RIASSUNTO DELL’ANNO 2010

 

GENNAIO             pag.   9    Calvizie               ......    allegato   01

 13    via Umberto I   

FEBBRAIO                     4    Doria o D’Oria                             05

                                       11   L’amore in vecchiaia                    04

                                       16   Associazioni 1-CAI                      03

                              pag    21   Belvedere e cannoni      allegato  02

MARZO speciale    pag. 8     il non voto          ...........              06      

             votazioni           15    voti annullati

                                       18    palazzo del Municipio                 07

MARZO              pag.      2   Associazioni 2-Universale             08

                                       13   Ambulanza pediatrica                   09

                                       16   Sant’Antonio  monastero              10

                                       18   L’ictus                                           11   

APRILE              pag. 03       spendere in cultura                       12     

                                    07      Associazione 3-cercamemoria      13

                                    09      non credere ai pazienti                  14      

                                    12      metereopatia                                  15       

                                   16      strada larga                                     16 

MAGGIO                    2       Associazioni 4 .-AVIS                    18

                                   12      Medicina. L’asma                           19

                                   16      piazza Montano   .......................     17                           

GIUGNO        pag.    9         Medicina :  la volontà                     23

                                  9        Intervista a Cecere                           20

                                12         Incontro Municipio-Associazioni   24

                                16        Associazioni 5 : la Ciclistica            21

                                16         SPdA com’era – La Marina-1         22

SPECIALE ESTATE          le vitamine                                       25

LUGLIO        pag.   4           Associazioni 6 =scoutismo              26

                               11         SPdA com’era –La Marina- 2          27

                               12         medicina – i sogni ………………  28

SETTEMBRE        13         confini  ……………………………29

                               14         SPdA com’era - La Marina- 3         30

OTTOBRE      pag.  5        Targa di p.zzaMontano                     31

                                 7         Associazioni7=Gruppo Folk             32

                               14         SPdArena com’era- la marina-4......33

NOVEMBRE         13         Brr... che freddo                    .........  34

                                14        A mænn-a -5- epoca dei bagni   .......35

                               16         Associazioni8=Ginnastica SPdA      36

DICEMBRE    pag.  7         Associazioni 9 =Progetto80              37

                                11        Pandolce                                            38

                                12        White Christmas                                39

                                 16       Natale è amare                                   40

                                 20       la moda dei tatuaggi                          41

                                21        SPdA com’era  la torre dei pallini     42   

 

ALLEGATO  01  Testa pelata dai sette capelli dove di notte ci cantano i grilli...

Era una canzoncina, in voga – se non erro - negli anni sessanta, quando il problema calvizie c’era – c’è sempre stato - ed era subìto in tragico silenzio e con sfottò.

Mentre l’essere umano accetta che nel progredire degli anni certe funzioni dell’organismo, anche quelle dichiarate essenziali (tipo il sesso), diminuiscano  di potenzialità, la perdita totale o parziale dei capelli, in medicina chiamata alopecia  (dal nome greco della volpe: alopex; la quale stagionalmente perde il pelo), è una mortificazione che ben pochi accettano e della quale nessuno ne va fiero. Ha - come termini sinonimi - calvizia; o – se è solo diradamento come capita più di frequente nel sesso femminile -  effluvio o defluvio.

Al capello, forse perché è indolore, pressoché nessun giovane pone attenzione. É simbolo invece del segreto della forza di Sansone; della automortificazione della chierica anticamente richiesta ai preti; del messaggio che un calvo non può essere vip: l’uso del parruccone adottato dalla nobiltà dai secoli post rinascimentali; della rapatura delle collaboratrici fasciste; della rabbia nel vedere scomparire quella peluria che esteticamente serve, a scapito di quella faciale, ascellare o inguinale che non serve e che viene rasata.  Quindi i capelli non sono solo estetica, ma anche simbolo di potenza, virilità, sicurezza, potere. Malgrado la realtà smentisca clamorosamente questa convinzione universale (coinvolge egizi e romani; cinesi e indiani; pellerossa, bianchi e negri; la testimoniano effigi di Ippocrate, di Cesare e Socrate; e nei secoli personaggi come Napoleone, Mazzini, Churchill, Gandi, Lenin, Gershwin, e milioni altri fino al ‘tenente Kojak e Yul Brinner) a poco essa è servita a far accettare che ‘la fronte spaziosa è simbolo di intelligenza’.

La reazione è costante, anche se molteplice: chi adotta il riporto; chi il parrucchino; chi il trapianto con relativa bandana; chi – drastico - si rasa a zero; chi se li tira tutti indietro per fare la coda. Significato alla fine, che ben pochi si accettano.

Anche se il problema non crea  disagi profondi (le donne amano lo stesso anche i calvi o stempiati), si instaura un vago senso di diminuzione, inestetica, inferiorità, insicurezza, vergogna; comporta la ricerca di specialisti o creme e lozioni varie mirate per almeno arginare il problema, fino a spendere irrazionalmente somme considerevoli nel seguire consigli di ciarlatani, o di spot televisivi o di commercianti con l’esclusiva dell’ultim’ora; fino i fattucchieri con la ricetta magica...che non esiste.

E se tanto è così nell’uomo, ancor più psicologicamente devastante è quando l’evento avviene nelle donne: per loro si dice che mille capelli in testa valgono meno di uno nel pettine; anche se per loro – come dicevamo - quasi mai è calvizia nel senso totale, ma ‘effluvio’ o diradamento, più o meno evidente ma pur sempre menomante perché accompagnato da profondo disagio. Specialmente in questi tempi nei quali l’apparire è più importante dell’essere.  

Il primo consulto, è generalmente del cosmetologo (parrucchiere o estetista); la cui impotenza porta al farmacista e finalmente al dermatologo (al quale sarebbe bene arrivare subito, almeno per la determinazione della diagnosi precisa sulle varie qualità esistenti di alopecia). Da questo specialista, la palla passa alla collaborazione con l’andrologo (ginecologo, per le donne) per tentare una valutazione ormonale nel sangue. Non mancherà molto al coinvolgimento del genetista (perché i geni ereditari non sono innocenti); mentre un quarto consulente, lo psicologo, non è da escludere  perché nel cocktail causale, anche lo stress è in lizza). Dai tempi più remoti tutto è stato tentato: dalle erbe più svariate, alle stranezze più fantasiose (unghie di capra, sterco di vacca, corna di toro o rinoceronte, e milioni altre), fino alle sostanze chimiche (dai rubefacenti al sublimato corrosivo) ed ai moderni ormoni maschili (che, quasi a irridere tanta tristezza, fanno crescere baffi e barba...ma non i capelli). Ultimo grido per gli uomini, scientificamente provato è stata la finasteride, scoperta trent’anni fa ed entrata nell’uso più di recente. É il nome chimico di un enzima  necessario per rendere utilizzabile il testosterone. Il suo apporto prolungato comporta nell’uomo non solo una diminuzione di volume della prostata ma anche una positiva interferenza nella ricrescita dei capelli.

EBaglini

Allegato 02 Ancora sino a cent’anni fa, per le strade rarissimi erano cartelli di avvisi.

Era necessità capire da soli senza alcun avviso come vivere (come, per i marinai dei velieri, imparare a non fare pipì controvento).

Nel tempo, la vita è diventata sempre più complicata ed è divenuto insopportabile che alcuni  dimenticassero le cose più ovvie: ecco doveroso apporre avvisi mirati a ricordare di non ripetere errori o soprusi; ricorderete i vari “non sputare” e  “non parlate al manovratore”. Ma man mano che ci crediamo essere sempre più civili, ecco che i cartelli sono diventati infiniti di numero, dai “non fumare”; ai “divieto di fermata” (in doppia fila) a “fare la coda al di là della linea”; a ...

Stupisce quindi la lapide, di oltre cento anni fa, che ammonisce i cannonieri di “non sparare” rasoterra –o, almeno, che prima di tirare col cannone togliessero la cancellata che delimitava la piazzola. Nessuno credo, lo avrebbe pensato. Eppure, la lapide c’è; e vuol dire che l’errore era ripetuto a tal punto da dover mettere un avviso...scolpito nel marmo!

È spassosissima; altro che divieto transito ai carretti di via della Cella...un record da Guinness, e ce l’abbiamo noi sampierdarenesi. Anche se incolpevoli perché le batterie di cannoni, poste al Belvedere, erano gestite dall’esercito piemontese.

La storia, in breve, ricorda che finita la Repubblica, con la Restaurazione del 1815 la Liguria fu annessa – senza alcun plebiscito come vorrebbero le leggi internazionali - al regno dei Savoia. I sacerdoti di Belvedere, cacciati dalle ordinanze napoleoniche tornarono ad occupare il Santuario proprio mentre lord William Bentinck- prima di dare le consegne al Genio del governo Sabaudo ideava - in quella posizione strategicamente dominante - la demolizione di tutto, per erigervi un forte.

I piemontesi si trovarono col progetto iniziato e lo portarono avanti nel giustificato timore di una rivolta popolare. Ma per nostra fortuna, la Madonna illuminò l’architetto militare, il quale decise nel 1821 far erigere il forte cento metri più sotto, dove ora è il campo di calcio Morgavi della ‘Sampierdarenese 46’. Nell’attesa, il governatore genovese Roero di Sanseverino concordò unilateralmente l’occupazione provvisoria di buona parte del convento e terreni attorno, per costruirvi dei magazzini e servizi militari: di fronte al Santuario furono collocati gli alloggi  e mensa ufficiali (ove ora è il bar della Società Belvedere) e in attesa del completamento del forte, le autorità militari decisero – memori della rivolta del 1849 - occupare parte del piazzale con una batteria di cannoni, che ancora lì era nel 1884, impedendo l’esecuzione della tradizionale festa dell’8 settembre.

Ed è agli addetti a questa batteria che è rivolta la lapide, visto che giace murata nell’interno del giardino della Società; ed è a dimostrazione che da lì erano ben disposti per sparare in basso, ovvero verso la città; e non certo in alto –come la contraerea subentrata nell’ultima guerra- la quale, ovviamente sparava in cielo. 

Con questa politica e spirito, i Savoia hanno incluso Genova nel loro regno; e con soldati, così si è conclusa l’avventura del Risorgimento e l’inizio del nostro Stato. La Nazione è nata così: non ‘non sparate sulle case’,  ma ‘liberate la linea di tiro...quando sparate sui cittadini’. Forse è per questo che per i nostri politici attuali, sono geneticamente usuali ... i colpi bassi.

EBaglini 

 Allegato 03   ASSOCIAZIONI SAMPIERDARENESI

Tocca ai volontari del  “Gruppo Genova di Protezione Civile e Antincendio Boschivo – Sez. Valpolcevera”, del CAI San Pier d’Arena di via B.Agnese.

Iniziarono la loro attività nell’anno 1995 e oltre l’incarico specifico, da subito presero a cuore la manutenzione della zona Sud Ovest del Parco Urbano delle Mura (che diverrà Parco Regionale) ed in particolare del sentiero San Pier d’Arena→Forte Diamante già segnato dalla F.I.E. ma bisognoso di manutenzione tradizionale: erbacce e rovi, muretti franati, canalette, alberi cresciuti, ecc.

Lavorando, balzarono subito agli occhi tante altre realtà ambientali e storiche. Si pensò di compiere anche pulizia e disboscamento delle Mura adiacenti (operazione che richiese l’uso di corde e moschettoni con tecniche alpinistiche), onde riportare alla visibilità la Porta di Granarolo ormai nascosta dalla vegetazione infestante e dalla spazzatura. Era una delle due Porte -assieme a quella degli Angeli - che consentivano l’uscita dalle mura del 1630 verso l’alta Val Polcevera. Da due, facile passare a tre: rintracciare e allargare il vecchio sentiero in molti punti ormai scomparso; recuperare la Torre di Granarolo posta a poca distanza dalla Porta, che faceva parte di un sistema di avvistamento; e infine evidenziare il tracciato con l’apposizione di pannelli esplicativi (percorso storico: forti, porte, chiese, ecc.; e naturalistico: alberi, arbusti); 

In omaggio al proverbio “l’appetito vien mangiando” il gruppo di lavoro decise di riaprire anche la vecchia strada militare ai piedi delle Mura, dalla Porta di Granarolo al Forte Begato: quasi 1500 metri, con punti panoramici eccezionali, ma che presentava dei tratti impercorribili per la vegetazione infestante e per montagne di rifiuti gettati da incivili da sopra le Mura ove corre la strada carrozzabile panoramica “via al Forte Begato”:  letti, materassi, mobili, auto, moto e motorini, pneumatici (oltre 150), latte di pittura, batterie d’auto. elettrodomestici, detriti edili, immondizia, ecc. 

Con l’appoggio delle Istituzioni, noleggiarono numerosi mezzi meccanici (camion, pale meccaniche, escavatori, una enorme autogru e vari cassoni scarrabili) per raccogliere e far trasportare i rifiuti (oltre 150 t.) in discarica.

Proseguendo nei lavori, in collaborazione con la  Squadra Antincendio Boschivo Val Polcevera, si ottenne  infine il posizionamento, lungo la strada che passa dai Piani di Fregoso, di numerose barriere antidiscarica: reti saldate e pietroni (molti oltre la tonnellata di peso).

Ricuperata così questa grande area caratterizzata dalla panoramicità straordinaria sulla Valpolcevera, i volontari proseguono annualmente la manutenzione onde favorire il turismo – sia degli escursionisti che delle scuole  e sia per manifestazioni all’aperto tra le quali tradizionale è divenuta la “Camminata d’Autunno” -  in ottobre - che viene organizzata con la fattiva collaborazione dei Municipi II e V - che offrono focaccia, vino bianco e merende -  partendo dalla Valpolcevera e percorrendo questi sentieri fino a scendere a San Pier d’Arena; e la partecipazione della Banda Risorgimento che conclude la manifestazione con un concerto.

Un vivo ringraziamento ai promotori, Piero Biggio, Lino Podestà e Carlo Dolci.

EBaglini

Allegato 04 Dell’amore in vecchiaia.    Dai  tempi di Ippocrate e tutt’ora, la scienza medica è spinta alla ricerca del prolungare la durata temporale della vita. Solo da pochi anni, la filosofia moderna sta maturando, con sempre maggiore impeto di coinvolgimento popolare, la ricerca del migliorare anche la qualità della vita.

Parallelo a quest’ultimo concetto, con sempre maggiore curiosità ed interesse, sta prendendo campo la farmacologia 'vasodilatatrice’ del Viagra, la quale ha introdotto – nella pratica medica – una nuova assistenza all’anziano soggettivamente ancora ‘sessualmente attivo'; almeno nel pensiero.

E, per fortuna dei medici, prende in considerazione solo i maschi, sperando dare loro sistemazione psicologica e pratica, in attesa che qualcuno scopra una pillola per le quote rosa, ovvero per quando avremo, tra le clienti, anche ‘le vecchiette vogliose’, che la cultura attuale considera non esistenti.

Delle 'tempeste ormonali senili' già se ne parlava ai tempi dei greci e, dopo loro, anche Cicerone si espresse sui limiti del divertimento sessuale della vecchiaia. Ovviamente non parlavano del sesso pratico, ma già allora, la morale prevalente riteneva che fosse colpa il 'ludus' (ovvero l’ardore nell’uomo maturo; rappresentato da partecipazione a banchetti, canti, o fantasie - compresi la gelosia ed i matrimoni con giovanette –vedi poi Goldoni-). In poche parole, all'apparente esuberante arzillo sessantenne, si imponeva considerarsi già  'carne mortificata'; e di conseguenza, “nulla di più penoso della libidine di un vecchio sporcaccione innamorato, proprio perché vuole godere di quello di cui l'età aveva già privato tanti altri”.  Il tema era concesso solo nelle rappresentazioni teatrali. Così leggiamo che molte di esse lo riprendevano sotto tanti aspetti, sempre maschili, e pressoché tutte con spunto comico, usando una controparte giovane (mai un'anziana matrona) ovviamente non partecipe delle elucubrazioni erotiche del vegliardo. E il copione prevedeva che tutto finisse nell’ilarità degli spettatori con ovvio ridimensionamento delle velleità tardive, inquadrate quali 'insane' passioni di una mente malata. Non valeva che l'innamoramento, al soggetto, producesse effetti corroboranti, come sentirsi ringiovaniti a volte anche in modo ‘malinconicamente pazzesco' (frasi tipo “da quando la conosco, sono tornato all'asilo, ed ho imparato tre lettere:  A, M ed O!” esclama  giulivo come un ragazzino il vecchio sdentato Demipho, nell'opera 'Mercator' di Plauto). Pazzesco,  perché essi fisicamente lontani da quella realtà; e perché essi, nel gergo, descritti rebecucchi, decrepiti, rimbambiti... vicini al trapasso.

Coerenti quindi,  nei secoli dopo Cicerone, sia il teatro, sia l’arte pittorica (all'ardore giovanile si contrappone il desolante aspetto fisico; come nel quadro ‘Susanna e i vecchioni’), sia la religione (con imposizione a stimolare la mortificazione del sesso), determinarono la generale convinzione di dover etichettare l’età senile quale ‘perfetta sapienza’, anche perché capace di controllare certi stimoli.

Riuscivano a sottrarsi, nel medioevo, i vecchi ricchi, inventando l’abuso dello jus primæ noctis, ovvero stimoli giovanili resi obbligatori, piacessero o no alle femmine. Ed anche nei secoli a seguire, le giovinette, ed a maggiore ragione le schiave (nonché ‘le favorite’, che sono esistite fino alla rivoluzione francese) - venivano portate segretamente a soddisfare gli attempati ma ricchi signori, ritornandole poi nella strada con qualche mercede economica e...spesso un bastardo in pancia. Solo i postriboli, sempre segretamente e silenziosamente, davano sfogo a quella ‘minoranza oppressa’. Chi non era ricco, o magari anche un giovane ma con vincolo matrimoniale ed affiancato a matrona raffreddata dall’educazione inibitrice o dai travagli ostetrici e ginecologici, poteva solo risolvere il problema ...dandosi all’alcol; neanche masturbarsi, ché... faceva diventare ciechi.

Tutto, ancora negli anni 1960 circa, fornendo un’etichetta comportamentale, basata sulla percentuale statistica, che descriveva maggioritaria (e quindi 'normale') la quota dei quieti, ovvero di chi ha raggiunto la pace dei sensi e se ne fa una nostalgica ragione.

Allo stato attuale, il medico si trova di fronte ad una allargata maturità culturale, una maggiore libertà comportamentale, un eclatante aumento degli stimoli, ad una irrisa ma molto usata possibilità farmacologica colorata di blu: deve quindi valutare la complessità del sentimento, persona per persona; alla luce dei valori su detti, aggiunti allo stato di salute generale; ed arrivare ad assecondare gli impulsi che il cervello propone, ma sapendoli riportare nella giusta dimensione e realizzazione, compreso il non trascurabile problema della compartecipazione della partner (per non scivolare nella violenza) dovendo, nella sessualità, essere in due a realizzarsi contemporaneamente.

EBaglini

Allegato 05   ANDREA, FU DORIA O D’ORIA?

Il liceo classico più importante di Genova, dedicato all’ammiraglio, si chiama D’Oria; ed altrettanto era un presidente della associazione Acompagna,  e tale è stato un fondatore del Gazzettino.

Gli attuali prìncipi romani, riconosciuti diretti eredi delle fortune di Andrea, ed il VI volume del Dizionario Biografico dei Liguri che riporta un lungo elenco dei Doria, sono tutti con cognome senza apostrofo.

La famiglia, ghibellina, nacque di importanza alcuni decenni prima dell’anno mille: arricchiti con le riscossioni delle gabelle imperiali (l’aquila come stemma; e san Matteo protettore dei gabellieri); abitavano  in Domoculta, in parte dentro le mura, parte fuori, concentrati nella zona della porta Aurea (dalla quale anche Portoria). Quindi, poiché si parlava ancora latino, che non ha l’apostrofo, erano conosciuti come quelli ‘ab Auria; o de Auria.

E’ divenuta tradizionale una seconda versione,  riferita da Interiano autore delle Istorie Genovesi del 1551: il giovane guerriero Arduino duca di Narbona, di ritorno dalla Terrasanta, arrivò a Genova molto malato e fu curato in casa Dalla Volta dalla padrona di casa, e dalle sue due figlie. Da questa assistenza nacque idillio tra il nobiluomo francese –poi guarito - ed una delle figlie, Orizia chiamata pure Oria. Dopo le nozze, il cavaliere si fermò a vivere  nella casa della fanciulla generando quattro figli comunemente chiamati  “figli di Oria”.

Per verifica, che io sappia, documenti sui quali Andrea riportasse la sua firma, non ne sono mai stati riprodotti o segnalati; ma la forma con l’apostrofo dovrebbe risultare quella più rappresentativa dell’originale, di provenienza latina; quella tutta unita, sarebbe invece il risultato della praticità  (simile alla stessa San Pier d’Arena che è divenuta Sampierdarena, col beneplacito di letterati, storici, enciclopedie e carte topografiche).

La doppia versione del cognome, sarebbe nata dopo il 1300, quando  l’opera degli scrivani e dei notai del tempo, non solo locali ma di tutto il Mediterraneo, lentamente nel corso di pochi secoli mutarono la lingua dei documenti dal latino in quella volgare e si trovarono di fronte all’introduzione dell’apostrofo; e sia scrivendo con calligrafia che non era proprio... di prima lettura (ciò ha determinato variazioni similari: i fiorentini Baglioni divenuti, Bagliani, Baglini, Biagini, Baghino, Baglietto, ecc.).

Ed a favorire equivoci, avvenne che essendo i D’Oria assai prolifici, divennero così numerosi che dopo pochi secoli già erano sparsi per tutti i loro possedimenti, di riviera, oltregiogo e mediterranei,  alcuni molto ricchi ed altri, come quelli di Oneglia, relativamente meno; ed altri per nulla; ma con albero genealogico assai vasto e scritto, anche  localmente, in modo differente seppur parenti stretti.

Cosicché, alla fine, oggi è corretto scrivere il cognome, sia con l’apostrofo, e sia senza.

Allegato 06 (speciale votazioni) IO NON VOTO

Esiste, e lo dimostrano le cifre scritte in altri angoli del giornale, una ampia fascia di cittadini che rinunciano al diritto del voto. Di essi, una buona metà, sarà perché realmente impossibilitato: fuori sede, malati gravi, nostalgici che non si sentono rappresentati dai simboli, ...

Ma esiste anche una larga fascia di gente che si sente ‘nauseata’. O, in altre parole, ‘non capisce più dove e come partecipare alla decisione’. Succede, ed è facile dire perché.

Perché in Natura, non esiste il tutto bene ed il tutto male. Lo stesso in politica: ogni fazione possiede solo una fetta di verità e capacità.

Nella réclame la sbandiera come un tutto; ma irrealizzabile ovviamente; ed in contemporanea attacca con tutti i mezzi che ha l’avversario (stampa, TV, cannoni, truppe d’assalto, fanteria in bicicletta, fotografi, intercettazioni, bombardieri, arditi e critici), il quale mai è del tutto innocente (e – ad aumentare la confusione - la gravità del reato spesso non è misurata da leggi predefinite e determinate, ma arzigogolate singolarmente in molto soggettivo, tipo pagliuzza o trave nell’occhio).

Ma è proprio qui dove non bisogna cadere nell’inganno psicologico: abbiamo scritto che non esiste il tutto bene; non fa parte dell’uomo essere perfetto: se ci fosse proposto, sarebbe un dittatore. Il politico deve essere di parte: e ciò implicitamente dimostra che è solo una parte, e non un tutto.

La storia dimostra che nei secoli sono state provate tutte le forme di governo, dall’impero ai regni, dai faraoni alle dittature, dai regimi detti ‘popolari’ a quelli militari, da ...  a. Alla fine, la meno peggio è la democrazia repubblicana. Imperfetta pure lei, ma meno delle altre forme.

Dopo circa sessant’anni di votazioni, con l’esperienza di tante precedenti partecipazioni, ricordiamo di aver troppe volte ascoltato il canto delle ‘sirene’; di essere stati partecipi... dopo essersi tappato il naso;  di aver battuto il naso contro il muro delle vane promesse; di aver constatato la povertà morale di troppi uomini politici  (arriveranno anche le donne: aspettiamo che si consolidino nella ‘quota’).

Ma, tenendo presente che il “non mi indurre in tentazione” fu detto - in preghiera rivolta al Padreterno - duemila anni fa; ed in duemila anni nulla è cambiato, perché l’uomo è così, alla fine, la democrazia ha dimostrato essere – come già detto sopra - il male minore; difettosa ma – come la statistica insegna – sempre più vicina alla realtà e perfezione  più alto è il numero dei partecipanti al test.

Quindi, rinunciare al voto, è peggiorare volutamente una situazione; anche vissuta come negativa.

Allegato 07 (speciale votazioni)  il Municipio

Il civico 34 di via San Pier d’Arena, dal 1970 è sede degli uffici comunali decentrati, dapprima del Consiglio di Circoscrizione, ora del Municipio II del Centro Ovest.

La sede ha una storia che nasce in epoca medievale, quando sulla roccia sottostante la spiaggia fu eretta una torre, chiamata ‘Castello’ casa primitiva del consiglio comunale, il quale ai tempi di Alberto di Bozzolo, già si riuniva prima nella piazza del Mercato e poi davanti alla pieve di san Martino. Probabilmente questo primitivo torrione era in sintonia con le altre torri facenti parte di un sistema difensivo costiero. La sua presenza diede nome al ‘quartiere del Comune’ che si sovrappose a quello del ‘Canto’ che però possiede maggiore ampiezza arrivando fino al Torrente.

Prima importante azione bellicosa conosciuta fu uno sbarco francese sulla spiaggia nel 1684: il contingente, forte di due mila uomini fu costretto dalla reazione del presidio locale, a reimbarcarsi.

Anche nella carta del 1757 di M. Vinzoni la torre è evidenziata isolata; lo stesso autore precisò la presenza del Commissariato di Sanità locale e descrisse minuziosamente come era distribuito il servizio, onde prevenire sbarchi clandestini di persone o merci specialmente provenienti da terre infette.  Ancora nel 1763  nel Castello prestava servizio una guardia armata e vi si riunivano, convocati dal governatore della Polcevera, gli Agenti della Comunità locale, per deliberare ed eleggere censori, finanzieri (chiamati ‘regitori per l’esigenza delle pubbliche avarìe’, o gabellotti), medico, cancelliere, predicatore per la parrocchia, cassiere.

Nel 1779 con l’avvento della Repubblica Democratica Ligure il sindaco si chiamò ‘maire’ e nella piazzetta antistante, fu eretto un albero della Libertà, simbolo del possedimento popolare.

Fu in quegli anni che la torre fu inglobata in più vasto edificio che aveva il lato lungo parallelo alla spiaggia e chiamato ‘Palazzo’. Ma ben presto, l’ingegnere Angelo Scaniglia fu incaricato di progettarne un altro: nel  1848, GB.Tubino, sindaco per la seconda volta, approvò un progetto firmato da un ‘praticante architetto’ Niccolò Arnaldi che prevedeva costruire un nuovo edificio sul sedime del precedente, utilizzando parte delle fondamenta. Quello attuale. Dopo il nulla osta dell’Intendente Generale ed opportuno appalto, la decorazione degli stucchi fu affidata alla bravura dello scultore Gaetano Centenaro che intervenne anche sulla facciata esterna arricchendola con statue, allegorie, stemma della Città e sullo stipite del portone la scritta ‘SAN PIER D’ARENA’ per chiaro intendere di come si scrive il nome. Durante i lavori, tutto il consiglio si trasferì nel palazzo del Monastero.

Da allora, sino ad oggi, sono state gradatamente apportate numerose modifiche: ricordiamo un nuovo scalone; la decapitazione della torre sul lato a mare con un nuovo corridoio a sbalzo per collegare gli uffici; le sedi di nuovi servizi quali la nettezza urbana, le imposte comunali, il dazio, la polizia, i pompieri.  Nel 1878 il giornalista Vassallo scrisse sul maggiore quotidiano di allora, il Caffaro, che nel bilancio comunale di San Pier d’Arena, allora di 20mila anime, «c’è un pareggio perfetto» e proseguiva affermando che buona parte dello stesso era riservato all’istruzione, con una biblioteca di 4mila volumi, e che era tra i comuni d’Italia quello a far pagare meno tasse ai suoi cittadini.

Con il 1926, tutta la parte amministrativa ed archivistica fu trasferita a Genova; la direzione centrale con la scusa delle ristrutturazioni, spogliò la sede di numerosi preziosi beni artistici lasciando solo il busto del Cavour scolpito da Stefano Valle ed un quadro del pittore Dante Conte.

Dal 1934 l’edificio è vincolato e tutelato dalle Belle Arti. Il 30 ottobre 1943 un bombardamento aereo, che colpì anche il chiostro della Cella, compromise le strutture; gli uffici comunali dovettero essere trasferiti; solo nel 1949 si completò la ristrutturazione. L’ultimo ristoro generale ci risulta, fu dato nel 1986; nel 2005 è stata aperta una ala a piano terra con gli uffici dell’anagrafe comunale, evitando così il grave problema degli anziani ed handicappati.

EBaglini                                           

Allegato 08   Le ASSOCIAZIONI    LA SOCIETA’ S.O.M.S UNIVERSALE’

Viaggiando nel mondo del volontariato e dell’associazionismo, localmente abbiamo Croce d’Oro e Universale che sono, per longevità e ricchezza di tradizioni, operosità e funzionalità, il top in Liguria.

Tratteggiamo la seconda. La Società Operaia di Mutuo Soccorso Universale, dedicata a G.Mazzini con sede propria in via A.Carzino, 2,  nacque a San Pier d’Arena nel 1851, stesso anno contemporaneo di altre tre similari genovesi, però scomparse da anni.

In oltre centocinquant’anni di vita, innumerevoli le vicende: conquiste e sacrifici; vittorie e umiliazioni; emancipazione e chiusura; ma anche partecipazione attiva e diretta alla storia d’Italia, con eroismi e sangue versato per il Risorgimento, Unificazione e Resistenza. 

Lo scopo iniziale fu l’allora nuova idea dell’associazionismo con finalità multiple e di totale volontariato: dall’assistenziale allargata via via al culturale, economica, lavorativa, sanitaria, sportiva, abitativa e militare.

Oggi, realizzato l’ideale mazziniano dello Stato repubblicano, e non è da poco essere sopravvissuti a cento anni di Stato monarchico, molte delle funzioni  di allora, sono appannaggio delle istituzioni (salute con mutua e infortuni, posto di lavoro, pensione e reddito), a dimostrazione della loro importanza sociale, da loro ambita e officiata, ma - a quei tempi - non presa in considerazione né dallo Stato sabaudo né dai singoli arricchiti proprietari. Ricordiamo una ‘banca popolare di San Pier d’Arena’ (cessò il servizio nel 1929); le case popolari  (dette ‘per Meno Agiati’; di esse rimangono: il civ. 31A di via A.Cantore e quelle di via V.Armirotti); le cooperative (negozi di generi alimentari (chiamati ‘di produzione e consumo’, con legame storico a Carlo Rota) ed addirittura piccole fabbriche metallurgiche per operai divenuti disoccupati; la farmacia; lo sport (tra tutti ricordiamo Dante Gaetano Storace); la partecipazione volontaria al Risorgimento ed alla prima Guerra mondiale.

La SMS Universale vive ancor oggi, mantenendo – quali motivi di appartenenza – sia le attività assistenziali (sopravissute al decreto ‘taglia-leggi inutili’: dimostrano essere capace di svolgere un preciso suo ruolo sociale); che quelle culturali (da una fornita e ben catalogata biblioteca, a disposizione di tutti i cittadini; alla pubblicazione ravvicinata di volumi storico-sociali.  Il  presidente Erio Bertorello ha un solo rammarico: i giovani: gli insegnanti ed i genitori non educano i ragazzi alla conoscenza di questi principi, per cui essi non conoscono la storia, le motivazioni di queste associazioni ed il valore etico della loro sopravvivenza nella società di oggi.

Allegato 09  ambulanza pediatrica Romano

Nell’assordante, frastornante, improducente e squallido clamore della politica, che riempiendo i notiziari dei media ci rintrona nel cervello come un trapano e ci impedisce di allargare gli orizzonti, esiste un’altra Italia, che lavora, produce e, in silenzio dà tono e vanto alla città.

Lo aveva dimostrato, in vita, il sampierdarenese prof Romano Cesare,  emerito professore del Gaslini, umile e produttivo studioso dell’età pediatrica, con fama internazionale sulla fibrosi cistica. Lo rinnova la famiglia che, in sua memoria, regala alla Croce d’Oro una nuova ambulanza  dotata di tutti i requisiti del pronto soccorso ai bambini. Non c’era, ora c’è; ed è tangibile simbolo di sensibilità e civiltà.

Superate anche le difficoltà organizzative (medici ed infermieri specializzati disponibili 24h/24) sabato 24???   è stata ufficialmente consegnata alla nostra mai tanto elogiata associazione assistenziale basata prevalentemente sul volontariato.

ALLEGATO 10 Il monastero di sant’Antonio

Allegata foto: “Al centro dell’immagine la chiesa della Cella, e poco sopra a levante, il  nostro monastero”.

Avevo una zia che, nella sua semplicità popolare, ogni mattina prima di prendere lavoro entrava alla Cella e, iniziando da sinistra, più vicino a casa, faceva il giro dicendo ad ogni altare una preghiera e chiedendo una grazia particolare; “qualcuno che mi ascolta ci sarà!” esclamava uscendo serena.

Perché la fede, spesse volte, è cieca e non si sofferma sulle sottigliezze...i nomi...: se sono sampdoriano, che mi importa se all’attacco c’è Cassano o Pozzi; l’importante è che la Samp vinca! Così, eguale per la storia narrata in seguito; che è vera storia e non novelletta.

Praticamente è abbastanza sconosciuta la presenza - nel nostro centro storico -  di un monastero con tanto di frati antoniani, oltre la Cella che era con frati agostiniani.

La carta del Vinzoni e il disegno del Giolfi lo testimoniano; e non doveva essere piccolo; posizionato a nord est rispetto la Cella, sulla strada principale (oggi via N.Daste),  nel territorio compreso tra villa Doria – oggi Franzoniane - e villa  Serra-Masnata - oggi scuola media statale -.

Saperlo, dà un senso al fatto che - dalla attuale via San Pier d’Arena – salga verso monte un vicolo col nome ‘vico Stretto sant’Antonio’; e che il tratto della attuale via Daste, tra via Gioberti e via della Cella, prima di essere dedicata al prete sampierdarenese, si chiamava via sant’Antonio.

Questo monastero era antichissimo, sicuramente già esistente prima dell’anno 1100; e se per lunghi secoli fu luogo di culto autonomo, poi  passò sotto la giurisdizione dei monaci della Cella. Sicuramente la sua fine avvenne quando, negli anni di fine 1700, i francesi del dominio napoleonico chiusero pressoché tutti i luoghi di culto requisendone i beni materiali e concentrando i religiosi in pochissime istituzioni (a San Pier d’Arena, solo alla Cella). Con l’avvento della Restaurazione, dopo il 1815 e l’annessione della Liguria nel regno dei Savoia, molte chiese furono restituite al Vaticano ed al culto, escluso quelle ove era carenza di monaci o quelle malandate al punto che non potevano essere riattivate. Ambedue gli eventi, furono la causa principale dell’abbandono del nostro monastero. E la ‘fame’ di spazi negli anni seguenti, dovuta alla forte immigrazione operaia, ne segnò la definitiva demolizione.

Però, attenzione. Tutti i documenti scritti nessuno escluso, relativi ai cinque-sei secoli dalla erezione, fanno riferimento non a sant’Antonio ma ad un  “monastero di sant’Antonino”, soldato tebano martirizzato in Italia nel III secolo; con originale devozione dal regno di Napoli (con esso, intenso era un reciproco traffico marittimo (specie grano, vino, sale); numerose - dal XIV  secolo in poi – le famiglie genovesi entrate in stretti rapporti con quel regno: molti ricchi che acquistarono il titolo nobiliare nelle terre napoletane, pugliesi e sicule; e altrettanti che crearono ‘rami collaterali’ mandati laggiù a divenire stanziali per conservare la ‘presenza’ sul territorio (ed erezione a Palermo e Roma di chiese, ancor oggi dedicate a ‘San Giorgio dei Genovesi’).

Caratteristica è la confusione nella quale incorrono anche molti storici e religiosi. Infatti il santo iniziale, a cui erano devoti i genovesi, ed al quale era dedicato il monastero, era – come già detto - sant’Antonino. Avvenne nel XVIII secolo che questo santo ... perdette ‘forza’ e conoscenza popolare, mentre in contemporaneo la stava acquistando sant’Antonio. Due santi totalmente differenti, solo accomunati da un nome similare. Il passaggio da uno all’altro avvenne senza particolari traumatismi, dimostrato da libri di insigni studiosi che con la massima disinvoltura usano un nome o l’altro (Belgrano stesso, scrive ‘chiesa di sant’Antonio, vulgo sant’Antonino’)  per poi finire con sant’Antonio quando –nell’anno 1900 fu fatto obbligo – San Pier d’Arena era già città, ma l’ordinanza coinvolgeva anche i paesi - dare un nome alle strade.

Ma non finisce qui: altro motivo di confusione è che di sant’Antonio ne esistono due importanti, uno è il santo ‘Abate’, molto probabilmente quello di nostro interesse: pure lui di nascita egizio, nel III secolo, senza particolare qualifica...un santo bonario, gioioso, semplice, riconosciuto in tutta Europa quale protettore degli animali, degli ospedali e dei viandanti. E l’altro è quello ‘da Padova’ (in realtà portoghese), colto dottore della Chiesa, umile seguace di san Francesco, vissuto nel XIII secolo ed altrettanto conosciuto e venerato. Tra i tre, non c’è che da scegliere; tutte le opzioni sono da dimostrare; perché, come detto all’inizio, la fede è fede, indipendentemente dai nomi.

Allegato 11           l’ictus

Nel cervello, può succedere un incidente vascolare, eguale a quello che può capitare nel polmone, nell’intestino, nel cuore, ecc.: ha nome di ‘ictus o infarto’ e significa che una zona non viene più irrorata dal sangue (tre le cause: un embolo o trombo ovvero un grumo, staccatosi da qualunque parte del corpo, arrivato ad essere come un tappo dove il calibro del vaso è più piccolo di esso; oppure una emorragia ovvero rottura dell’arteria con versamento del sangue fuori del suo lume; infine una placca aterosclerotica che crescendo lentamente arriva a rendere critica l’ossigenazione della zona a valle. Nel cervello, dopo tre-quattro minuti senza ossigeno, le cellule della zona lesa muoiono, ed il danno è definitivamente irrecuperabile.

Sino a trent'anni fa, la mortalità era molto elevata. Oggi, il problema è sempre prioritario ma si muore di meno e si rimane meno invalidati. Ma l’evento permane essere ancora - negli ultra 75enni - la prima causa di offesa e di invalidità totale e permanente; nonché la seconda causa di invalidità per demenza; mentre è calata a terza, quale causa di morte (il 12% circa. Dopo le malattie incluse nella generica definizione di 'cardiocircolatorie', ed i tumori).

PREVENZIONE  si avvale ancora della terapia dei cosiddetti “Rischi”e sul controllo EcoDoppler. Un certo valore hanno la familiarità e la genetica (per il cui studio, esiste un ambulatorio apposito).

OSPEDALIZZAZIONE  Qui il primo obbligatorio intervento, valutato “prima fase”. Vi si cura la malattia acuta con i suoi danni secondari immediati. Arriva sino alla stabilizzazione del quadro clinico. Il negativo sta ancora nella necessità dei tempi stretti che i reparti ospedalieri debbono rispettare, comandati da decreti specifici detti DRG.. 

RIABILITAZIONE. considerata “seconda fase”.  Non è una spesa passiva per lo Stato, ma un investimento per il futuro: un paziente riabilitato, decisamente costerà di meno alla società. I tempi per questa fase, sono ovviamente molto più lunghi.  Il danno residuo, è in rapporto alla zona cerebrale lesa.  Allo scopo sono state aperte strutture specifiche, adatte al recupero psicologico e motorio, al punto di parlare di risultati miracolosi rispetto cinquant'anni fa;  anche se non siamo ancora in grado di riportare il soggetto allo stato pre-ictale e se ancora esistono differenze pesanti tra Regioni e Regioni, sia come numero delle strutture, sia come durata dell'assistenza; sia come osservanza alle linee guida che vengono date da studiosi pluridisciplinari  (neurologi, fisiatri e fisioterapisti; psicologi, logoterapisti, dietologi, infermieri; con la partecipazione di urologi, pneumologi, foniatri e radiologi) che forniscono -con revisione biennale- indirizzi pratici sugli esercizi fisici, psicocognitivi e sull'alimentazione.

DOMICILIARIZZAZIONE   è la “terza fase”. Le scarse risorse economiche destinate dai politici (logiche ed illogiche) fanno sì che il soggetto sia, a questo punto, un po’ abbandonato a se stesso salvo rifarsi con i lunghi tempi dell'invalidità civile e dell'accompagnamento.

CONCLUSIONE mai, come in questo tipo di malattia, vale il detto: “melius preveni, quam curare”.

ALLEGATO 12      SPENDERE IN CULTURA

Mi è capitato di commentare con un amico importante, per strada, il progetto per l’insegnamento del genovese nelle scuole elementari e ho espresso contentezza dell’esito positivo di utilizzare soldi pubblici per cercare di conservare la tradizione linguistica locale. Per queste mie affermazioni mi sono sentito – diciamo – accusare che erano soldi pubblici sprecati. Presumo abbia valutato che un’alta percentuale di bambini e maestri, butteranno via l’opuscolo ed i libri regalati a scopo didattico.

Nei dibattiti inerenti a cose di cui sono profano, purtroppo non sono veloce; mi occorre un po’ di rodaggio per  inquadrare l’argomento e valutarne i contenuti, in positivo e negativo. Così, sul momento, non ho trovato modo migliore di ribattere, se non accennando, senza convincerlo temo, che la cultura non ha prezzo. Forse, il mio interlocutore nel dire “soldi sprecati” pensava – ma è bene precisare che lo suppongo io – che anche una piccola cifra sarebbe più idonea se usata... non l’ha detto... forse intendeva nel sociale, nella salute visto il deficit esistente, nel verde pubblico: insomma in altro modo.

Poi, inizialmente ho pensato che un’Amministrazione come si deve, deve essere in grado di provvedere in sede di bilancio preventivo ad una equilibrata distribuzione delle risorse, in tutti i campi: un tanto al sociale e ... forse meno alla cultura e meno ancora alle nostre tradizioni; ma niente è di sicuro una scelta errata. Pensando poi con più calma, poiché la piccola cifra messa a disposizione è andata tutta in editoria (essendo l’autore dei testi ed i distributori, tutti volontari senza compenso economico), non trovo poi così disdicevole che indirettamente si sia dato una mano a questo settore, di altissimo valore sociale, non in agonia ma certamente che non nuota nel benessere commerciale. Il Gazzettino ha altre volte segnalato – e qui si scivola in politica ed io non voglio impegolarmici – di spese regionali con ben altre cifre in direzione mondiale, non vedo negatività se la Giunta apre un occhio benevolo anche a ‘cose nostre’, soprattutto alla cultura delle nostre tradizioni. Anzi, io ritengo che esse sono il fulcro del vivere sociale: l’identità di San Pier d’Arena (di cui io mi occupo, ma anche quella di Genova e della Liguria) è stata demolita e troppo poco vien fatto - non dico per risollevarla ma per salvare il rimanente dal deterioramento totale; e  minima mi appare l’attenzione del politico amministratore verso questo settore e verso San Pier d’Arena, quando invece moltissimi cittadini vorrebbero vederla rilanciata e valorizzata. È chiaro che se l’immigrato trova il caos e l’appiattimento emotivo, mai più si inserirà rispettando quello che trova; ed è un po’ quello che sta avvenendo nel nostro territorio. Un Paese, perché sia un vero Paese, deve essere governato da politici che abbiano un occhio nel passato, uno nel presente ed uno nel futuro. Ma, secondo me, è solo su un passato ben radicato, a 360°, che si potrà edificare un solido futuro: la lingua genovese (non dialetto) è una parte del tutto di base.

Allegato 13   I CERCAMEMORIA  

Nell’ambito delle tante associazioni di volontariato,  questa ‘neonata’, di pochi mesi, vuole essere un supporto della civica Biblioteca Gallino, di via N.Daste, costituito da persone  appassionate della ricerca delle memorie del territorio.  Ricordiamo che la nostra biblioteca, è terza per grandezza e per numero di libri catalogati, nella Grande Genova; ed è un vanto – forse l’unico – di natura culturale non immobiliare, del CentroOvest.

Il progetto dei Cercamemoria fu lanciato alcuni anni fa presso tutte le biblioteche, perché esse ne facessero punto base dal quale accrescere l’area culturale di competenza, estendendola oltre la sola conservazione e lettura di libri.  A SPdArena ha bene attecchito e preso continuità sotto la seriosa, bonaria e vasta esperienza del  presidente Giuseppe Majocco: una quarantina di soci hanno già aderito all’iniziativa, ‘protetti’ dalla direttrice della biblioteca la dr.ssa Luciana Langella. Il nome, da solo dice tutto: rivalutare l’identità locale, sfruttando i libri per cercare, approfondire, riscoprire, promuovere tutto ciò che ha sapore, colore ed odore di cultura locale, a 360 gradi; e conseguenti catalogazione, conservazione, diffusione e partecipazione.

A parte l’impegno dell’iscrizione, irrisoria come cifra (10e), si sottoscrive l’impegno morale di partecipare alle iniziative, promuovendole o collaborando ad esse.

Ecco così gli associati impegnati a spalleggiare il nostro teatro Modena, favorendo e guidando le visite ai locali, a fianco della associazione Amici dell’Archivolto.

In parallelo una serie di conferenze, approfondite ma narrate in tono amichevole, delle quali sono già state fatte una su “SPdArena medievale”; una sulle antiche “osterie e trattorie” locali; una sulle “ville Serra” di via Daste e Cantore; una quarta sulle “Fortificazioni e cinta” con mostra di soldatini dell’epoca. E ne sono in cantiere altre, mensili, normalmente di venerdì alle ore 16,30.

Invece è già completata la catalogazione di tutte le Madonnine devozionali collocate sulle facciate dei palazzi e strade del CentroOvest; questa ricerca è ora sottoposta ad esperti d’arte di alto livello per valutazione delle sculture di più antica data. In programma la catalogazione delle lapidi, delle numerose ‘finestre’ dipinte, del liberty, dell’arte nel cimitero, ecc.

Lo scopo è, usando tutti i mezzi possibili, sensibilizzare la gente – specie i bambini e gli immigrati,  perché amino e si sentano orgogliosi di abitare in questa secolare città: chiunque lavora in questa direzione, è amato, rispettato e spalleggiato.  Sicuramente, altri amanti della nostra città, propongono gli stessi temi ed ideali con altri metodi (associazioni, gazzettini, TV, internet). Appare ovvio che chiunque abbia un po’ di iniziativa, mira a fare da sé, sperando nell’intimo divenire uno ‘scopritore che lascerà un segno nuovo nella storia locale’. Ma sarebbe molto meglio evitare la dispersione delle iniziative perché essa fa sprecare le energie di tutti e diminuisce i risultati accendendo fuocherelli di interesse, però privi non solo di continuità ma soprattutto di fruttuoso ‘peso politico’.

Allegato 14  CREDERE AI PAZIENTI   Civiltà perduta.

Esisteva dall’antica Grecia, un giuramento ippocratico basilare e inderogabile per un medico: il sofferente ha diritto ad essere creduto ed aiutato: testualmente ”giuro... di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte medica”. Questo impegno d’onore è sopravissuto inalterato per tremila anni, perché tutti d’accordo – re, imperatori, dogi, tiranni, presidenti della repubblica e dittatori -: il rapporto di fiducia tra medico e paziente, è alla base della civiltà.

Ma un recente “decreto legge” n. 150 del 27 ottobre 2009, cosiddetto decreto Brunetta, nel voler disciplinare la “trasparenza” dell’amministrazione pubblica, ha normato la certificazione per malattia, intervenendo sia sulle fasce orarie di reperibilità e sia sulle modalità di rilascio del certificato di malattia da parte del medico. (art.55 quinquies), imponendogli di certificare “solo quanto è a lui obiettivamente accertabile”; ovvero:  “le sanzioni disciplinari si applicano se il medico, rilascia certificazioni che attestano dati clinici non direttamente constatati né oggettivamente documentati”. Significa addio a credere al paziente (oggi cliente, ma sempre gratuito!).

Così, in sostanza, se il medico non può certificare dati ‘non obbiettivi’ senza ricorrere nelle pesantissime sanzioni, va da sé che tutte le patologie che creano una inabilità temporanea al lavoro riferite dal paziente dipendente pubblico e generate da elementi non documentati non sono più certificabili; sono... fuori legge. Ovvero, di fronte al sofferente con sintomi soggettivi - e quindi non obbiettivabili – da oggi, non vi è la possibilità di “mettere sotto mutua” la sua inabilità temporanea.  Quantunque questa norma crei disagio e difficoltà o sembri assurda, va rispettata: è una legge! Addio alle cefalee, lombosciatalgie, insonnia, dolori mestruali coliche addominali, crisi ipotensive, episodi febbrili influenzali, crisi di panico o depressive, ecc.: laddove il medico non potrà mai evidenziare nulla, se non fidarsi della parola del cliente. Pena gravi sanzioni: da economiche, sino a - sproporzione della pena che contrasta con il senso comune del giusto – licenziamento e carcere per truffa.

A mali estremi, estremi rimedi: se il male non è ‘visibile’ ma dovrà essere documentato...c ‘è solo una scappatoia: tutti via all’ospedale o almeno da uno specialista (poverino! ma vi vedrà dopo 2 – 3 mesi) della ASL.

I risultati saranno due: uno positivo, che avremo molto meno ‘certificati di mutua’. Rotti, acciaccati, sofferenti, ma presenti. Ma, in parallelo,  tre negativi: si intaseranno vieppiù i Pronto Soccorso ospedalieri; e, peggio: il medico non dovendosi più fidarsi della parola del suo cliente, involontariamente ma per legge, vede uccidere quel rapporto che, come detto all’inizio, è alla base della Sanità di una nazione civile. Ma un’altro sarà il danno più grave: il medico personale, non potrà fare più il medico come è cultura che lo faccia; ed è un gradino squalificante una categoria non più libero professionista, e che – non scalini - ma rampe di scale ne ha già scese troppe. 

Per punire i furbetti, per tanti che siano (ricordiamo i malati Alitalia?), un Parlamento come il nostro, che ha una matura democrazia, non dovrebbe varare leggi così assurde, specie senza dare spiegazioni e delucidazioni che evitino ad una categoria di lavoratori l’incubo della mannaia o delle manette ed al suo cliente la rabbiosa e avvilente situazione di non essere creduto a priori.

ALLEGATO 15          METEREOPATIA

Il medico ci spiega : la METEREOPATIA

Un vecchio detto recita “quando non conosci, evita”. Per tale motivo, di metereopatia se ne parla  poco; i medici rigirano il discorso, sorridendo per non proferire un più sincero “non lo so”...; le enciclopedie mediche saltano l’argomento, come non esistesse. Tutto, perché c’è, ma non si sa cos’è e come si avvera  l’intimo legame tra le variazioni atmosferiche e le sensazioni fisiche che tante persone provano, piacevoli alcune, la maggior parte spiacevoli. Assomiglia alla inimitabile Coca Cola: porta scritto cosa contiene, ma non come si integrano i componenti. E, nel nostro caso, i componenti che pare facciano la parte del leone sono:  elettricità, chimica e psiche, in misteriosa interconnessione.

L’Elettricità. Conosciamo il razionale sfruttamento di essa, nell’applicare un elettro-cardio o encefalo-gramma, la cardio e neuro stimolazione, il vecchio elettroshock; ma nell’epoca del sempre più piccolo, con transistor e micro (millesimi)-sensori, non è ancora venuta ‘la folgorazione’ della causalità diretta. Probabilmente siamo in tema di ultra (miliardesimi)-sensori cutanei. Ma, non si sa. Verrebbe semplice – ma non è dimostrato – che trattasi di variazioni del campo elettromagnetico quale intermediario. Esso è costituito da una evidenziata elettricità che circonda ogni corpo vivente sulla terra, la cui funzione se una volta era interpretata come obbligatoria e vitale ha lasciato tutti di stucco constatando che scompare quando l’uomo va nello spazio, ove egli continua a vivere senza essa, tranquillo per mesi e mesi, per riacquistarla come scende sulla terra. A cosa serve? Oltre i medici, anche i fisici tacciono sconsolati. Rimane così roba da parapsicologi, quei misteriosi individui che navigano tra la scienza e l’illusionismo, che piegano i cucchiaini,  trasmettono memorie a distanza, fanno muovere oggetti senza toccarli, ecc. Che anche il campo elettromagnetico influenzi il nostro corpo è evidente; e lo dimostrano sia la RisonanzaMN; sia la magnetoterapia, applicata in molti laboratori privati (non passata dalla Sanità sociale ... in quanto non è spiegato come agisce) per la cura - in prevalenza ma non esclusivamente - dei disturbi  muscolari; e sia quei tipi – specie nelle campagne – che curano appoggiando i gomiti o le dita... (Franklin ha dimostrato che le punte conducono meglio l’elettricità): dicono che non si fanno pagare,  per dimostrare la propria buona fede e di chi preferisce l’ignoto a una pillola, nota e conosciuta, ma con un sacco di controindicazioni. Misteri di Mamma Natura.

La chimica. Lo scatto, nell’organismo, potrebbe avvenire attraverso microliberazione di ormoni (specie l’ACTH dell’ipofisi che condiziona la secrezione del cortisone, l’antiinfiammatorio/dolorifico naturale); e – con essi – il sistema neurovegetativo il quale, tenendo collegata tutta la periferia del nostro corpo – può ‘scaricare’ l’ormone,  proprio come fa un parafulmine -  e creare conseguenti disfunzioni localizzate:  sul cuore (e allora tachicardia; extrasistoli; ...); sulla pelle (rossori, tipici dei timidi; pruriti; vampate; ...); sull’apparato gastrointestinale (dispepsie; colite; meteorismo; ...); sulle ghiandole sudoripare (gocciolamento ascellare o delle mani o piedi; ...); sui muscoli e articolazioni  (dolenzie e dolori, ...) ; eccetera, eccetera, ad ognuno il suo, compresi polmoni; vescica; nervi; capelli; psiche stessa; dappertutto.

La psiche? C’entra. Lei c’entra sempre, in tutto e spesso a corto circuito di riciclati causa-effetto.

Con due meccanismi primordiali: primo, il condizionamento, che è elemento determinante, derivato da uno stato di allarme; Pavlov lo dimostrò con i cani che sbavavano al suono di una campana che precedeva il mangiare; essi sbavavano anche quando essa suonava senza che il mangiare venisse. Esempio: una mamma ansiosa, col tempo fresco e piovoso, al figliolo coprirà bene la gola con sciarpe (ah la sciarpa! sarà per questo che è di moda?) e baveri alzati, tapperà la testa con berretti di lana e paraorecchie, imporrà di non correre e non sudare: non giocare!. Risultato visto che non si può odiare la mamma, un frustrante senso di avversione verso questi ‘impedimenti’ e stato di allarme per chi li impone. Quindi, in modo inverso si odierà il tempo brutto; il quale funzionerà come la campana del su citato Pavlov. Punto di sconnessione dalla realtà, diventa una qualsiasi esperienza vissuta male ed interpretata peggio: perché l’uomo deve dare sempre la colpa a qualcosa o agli altri. Secondo meccanismo è la memoria istintiva, che fissa lo stato di allarme specifico (tempo brutto=non poter giocare) e lo fa scattare ad ogni ricorrenza degli eventi causali, ma ahinoi ingigantendone l’importanza (allarme!), ricordandosi solo delle conseguenze subite, senza ricordare i veri fatti (complicata competenza del lobo cerebrale destro, nei destrimani).

Galilei inventò il barometro (artigianalmente si fa con i capelli); ma un mio zio, ricordo di oltre sessant’anni fa, anticipava il Bernacca della TV ... con i calli.

Allegato 16  LA STRADA LARGA

San Pê d’Ænn-a da no ascordâ

 

lA strada LARGA

Nell’immagine tratta dal disegno del Giolfi, visione panoramica di SPdA presa dal largo in barca, a fine 1800, è ben visibile in primo piano la cosiddetta ‘palizzata a mare’ (l’attuale lato a monte di via San Pier d’Arena; sotto i Savoia chiamata strada Reale a Torino). Nel disegno, è altrettanto evidente la storica “strada Larga”, corrispondente alle attuali via Prasio+ferrovia+via Palazzo della Fortezza; ovvero dal mare alla villa “la Fortezza” dei Grimaldi.  Essi, preferirono aprire l’ingresso su questa trasversale forse per equilibrio architettonico ma più presumibilmente per non offrire i loro movimenti alla vista dei dirimpettai Imperiale del palazzo della Bellezza.  L’uso delle carrozze dei nobili, la fece nascere più larga delle altre; e l’essere tale, per uso popolare, servì quale motivo segnaletico noto a tutti; e non tanto in contrapposizione al vico stretto sant’Antonio, largo poco più di un metro. Una via ampia, era allora anche contro la logica dei carruggi, quali stradine rivolte verso l’interno ma strette per più facilmente essere difese in caso di sbarchi ostili (già la crosa dei Buoi, della Catena, della Cella erano per far passare a malapena un solo carro); e anche contro la effettiva necessità di una strada così larga, non essendo zona di particolare intensità di traffici se non, nell’800, carico e scarico dalle navi (l’olio in particolare; depositi del prezioso liquido erano nelle cantine dei palazzi, opportunamente impermeabilizzate e piastrellate, come ancora visibili in via Gioberti; i mercanti di olio divennero molto ricchi, rappresentanti un settore della neonata facoltosa borghesia resa visibile con il Modena, le statue alla Castagna, le case di proprietà, le donazioni all’ospedale: ricordiamo i Moro, i Montano, i Vernazza, ecc.).

Molto probabilmente parte dello spazio della ‘strada’ – in alcuni documenti addirittura ‘stradone’ -,  faceva parte dei giardini della villa che - a levante - precede la Fortezza, anch’essa dei Grimaldi eredi di Ansaldo; forse gli orti, non protetti da muretti, furono ‘acquisiti’ dalla gente alla dismissione della proprietà a fine 1700 (assedio austriaco a Massena). Scrivo ‘della gente’ perché se a mare lo ‘stradone’ fu poi parzialmente chiuso da una costruzione privata a magazzini (di tal Ignazio Morando; a due piani; con bottega, retro e cucinino a piano terra e tre stanze al piano sopra; completata da un piccolo giardino a nord) il lungo spiazzo retrostante fu spontaneamente adottato per farne un “campo da pallone”; e tale fu usato fino a che - nel 1850 - venne ‘tagliato’ dalla ferrovia e dalla neonata via Vittorio Emanuele (oggi Buranello). Ovviamente non si intende l’attuale foot ball di origine inglese; ma il gioco della ‘palla a mano o palla elastica’, una specie di pelota o tamburello: sport che aveva un seguito di tifosi molto caldi, come leggiamo dalle numerose ‘grida’ del sindaco miranti a sbollire le loro intemperanze ed a cercare di limitare i danni dovuti alle palle di cuoio, andate, con violenza, a creare danni fuori campo.

Toponomasticamente parlando, la strada essendo di conoscenza generale, ed essendo verticale rispetto la più antica ‘strada interna comunale’,  era usata per delimitare, a levante, il rione della Coscia  - da essa alla Lanterna raggiungibile con, parallela al mare, via De Marini (oggi Dottesio- De Marini);  e verso ponente, il rione del Comune, con la prosecuzione verso ponente della strada interna che, da essa sino alla crosa della Cella, venne chiamata via sant’Antonio (vedi Gazzettino del mese scorso).

Sicuramente fu lungo la strada Larga che nel 1898, le Officine Meccaniche S.Bacigalupo, posizionate nell’attuale via Dottesio ove ora un istituto per anziani,  poterono portare al varo più di un rimorchiatore (barcassa), costruito nell’officina.

Nel 1910 tutta la strada fu dedicata  a  Jacopo Ruffini (inferiore e superiore); ma fu ribattezzata come ora, con l’annessione -1926 - nella grande Genova (ufficialmente, nel 1935 la firma del Podestà). Infine concluso il secondo conflitto mondiale,  fu amputata della parte a mare oltre via Buranello,  dedicata al partigiano A Prasio.

Ancor oggi è una strada viva, non solo per il vicino mercato ma perché ricca di negozi che producono ottima e qualificata merce, di richiamo anche di consumatori di altri rioni.

ALLEGATO 17

San Pê d’Æenn-a comme l’ea

Piazza Montano

Nelle prime decadi dell’anno 1500, avvenne l’acquisto del terreno e l’erezione della villa da parte di Cristoforo Centurione (figlio di G.B., del casato di Spagna degli Oltremarini. Suo figlio Filippo fu l’ordinatario al frate Bernardo Strozzi degli affreschi - unici al mondo - sulla volta dei saloni).

Si trattò di una lunga striscia di terra, a giardino e orti, che dalla casa arrivava quasi sino al mare. Dalla loggia della villa, i signori allargavano la vista verso la spiaggia, e dalla torretta potevano controllare sia il largo del mare che le uniche strade importanti, allora anonime (poi divenute: proveniente dalla Lanterna, prima via sant’Antonio e poi -da dopo l’incrocio con via della Cella- via Mercato, oggi via N.Daste; dal Ponte via san Cristoforo, oggi v.E.Degola; da nord via san Martino, v.C.Rolando; e dal mare la ‘crosa dei Buoi’ sulla quale si aprivano i cancelli d’ingresso. Si descrive che l’intero parco aveva oltre 500 piante d’alto fusto, in gran parte di origine esotica.

Nel 1700 la villa si ampliò, con aggiunta della costruzione a levante e con la delimitazione del giardino sul cui fianco fu eretto un secondo torrione di pura funzione estetica.

Dal 1850, la ferrovia e la via Vittorio Emanuele II (via G.Buranello) per imposizione statale tranciarono a metà la proprietà, avvolgendo la villa col manufatto della stazione. Altrettanto la ‘crosa dei Buoi’: da dopo il viadotto ferroviario fu allargata a spese del giardino e neobattezzata via Nino Bixio. Cosicché la proprietà  si ritrovò progressivamente  imprigionata, preannunciando i contorni della futura piazza. Con questa ‘demolizione’ presumibilmente finisce anche la proprietà dei Centurione, passando a ricchi privati con minori pretese territoriali, fam.Tubino, GB Carpaneto, Eugenio Broccardi (podestà di Genova negli anni 1926). 

Nelle fotografie dei primi novecento, il giardino appare ‘resistere’ in forma di triangolo delimitato con una cancellata che lo separava dalle due vie principali (la via Vittorio Emanuele II (poi via Milite Ignoto) proveniente dalla piazza Vittorio Veneto, estesa lungo il muraglione della ferrovia con le linee del tram; e la via N.Bixio a levante, con una serie di case operaie).

Nel 1933, ancora la piazza non esisteva come entità a sé, ma lo spazio era ormai sempre più ristretto. Negli anni immediatamente a seguire fu aperta via A.Cantore. Per essa furono abbattuti il cancello d’ingresso, i muri del recinto presso l’ala laterale e la torretta; in più essa si ‘mangiò’ – assieme al porticato costruito davanti all’edificio - larga fetta del giardino cosicché esso rimase avulso dalla villa stessa. Continuando a  rosicchiargli spazi ad uso stradale siamo arrivati a farlo diventare infine una banale aiuola: rimangono infatti pochi ceppi di magnolie e... la palma (che da sola troneggia davanti al civ. 2a,  e che appare essere centenaria).

È identica fine di una nobildonna che vende gli ultimi gioielli per sopravvivere, a fronte del menefreghismo dell’usuraio che pensa unicamente ai propri interessi immediati.     

ALLEGATO 18  AVIS

L’Avis è l’associazione dei donatori di sangue, anonimi e volontari. Ovviamente è gratuita, senza fini di lucro, apolitica, aconfessionale, a-tutto (inteso sesso, razza, nazionalità, ecc.) ovvero con unica nobile finalità di indiscriminata solidarietà umana. Fondata nel 1927, dal 1950 con legge di Stato è un ente con personalità giuridica e finalità pubblica in favore della collettività. Ha espansione in tutta la nazione e struttura piramidale con sezioni via via più capillari nelle  varie regioni, province, comuni e municipi.

A San Pier d’Arena esistevano vari punti  di raccolta (Croce d’Oro, don Bosco, centro AVIS  di via Ghiglione e della Ciclistica, i quali poi convergevano verso il Centro Trasfusionale, con reciproca partecipazione (riunioni, lezioni, iniziative nelle scuole, ecc.) del primario (ai miei tempi, il dr Bertorello) e dei suoi collaboratori.

Attualmente è sempre il Centro Trasfusionale dell’ospedale che fa da punto di raccolta di tutti i volontari donatori, alcuni ancora riuniti in gruppi (Cd’O), altri ‘liberi’. Non è qui ora la sede per fare polemiche, né di parlare dei gruppi sanguigni, della quantità del prelievo, dell’essere tutti anemici e stanchi, del  dono di un cappuccino con brioche o del biglietto del bus, del ‘grazie’ di nessuno, delle scemate di contorno (tipo “poi mi tocca darlo sempre”), delle analisi in più fatte come contraccambio, delle mille polemiche che nascono ovunque laddove l’uomo si aggrega ma che – in questo ambiente - si sciolgono quando occorre ‘correre a dare’.

Sul piano pratico e conciso, possiamo affermare che se Amare, essenzialmente, è dare senza nulla pretendere in cambio, ritengo che non esiste miglior modo di Amare del donare volontariamente, gratuitamente e senza riserve, la parte più intima e vitale di se stessi: il proprio sangue. Il perché è ovvio a tutti: il sangue è vita. Un sano genitore ‘darebbe la vita’ per il figlio; un donatore ‘dà la vita’, a tutti indistintamente e senza pretendere legami. Che forte!

É comunemente accertato che oggi i concetti ‘dare’ e vivere’ tendono a concentrarsi nel superfluo e nell’immediato; ma così si concederà che si aggiunga un’altra vittoria, se ce ne fosse bisogno, dell’apparire sull’essere. Occorre non abbandonare il concetto che un dono importante come questo non deve rimanere nei reconditi propositi dell’animo senza concretizzarsi, poiché ciò renderebbe vano il nostro bisogno di sentirsi buoni cittadini, oltre portare le bandiere multicolori, partecipare a cortei di protesta e di preghiera, partecipare in TV con i fustigatori di costumi.

Basta girare un pronto soccorso o un reparto di chirurgia, per accorgersi quante vite riescono a salvare gli specialisti in virtù della loro gestualità; ma anche – meno appariscente - in virtù di quella goccia che ritmicamente scende dalla sacca a compensare quello che il bisturi purtroppo deve fare: tagliare.

La nostra mente è portata a pensare che le cose brutte e gravi accadano agli altri; salvo quando succede  qualcosa a qualche nostro caro; solo allora ci accorgiamo che qualcun altro, e non noi, gli è entrato dentro e, goccia a goccia, gli ha salvato la vita.

I cittadini si aspettano che tra i programmi del nuovo Municipio, escano votati all’unanimità e per primi, quelli di partecipazione alla promozione attiva di queste associazioni (vedi anche quelli degli organi – AIDO - e del midollo osseo – ADMO); il non avverarsi, sarebbe il simbolo dello squallore della ‘politica sociale’.

ALLEGATO 19  MEDICINA  L’asma

Notevole è l’equivoco creato da questa parola. Perché crea un certo imbarazzo al medico quando raccoglie la storia del paziente e si sente formulare questa diagnosi... troppo spesso scorretta. Infatti, la confusione è creata dal chiamare asma bronchiale qualsiasi difficoltà di respirazione; anche se etimologicamente proviene dal greco “asthma” che significa affanno; ma dopo duemila anni la concezione di malattia è ben diversa.

Oggi si distinguono: a) l’affanno, simile a quello di una corsa, che può venire per tante cause. È chiamato anche ‘fame d’aria’ o ‘fiato corto’ e può derivare sia da eccessiva espansione addominale che preme il diaframma verso l’alto (quindi, specie quando seduti o coricati); o sia per ansia (essa tende a irrigidire i muscoli, sia del torace che del laringe), o sia da malattie altrettanto impegnative ma non strettamente polmonari, quali l’insufficienza cardiaca o una pleurite essudativa (in ambedue i casi il liquido sieroso trasudato schiaccia le basi polmonari).

b) i casi di bronchiti (comunemente conosciute, in base alla durata in acute, subacute, croniche; mentre in base alla reazione, in irritative, catarrali ed asmatiformi - che significa assomigliare solamente). In esse, avviene un restringimento dei bronchioli, ma non dovuto a spasmo ma a ostacolo catarrale o infiammatorio. Se ripetuti nel tempo, lentamente induriscono la parete, e di conseguenza fanno, sia perdere la elasticità e sia restringere il calibro: il sibilo diventa sia in- che es-piratorio; le cause vanno dalla silicosi (eternit), alle sigarette, alle bronchiti catarrali per tante cause recidivate e non ben guarite. Combinate tra loro, spesso sono siglate BPCO ovvero BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva.

c) l’asma bronchiale invece è una malattia ben precisa, pressoché sempre di origine allergica; meno note anche genetica, da inquinamento (polveri-vernici e smog), da intolleranze (farmaci-forfora animale-alimenti-pollini-ecc.), da iperreattività polmonare, ecc. Caratterizzata da uno ‘spasmo’ dei bronchioli (intermedi per diametro tra i bronchi e gli alveoli polmonari) e la cui gravità è in rapporto alla quantità dello spasmo stesso. In questa malattia, l’aria entra nei polmoni, seppur rallentata, essendo forzato l’atto inspiratorio (determinato dall’espansione del torace ad opera dei muscoli pettorali ed altri; ma, causa il restringimento, non riesce ad uscire, essendo la espirazione un atto non forzato ma di rientro per elasticità. Così l’aria tende a stagnare negli alveoli  creando nel soggetto un senso di oppressione associato al boccheggiare per carenza di apporto di ossigeno e sensazione di soffocamento per ingorgo, con sibilo alla espirazione ben udibile dai presenti, di più dal medico all’auscultazione con il fonendoscopio, nonché alla percussione (suono timpanico, tipo tamburo) per l’aria stagnante. Si crea un quadro di insufficienza respiratoria con percezione di lunghi sibili (che danno il nome di asma alla malattia) prevalentemente espiratori. Quindi molto più che affanno: una situazione veramente inquietante, alla quale non si fa certo abitudine, vissuta con pathos intenso, fatica e paura.

Curiosità finale linguistica: in italiano, la parola asma, è sostantivo; ma contemporaneamente sia maschile che femminile.

  ALLEGATO  20   Cecere

Nella parte “in fondo di via Cantore”, il guru dei negozianti è sicuramente il Cecere, da più di otto lustri barista d’angolo con corso Martinetti: è l’incontrastato elemento di riferimento e spicco della zona. Dopo quarant’anni di professione, da sempre sampierdarenese,  vorrebbe bella la sua San Pier d’Arena. E invece, tante le cose... cambiate. Non tutte in meglio.

Cosa ti turba, Riccardo?

Mi infastidisce l’incuria e l’evidente trascuratezza delle piccole cose. Si parte dal principio che via Cantore dovrebbe essere il salotto buono  dei sampierdarenesi. Ebbene, nel salotto buono non ci sono né igiene né pulizie sufficienti: oltre le tracce fluviali dei piccioni e quelle ad ostacoli dei cani, fa pena l’assenza di fiori e di verde; le piantine di mezzaria sono diventate diradate e rinsecchite da non idratazione e così lasciano spazi per incauti attraversamenti fuori righe. Ma anche non c’è una illuminazione adeguata: più simile ad un mortorio che a mostrare opere di pregio: non c’è né l’intimità soft di un incontro a lume di candela, ma neanche la luce che si concede a degli ospiti di riguardo.

Ma tutti i negozianti sono d’accordo?

Su certe iniziative, presumo di si. Le lamentele di alcuni sono più legate a differenti interessi: mentre a qualcuno che, per esempio, vende pellicce,  il posteggio di breve durata interessa poco; per me personalmente e tanti altri, è vita: un caffè, un aperitivo, un incontro tra amici sono minacciati dall’ impossibilità di sosta o da inflessibili multe o da cifre vessatorie dell’occupazione suolo pubblico. Hanno bloccato il mercatino mensile che richiamava molta folla e dava vita. Non è certo per la carta che lasciavano; forse perché qualcuno si è lamentato; ma certo è che se tra le bancarelle lasciano che un rivenditore di fiori secchi si piazzi davanti ad un negozio di fiori freschi... sarebbe bastata una selezione sia dei generi venduti che della distribuzione nello spazio.

E i giovani?

I giovani: quelli imprenditori scappano: ho tentato cedere l’attività ma la fanno morire per carenza di spirito di sacrificio – sentimento forse più tipico della mia generazione ma  in loro scusato essendo da subito vessati da eccessive trappole legali: cose giuste, ma esasperate. I giovani clienti invece... scappano perché preferiscono andare in altri siti dove c’è il posteggio gratuito, riscaldamento o aria condizionata,  un gioioso chiasso musicale e una – anche se apparente - vivacità spensierata. Più luce, più allegria: forse fasulla ma,  a loro misura, vita.

Cosa speri?

Non serve rimpiangere i tempi passati: le “vasche” e le feste di carnevale; le rivalità tra studenti e lavoratori ed il sottinteso scopo di allacciare simpatie; ma serve che i politici ed i negozianti, insieme e senza rimbalzarsi la palla, si pongano l’impegno di studiare come riportare qui i giovani.

Spero che i componenti del Municipio vengano un po’ a servirsi qualche volta, per rendersi conto di persona di quello che dico. Da per tutto, in città, c’è lamento; è vero, e di cose anche gravi e prioritarie. Ma nel salotto buono..., almeno un poco di apparenza: non basterà mai abbastanza offrire agli abitanti di San Pier d’Arena un po’ di “qualità”di vita.

ALLEGATO 21   -   la  Ciclistica

La  Società Sportiva “La Ciclistica”, dell’ARCI, nacque nel 1918, epoca del ricupero post bellico. Dal 1880 il ciclismo era uno sport emergente, e già dal 1884 il ciclista sampierdarenese Tortarolo era divenuto un vincitore molto conosciuto e richiesto. Nel 1885 venne organizzata la prima giornata del velocipede nella zona ora di via Cantore.  Errante, nato nel 1904 alla Crociera, fu un altro vincente che fece entusiasmare le folle nazionali. seppur munito di attrezzatura primitiva, senza ricambi e rifornimenti e gran pedalare su strade sterrate e fangose.

 A creare questa società nella allora via Umberto I furono gli stessi operai, portuali e bottegai della zona; ricchi solo di gioventù entusiasta ed intraprendente, destinata a scrivere pagine di storia nello sport genovese e nazionale. Lo scopo societario era avviare i giovani allo sport, specie  ciclismo, calcio, podismo e nuoto. Suoi simboli, sono la casacca bianco rossa ed il logo di una ruota della bicicletta, spinta da un paio d’ali poste ai lati del perno centrale.   Gli anni tra il 1920 e 1930, furono di particolare  splendore sportivo, con atleti emergenti di caratura nazionale. Tutti i premi vinti negli anni di agonismo, fanno bella mostra per numero e valore in una bacheca dell’ingresso della “Tana”.

  Durante l’era fascista, la polizia adottò la solita politica invadente e sostitutiva alla quale fu giocoforza adattarsi se si desiderava sopravvivere.     Nel periodo della Resistenza, la sede divenne una fucina ed anche  rifugio per i combattenti: il 16 dicembre 1944, le Brigate nere fecero una retata arrestando molti frequentatori dei quali  ben sedici furono fucilati; alcuni sono titolari di strade: Stefano Dondero, Renato Quartini, Giuseppe Spataro, Walter Ulanowski). 

Da dopo il  periodo  bellico, il club cerca costantemente di adattarsi alle esigenze dei giovani sulla base dei valori statutari: rispetto, eguaglianza, solidarietà, amicizia e libertà: sempre con grosse difficoltà visto che  la società  non ha mai accettato per la sua maglia nessuna sponsorizzazione. Furono supportate altre numerose discipline sportive: minibasket; arti marziali; aerobica; ginnastica artistica; gruppo nuoto. Oggi è divenuto: sia un centro ritrovo per i 200 e più soci, con organizzazione di attività comunitarie, tipo gite, tornei interni, corsi di lingue e computer, intrattenimenti e manifestazioni: sono programmate per fine giugno una festa di 4 Circoli; e per fine settembre due giornate di folklore e musica al Campasso. E sia un centro sociale (con due importanti ‘sportelli’: uno rivolto agli immigrati per le loro pratiche; altro al ‘movimento consumatori’ con interventi di prima assistenza in caso di diatribe con enti vari fornitori di servizi).

Si ringrazia il presidente Igino Gelli per la cortese collaborazione

ALLEGATO 22   San Pê d’ænn-a comme a l’ea: A Mænn-a 

tanto è ricca di storia, che la raccontiamo a puntate. Ecco la prima.

Al mare che lambiva la riva, oggi si sovrappone Lungomare Canepa. Nella parte più interna, della lunga e profonda striscia di sabbia e ghiaìno, fu tracciata l’attuale via San Pier d’Arena;  alla quale,  il primo nome popolare che le fu dato, fu “a mœnn-a”, la marina. Corrisponde ad un percorso, lungo il litorale, che sicuramente può competere in anzianità con  le altre due strade riconosciute come “le prime”: in alto l’Aurelia (anno 110 avanti Cristo; attuale via alla Porta degli Angeli - salita Bersezio) e quella ‘interna’ (vicino all’anno 1000 d.C. - oggi via De Marini - via Daste - san Martino del Campasso quale parrocchia del borgo). E così restò chiamata per secoli e secoli; finché verso la fine del 1800, quando qui tutti parlavano solo in genovese e i regnanti in francese, le fu data la prima titolazione ufficiale di via Cristoforo Colombo.

Retrocedendo nel tempo, quando nell’89aC Roma concesse ai genovesi essere ‘cives romani’, assieme ai diritti, in cambio, chiese ad essi di armare delle navi e curare la difesa ed il traffico sul mare, già allora “terra di nessuno” intesa l’impunità di abbordaggi e furti pressoché garantita dalla vastità delle acque. Per Genova, chiusa nel castrum romano della zona di Castello, la nostra spiaggia al di là di quel colle che poi verrà chiamato di san Benigno, era troppo lontana e scomoda. Nacquero alcuni cantieri nelle marine vicine, tipo in Sarzano, sebbene poco agevole perché eccessivamente scogliose.

Saltiamo l’alto medioevo (7-800 anni!, mica pochi) rappresentato dai tempi bui, dei quali non esistono notizie se non quelle che la popolazione europea ebbe un calo spaventoso per carestie (fame, da agricoltura eccessivamente primitiva; malattie, peste, herpes, colera, ecc.; invasioni barbariche) e di conseguenza tutti i mercati erano soffocati e fermati dalle incerte e crudeli lotte di potere in alto, dai briganti e amoralità del ‘si salvi chi può’ nella vita quotidiana.

Forse, in quei secoli, la nostra spiaggia era ancora pressoché completamente deserta ma attrice di un evento importante naturale: intorno all’anno mille la constatazione in tutte le coste della penisola del progressivo fenomeno di arretramento del mare e, per ovvietà, maggiore estensione della spiagge stesse: medialmente alcune centinaia di metri, più evidenti in zone di foce di fiumi (Fiumara da noi per i riporti del torrente allora libero e dirompente).

Dall’XI secolo, con le Crociate nacque per i genovesi una grossa e fruttifera possibilità di mercato: allestire navi per portare in Palestina i soldati ed il materiale connesso e commerciare con l’Oriente. La costruzione di navi era sensibilmente migliorata: come grossi navigli, esistevano sempre le  triremi con prigionieri e schiavi alla voga, ma con maggiore scafatura, migliore velatura, migliore capacità di reggere il mare. E i genovesi erano maestri nel mondo. Migliori materiali e maestranze c’erano; però per costruire occorrevano maggiori spazi. Sicuramente è così che sulla nostra spiaggia nacquero alcuni cantieri navali: essa offriva vantaggi economici e funzionali: pochissimi scogli; ampia spiaggia (quindi cantiere protetto anche dalle mareggiate); riva rapidamente scoscesa (quindi varo dopo pochi metri di scivolamento e soprattutto non limitante la stazza degli scafi); vicinanza di un entroterra boscoso di roveri, più folti che altrove. E con i cantieri crebbe il borgo definito sulla base di una cappelletta sulla rena, ove si venerava san Pietro. Si conservano uno scritto con promessa di fornitura di una carena, di goe 29 (m. 21,75) da parte di Rubaldo Moro di Ceranesi, da dare ad Ansaldo Rabaldo ed Opizzone Arabite sampierdarenesi; ed un atto notarile sul quale è scritto che la famiglia Oliverio di Sestri promette di consegnare in Sampierdarena a Bonagiunta Caldino, 60 tavole lunghe 10 cubiti, larghe 1½ palmo e dello spessore di due dita”. Sappiamo che le forniture erano rapide: in pochi giorni si aveva il materiale alla marina; e stagionato, in quanto, sentito l’affare, anche sui monti si erano approvvigionati per tempo.    

Per ora, fermiamoci qui. Riprenderemo il prossimo mese.

ALLEGATO 23   medicina  VOLLI, SEMPRE VOLLI, FORTISSIMAMENTE VOLLI.

Si sente spesso, specie nei litigi, la frase “io sono fatto così”. Come se ‘essere così’ fosse una ineluttabile caratteristica genetica, quali il colore della pelle o alcuni tratti somatici. Come in tutti gli equivoci di cui è pieno il mondo, c’è una parte che è vera, ma solo per un quarto ed anche meno; e per tre quarti falsa. Vera, perché effettivamente è fatto così; poverino/a. Falsa perché determinati aspetti negativi del nostro carattere, volendo, si possono modificare. Faticoso, ma possibile. Inequivocabilmente, meglio intervenire in giovane età perché infatti modificare il carattere non è facile né istintivo e, senza una precisa volontà, effettivamente è immodificabile; altrimenti l’avremmo già fatto da soli; mirando il nostro ego pressoché sempre, fin da piccoli, ad assumere l’atteggiamento più vantaggioso per se stessi.

Mentre la frase tira a sottintendere “e non ho nessuna voglia di essere diverso”, sappiamo che volendo, per convenienza..., per interesse..., per vivere meglio..., per amore... si possono fare tante cose.

Si inizia facendo una analisi introspettiva: con essa, si sale il primo scalino. Ma, difficile farla da soli. Mamma natura ci ha fatto quasi mai obbiettivi né onesti: nello specifico, crudeli e inflessibili nel giudicare gli altri, buoni e permissivi verso di  noi (la parabola della pagliuzza e della trave). Verso di noi, tolleriamo le cose più obbrobriose: dalle puzze alle caccole, fino al bere, fumare o drogarsi: “eh! sono fatto così!”; verso gli altri invece: indignati, disgustati e senza perdono spesso con clamorosità. Difficile autoanalizzarsi, ho scritto, ma altrettanto difficile è guidare un aeroplano o imparare a sciare o studiare il tedesco... Eppure, volendo...

Volendo...: è il secondo scalino. Il “volere”, ovvero la volontà, è una caratteristica psichica che sarebbe molto necessario che i genitori insegnassero in modo specifico e rigoroso ai loro bambini/ragazzi. Invece, non è nemmeno una Cenerentola: proprio non si insegna: zero. Essa è abbandonata a se stessa, come non esistesse da plasmare nella psiche di uno che cresce. Così, l’adulto si autogiustifica affermando chi ce l’ha è ‘fortunato’ e chi non ce l’ha è ‘scalognato’.

Eh no! Visto che la volontà è il perno su cui ruota, come una porta, l’apertura o chiusura del nostro cervello nell’affrontare le difficoltà della vita.  Purtroppo, non è una pillola che si inghiotte e via; è fatica, come scalare un monte. Dovrebbe essere inclusa nell’insegnamento generico, anche se la scienza non è riuscita ancora a porre in quale punto preciso è nel nostro cervello. Ma non parlarne nemmeno, e far finta sia un dono del cielo, è un orribile errore per un educatore.

In psichiatria la volontà è una entità astratta composta da vari componenti; essi devono confluire, come in un imbuto, nell’azione; nell’“atto volontario” tanto caro ai magistrati ed agli arbitri ai quali provate a giustificarvi con un “non volevo!” per apprezzare quanta clemenza meritate. Zero.

Per questo occorre innanzi tutto conoscersi bene, perché agire senza conoscersi è da incoscienti o – alla genovese - da abelinati... Ah! quanti si lasciano dirigere dall’istinto, e non dal cervello. 

Le componenti su dette, corrispondono e ben precisi esercizi educativi: a) percezione di un fine (a cui mirare per essere concreti);  b) produrre le idee utili per conseguirlo (programmare quali mezzi sono necessari); c) appoggiarsi, ma senza fidarsi del tutto, all’istinto ed ai sentimenti (non del tutto perché favoriscono l’indecisione); d) farsi invece guidare dall’intelligenza prodotta dall’esercizio e  dallo studio (negli ignoranti infatti la volontà è minima ed essi sono facile preda delle suggestioni). Il tutto sarà impastato nella gioia di vivere che, anch’essa in parte è istintiva ma in gran parte dipende dai genitori, quando smettono di pensare solo a loro stessi.

La diminuzione della volontà, si chiama ipobulìa (una crisi di panico, un impulsivo); è falsa in uno studente che è rimasto indietro e non capisce la lezione di oggi (la classica errata  frase di tanti insegnanti “se volesse...”. Tipico del tossicodipendente è l’abulìa (ovvero assenza di volontà: lui crede di poter smettere quando vuole, ma ... non scatta perché ha solo il desiderio, ma non la volontà, la quale non è né gratis né senza fatica).

Nei ragazzi, disturbi della volontà, e quindi segnali di una qualità scorretta, sono il negativismo (resistenza e ribellione; o all’opposto passività); suggestionabilità; turbe quali tic, ripetizioni di parole o gesti; tendenza a sconfinare nelle manie, stereotipie e fobie: tutti da interpretare quali goffi segnali di instabilità affettiva e conseguente incapacità a gestire la propria volontà. Non esiste un insegnamento specifico; lo si fa attraverso le solite attività comuni; ma non gestite a casaccio o con lo scopo di solo vincere, bensì mirate al fine specifico di dare grinta al carattere. Sembrano, ma non sono la stessa cosa.

ALLEGATO 24   INCONTRO ASSOCIAZIONI-MUNICIPIO

Più di settanta sono le associazioni presenti nel territorio del Municipio: alcune a carattere umanitario o musicali, altre culturale o ricreativo, sportivo o telematico.

La neo nominata assessore municipale sig. ra Di Florio, per la prima volta le ha riunite il 24 giugno scorso nella sala del Centro Civico, per spiegare loro come meglio distribuire le sempre più ridotte risorse economiche e come meglio sfruttare in collaborazione le reciproche attività. Nell’ambito dell’incontro, singoli soci han fatto conoscere realtà associative sconosciute anche agli addetti: dal circolo mandolinisti (sfrattato) che vive in SPdA dal 1923, al gruppo che costruisce e conserva (sfrattati pure loro) personaggi in cartapesta cari ai bambini da usare nei carnevali; da chi raccoglie materiale per centri assistenziali in Africa, alle corali.

Sotto l’aspetto associativo, la città è viva, ma dispersivamente autogestita. L’Assessore prevede meglio integrare queste fonti di energia, anche programmando per fine estate un evento su una creusa - da riproporre annualmente – e lungo la quale si proporranno le varie associazioni, con banchetti, angoli musicali, esposizioni, mostre, ecc.

ALLEGATO 25  LE VITAMINE

Non sembra, ma un altr’anno sarà un secolo che si scrive e si parla di vitamine; al punto che tutti presumiamo saperne tutto. La TV ci bombarda con messaggi parzialmente veri (parzialmente perché il messaggio è del tipo “sei stanco? Prendi le vitamine PincoPallo e ti sentirai una bomba”. Come se la stanchezza derivasse solo dalla carenza di PincoPallo e non da altre mille patologie, alcune anche molto gravi; le aziende partono dal presupposto che, per quelle in vendita, non c’é sovraccarico, e quindi, anche se prese in eccesso l’organismo sano provvede spontaneamente ad eliminare il surplus; ma poco importa loro se butti via i soldi per prendere, senza bisogno specifico constatato dal medico, una cosa inutile). La suggestione fa la sua, i prodotti ‘da banco’ la rendono facile; tutti conoscono i placebo; ma la serietà di consigliarlo indiscriminatamente ...

Torniamo alle vitamine. Sappiamo tutti che esse sono indispensabili all’organismo; sia perché, da una parte lui non sa sintetizzarle e quindi è obbligatorio provengano dall’esterno; e sia perché senza esse non sono possibili determinate reazioni biochimiche vitali. Tutti conoscono le storie dello scorbuto, della pellagra, del beri beri – tutte malattie scomparse -  ma tipiche nelle antiche navi, quando venivano per settimane a mancare cibi freschi. Tutte possiedono chimicamente una frazione amminica’ e da questo il nome: vita+ammina.

Si dividono in due categorie: idrosolubili (ovvero si sciolgono in acqua e l’organismo elimina velocemente con le urine la quantità non necessaria) e liposolubili (si sciolgono nei grassi; pertanto non si possono iniettare in vena e per i reni sono più difficili da eliminare; quindi tendono all’accumulo).  Furono definite con le sigle dell’alfabeto e non sono specifiche per un solo tessuto dell’organismo, anche se esiste un prevalente utilizzo da parte di qualcuno in particolare. Così:

vitamina A  o beta carotene; liposolubile. Necessaria soprattutto per la retina e per la pelle.

vitamine del gruppo B; idrosolubili. Ne esistono varie qualità diverse, le più importanti: B1 antinevritica; B2  per l’accrescimento, pelle e mucose;B6 antinausea gravidica; B12 la più importante del gruppo perché interviene in decine  di reazioni basilari

vitamina  C; idrosolubile. Potente antiossidante (anti infiammatorio e tonico della parete dei vasi).

vitamina D;  liposolubile. Interviene nel metabolismo del calcio delle ossa, attraverso complicate trasformazioni della molecola naturale, in quella d’uso.

Vitamina E;  liposolubile. Importante per gli ormoni

Vitamina K; liposoluibile. Necessaria per la coagulazione del sangue

vitamina P; idrosolubile. Interviene in determinate funzioni dell’assorbimento intestinale e dei vasi venosi.

Tutte esse sono contenute nei cibi freschi (carne, frutta, verdura, latte, uova, ecc.;  ricordando che alcune vengono inattivate dalla seccatura del cibo o portandole a temperature superiori ai 60°.

Un prodotto  polivitaminico potrà essere utile solo per coloro che ‘mangiano male’ ovvero con eliminazione di certi cibi per motivi dietetici particolari.   

    ALLEGATO 26 -  associazioni = lo scoutismo

A San Pier d’Arena, l’associazione scoutistica ha superato i novant’anni di età; cento in campo internazionale. Per essere un metodo che si propone il tema dell’educazione dei giovani, il traguardo raggiunto deve essere sufficiente a garantire, anche al genitore più pignolo, che qualcosa c’è di buono, per durare così a lungo, specie in Italia laddove, in novant’anni, sono avvenuti vari e alcuni anche drammatici cambiamenti sociali e culturali. In realtà,  c’è molto di più di qualcosa.

Tenendo in considerazione che in questo secolo anche i sistemi educativi hanno fatto modifiche sostanziali e raggiunto traguardi, non ancora al top, ma sicuramente molto più floridi del primo 1900, superando non senza incrinature le distorsioni di regni, dittature e guerre.

E se si aggiunge che lo scoutismo è espanso eguale in tutte le Nazioni libere, ciascuna con mete e metodi educativi diversi, viene da paragonarlo alle radici degli alberi, in apparenza tutte eguali anche se la pianta poi sarà diversa.

Ogni genitore, davanti ad un figlio da far crescere fuori della bambagia casalinga, ovvero sui 7-8 anni, deve chiedersi: “Cosa è di mia propria e totale competenza da trasmettergli? Importante rispondere, perché dovrebbe essere chiaro che compito della scuola non è tanto di educare quanto e soprattutto di insegnare; sono due cose totalmente diverse anche se complementari. Quindi è chiaro: tocca ai genitori educare. Radici dell’educazione, sono la sicurezza dell’io; la coerenza con se stessi e con quelli con i quali si convive; il senso profondo della responsabilità; la disponibilità e servizio verso il prossimo specie quello più debole; rispetto e osservanza del nucleo familiare e delle regole dell’ambiente di vita; la gioia di vivere; una fede in cui credere senza intolleranze; una mèta che è sintetizzata nel motto “lasciare il mondo, migliore di come l’abbiamo trovato”.

Ad una seconda domanda: “a cosa dobbiamo mirare, per lui?” la risposta dovrebbe essere, per concentrarla in poche parole: “che sia capace di affrontare la sua vita,  gestendola  in modo di essere felice”.

A sua volta, il ragazzo, nel gestire il proprio tempo libero, forse può essere attratto nell’immediato più dal foot ball, da una moto, da un computer, da un/a compagno/a di classe. Vi auguro, non la droga (dallo spinello in su).

Ma un genitore che vuol essere avveduto educatore non si lascia ingannare da queste cose belle ma aleatorie, che non sempre offrono un gruppo sano di principi; e sa che il contatto diretto con la Natura, la vita all’aperto, la socializzazione un po’ rude, ed il rispetto delle regole saranno le radici da cui il figlio trarrà forza per essere responsabilmente solido nell’uso del computer, nello sport, negli studi, e anche con un/a ragazzo/a al fianco.

Le radici dello scoutismo sono eguali, in America, Africa, Asia  e… da per tutto; e gli scout di tutto il mondo quando si riuniscono sono tutti fratelli tra loro perché hanno gli stessi principi e la stessa legge. Molto dipende dal capo che c’è nel momento; ma il sistema è una garanzia educativa.

ALLEGATO 27 - C’era “A MAENN-A”  - due

L’utilizzo cantieristico della nostra spiaggia, fa apice ad un evento datato 27 luglio 1242: avendo i Pisani conquistato PortoVenere e posto in assedio  Levanto, Genova accorse in aiuto: prima di partire le navi genovesi fecero davanti alla nostra spiaggia un raduno di quanto era stato prodotto con celerità: 83 galee e numerose taride; il podestà di Genova fece rassegna davanti una moltitudine di folla acclamante e consegnò solennemente all’ammiraglio il gonfalone del san Giorgio protettore, da restituire solo dopo aver mantenuto fede all’onore della Repubblica.

   Da allora, sempre più attiva fu la cantieristica, anche ordinata – per qualità decisamente superiore - dall’estero come dal re di Francia che mirava andare a soggiogare la Sicilia; lo testimoniano numerosi atti notarili di compra e vendita di legname o di navigli vecchi e nuovi.

 Appare datata dicembre 1342 la consegna dalla nostra spiaggia di 15 galee armate, e messe al comando di Pietro Boccanegra.

   Durante il XV secolo, San Pier d’Arena è divenuto il maggiore centro operativo cantieristico di Genova, specie per navi di grandi dimensioni, sia private che della Repubblica (un cantiere era un modesto tratto di spiaggia con 10-15 lavoranti operai e maestri d’ascia. Basilari erano lo scaro (dal latino scharius, ovvero la struttura di base per sostenere il bastimento - da cui scalo, e da esso ancora, il toponimo ‘scalandrino’ alla zona della Coscia); un bigo per sollevare pesi ed una baracca-magazzino. Il vero problema era il rifornimento del legname da reperire prima nei boschi vicini della val Polcevera, ma poi, esauriti, andare verso il Sassello o addirittura in Corsica e Norvegia.

Il borgo offriva anche ospitalità alla manovalanza, incrementando così la residenzialità ed il così detto indotto: nel 1442 il doge arrivò ad ingiungere ai fornai locali di vendere, previo pagamento, 60 cantari di biscotti al nobile Domenico Doria, patrono di una galea, indipendentemente dagli impegni presi con qualsiasi altro ordinante.

Potenziale pericolo proveniente dalla spiaggia, erano le malattie infettive a bordo delle navi provenienti da lontano, la peste soprattutto, ma anche il colera, il tifo, ecc: ecco nascere da parte dell’Ufficiò Sanità le prime ordinanze mirate a preservarsi dai contagi: “nessuna persona di qualsiasi stato e dignità, abitante in ‘villis Sancti Petri Arene’ osi ricevere sulla spiaggia barche, leudi o altri navigli, della riviera occidentale, senza licenza del prefato Ufficio”

Ovvie le sfide tra marinai: risale al 1627 una sfida tra due imbarcazioni che “regattavano vicino alla spiaggia di San Pier d’Arena”. Erano un liuto e la feluca. Lo sappiamo perché la regata degenerò poi in rissa, per presunte scorrettezze del vincente. I due comandanti furono condannati dal Capitano di Polcevera a una multa di 15 lire; ma – essendo tutti poveri - ridotte a molto meno.  

   Datata 1637 l’immagine del borgo ripreso da Alessandro Baratta, disegnata per il re di Napoli, nel quale si legge “S.Piero d’Arena loco di delizie con bell.mi palazzi e giardini”. 

ALLEGATO  28 – medicina   I sogni

Mi piace parlare della psiche, anche perché è nella convinzione di tutti noi, della propria, di sapere tutto. Essa invece, è pressoché ancora tutta un mistero. Anche delle cose nostre, che crediamo conoscere bene. Tipica la frase “son mica matto”: i primi a dirla, erano i rinchiusi a Quarto.

Oggi, prendiamo ad esempio il sonno ed i sogni.

Gli antichi greci (2-3 mila anni fa) hanno fatto presto: han dato le sembianze umane a due dei, marito e moglie, lui Sonno e lei Notte; i quali assieme hanno avuto un figlio chiamato  Morfeo  portatore dei sogni nelle vesti di dio alato e un po’ ‘stundaio’; e sogni che sembrino veri, ma…. Così ecco: papà Sonno passa sopra un uomo che si distende, gli appesantisce le palpebre con i fiori del papavero (già allora conoscevano… i fiori…) e, per quello, tutto scompare nell’oblio dell’incoscienza; segue Morfeo bizzarro e fantasioso a ‘proiettargli un film’ rilassante.

Quindi tutto spiegato: tutto dipende dagli schiribizzi degli dei; semplice. Ma, se Sonno non passa; o se Morfeo si dimentica di seguirlo o proietta trillers? Peggio per il soggetto.

In questi  tremila anni  l’uomo ha fatto enormi progressi in medicina e chirurgia. Ma nella fisiologia della mente, molto poco; solo la fantasia ha lavorato molto, e dopo Morfeo ha creato significati di premonizione, simbolismi o interpretazioni collegabili con giochi e soldi; utili per scaramanzie e fregare i creduloni; ma nulla di serio.

L’Elettroencefalogramma ha evidenziato due fasi che si ripetono nel sonno ogni ora: una detta “pesante”, con profondo rilassamento muscolare; con  movimenti a scosse rapide degli occhi (detti REM, acronimo di Rapid Eyes Movement); con produzione di sogni - che sarebbero una rielaborazione fantasiosa di un tipo di vita possibile … agli altri  e dei quali ci accorgiamo per la presenza nell’EEG di una determinata attività cerebrale. Ed una, invece detta “leggero”, più vicina al risveglio in quanto, basta un minimo stimolo, per svegliarci.

Ma dopo ciò, in sostanza e più specificatamente sui sogni, si capisce ancora nulla. La loro illogicità, spesso lontana dalla propria etica e vita reale, ha avuto molti tentativi di spiegazioni, che vanno da quella freudiana di compensazione di desideri inconsci, a quella psicoanalitica dei simbolismi; ma nessuna soddisfacente a chiarire modalità e scopi.

Dicevamo, “ma quando gli dei Padre e Figlio si dimenticano di andare a trovare un poveraccio”? Nulla da fare: quello, nella veste di scalognato di turno, se ne dovrebbe stare lì, con gli occhioni ben aperti ad aspettare il mattino, rimuginando nel cervello i normali problemi, annaffiandoli con una buona dose di pessimismo ed ansia, le quali assieme crescono come un uovo sbattuto generando angoscia, incubi e - quando con gli occhi sempre più aperti, il cervello si rifiuta di rallentare  il lavoro, anzi, macina, macina, macina… diventa tortura.

La tortura dell’insonnia ha, in altissima percentuale dei casi, legame con l’emotività diurna; specie quando, compare nelle prime ore del mattino, ovvero quando finisce il sonno profondo che era stato favorito dalla stanchezza (e l’ansia funziona da ‘minimo stimolo’ su detto, che risveglia). L’uso, spesso smodato ed incontrollato, dei tranquillanti assunti per dormire, lo dimostra. Ma è bene precisare che questi farmaci assolutamente  NON FANNO dormire, ma solamente lo inducono, lo favoriscono, ovvero smorzano l’ansia che – come detto prima – fa da stimolo risvegliante. Essi infatti non agiscono sui centri nervosi che regolano la funzione del sonno-veglia, come invece fanno i barbiturici; ed altrimenti non sarebbero prescrivibili al mattino, quando è bene iniziare a prenderli. Ripeto, si limitano a diminuire la tensione dell’ansia, la quale è, spessissimo, la responsabile dell’insonnia. Riducendo la causa, il sonno verrà, ma non in virtù del farmaco che è andato ad agire in tutt’altro posto cerebrale, ma perché finalmente Morfeo fa fare sogni meno inquietanti. Il tranquillante è solo un utile ‘tapullo’; la vera causa è stata solo raggirata ma non eliminata; e domani sera sarà di nuovo lì.

Il bello è che mentre dormiamo, e non ‘partecipiamo’, alcuni organi del nostro corpo sono in piena e brillante attività: tanti ormoni (come il cortisone; ed il testosterone ‘colpevole’ delle erezioni notturne e polluzioni); il sistema immunitario che raggiunge il massimo; il sistema neurovegetativo cerca un assestamento funzionale (pulsazioni del cuore; pressione arteriosa; respiro e apnee notturne; elaborazione del cibo e eliminazione delle tossine, ecc.). Tutte queste funzioni, come le varie rotelle di un orologio che sembrano funzionare indipendenti ma in realtà mirate ad un unico scopo, spesso sono scombussolate dall’emotività, la quale – non più controllata dalla coscienza – tende a stringere i muscoli e fa scatenare spasmi, sia circolatori (crisi ipertensive, infarti ed ictus) che addominali (coliche e blocchi uretrali; quanti bambini nascono prevalentemente di notte! E classica la frase a carico di un moribondo: “se passerà la notte”…). 

Per finire, visto che il danno determinato dall’insonnia è superiore al danno del farmaco, per la legge “del male minore” si concede l’uso di una pillola. Ma per chi è saggio, oltre adottare le solite raccomandazioni e chiedere al medico il supporto farmacologico, è bene si proponga andare ad affrontare la causalità reale. Immagino la risposta: “andare da uno psicologo?… mica sono matto”! Naturalmente no, ma autolesionista si. Ed essere masochisti non è da matti; ma neanche da furbi.

ALLEGATO 29 – i confini

   Nei tempi antichi sono esistiti confini precisi solo con i paesi-città confinanti, a causa del dazio.

Ma nell’interno della nostra città di SPdA, e che io sappia, non sono mai stati tracciati confini rionali in modo netto, salvo quelli messi in atto nel periodo di servilismo alla Francia, quelli a livello parrocchiale col fine della benedizione delle case, ma non corrispondenti all’uso laico; e anche quelli postali, con CAP che ha il 16149 e 16151.   Nello scorrere del tempo recente, SPdA ha avuto sottratto la zona dalla autostrada alla metropolitana: per maggiori informazioni  storiche, si invia al sito internet: www.sanpierdarena.net ed all’articolo pubblicato sul Gazzettino Sampierdarenese n. 6 del 2009 a pag. 9, “Come eravamo”.

   Rispondiamo alla richiesta degli ‘attuali confini’, precisando che non del tutto corrispondono a quelli antichi in quanto basati più su una equa distribuzione numerica degli abitanti, anziché curarsi della natura, della storia, delle tradizioni, ecc. Invito gli interessati a munirsi di una cartina locale (da Tuttocittà per es.) e segnarsi il percorso sotto scritto: sarà un esercizio che rende più piacevole l’arido elenco delle strade.

  Attualmente il Comune di Genova è stato diviso (6 febbraio 2007) in nove Municipi; noi siamo il II-Municipio Genova Centro Ovest (ex circoscrizioni Sampierdarena + s.Teodoro).

Il  confine del Municipio II  passa seguendo queste linee: A OVEST, col Municipio VI MedioPonente; l’asse del torrente Polcevera, dalla foce sino all’altezza di via Campi.  A NORD col Municipio V Valpolcevera, segue la linea che dal centro del torrente segue la mezzaria di via Campi→ e di via Fillak (fino al lato a monte del viadotto autostradale) → prosegue fino incrociare salita Bersezio prima che essa sottopassi l’autostrada e, subito dopo il sottopasso, in linea diretta→ sino al fianco nord del forte Crocetta  (che così è incluso)→con ampio semicerchio e gobba a ponente il confine arriva alle mura di san Teodoro, in via B.Bianco→Mura di Granarolo. A EST confina con I Centro Est lungo la salita Granarolo→asse tranvia Principe-Granarolo→via del Lagaccio (esclusa) →piazza del Principe (sino al civ.4)→Mura degli Zingari (sino alla cinta portuale). A SUD con la cinta portuale.

    Il territorio di competenza municipale è a sua volta suddiviso in  sette Unità Urbanistiche, delle quali cinque relative all’ex circoscrizione Sampierdarena. In particolare, da nord verso sud:

UU 24 =  Campasso: OVEST= la mezzaria del torrente; a NORD il confine del Municipio sino a forte Crocetta incluso; a EST salita al FCrocetta  (che rimane incluso)→corso Belvedere (fino al Santuario); a SUD mezzaria delle via Pieragostini→ Spataro→Agnese→Currò→civ.3 di via Marabotto→inserimento in salita Millelire sino al Santuario.

UU 25 =  san Gaetano: NORD OVEST quelli della UU 24. EST= Santuario→salita Belvedere→Cso Martinetti fino a via Cantore; SUD da largo Jursè→Degola→Scaniglia→Cantore (fino a DChiesa). 

UU 26 = Sampierdarena: a SUD via Milano→lungomare Canepa sino al Torrente; a NORD via Pieragosini→Degola→Scaniglia→Cantore→Damiano Chiesa→Palazzo dFortezza→via di Francia→Elicoidale (inclusa)

UU 27 = Belvedere  a SUD via Cantore; OVEST Cso Martinetti→sal Belvedere→Santuario→corso Belvedere→sal Forte Crocetta; a NORD Bersezio→Martinetti→Promontorio; EST→Derchi→Fanti →Scassi→GBBotteri →Pittaluga (sino a via Cantore)

UU 28 = san Bartolomeo: NORD-EST= le mura=confine del Municipio= costeggiando a ponente la via al forte Tenaglia, sino all’ingresso (così il forte è incluso)→da lì segue il lato ovest della via Mura di Porta Murata (escluse) →facciata di ponente della porta degli Angeli→in linea sino alla Lanterna; a OVEST sal ForteCrocetta→Bersezio→Martinetti→via Promontorio→Derchi→Fanti→ Pittaluga→ DChiesa →PalazzoFortezza; a SUD via di Francia

   Non conosco la separazione tra UU 29 = Angeli  e  UU 30 = san Teodoro.

ALLEGATO 30   San Pê d’Ænn-a comme a l’ea =  Quando avevamo “a mænn-a”  = 3° puntata

   Nel lontano 1700, la nostra lunga spiaggia era ancora poco utilizzata: tutta la vita nel paese era, per la maggioranza del popolo, scandita da tempi di tipo agreste, legata alle ore diurne, mirata alla salvaguardia dei beni immediati ottenuti tramite lavoro pressoché sempre fisicamente pesante e logorante, senza prospettive future di assistenza o pensione; solo intervalli settimanali di religiosità e – oggi lo definiremmo - folklore.

  Un chilometro di ‘vero lungomare’, intramezzato da qualche cantiere navale per imbarcazioni di medio tonnellaggio (più famoso costruttore locale fu Francesco Casanova, attivo a cavallo col secolo seguente; con relativo indotto di maestri d’ascia, falegnami, calafati, ecc.); e da alcune barche: al mattino  di proprietà dei minolli che caricavano sabbia da rivendere in porto per zavorra; nel pomeriggio dei pescatori, tirate a secco o pronte per essere utilizzate nel pomeriggio per gettare le reti.

   La moda dei bagni è ancora lontana; nel settecento ci si lavava poco, e buona parte dei marinai neanche sapeva nuotare (oltre essere pressoché tutti analfabeti, la loro nascita era registrata in chiesa ma nessuno era conosciuto col proprio nome quanto  con astrusi – ed a volte molto pesanti - soprannomi).

   Il mercato del pesce non era prevalente nella alimentazione locale, preferendosi – chi poteva permetterselo - carni da cortile, o ovine e bovine; era comunque regolato da leggi precise e severamente fatte rispettare (tra esse, per esempio, fornitura quotidiana – salvo le giornate di libeccio o scirocco con mare molto mosso - di pescato fresco e pregiato, a prezzi stralciati, per il Governatore della Polcevera, suoi cortigiani e loro famigli; e portato al loro domicilio anche se abitavano a Rivarolo).

   Nel complesso, a mænn-a era poco frequentata ed usata, anche se numerosi navigli arrivavano giornalmente vicino alle scogliere della Coscia e della Cella, usandole come pontili per carico e scarico di merce. Sia la riva – rapidamente scoscesa – sia gli scogli sufficientemente verticali – concedevano alle navi di attraccare molto vicino ad esse. La quantità di mercato, in continuo crescendo, costrinse il Deputato del Porto di Genova, di erigere una sede distaccata dal porto principale, con funzioni sia sanitarie che doganali. Le barche, di medio tonnellaggio (30-50 t.) trasportavano, generalmente veleggiando sottocosta dalle riviere, ma anche dalla Sardegna o Corsica – passeggeri in viaggio, e merci (botti di vino o olio, grano, sale, lavagna, derrate varie) che erano indirizzate verso l’Oltregiogo. Tra le imbarcazioni, frequenti erano quelle del tipo chiamato ‘bovi’, dalle quali potrebbe essere nato il nome della strada “crosa de’ bovi” (così è citata nelle carte dell’epoca, e quindi nulla a che fare con l’attuale interpretazione ‘dei buoi’, la quale peraltro non ha mai trovato giustificazioni intelligenti).

   Il mare, se calmo, lambiva  e si infrangeva dove oggi  scorre Lungomare Canepa. Se invece c‘era mareggiata, superava quel limite e poteva arrivare alle case poste solo a monte dell’attuale via San Pier d’Arena, creando così gravi danni ad esse e sia alla strada antistante (a stradda de-a mænn-a, che era assai stretta ed angusta, sulla quale si verificano spesso scontri di carrozze e che comunque in giornate simili le vaste pozzanghere impedivano sia il trasporto mercantile che il transito delle carrozze dei nobili in movimento dalle sontuose ville poste prevalentemente sulla strada Centrale (via N.Daste).

 

ALLEGATO 31 Targa di Pza Montano  Poveri i genitori che hanno figli stupidi, come quelli che – credendosi bravi (di manzoniana memoria) – si son dati a lordare sia la targa della piazza, sia il nome della squadra avversaria che invece va onorata.

Due considerazioni: una, sportiva di tipo autogol: gli stupidi non si rendono conto che denigrare i cugini, svilisce il vincerli nei derby (perché un conto è vincere una grande squadra, un conto... se fosse come loro pensano); e peggio ancora se si perde. Seconda (che vale anche per chi imbratta gli ascensori, sottopassi, ecc. vilmente avvantaggiandosi della solitudine, e pensa lui anche dell’anonimato): lo stupido sappia che uno che sa e che lo conosce c’è, ed è lui stesso: quando si guarda allo specchio, l’immagine che vede se gli dice “sei uno stupido” vuol dire che stupido è; e se lui sente niente, sappia che è solo ‘stupido sordo’ ma sempre stupido.

Allegato 32 -  Le Associazioni – Spirituals&Song

Il massimo della gioia, nella musica, si esprime nei canti popolari: perché, in genere, non è solo ‘ascolto e piacere’, ma anche ‘partecipazione’;  la gente presente, intimamente esteriorizza la voglia di vivere e di godersi la vita tutti insieme e malgrado tutto.

Folk proviene appunto da folklore, ovvero popolare  (l’inglesismo lo perdoniamo, riferendosi il nostro Gruppo soprattutto alla musica leggera anglosassone); ed è rappresentato da canti e suoni – ispirati e prodotti  - dalle più disparate comunità  che si formano nel mondo: dai negri di Harlem con il loro gospel, ai cow boys; dai brani pop più moderni, a quelli

famosi di autori celebri. Elemento comune a tutti questi gruppi, sono l’espressione ed il messaggio di spiritualità, pace, libertà, fraternità e – come dicevamo sopra – gioia di vivere insieme: tutti sentimenti che servono a mantenere fratellanza corale, e tutti assieme combattere le brutalità del mondo.

Ovvio che i maestri, nella loro fantasia e produttività di armonizzazione ed arrangiamenti, fanno spaziare i singoli gruppi con personalità specifica, nei temi proposti internazionalmente. Ed è così che  il Gruppo S&F ha curato il proprio repertorio – con alla guida il compianto direttore Guido Ferrevoux, scomparso recentemente per neoplasia avanzata; e continua a proporlo, per rinverdire la sua memoria e continuare i successi di pubblico e di  produzione  (CD e concerti).

Il maestro Ferrevoux ci ha lasciato dopo aver combattuto strenuamente e con la tenacia che gli era solita, cercando sino all’ultimo di essere partecipe della sua creatura: il coro S&F creato nel 1994 e portato di successo in successo - con la collaborazione di altrettanto convinti orchestrali e voci - sia allargando sempre più il repertorio  e sia arricchendolo con originali arrangiamenti. E ci teneva a sottolineare che il gruppo era di San Pier d’Arena. A noi sampierdarenesi il compito di memorizzare le date dei loro concerti e, per chi si sente affine nel cantare, iscriversi per partecipare, onde contraccambiare idealmente ed al meglio questo suo attaccamento alle “radici”.

Loro impegno annuale è il Concorso Canoro “Liguria Selection” appena concluso a fine ottobre; e prossimo, un concerto di beneficenza a favore dell'AIRC, venerdì 26 novembre ore 20,30, presso la loro sede, di fronte alla caserma dei Vigili del Fuoco.

Gruppo Corale e Strumentale Spirituals & Folk – sede in via A.Albertazzi, 3 -  tel 010.412.887;  costantino.perazzo@teletu.it – 338.3244.554.

 

Allegato 33 – a Mænn-a  4° puntata=

Per tutto il 1800, la nostra spiaggia rimase immutatamente bella, solitaria e quindi pulita, vissuta solo dagli ultimi pescatori e minolli, e dai pochi nostalgici patiti del mare, come successe a Salgari, nei due anni a fine secolo che visse a SPdArena.

   Agli inizi del secolo la vita scorre gramma per tutte le vicissitudini a cui ci sottoponevano i francesi ed i loro sostenitori – portatori della nuova ventata frutto della Rivoluzione - di libertà, eguaglianza e... (a modo loro) fraternità.

Gli austriaci – asseragliati a Cornigliano-Coronata e Rivarolo incombono e assediano Genova; San Pierd’Arena posta nel mezzo, è tipica “terra di nessuno e di tutti” e per ultimo verrà attraversata da Massena quando andrà a firmare la resa sul ponte di Cornigliano. Il già illustre medico Onofrio Scassi compera la villa “la Bellezza” col parco; ma deve prima ristrutturarla. Il 14 luglio 1809 nella mattinata, da una feluca sbarcò sulla spiaggia papa PioVII, prigioniero dei francesi e inviato in esilio; appena sceso, fu portato via, senza subire sosta e senza che nessuno sapesse, con meta Fontainebleu. Abdicato Napoleone, il 6 apr.1814 il Papa ripassò per tornare a Roma, ma stavolta trionfalmente: per il borgo, su carrozza a sei cavalli, fu salutato da colpi di cannone a salve, dalla gente festante riversata sulla strada che portava alla porta della Lanterna, e dalle case fiori e drappi, arazzi e tappeti.

   In alcune carte del periodo napoleonico, la ‘grande strada della Marina’, diviene genericamente parte della “ Route Impériale, de Paris à Rome” .

  Così, riguardanti a stradda de-a mænn-a (quella che oggi è via san Pier d’Arena; essendo mare dove oggi scorre Lungomare Canepa), grossa novità risultano un proclama “…desideroso l’ultimo governo genovese di conservare la nuova comunicazione che dalla sortita della porta della Lanterna si estende lungo la spiaggia di San Pier d’Arena, aperta dal governo nell’estate 1813, ma che dalle burrasche di mare è stata sensibilmente danneggiata, in specie nel muro di sostegno...” che avvisa i cittadini abitanti sul tracciato che dovranno “concorrere alla spesa di ristorare ed accomodare la strada del borgo resasi impraticabile”; e una supplica affinché venga accomodato un piccolo ponte sul torrente san Bartolomeo, ancora allo scoperto, “rovinato in modo da potersi temere qualche grave disordine e pregiudicio de viandanti”.

   Ma tosto, alla gloriosa Repubblica, nel 1815, succedono – sgraditissimi - i Savoia; le nuove amministrazioni fanno i salti mortali per ingraziarseli; solo a metà secolo riusciranno a intitolare la nuova strada interna - dalla Lanterna, via Buranello e tutta via Fillak - a Vittorio Emanuele II.

Ciò malgrado però, nel 1820 in agosto, la popolazione viene avvertita che alla Marina, “alle 8 di mattina transiterà Sua Maestà il Re colla sua Augusta Famiglia”, per andare a risiedere nel palazzo di via Balbi; i cittadini sono pregati di bagnare la terra della strada perché non si sollevi polvere.

  Prima della metà secolo, con autorizzazione del reale Demanio sulla piaggia si innalzano il Nuovo Teatro dedicato ad Adelaide Ristori, e più tardi il Palazzo del Sale e delle abitazioni che delimiteranno  la strada – sempre in terra battuta -  la quale verrà titolata a Cristoforo Colombo

 Con l’officina dei Balleydier del 1843 circa, inizia l’era industriale. Da allora, ci sarebbe ancora da descrivere un’altra epoca, quella ‘dei bagni’ che si completerà con la realizzazione del porto e la “scomparsa del mare” in epoca fascista; ma essa è già stata raccontata nel numero di settembre del 2008 a pagina 9.

 

Allegato 34    Brr... che freddo che fa

Mi è stato chiesto di parlarne; ed io provo a dire qualcosa su un tema dove ognuno di noi, per esperienza diretta, sa di poter dire il suo ferrato parere. Iniziamo con quello che tutti già sappiamo, come il banale: quando fa freddo, bisogna coprirsi; e poi chiedendoci perché il Padreterno quando ha fatto Adamo, non l’ha fatto più adattabile (come i cani, per esempio)? Forse nell’Eden non ce ne era bisogno; e neppure in Africa dove sono stati trovati i primi reperti di umanoidi; ma più probabile per un concetto di base al quale è legata tutta la Natura: una “media re”, ovvero una situazione di mezzo, tra due eccessi estremi ai lati. Ovvero, troppo freddo porta ad una ipotermia che può arrivare ad essere letale; nel caso opposto porta ad ustioni, da banali rossori a profonde necrosi altrettanto letali.  Nel ‘media re’ della Natura, vanno distinti due aspetti. Dapprima, la temperatura esterna: che quando si abbassa, determina un calo della temperatura corporea contro la quale, all’inizio, il Sistema euroVegetativo reagisce rallentando tutti gli sprechi energetici e manifestandosi con brividi e “pelle d’oca”; ma quando questa regolazione non basta più, subentrano progressivamente i sintomi da carente irrorazione ed ipoossigenazione dei vari organi fondamentali (torpore mentale, riduzione del ritmo cardiaco e irrigidimento muscolare - specie quelli che invece,  come il cuore, i vasi ed i muscoli pettorali, ‘debbono’ muoversi)  fino alla cancrena ed all’assideramento.

Secondo aspetto, la temperatura interna dell’organismo che – al termometro sottoascellare, di base, registra  valori oscillanti tra 35,5°C notturni, quando l’organismo lavorando al minimo produce poco calore, e 37°C di quando, con il movimento, ne produce di più; ovvio che se il lavoro aumenta, anche il calore aumenta: un impegno faticoso può portare ad una corrispondente febbricola, fisiologica, valutata tra i 37  e 37,7°C, e più.

Il freddo è pure anestetico sui filamenti nervosi: ciò contribuisce nel suo piccolo a insensibilizzare le parti periferiche e quelle cutanee in genere.

Il perché di queste reazioni, è spiegato dalla fisiologia: al freddo ambientale, il nostro Sistema NeuroVegetativo fa ‘stringere’ i muscoli lisci: dei capillari cutanei con vasocostrizione; ma anche dello stomaco (perché non fare il bagno dopo mangiato!), intestino, vescica, ecc.) al fine di evitare la dispersione cutanea del calore, dando precedenza al mantenere costante la temperatura interna. È quindi il SNV, quello che pone le prime difese di allarme ma anche e soprattutto di adattamento. E qui nasce il problema: questo SNV, se nasce uguale per tutti, cambia poi nel tempo in rapporto a come sono vissute le esperienze. Pertanto esso è più flessibile  in chi è stato allenato: come tutti gli organi (i muscoli per gli atleti, il fiato per un sub, ecc). le capacità di sopportazione  ed adattamento aumentano con l’esercizio fino agli estremi di Rambo: un bimbo imbacuccato, incappellato, ‘sciarpato’ collo bocca naso orecchie, o si ribellerà (speriamo!) all’ansia dei ‘grandi’ o rimarrà un pavido di fronte ai minimi sbalzi termici. Altrettanto le popolazioni del nord,  che fanno bagni nell’acqua col ghiaccio (adottando le opportune contromisure): ne è testimonianza la retorica figura del vichingo, a torso nudo durante una tempesta di neve. Più tipico è il raffreddore di naso (rinite vasomotoria; nulla a che fare con quella allergica): il vento, il freddo (anche dell’aria condizionata) stringono i capillari della mucosa.Poi, sia il ritorno al caldo che l’adattamento, determinano una  vasodilatazione di rimbalzo, con trasudazione di siero (biancastro) ma facilmente infettabile (giallastro).  Per chi respira a bocca aperta, il corrispondente è la laringite (mal di gola). Nello spicciolo, avviene così pure per i fumatori, e gli ansiosi: nicotina, aria secca (auto) ed emotività (e quindi la tensione, lo stress in genere) stringono;  così questi soggetti diventano più sensibili al naturale già stringere del freddo.

Diventa un po’ come dire: “dai pure la colpa al freddo, ma te la stai volendo...”.  

 

Allegato 35    San Pê d’Ænn-a comme a l’èa:  a Mænn-a ( 5a puntata-ultima).

Quando si perde qualcosa, nella nostra mente il valore si triplica ed emergono motivazioni sentimentali che prima non si consideravano. Praticamente mai, nei secoli la nostra spiaggia, a mænn-a, è descritta per il suo valore estetico o naturalistico: si dava per scontato. Ora che manca, pesa l’assenza di questo rapporto col mare. Infatti, per secoli la spiaggia fu vista e praticata solo nell’ottica produttiva: iniziando con imbarcazioni per traffico giornaliero di merci varie - olio, sale, vino, spezie, ecc. - ma anche  per i pescatori, i minolli, i cantieri navali (dei vari Casanova, Torriani, MacLaren e Ansaldo); per arrivare ad imprese di più ampio respiro: dalle crociate alle guerre con altre potenze (Pisa e Venezia)  dai pirati barbareschi ai vari bombardamenti di nazioni ostili. Il mare; come altrove la terra.

Con il  subentrare dell’ottica industriale, da metà del 1800, la spiaggia entra in agonia:  subdolamente come invasa da un cancro – perché la tenacia di esso nel voler vincere, lo porta alla morte dell’ospite ma anche di se stesso –; e finisce per essere cancellata totalmente. Ed ora ce ne lagniamo inutilmente, mentre l’occhio avido dei soliti pochi, a spese di tanti, i quali insensibilmente ancor oggi riempirebbero anche davanti a Pegli, Voltri ed oltre.

Della nostra ‘mænn-a’  in termini di sfruttamento estetico, ci rimane quindi memoria solo del suo ultimo periodo: quello balneare. Nei tempi precedenti, viene ricordato solo il duca di Mantova che nel 1500 era ospitato nel palazzo della Fortezza per usufruire del clima e forse delle sabbiature (ma sopratutto... per soldi dai banchieri genovesi); ma non dei bagni, perché a quei tempi e per quattro secoli ancor dopo, si lavavano assai poco (mancava il sapone; in genovese ‘savon’ perché nato e prodotto nella vicina Savona) e il problema delle pulci e pidocchi è subentrato dopo, considerato che moltissimi neanche sapevano nuotare; è gustoso ricordare una  rara eccezione che viene evidenziata da una ordinanza municipale del 1798, quando si trovò necessario vietare “bagnarsi nella vicina spiaggia senza mutande prima delle ore 24, sotto la pena comminata di tre giorni di arresti”.

Scrivevamo, iniziarono a fiorire a fine 1800, gli stabilimenti balneari: la scienza scopriva i benefici del sole (con la vitamina D  sul metabolismo osseo: rachitismo, gobbe, fragilità; il futuro re d’Italia - poi Vittorio Emanuele III -  era tra i “piccoli” che...  non crescevano bene); dello iodio sullo psichismo in genere; del bisogno di relax estivo come rigeneratore dallo stress. Calarono dai paesi del nord con la scusante di cultura,  e dal nord-ovest d’Italia, frotte di turisti a beneficiare della nostra spiaggia.

Iniziarono i Bagni Margherita, nell’angolo della Coscia, con ingresso da via DeMarini-largo Lanterna; per progredire riempiendo tutto il chilometro di spiaggia, più o meno eleganti e sofisticati, inizialmente selezionando femmine di qua e maschi di là, con cabine, trampolino, boa trattenuta dalla famosa corda alla quale stavano attaccati tutti i novizi. Moltissimi gli analfabeti ancora, e  tanti bevevano tranquillamente anche gli  escherichia coli, non essendoci ancora tubature di acque nere selezionatrici;  ma evidentemente  - a parte qualche crisi di colera e di tifo – i benefici superavano quelli negativi. Quindi il turismo ‘tirava’, e con essi lo sport della vela e canottaggio,  il teatro Modena e vari ristoranti e trattorie (Giunsella, la Gina del Campasso in primis; ed il Toro) e bar (come lo Splendor, il Roma, l’Elvetico tanto ricchi di storia, alcuni tutt’ora esistenti ma con nomi moderni tanto esotici quanto banali).

Ed ai primi seguirono i bagni Italia (davanti a villa Gardino); Stella poi Liguria (dalla palazzina Bertorello); i Roma (all’altezza di via Gioberti); i Savoia e Colombo (da piazzetta dei Minolli); i Bertorello (Municipio); i Bozano o Genova (dal baraccone del Sale); i  Vittoria (dalla crosa dei Buoi); del Bello (all’altezza di via Molteni).

E infine, il cemento. Prima tanti poveri e pochi ricchi; adesso, tanti poveri e senza mare. Belin che goâgno... da bìcci!.

Tutti i bagni già descritti, nel n.8/2008, pag.9 del Gazzettino.

Allegato 36        Sampierdarenese Ginnastica

Nel portagioie di casa sua, anche l’Assessore allo Sport avrà oggettini, non usati tutti i giorni ma suoi simboli d’identità: i pendin della nonna, una medaglietta d’oro per una gara vinta, l’orologio del nonno.

Ecco, pe noiatri de San Pê d’Ænn-a,  la società Comunale Ginnastica Sampierdarenese è un fiore all’occhiello di quel tipo, associato a tanta, tanta vitale tenerezza per il bene che ha portato alla città. Sicuramente oggi i ragazzi saranno attratti da sport più popolari, sicuramente di maggiore visibilità e minore fatica; e riconosciamo che occhio privilegiato dei politici deve - sempre  sicuramente - essere orientato più verso ‘la massa’ che verso l’élite di pochi;  ma i pochi resteranno tali, se gli stessi politici non li agevolano almeno nelle necessità prime della loro singolare fatica. Per esempio, la Sampierdarenese ha bisogno di una palestra propria, ove poter allenarsi secondo le necessità delle allieve e insegnanti. E a prezzo d’affitto, da non soffocare una società che riesce a vincere a livello regionale e nazionale, in virtù di istruttrici volontarie di alto pregio  e di atleti dalla volontà di ferro.

Da una costola dell’Universale di via Carzino, il lontano 6 giugno 1891 (ben prima del Genoa) nacque la Società Sportiva Sampierdarenese; poi autonoma, poi comunale. Scelti i colori sociali (bianco e celeste), fu solo la tenacia dei primi atleti che riuscì a far sopravvivere la società, avversata – non tutto cambia nel tempo – dall’assenza di una degna palestra (dalla iniziale  mænn-a  al Campo d’Armi, dalla prima palestra nel 1919 dedicata Dante Gaetano Storace alla attuale del 1968 in obbligata e sconsolante condivisione, per la quale occorre non montare attrezzi fissi (anelli) e ogni giorno montare e smontare le attrezzature); alle risorse economiche (ancor oggi girano pochi soldi attorno a questo sport; ma forse proprio per questo, è ancora  pulito); al numero degli atleti (essendo di fatica, è da umili ma forti autodisciplinati, con genitori eroi convinti e che seguono i figli: il contrario di quello che il mondo d’oggi offre, facile, ai giovani).

La stessa tenacia portò Pavanello alla prima Olimpiade del 1900, e pressoché continua presenza di atleti nelle altre successive, con due ori ed un argento ad Anversa nel 1920 e un oro ad Amsterdam nel 1928. Ancora nel 1979 la società era prima in Liguria e, quindicesima in Italia su 240.

Ancor oggi, malgrado il constatare il continuo ridursi di iscritti soprattutto maschi, non essendo di moda e da grande fratello fare  fatica, abbiamo valenti insegnanti in Stefania Villani, Veronica Scarlini e Marina Pontieri, che hanno portato al podio più alto nel campionato regionale le promettenti campioncine  Giada Pigliaru e Martina Armenia  ed al  settimo posto - risalendo in classifica numerose posizioni – le bimbe Irene Molinari, Martina Ravera, Marzia Bosi e Laila Attia Saad, tutte al primo anno di gare.

Non si possono allenare le giovani a compiere i salti mortali necessari per anche solo piazzarsi alle gare, senza gli opportuni spazi, le opportune attrezzature, ed il reiterare gli esercizi sino al massimo ottenibile della perfezione ed al minimo del rischio della incolumità.

Forse, potrebbe essere da incentivo andare a vedere il migliaio di coppe, medaglie, premi e riconoscimenti che riempiono le pareti della direzione;  ma, se c’è la volontà, non servono molte parole, e neanche soldi.

E i genitori che vogliono essere tali, ne prendano atto.  (cambiato il finale per inserimento di notizia)

 

 

 

ALLEGATO 37    =  associazioni : Progetto 80

Quasi trent’anni fa, un gruppo di cittadini sensibili ed attivi (tra i quali tutti ricordano i compianti Anna Veronese ed Andrea Vegliò), recepì il bisogno di aiutare altre persone, in particolare quelle invalidate motoriamente e quindi relegate su una carrozzella e  - allora - immobilizzate in casa e con enormi difficoltà qualora avessero bisogno di trasporto, sia per esami, visite, documenti, lavoro e – perché no? – un po’ di svago, perfino verso i luoghi di vacanza.

Una carrozzina non entra in macchina; forse, piegandola entra nel bagagliaio di auto di più grossa cilindrata e solo se il portatore di handicap può essere facilmente rimosso e messo di peso nell’abitacolo; ma non sempre è così facile, e comunque spesso è assolutamente impossibilitato a farlo da solo. Altrettanto i mezzi pubblici: dovrebbero avere un elevatore capace di alzare la carrozzina a livello del pianale: in certi bus c’è il posto per ospitarle, ma non ne ho mai vista una inserita nel posto riservato (assomiglia alla novella della volpe e della cicogna, di Esopo: il felino che ha offerto all’altra da mangiare in un piattino pur sapendo che quella, col becco lungo, sarebbe stata in difficoltà; e l’altra che poi contraccambia offrendo il cibo in un recipiente alto e stretto con ovvio insuccesso della volpe; ovvero ti offro un servizio – e quindi agli occhi degli altri ‘guardate come sono bravo e sensibile’ - ma senza il corredo che in pratica lo renda  usufruibile-. Come un assegno a vuoto. Il triste è che la novella è stata scritta duemilacinquecento anni fa).

Insomma, chi è invalidato, oltre al grave disagio della malattia deve subire la mortificazione e l’imbarazzo di chiedere e dipendere, sapendo di mettere in grosse difficoltà anche il più volenteroso; il quale, per seguire il mondo di oggi, deve ossessivamente correre in avanti, verso... nessuno sa dove. Risultato sarebbe che se ne stia chiuso in casa e ...

E invece, dopo soli pochi anni di vita, l’associazione completava oltre 400 trasporti e promuoveva il trofeo sport per disabili, che ora fa parte delle paraolimpiadi e che vede nella compagine attuale anche campioni mondiali.

Progetto 80 nacque nel 1982; occupa un appartamento piano terra al civico 8A di via C.Rolando, è onlus; si organizza: - con soci che versano una quota annuale (trenta euro; CCP 12540167; o CCB al s.Paolo); con volontari accompagnatori ed autisti (patente B) che pilotano gli automezzi attrezzati; con iniziative multiple (oblazioni fiscalmente detraibili, gite sociali, promozioni varie. Nel solo trimestre finale di quest’anno, hanno partecipato: alla festa del Campasso; castagnata a villa Scassi; festa del cioccolato a villa Bombrini; musica benefica al Tempietto; festa e lotteria di Natale).

Ecco, in questo angolo di via Rolando, il vero volto sociale di San Pier d’Arena: malgrado enormi difficoltà, Progetto 80 continua in silenzio ma caparbiamente, il lavoro sociale di Carlo Rota e Valentino Armirotti: aiutare gli altri, i più deboli, servire.

Alé dis/inoccupati o pensionati e non, maschi e femmine, ragazzi volenterosi: ecco un impegno altamente nobile e gratificante: offrirsi disinteressati e diventare attivi.

ALLEGATO 38  =  Pandolce genovese, ovvero “o  pandôçe zenéize

Le tradizioni vorrebbe continuità e ripetitività di azioni; invece il mondo è un contino evolvere se non addirittura stravolgere. Ovvio che occorre mediare: non irrigidirsi nelle usanze ma anche non abbandonare tutto al nulla. Ma, un limite lo poniamo, specie in questa epoca di strombazzature mediatiche  e di globalizzazione, che fanno perdere la voglia del nostro per andare a cercare l’esotico. Ribadiamo che, quello genovese si chiama pan dolce; panettone o pandoro sono parole foreste (prevalentemente lombardovenete).

Nicolò Bacigalupo, del pranzo di Natale (in genovese, il Natale si chiama Dênâ, contrazione da ‘della nascita’), scrisse nel 1901 - e rifacendosi ai costumi dei nonni dei nonni: «...il  dolce  è ad libitum... (ovvero) secondo i gusti; (ma) la regola esplicita, formale, vuole il caratteristico pandolce di Natale, di forme mastodontiche perché soddisfi l’occhio, con il ramo d’alloro piantato sulla sommità. A questo punto non si deroga, e il capo famiglia,  per sacro ed inviolabile suo privilegio, prende l’arma del sacrificio, e subito si mette a farne tante fette, con tutta serietà. Pandolce dunque...». Ma qualcun altro fa fare il primo ‘colpo di coltello’ (magari guidato da mano esperta... o al limite togliere l’alloro) al giovincello di famiglia, per simboleggiare il ripetersi nel futuro. E via così!

E la ricetta vuole: 1 kg. di farina; 250 gr. di burro; ½ bicchiere di marsala secco; 50 gr. di acqua di fiori d’arancio; 300 gr. di zucchero; 50 gr. di semi di finocchio; 100 gr. di pinoli (di Pisa....); 400 gr. di uvetta (zebibbo); 50 gr. di cedro candito; latte tiepido quanto basta per sciogliere 50 gr. di lievito di birra e tenere umido l’insieme per lavorarlo. Dopo aver impastato ben bene il tutto, ‘dimenandolo’ ben bene (una oretta), dargli forma, posarlo in un tegame adatto spolverandolo di farina, ed infine fasciarlo - per tenerlo due orette a lievitare in posto tiepido – incidere la sommità con tre tagli a triangolo e metterlo a cuocere per circa un’ora ad almeno 250 °C. 

Il moderno concede il lievito in bustine al posto dell’antica crescenza: esso permette far prima, non occorrendo la lievitazione; alcuni mettono un pizzico di sale; altri due uova per un chilo di farina; l’acqua d’arancio fatta in casa con scorza a bollire e rum.  E poiché in porto arrivavano spezie a non finire (l’uvetta detta zebibbo proveniva dalla Calabria o  da Pantelleria;  ma quella sultanina addirittura da Smirne o da Corinto) così che varianti, erano concesse alla fantasia ma anche a quello che arrivava; ma il classico è classico, anche nel pandolce.

Di quelli venduti già fatti, attenti, specie quando costano poco..., alle sofisticazioni ed ingredienti fasulli (margarine al posto del burro; zucca candita al posto del cedro; uvetta con semini al posto di quella di Corinto o di Smirne senza semi; pinoli cinesi senza gusto; moscato col bastone; sostanze grasse non naturali, al fine di mantenerne la morbidezza anche dopo mesi). Anche qui, la fantasia di certi pasticcieri  non ha confine, se non che tutto fa iperimpegnare il fegato, il quale – ricordatelo ai sindacati - ferie e feste natalizie non ne fa: lavora sempre.

ALLEGATO 39 = BIANCO NATALE

Nel cantare le tante canzoni natalizie, i più vecchi  d’età non possono non ricordare Bing Crosby cantare White Christmas. White, che vuol dire bianco, subito ci fa riferimento alla neve ed alla suggestione del Natale in montagna, nel silenzio meditativo, nel simbolo del pulito che ha coperto tutti gli sterpi e rovi, con ovvio riferimento all’animo ed ai sentimenti.

Quindi, è il bianco il vero colore del Natale; bianco è il sentimento dei buoni; la coscienza degli onesti; la luce del sole che ci fa vedere; la prima bandiera della resa e non belligeranza; la testa canuta dei nonni, rappresentanti della saggezza e delle tradizioni; ...il camice dei medici (esiste il lupo, che si mette il mantello di Cappuccetto rosso per ingannare la nonna! ma il simbolo dell’ideale altruistico è quello). Mille altri significati ha il bianco, non descritti perché non attinenti.

Le corte giornate invernali ci portano a stare di più in casa, dove ognuno cerca di ricreare con i migliori tocchi che la fantasia gli dona, la magia  stessa di quel giorno. Così, se fuori di bianco c’è la neve, in casa questo colore può essere riproposto con gli addobbi: da quelli dell’albero, alla tovaglia, dalle candele ai fiori.

A proposito di fiori, basta andare dal rivenditore di fiducia e farsi consigliare – anche per regalo - tra i tanti che, ormai cresciuti in serre, non sono neanche di stagione: dalle stelle di Natale ai ciclamini, dai crisantemi alle ortensie, dalle margherite alle azalee, dalle rose a ... andate a vedere.

Il bianco sta bene col verde, quello intenso delle piante sempreverdi come l’elleboro (con fiori bianchi; simbolo di resistenza);  il vischio (tradizionale baciarsi sotto un rametto: essendo pianta ‘appiccicaticcia e avvinghiante’, è simbolo di comportamento che, in amore, è stuzzicante e non guasta); l’agrifoglio (tradizionale fin dai tempi dei romani, quale pianta augurale capace con le punte di tenere lontano i malefici).

E sul bianco, oltre il verde spicca il rosso, quello dell’abito di Babbo Natale; ma allora si esce dal tema.

ALLEGATO 40 = NATALE È AMARE

È d’uopo,  a Natale, parlare di Amore. Quello con la A maiuscola, che viene dal cuore perché facente parte della personalità di ognuno e perché esprime un forte senso di ‘dare’; infatti è sentimento nobile quando è unidirezionale: verso gli altri. Non è un prettamente umano; ma mentre negli animali – salvo rare eccezioni - prevale l’amore minuscolo, nell’uomo - ingranandosi in forma stretta con la ragione e con la volontà - forma una lega molto forte e più inscindibile. Così, l’uomo è capace di Amare in diversa misura e differente classifica: diverso quello verso i figli, da quello verso il/la compagno di vita, i genitori, il prossimo, i parenti; e la ragione serve a distinguerlo da quello con la minuscola, la quale però ormai  si proferisce con la semplicità dello svenduto, nei rapporti interpersonali raso terra e usa-e-getta’ come purtroppo anche nei matrimoni e reazioni parentali strette.

Il Natale, dicevamo, è tipico ‘insegnamento’ – specie ai bambini - di Amore.

Inizia con la preparazione: del presepio.  Anche l’albero esprime gioia e desiderio di festa: con colori, abbondanza e doni; ma è un messaggio di bene generico e laico, molto meno personalizzato del presepio che invece vuol essere il simbolo del giorno che si celebra, la rappresentazione scenica che ci invita ad essere tutti attori partecipi nel grande teatro di Betlemme – di quello che avvenne quel giorno: la nascita dell’Amore. Quindi albero e presepio non sono la stessa cosa; al limite si possono fare entrambi, essendo due messaggi che si complementano; ma nell’intimo – specie di un bambino da educare – quest’ultimo è molto di più e di diverso.

L’espressione dell’Amore si rafforza a mezzanotte, con la tradizionale messa ed i canti: nelle chiese stipate come mai – a significato che abbiamo bisogno di ricevere e dare Amore, almeno una volta all’anno - viene espresso dai sacerdoti il significato religioso di quella nascita che corrisponde all’ arrivo nel cuore di tutti di questo sentimento che si concretizza nel dare, e quale testimonianza di un nuovo tipo di fede, quella cristiana, basata appunto sull’Amore e che  aborrisce qualsiasi tipo di violenza e cattiveria, odio e invidia, infedeltà e insensibilità.

Il concetto dei simboli natalizi e dell’Amore, si allarga tradizionalmente con l’uso degli auguri postali, del vischio e dell’agrifoglio (ambedue sempreverde); dei doni: partecipare agli altri il nostro affetto, magari condito con sottigliezze, come – ai bambini - la provenienza da Babbo Natale o Gesù Bambino, come a dire loro che anche ‘lassù’ gli vogliono bene. Sembra poco, ma per l’autostima di un bimbo, e per insegnargli una umiltà gerarchica, è determinante.

Altrettanto simbolo è la  letterina, che tale resta per chi tramanda la tradizione: il messaggio, composto da frasi dettate da altri e con promesse non sempre mantenibili, lascia però nel profondo del bambino una traccia di rispetto e di amore verso i genitori.

Il pranzo natalizio, quello che faceva dire “Natale con i tuoi...” è una altro messaggio di Amore: da secoli, solo tutti riuniti con i piedi sotto un tavolo e a stomaco pieno, si dimostra coerenza di intenti e forza di unità (dagli ambasciatori ai milioni di emigrati che tornano e altrettante famiglie che si ritrovano tutti assieme per un giorno almeno, magari per una semplice tombola).  Ed a questo livello culinario, il simbolismo si allarga smisuratamente, dal ‘becco’ (che anticamente mantenevano in casa – in genere sotto il lavello - per la preparazione dei mostaccioli lunghi in brodo: mangiare leggero in attesa dell’abbuffata ‘raviolesca’) al pandolce (e sia chiaro: pandolce con rametto di alloro; e non panettone).

Ricordiamo che una tradizione-simbolo nasce dall’uso ripetuto: ciascuno in casa sua può avviarne una: basta iniziare col piede giusto. Ma non averne nessuna può significare non Amare abbastanza. Comunque sempre, ricordando che Natale è  la nascita di un Bambino, e quindi essi hanno la precedenza ... anche se cinquantenni o più.

ALLEGATO 41   TATUAGGI

L'applicazione di tatuaggi, risale a delle mummie dell'antico Egitto.

e ubiquitariamente nel mondo, abbiamo conoscenza di metodi e mezzi i più disparati: da aghi veri e propri (giappone) a denti aguzzi (Oceania), da pezzi d'osso (esquimesi) a macchine elettriche ad aghi (americani); iniettando pigmenti tratti dalla fuliggine a derivati della noce di cocco, da metalli a principi inorganici non solubili.

A parte lo scriteriato improvvisatore, che può seminare complicazioni generalizzate di tipi infettivo, il tatuaggio di per sé, essendo passivamente localizzato, appare innocuo. Problematici sono la componente psicologica e una sua eventuale rimozione.

Per quest’ultima soluzione,  negli ultimi tempi facevano parte della chirurgia estetica varie tecniche, nessuna delle quali però priva di effetti finali: cicatriziali o di disordinati residui pigmentari.

Solo recente è l'acquisizione dei laser Q-switched (a impulsi in milionesimi di secondo con differenti lunghezze d'onda che si adattano ai vari colori); con questa metodica si espelle progressivamente il pigmento usato o se ne facilita il riassorbimento. Essi hanno permesso ottenere risultati molto soddisfacenti, con metodica abbastanza indolore (a seconda delle zone nelle quali è il tatuaggio) ed a prezzo … limitato (fino a 1000 e. a seduta; per 4-10 sedute). Ma, una visitina da uno psicologo prima di farselo fare…

ALLEGATO 42        TORRE dei pallini

Andando verso Rivarolo, sulla via intitolata al partigiano Paolo Reti, prima che essa termini in piazza Riccardo Masnata e proseguire in via Walter Fillak (anche loro, tutti  partigiani; ed ai quali la memoria, essendo “caduti per la libertà”), a ponente c’è un grosso emporio.

Nel libro “Un’idea di città” a pagina 11 è riportato un “progetto per costruzione di uno stabilimento per manifattura Piombo” da erigersi in Sampierdarena località denominata san Martino per conto dei signori Giovanni Minelli (o Mannelli) e Trojelli, del 1888, previsto con una alta torre per i pallini.

Iniziò allora la storia di questa torre, che si aggiunse a quelle medievali dislocate lungo la ex spiaggia (... ex spiaggia! parola che mortifica ogni oltre misura: verrebbe da urlare – con riferimento di felliniana memoria e quindi a costo di essere riportati al manicomio - “voglio il mare!!!”); a quelle numerose cinquecentesche delle ville nobiliari, ed infine a quelle altre ottocentesche sopra alcuni villini e palazzi.

Dopo i signori su citati, non sappiamo quando – e rimasto attivo ancora negli anni 1950 con telef. 41.297- divenne stabilimento della soc. an. fratelli Sasso, continuando la specializzazione per tubi, pallini e pallettoni da caccia.

Per preparare i pallini (usando il piombo in lega al 3 per mille con arsenico), semplifico il percorso descrivendo che in tre grossi forni  posti alla base, veniva fuso il minerale; e come tale trasportato con appositi carrelli in alto, presso il  tetto della torre. Lassù, sotto il terrazzo, altri due forni permettevano il mantenimento della fusione e la colata dal crogiolo. Questa, cadendo, veniva frammentata con setacci del diametro voluto, e la pioggia fusa prendeva forma di pallini o pallettoni i quali in caduta si raffreddavano, terminando infine dentro una vasca d’acqua per il definitivo consolidamento. Con questo sistema,  i pallini non erano perfettamente rotondi, ma volutamente un poco a goccia così da creare - quando sparati - meno attrito con l’aria ed arrivare più lontano.

Nel tempo i laminatoi o forni a piano terra divennero due (uno grande ed uno piccolo) e sul tetto ne rimase solo un terzo. Dai Sasso, passò a Bertelli Franco (una omonima famiglia, non necessariamente collegata all’intestatario ma evidentemente proprietaria terriera nella nostra città, vendette il terreno alla soc. di M.S.Fratellanza e Amicizia per aprire i locali in sal. Millelire), il quale verso la fine della sua attività, circa nel 1979, aprì i finestroni esterni, facendoli diventare vetrine.

Avvicinandosi ai cento anni di presenza - e quindi intoccabile per le Belle Arti - sia al Bertelli che al successivo (ed attuale) proprietario dei locali – il quale ne aveva cambiato  l’uso investendo in una fabbrica di lavorazione del legno e dell’alluminio - fu imposta la rapida scelta tra restaurare o abbattere dimezzando l’altezza della torre. Poiché ormai inutile, essendo cessata la produzione dei pallini, e considerata la spesa  tutta a carico del proprietario, fu ovvia la scelta. E la torre fu dimezzata, ed il robusto mozzicone con arte dei locali, utilizzati per box per autovetture, con accesso da via G.Tavani (personaggio del Risorgimento collegato alle imprese garibaldine).

Così, un’altra fettina della San Pier d’Arena industriale andò distrutta, di fronte alla ovvia obbligatorietà della legge economica; aggiungendosi questa demolizione alle ben più grosse e vistose trasformazioni che hanno fatto perdere alla delegazione anche questa fisionomia industriale non assumendone alcuna altra se non quella meno inquinante ma altrettanto meno edificante, di ‘zona’ di passaggio, di ‘nulla’ se non di squalifica sociale. In attesa di riscatto; se i suoi amministratori ed abitanti avranno a cuore non subire questa classificazione per un ulteriore lungo periodo storico.

 

 

 

 

 

 

 

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