia alla disperazione, dalla coerenza alla stranezza; dall’intelligenza alla fantasia; dalla morale alla volontà. E, per necessità di brevità non ho citato tutte le caratteristiche fisiologiche della mente (trascurando, per esempio, la produzione di idee, gli istinti, la memoria, ed altre. Ciascuno, grande capitolo di per sé, che a sua volta si suddivide in mille rivoli individuali, da richiedere ciascuno un libro per cercare di spiegarne i miliardi di combinazioni).
Impenetrabile per come la sovrapposizione delle esperienze, della cultura, dell’ambiente, portano a maturare altri miliardi di ibridi di comportamento, tra i quali lo sconfinamento nel suicidio. Sansone, Socrate, Giuda, sono esempi di identico gesto, dettato da motivazioni diverse; e, ciò, dai millenni trascorsi.
Il suicidio, per la psichiatria, viene incluso in un difetto - contemporaneo e misto - dell’affettività e della coscienza. Questo cocktail entrato in deficit, può essere, come tutte le malattie, cronico (esempio nei depressi); subacuto (ovvero recente; esempio, dopo un incidente sconvolgente per la persona; e, frequente, nel post parto); acuto (ovvero improvviso; anche se ha sempre delle motivazioni più antiche di umore, temperamento, emozioni, carattere, solitudine, ecc. Ma che avviene per esplosione non prevedibile).
Reazione nei parenti è il senso di colpa, di non ‘aver capito’ prima. Ovvio, nei casi cronici. Ma tortura senza materia nei casi acuti, perché c’è poco o nulla da capire, e perché prevedere un simile evento è come un biglietto della lotteria: favorisce uno su milioni.
Reazione nella gente. Per autodifesa, essa cerca morbosamente di capire il perché del gesto per paragonarsi nelle proprie eventuali scelte; concludere di non avere difetti in merito; poter così infine archiviare l’evento tra le esperienze gramme della vita. Più facile, nei casi cronici; abbastanza sconvolgente nel fatti acuti, con i quali questo paragonarsi è impossibile.
Reazione nei medici. La rabbia dell’impotenza; mista a un grosso disagio: la sfiducia e vergogna che in genere aleggia sulla psicologia; falsa e stupida scelta, che in genere viene favorita proprio dai più bisognosi, incoscienti, o supponenti di un proprio super io che non hanno. Per psicologia, parlo del comportamento dei sani (anche se siamo tutti nevrotici). Perché è psichiatria interessarsi dei malati. Se fossimo meno prevenuti verso i benefici che derivano dal parlare con persona competente, sicuramente molti disagi si supererebbero o si farebbero superare dalle persone amate. E molti eventi di questo genere non capiterebbero. Così è fatta la natura umana: bisogno di parlare, essere capiti, essere amati.
E Baglini
Allegato 15 Circolo PGS consegnato per settembre
Almeno ufficialmente per necessità di spazi, in via C.Rolando a fine anno non verrà prorogato l’utilizzo dei locali al PGS (polisportiva giovanile salesiana) ad uso circolo riservato ai soci.
É il “Circolo s.Gaetano, PGS”, una grossa organizzazione che ha sede a Roma; fa parte del Coni per molte attività, delle quali, quelle applicate qui, le più importanti sono: nuoto, football, basket.
Gli uffici locali, sono dentro l’Istituto don Bosco e controllano un alto numero di soci, i quali poi sono quelli che hanno diritto all’ingresso ed all’uso delle tre sale che costituiscono il Circolo: la prima con il bar e qualche gioco elettronico; la seconda con alcuni tavolini per il gioco a carte; la terza con ben quattro biliardi.
Pur usufruendo dei locali dell’Istituto, il Circolo è abbastanza autonomo dall’attività dello stesso.
Particolarmente importanti sono: la PGS basket donBosco, anche con settore per disabili in carrozzella. La sezione nacque a Genova nel 2005, passò l’anno dopo nella sezione cestistica del PGS, partecipando a campionati nazionali di serie A2 e B (attuale), giocando nella palestra della “Crocera”. Ed anche il gruppo handbike (bicicletta per handicappati) nella quale esercita l’iridato campione del mondo 2007, Vittorio Podestà, chiavarese.
Allegato 16 ICONOGRAFIA DI SPdArena
Dai documenti riportati sui libri e documenti, si può immaginare come era il nostro borgo nell’antico. Sino a quando, indietro? Con i “Libri Jurium”, gli atti notarili della Curia e la cappella di sant’Agostino, si arriva agli anni medievali attorno al 1200. Tra i poeti - a proposito dei sobborghi genovesi - non primo ma il più importante, il Petrarca (1300).
Ma attraverso l’iconografia, ovvero con le immagini? A quei tempi non c’era ancora tale cultura, e si deve partire da più vicino a noi, con iniziali mappe schematiche e simboliche, sempre tutte mirate a riprodurre Genova lasciando quindi il nostro villaggio in posizione marginale, a ponente della Lanterna e san Benigno.
La cronologia delle immagini è importante per scorgere l’evolvere nel tempo, ma del quale sino al 1700 non esiste fedeltà se non nel segnalare che il borgo esiste e che ha delle chiese importanti. Così, si scorge il passaggio dal borgo agreste (con un litorale da fare invidia alle Bahamas), a quello di villeggiatura (caratterizzato dal comparire dei palazzi patrizi e di nuove strade, come quella carrozzabile del XVI secolo che univa Genova con la Lanterna); fino alla comparsa della ferrovia e delle prime ciminiere (della incipiente e massacrante trasformazione industriale).
Le immagini quindi, al massimo, iniziano dalla fine del 1400 (XV secolo) spesso con geniale – per quei tempi - visione prospettica dal mare ‘a volo d’uccello’. Di esse, più famosa una xilografia del 1490 (foto 1) assai schematica; di anonimo; oggi al British Museum: a ponente della Lanterna e della Briglia, c’è solo metà borgo rappresentato da palizzata di case in unica fila fino alla chiesa della Cella - a quei tempi monastero di importanza secondaria, rispetto la parrocchia di s. Martino e qui non riprodotta -. Sulla spiaggia il ‘castello’, con due persone; e le due chiese sui colli.
Descrittiva del periodo 1512-4 a testimonianza dell’occupazione di Luigi XII, è un’opera di fattura molto posteriore: il borgo è disegnato come unica fila di case affiancate, in riva al mare; la parrocchia di san Martino all’interno e nessun ponte sul torrente. Invece di anonimo arabo (foto2 - ora al Museo di Istambul; a corredo di manoscritto dello storico di Solimano il Magnifico), una visione prospettica dal mare del 1543: si vedono case in doppia fila; un convento nel mezzo di esse (la Cella?); quelli di Belvedere e Promontorio; un grosso complesso all’interno (san Martino o la Certosa di Rivarolo). Più recente, è una acquaforte colorata del 1572 di F.Hogenberg che nel volume originale è assieme alla visione di Firenze. Del nostro borgo è sottoscritta solo “la bastia de prementon” e sono raffigurate due fila di case dal tetto rosso, parallele al mare. Diverranno sempre più numerose e dettagliate le riproduzioni successive, tipo quella del 1586 di GB Perolli (affresco nella casa privata di don Alvaro de Bazan); e quella considerata di base, datata 1597, in un quadro di Cristoforo Grassi (foto3). Di quest’ultima, sappiamo che l’autore, in quella data, la copiò da altra veduta - oggi perduta - disegnata un secolo prima, ovvero ai tempi di Colombo e di Andrea Doria. Seppur con la fedeltà relativa alle capacità di quei tempi, in essa si vedono in primo piano la Lanterna (con ai suoi piedi, le forche dei condannati) e san Benigno. Tra essi ed il torrente (sorpassato da un ponte in legno sorretto da pali) c’è raffigurato il nostro borgo del quale spiccano: le alture coperte di verde boschivo ed ortivo con al culmine Belvedere e Promontorio; in fondo valle la parrocchia di san Martino; le due strade parallele (quella a mare e quella interna, oggi via Daste già ricca di ville signorili che faranno del nostro borgo l’angolo agreste e nello stesso tempo monumentale); animazione sulla spiaggia ove a fianco delle barche si distinguono chiaramente pescatori che dalla riva tirano le reti.
Diventerebbe un arido elenco descrivere tutte le opere che iniziano a comparire nel secolo successivo; cito solo quelle determinanti: del 1616 dipinta da Bordoni. Del 1627 di J. Furttenbach (che evidenzia i palazzi descritti dal Rubens). Del 1637 di Alessandro Baratta, dedicata a GB de Mari per avere visuale della nuova cinta muraria appena finita, e sulla quale – in corrispondenza della nostra spiaggia – scrisse “S.PIERO D’ARENA, loco di delizie con bell.mi palazzi e giardini”. Del 1638 della tela ad olio del Fiasella con la “Madonna della città”. E di anonimo autore foresto, che fa vedere Genova, e con essa il borgo, da lontano otto o nove miglia al largo sul mare, ad uso della Marina Militare francese.
Solo dopo la metà del 1700 si raggiunge una precisione accettabile: di esse la pianta del borgo (basilare, precisissima in scala, puntigliosa nei confini delle proprietà e dei proprietari, di Matteo Vinzoni del 1757: data in cui venne consegnata; ma le stime e valutazioni risalgono a due o tre decadi antecedenti); sia la visione dal mare, incisa dal Giolfi (1769); sia la più recente ma sempre di grande impatto attrattivo, la “veduta da san Benigno” di H.Perle Parker datata 1822, nella quale si evidenziano la lunga spiaggia e le grandi ville.
Allegato 17 FRANZONIANE
Il marchese Paolo Gerolamo Franzoni nacque a Genova il 3 dicembre 1708, ultimogenito di una famiglia patrizia che a Genova aveva donato un doge, militari, ambasciatori e cardinali. Caratteristica di tutti, l’ampia generosità e cultura (uno zio paterno fu il promotore della prima biblioteca civica di Genova. Ricevette un’istruzione severa essendo votato alla gestione degli immensi beni di famiglia. Invece a 26 anni contro il parere della madre che vedeva così estinguere il casato, manifestò la vocazione al sacerdozio. Di carattere energico, deciso ed inflessibile, subito si dedicò agli incurabili, affrontando tante difficoltà ed incomprensioni che lo portarono ad inimicarsi con alcuni superbi che lo fecero condannare all’esilio per quattro anni. Rientrato, riprese impavido la sua missione. Affiancato da nuovi sacerdoti entusiasti delle sue idee, divenne poliedrico iniziatore di numerose iniziative sociali, tutte fonti di immensi travagli e di infinite spese, che il sacerdote onorò sempre attingendo alle sue proprietà. Così, per prima fondò la “congregazione degli Operai evangelici” dedita all’assistenza degli umili, sia materiale (domiciliare, ospedaliera, carceraria ed agli schiavi infedeli); sia culturale (le prime scuole serali gratuite; il concedere aperta la sua biblioteca nelle ore serali extra lavorative); sia finanziaria (l’opera di don Paolo Garaventa di Uscio) e non ultima, nel 1753, la Congregazione delle Madri Pie, poi dette Franzoniane, con il fine specifico di educare la gioventù femminile troppo spesso allora orfana o abbandonata all’analfabetismo, disoccupazione e sfruttamento. Per quest’ultime nel 1764 comprò la attuale villa Doria ed il terreno attorno. Nel febbraio 1778 una malattia debilitante lo costrinse a dolorosa ed irrecuperabile degenza; fu operato tre volte agli arti ma morì il 26 giugno 1778. La salma fu tumulata in Santa Maria di Castello; ma della tomba, spostata per ristrutturazioni, fu poi ritrovata solo la lapide. Le Madri Pie, il cui regolamento era stato ufficialmente confermato da papa Benedetto XIV nel 1768, proseguirono con tenacia e fervore il loro operato in mezzo a gravi difficoltà; ma lo spirito gagliardo – voluto dal fondatore – ha sempre prevalso su tutto in tutti i tempi (dall’assedio a Massena del 1800, ai regimi e guerre mondiali). Le vocazioni specifiche sono andate nei tempi sempre a crescere; tra esse rimangono famose suor Maria Rosa e Anna Maria, rispettivamente sorella e cugina di Giuseppe Mazzini; espandendo i loro principi anche ad Ovada, Roma, La Spezia, Noli, Milano ed in Perù. A loro si deve l’erezione della vicina chiesa della Sapienza, disegnata da A.Scaniglia, e consacrata nel 1822.
Allegato 18 - Orengo di Roma
Quando Zena resta nel cuore
Il nostro concittadino ed abbonato Giorgio Orengo è andato a vivere a Roma; e là ha avuto una figlia, Oretta. Ora la giovane è cresciuta; si è diplomata in ‘oboe’ al Conservatorio s.Cecilia; suona in concerti (a Genova: al teatro Stabile) registrando numerosi LP; si è perfezionata in canto e ‘corno inglese’. Da poco dedita anche alla musica popolare gestendo un complesso musicale da lei fondato e diretto. Un vulcano quindi.
Oltre che bella esteticamente, dimostra che la bellezza l’ha anche dentro, afferrabile dalle parole che ella canta in una sua canzone contenuta in un CD del Gruppo “Cantiereoltremare”, intitolata “A voxe do mâ”. Tra le canzoni, tradizionali e pluriregionali (laziale, toscana, pugliese, abruzzese); non poteva mancarne una genovese, dedicata al mare “la cui voce arriva per sognare, viaggiare con la fantasia, farsi trasportare dalla corrente dei propri pensieri e perdersi lontano...”.
Il Gazzettino si complimenta. La invita a nutrire sempre quel germe di genovese che ha, continuando a portare ‘o zeneize in to mondo’.
Allegato 19 - Influenza
Allarme!; ...Si... no...mah!
Obama annuncia: «l’influenzaA è ‘emergenza nazionale’»; ... alcune nostre TV: «tranquilli, tutto sotto controllo».
«Il virus si espande per via respiratoria»; ma c’azzecca con «lavatevi le mani»...? Intanto, di qua e di là dell’oceano crescono come funghi i morti. «Qui da noi: 40..., ora solo 46...». A tre al giorno...
Altrettanto innumerevoli sono le stranezze delle fonti ufficiali, tutte con verità troppo spesso solo parziali e che diffuse così, aiutano a confondere le idee; per esempio si consiglia (non ridete) evitare ambienti affollati, come se in città fosse possibile; e qui vengono elencati posti assurdi, tipo uffici pubblici, scuole, teatri, bus (questa raccomandazione bisognerebbe darla all’AMT che ci stipa come sardine), compreso l’ospedale. In seguito ad essi, il consiglio da dedurre sarebbe: tutti alle Bahamas, finché finirà il pericolo. Torniamo ad essere seri.
Tre categorie di virus possono aggredirci in questo inverno. In ordine crescente di ‘cattiveria’sono: quelli degli anni passati, quello/i dell’attuale stagione (ambedue coperti dal vaccino, dato a tutti); quello di tipo A, del quale parliamo alla fine. Per i primi due, il vaccino ‘normale’ annuale, viene dedotto da giornalieri rilievi dei “Medici Sentinella” negli aeroporti e scali; composto in base ai virus rilevati ‘che viaggiano’; scelti entro aprile-maggio di ogni anno (per dare tempo alle aziende di prepararlo e diffonderlo a ottobre: tanto ci vuole).
Se uno è nei panni del contagiante, ormai l’influenza l’ha, e se la tiene, non esistendo cure. Per fortuna il virus (come quello del morbillo, varicella, ecc.) muore per conto suo in un giorno (se virus smorzato) o –cinque/sette (se virus aggressivo). Esso si diffonde in forma sia diretta, per via aerea stando vicino a uno infetto che tossisce, starnutisce o, parla - alla pronuncia specialmente delle ‘p’-); e sia anche in forma indiretta, toccando le micro goccioline di saliva cadute sulla mano di chi tossisce o a un metro e poco più se non ha avuto l’educazione di questa istintiva precauzione: ecco perché il contagiante deve lavarsi le mani. Ovvio alla fine che sarebbe meglio starnutire o tossire con davanti un fazzoletto monouso. L’aggressore crea una infiammazione delle vie respiratorie superiori; ma se aggressivo scende anche della trama polmonare ove, o in forma diffusa o, peggio, di focolaio più duro a guarire e capace di riaccendersi per l’arrivo di banali germi (visto che l’aria che respiriamo non è mai sterile).
Se invece uno è nei panni del contagiabile, ne esistono due tipi: quelli sani a livello basale generale; e quelli a rischio perché fisicamente giù intaccati da qualche altra malattia debilitante, specie polmonare. Per ambedue, unica precauzione è il vaccino, visto che isolarsi è impossibile.
Se infine uno è nei neo contagiati, per i sani, sembra dall’andamento che non si debbano destare timori particolari avendo un decorso benigno anche se travolgente: quindi usare solo ‘tapulli’ tipo antinfiammatori (dall’acido acetilsalicilico in su; meglio tollerato in genere il paracetamolo) e vitamina C; e aspettare che i giorni di febbre alta e ribelle cessino per conto loro, sapendo che lascerà “molli” (la battaglia c’è stata) per altri quindici. Solo gli ammalati cronici richiedono delle attenzione in più: la mascherina; tra i farmaci, li suggerirà il Medico di base, gli antivirali orali (disponibili quattro tipi); gli antibiotici (in caso solo di soprainfezione per debolezza); il cortisone (dall’aerosol al parenterale e solo in caso di congestione polmonare, di pretta competenza medica).
Unica diversità è che questo inverno, in giro, di virus aggressivi, non ce ne è uno solo, lo stagionale, ma anche il virus A/H1N1, rompiscatole che è stato scoperto in aprile ma ben definito in ritardo possedendo geni commisti in una combinazione mai osservata prima nel mondo, derivati da altri tre virus pregressi aggressivi e non smorzati (della suina, della aviaria e della umana); quindi capace di essere generatore di una pandemia, se trova l’ambiente adatto. Giusto allarme, quindi, e già da agosto l’OMS mentre ha dettato linee guida opportune per prevenire (per questo, occorre prevedere il futuro... come azzeccare un superenalotto; con occhio più pessimista che ottimista) ha fatto fare un vaccino specifico. Ma la richiesta è mondiale, e i tempi sono troppo ristretti. Quindi produzione limitata e da dare a pochi, selezionati.
Allegato 20 - Australiano
Ci viene segnalata, dall’Auser, una lettera da loro ricevuta proveniente dall’Australia. Da là, dove è andato a vivere quasi sessant’anni fa, Orazio Farinella. Il nostro concittadino, non dimentico della sua San Pier d’Arena natia poiché la memoria gli viene rinfrescata mensilmente dal nostro Gazzettino a cui è abbonato, comunica l’intenzione di tornare qui in vacanza e anche di far qualche gita con l’Auser stesso. Come nella canzone “o pensa ancon de ritornâ...” (con la moglie Margaret), per il prossimo anno, ha già prefissato il viaggio.
Allora, da buoni genovesi, poche parole: solo un arrivederci; e al suo arrivo noi gli offriremo un po’ di pandolce nostrano mentre, da bere, ... pagherà lui.
Allegato 21 - lapide in via Rolando 8
Il fiore universalmente è usato quale ben preciso messaggio, di amore: verso un compagno scomparso, per simboleggiare una fiamma ardente di passione, o celebrare un anniversario o esprimere una spirituale dolcezza, o una condivisa gioia di colori. Anche la musica; ma più complicata e meno immediata da realizzare.
Intermediario è il fioraio, il quale, come commerciante deve avere la fornitura ammucchiata nei vasi; ma non è completo se non ha anche il senso della composizione (dell’ikebàna, tanto per parlare un po’ esotico) al punto che può diventare artista se, ripetutamente, crea il bello. Solo allora, vendere fiori è non solo commercio, ma anche arte.
Tale abbiamo visto nel negozio di fiori in via Carlo Rolando, nel quale siamo però entrati come curiosi delle volte a vela nelle stanze dell’antica villa genovese.
È stato in quel negozio, con l’amico DiRaimondo, pignolo ricercatore d’archivi, l’impatto con la lapide di ardesia riprodotta in fotografia; in uso nel basso medievo (1300-1400). Sapientemente ripulita dal vicino di negozio, un intelligente lavoratore edile (massacan in genovese), che l’ha ritrovata pochi anni fa in quello stesso posto ma nello spessore del muro, invisibile perché ricoperta da intonaco.
Gli amici del Cercamemoria ci aiuteranno a chiarire; datarla; da dove potrebbe provenire; ecc. Cosa rappresenta è più facile, esistendone altre nelle chiese (alla Cella, ma di marmo) e musei: ai due lati, gli stemmi di una (se uguali) o due famiglie nobiliari (marito e moglie; furono ambedue scalpellati come da ordine del governo francese nel periodo prenapoleonico di fine 1700); al centro un santo agnello (con aureola) portatore di bandiera crociata (cristiana o di Genova). Era simbolo di appartenenza o donazione da parte di una famiglia nobile, in genere a qualche struttura religiosa ma forse anche in casa se qualcuno di loro diventava – come d’uso – un alto prelato.
Quella casa, nel 1636 fu ‘riedificata’ per ordine di GioGiacomo Lomellini q.Tomaso (“incarica il magister Pietro Francesco Cantone a riedificare la casa che egli possiede a Sampierdarena vicino alla chiesa di San Giovanni Decollato”. Ricerche d’archivio dell’amico DiRaimondo); divenne possesso di Giovannetta Lomellini nel 1757 (carta del Vinzoni, con portone di ingresso dove è la fioraia; ed un possedimento terriero esteso a via Stennio e, verso ponente, che arrivava gossomodo a via T.Grossi, al limite col torrente Polcevera); sappiamo poi comperata dal vicino a nord, Domenico Spinola (negli anni 1780); dal 1875 rilevata dalla Cooperativa di Produzione e Consumo (gestita da Carlo Rota; che per farne mulino, pastificio e negozio eseguirono decise ristrutturazioni); ed infine immobile da abitazioni con altrettanta rivoluzione interna, compreso il nuovo portone creato sulla strada, e due scale interne.
Ampi vuoti di non conoscenza quindi; ma presumibile nessun edificio religioso. Allora, largo alle ipotesi: una potrebbe essere che proviene già scalpellata dalla antica parrocchia di s.Martino (era ove oggi è via A.Caveri) quando nel 1799 fu sconsacrata e demolita; e i buoni operai socialisti di Rota (mangiapreti ma ossequiosi), non se la sentirono di distruggerla ma la coprirono intonacandola.
Altra, che prima dei Lomellini ci fosse una chiesa-convento (improbabile perché nessuno lo cita). Terza ipotesi, che già negli anni del 1300 era abitata da un sacerdote (Lomellini o no; gli stemmi scalpellati non lo diranno mai più); e poi il GioGiacomo se la trovò in casa.
Alla fine, concreta testimonianza che, nel medioevo, San Pier d’Arena era già un centro fiorente, con una identità aggregata a Genova, ma capace di esprimersi autonomamente anche sul piano culturale.
E.Baglini – A.DiRaimondo
Allegato 22 - MONACO
(Prima versione)
Nella bella cornice del salone del palazzo della Borsa, il Gazzettino è stato invitato - come mensile cittadino - assieme a trecento ospiti, “tra i più noti dell’imprenditoria e dell’aristocrazia ligure”, a partecipare all’inaugurazione della “mostra sulla storia del Principato di Monaco” in occasione dei suoi 712 (???) anni di vita. Un ovvio osanna ai suoi Prìncipi con, in prima evidenza la mostra di quadri – a mio avviso di qualità alla pari di un terz’anno di ‘scuola della terza età’ (ci viene scritto facenti parte delle collezioni del Principato; esposti – forse - perché in gran parte donati dall’autore a S.A.S.: il famoso ‘a caval donato...’ che peraltro il concetto del gratuito mi è apparso l’unico legame tra la loro presenza ed un collegamento storico-etnico con l’antica Repubblica di Genova, madre rammentata nella carta, ma totalmente ignorata nella pratica).
Anfitrione il principe Domenico Pallavicini, console a Genova del Principato e consigliere di Alberto II. Alto, sia di lignaggio (è lui quello che alcuni anni fa ha invitato nel suo maestoso palazzo gli ex reali d’Italia, con clamorosa contestazione cittadina sottostante) che fisicamente (imponente di statura e corporatura, con ciuffo ribelle sulla fronte), costantemente circondato – ovunque si spostasse - da una corte di sempre sorridenti (mielosi?) cortigiani. Tutto attorno, centinaia di signore tutte fresche di parrucchiere e di abito da cerimonia, accompagnate da imprenditori o professionisti (chiamiamoli così, visto che tra loro non ne conosco alcuno, perché non frequento l’ambiente) e più d’uno evidenti ‘fai-da-te’ sociali, che appaiono più quali vanitosi arruffanobili, alla caccia di apparire e farsi vedere o procurarsi commesse, che a festeggiare l’evento, del quale poco o nulla interessa sia sul piano storico che culturale.
Tipico di queste categorie (e, più vistosamente squallido diventa, man mano si sale di ‘stato sociale’: dai congressi medici, agli inviti a Tursi o a questi, della ‘aristocrazia’), è la serrata al tavolo delle cibarie con bicchiere in mano e piattino nell’altra, in sosta continua nelle vicinanze per non perdere le portate, come per soddisfare – almeno quella sera - le necessità alimentari ed enologiche a scrocco.
Storicamente, due accenni: il Principato nacque nell’anno 1297, come si intuisce dal suo stemma stesso, in seguito alla leggendaria impresa dei Grimaldi, guelfi genovesi, che furbescamente espugnarono la fortificazione entrandovi travestiti da monaci. Negli anni d’oro per la Repubblica di Genova, nel territorio del borgo di San Pier d’Arena, la famiglia possedeva ben sette ville, tra le quali le più note sono la Fortezza e la sede dei Carabinieri, mentre le altre sono distrutte o trasformate in strutture private. E nella chiesa della Cella, alcune lapidi e tombe rammentano la presenza dei Grimaldi nel borgo, nel XV secolo.
Versione 2
La titolazione della mostra aperta nel palazzo della Borsa Valori giovedi 12 novembre, era “I sette secoli dei Signori e Principi di Monaco”. Anfitrione, il principe Domenico Pallavicini, console a Genova del Principato e consigliere privato del principe Alberto II.
Nella bella cornice del salone, facevano parte della mostra una serie di quadri di un pittore vivente, umbro, facenti parte della collezione del Palazzo monegasco; collezioni di francobolli rari e foto; nonché una proiezione del documentario “Monaco inconnu”.
Nel fasto dei partecipanti, la mostra voleva ricordare la saggia e fortunata autonomia del Principato (una volta territorio della Repubblica di Genova; ora in terra francese: le città di Monaco, La Condamine e Montecarlo) e la sapiente reggenza dei vari Grimaldi, dal principe Carlo III, ad Alberto I (1848-1922, scienziato, fondatore del Museo Oceanografico), Luigi II, Ranieri II e III e l’attuale Alberto II.
Ovviamente e opportunamente taciuta la contrapposta avversa conclusione della nostra storica Repubblica, madre del Principato stesso; e neanche accennata la reciproca convivenza, se non nel depliant ufficiale stampato a cura dall’Ufficio Stampa.
Negli anni d’oro per la Repubblica di Genova, nel territorio del borgo di San Pier d’Arena, la famiglia possedeva ben sette ville, tra le quali le più note sono la Fortezza e la sede dei Carabinieri, mentre le altre sono state distrutte o trasformate in strutture private. E nella chiesa della Cella, alcune lapidi e tombe rammentano la presenza nel borgo dei Grimaldi, nel XV secolo.
Allegato 23 - TRADIZIONI
C’è un po’ di confusione nell’uso del termine.
Nel caso specifico del Natale, occorre aver presente che il nocciolo del tema è ricordare la nascita di una persona alla quale è legato intimamente un nuovo insegnamento spirituale e religioso: Gesù.
È naturale a tutti gli uomini, per ricordare tutto ciò che tende ad essere astratto, cercare dei corrispondenti simboli pratici ed usuali (per il sacrificio di Cristo, la croce; per la sua dottrina, il pane; ma anche, per la patria una bandiera; per un eroismo una medaglia; ecc.). Quando questi simboli, corrispondenti ad un significato, sono ripetuti nel tempo, diventano tradizione.
Pertanto, nucleo di partenza è la nascita di Gesù; e conseguente diventa tradizione la memoria annuale sia di questa verità che del messaggio in essa contenuto: di amore, di bontà e generosità espressi poi simbolicamente attraverso la Comunione e la Messa di mezzanotte.
Una memorizzazione, iniziata oltre ottocento anni fa per iniziativa di san Francesco e divenuta tradizione, avviene con il presepio, inteso come ricostruzione teatrale dell’evento, ma il cui significato va al di là della presenza della grotta, del bue ed asinello: fondamentalmente è il tramandarci la nascita ed il suo messaggio.
Questa, è stata poi allargata con l’aggiunta di altre tradizioni ‘nostrane’, quali – a seconda dei tempi - la giornata trascorsa in famiglia o comunità (intesi come nuclei educativi in cui crescere e far crescere i componenti); la letterina; le poesiole; il pranzo col brodo; il pandolce, la tombola, i regali, ecc. In secondo tempo si sono inserite quelli ‘foreste’ quali l’albero, Babbo Natale, il tacchino, ecc.
In quest’ottica, che i tempi di oggi, aggiungano modalità e tradizioni nuove, non dovrebbero né stupire né scandalizzare. L’importante è che il nucleo iniziale e basale rimanga intatto, ossia quello religioso, sia nel suo essere che nel suo messaggio; indipendentemente dalle tradizioni usate per ricordarlo.
Un sospetto nasce quando notiamo che il mondo attuale si trasforma in modo così rapido che tende a sfuggire ad ogni controllo; e che - incoscientemente come nel Vajont – vada a travolgere tutto e tutti indistintamente. Secondo me, poco importa se non si scrivono più le poesie o se i bambini smaliziati non credono alle slitte di renne ed al caminetto quale percorso del barbuto della cocacola; mentre molto importa invece quando, nella corsa sfrenata, non si distingue più la verità dal superfluo; quando nel travolgere tutto si favorisce la sostituzione del ‘nucleo di partenza’, ovvero del Dio dell’amore con il dio denaro; del Dio della bontà con il dio dell’apparire e dell’egocentrismo; del Dio cresciuto in una famiglia con il dio dell’intolleranza.
Ci saranno molti, ai quali questa trasformazione fa guadagno o comodo; ma anche altrettanti molti ai quali non piace e – almeno per se stessi - chiedono maggiore argine e chiarezza; ovvero non farsi travolgere passivamente. Comunque, prima di dire e di fare, il primo passo indispensabile è rileggere i Vangeli e meditarli.
EBaglini
Allegato 24 pelle e bellezza
Che in particolare la donna, curi la pelle quale primo elemento capace di trasmettere una forte emozione sensoriale, ci aveva già pensato Poppea dedicandosi a (inefficaci) bagni nel latte di asina.
Sulla qualità della pelle, su tutto è l’età che gioca le carte negative: crea le rughe cambiando la consistenza (elasticità, turgore, idratazione) nonché muta il colore (dal roseo al macchiato) e fa comparire la peluria.
Oggi il medico specializzato in dermatologia, dopo anni di attesa di scoperte sensibili, ritorna in auge se - oltre a curare le malattie - si dedica alla gestione professionale della bellezza (verso la quale occorre una sensibilità e cultura particolare; non essendo, l’estetica del corpo, materia di studio universitario per i medici), utilizzando attrezzature e farmaci capaci di intervenire in modo sufficientemente innocuo sugli strati più superficiali della pelle; e senza usare il bisturi della ‘chirurgia’ plastica.
Utilizza sopratutto un tipo di laser che agisce superficialmente sulla cute togliendo verruche, pelurie e macchie (sia gravidiche che da invecchiamento); e poi farmaci, tipo particolari proteine e l’acido jaluronico oggi in commercio, che oltre a rigenerare lo strato superficiale rimosso dal laser, ridonano alla pelle l’elasticità giovanile, appianando rughe e ridonando le qualità vitalizzanti (pelle liscia e sgrassata).
L’armonia dei mezzi, deve raggiungere il meglio; nei primi tempi veniva usato il silicone; ma esso, non assorbendosi, e se usato da inesperto, arrivava a deformare perennemente labbra e volto lasciandoli paradossalmente più deformi di prima. Le attuali sostanze, assorbendosi richiedono ripetere il trattamento due-tre all’anno ma danno la sicurezza della sufficiente innocuità e maneggevolezza.
Allegato 25 – Largo ai giovani
Caro Gazzettino,
sono stato sempre un tuo lettore e ‘propagandista’; ti uso adesso per uno sfogo avendo dovuto tornare a ri-gestire il bar “Liz” di via Cantore dopo essermene andato in pensione per acquisita età. Ci si lamenta perché i giovani non trovano spazi per emergere. Però, essi dovrebbero innanzi tutto sapere che San Pier d’Arena era una città nella quale sino a pochissimo tempo fa potevamo contare su numerose attrattive locali (un teatro come oggi; ma ben 11 cinematografi; 7 discoteche; vari ristoranti di fama; nonché bar aperti sino a notte fonda capaci di offrire un minimo di attrazione per i nottambuli). Cosicché, non servono spazi nuovi, se essi non hanno iniziativa imprenditoriale – ovvero volontà di affrontare il rischio, la concorrenza e la ‘scelta’ della merce da offrire - ma soprattutto ed assai più grave, se non hanno nessuna idea della parola sacrificio. Il bar che gestisco è conosciuto in tutta San Pier d’Arena ed è diventato un punto di riferimento per la delegazione non in virtù di fortuna o volontà divina, ma perché frutto di non pochi sacrifici affrontati col sorriso sulle labbra, nonché fornito di cibarie di prima scelta, aperto dal mattino sino alle piccole ore notturne (16-17 ore! In piedi) e perché sempre pronto alle esigenze di tutti i passanti (dall’uso del gabinetto a quanti incidentati che ho assistito ed aiutato nell’antistante pericolosissimo incrocio!).
Ma il lamento si allarga coinvolgendo chi ci rappresenta a livello cittadino: attività commerciale per guadagnare, è vero; ma anche un servizio offerto alla città. I giovani si scoraggiano anche perché si sentono – da subito - solo limoni da spremere; la burocrazia è capillare, e di un livello vessatorio tale che chi non ha già una notevole dimestichezza, cade miseramente nelle maglie impietose dei vari controllori. Ovvio che i giovani si scoraggiano. Chiedo quindi tramite le tue pagine che l’Amministrazione cittadina – visto il ruolo che abbiamo di presenza e vitalità nel territorio - svolga una politica più snella, più d’aiuto ai giovani che iniziano e –se mi è consentito – più furba, rispondendo al famoso quesito: “cui prodest ?” (mia figlia è avvocato e, il latino, è di casa...)
Riccardo Cecere, del bar Liz di via A.Cantore angolo corso L.Martinetti