GENNAIO 2012 –

           pag.  9               Storia- Comme a l’êa – ICFI  ........................................allegato   01

           “      12              Medicina– raccontarsi balle ............................................”             02

           “      14              Storia – confraternite ......................................................”             03

FEBBRAIO -  p.   6    Medicina – la leggerezza  ............................................... “             04                                 

                           10     Storia – OEG ................................................................   “             05

MARZO  -pag.            Storia SPdÆnn-a- itinerario per le ville  ....................... “             06

                     “              Medicina-  colesterolo mon amour................................  “             07

                     “              i Trallalero ....................................................................  “             08

                     “              saluto a M.Vietz ..........................................................   “             09

APRILE   -pag  5        SPdA e STeodoro uniti in politica ..............................    “             10

                         7         Cronaca I leoni tornano a SdA ....(scritto in redazione)

                          9        Storia = i Bastioni .......................................................    “             11

                          9        Recensione – le 70 ville di SPdA ..............................        “          12

                         12       Medicina – i pescivendoli ...........................................    “             13

                         16       Cronaca inaugurazione Villa Serra-Monticelli ...........   “              14

                         18       Recensione - la villa Crosa ....(scritto in redazione).....

SPECIALE ELEZIONI  -  i sindaci ..................................................................  “             15

MAGGIO   - pag. 11  Storia – forte Tenaglia ..................................................   “             16

                             12  Medicina – le zecche ..................................................     “              17

                             14  Medicina- campagna preventiva in farmacia.................. “              18

                                   Cronaca – ilCorniglianese (scritto in redazione) 

GIUGNO  - pag.        Recensione- Favole-..................................................................”          19

                                   Cronaca- Violenza allo stadio: il tifo.................................   “          20

                                   Medicina  cervello macchina imperfetta-concetto di coppia  “....     21

SPECIALE LUGLIO   - Storia - La battaglia di San Pier d’Arena  ...............................     22

                                      Medicina- rischio cardiovascolare – per farmacie ....................     23

 

ALLEGATO 01 -storia = l’ icfi

   Difficile immaginare che a San Pier d’Arena potesse esistere, solo sessant’anni fa, una ‘industria’ farmaceutica.

   Oggi, per visitarne una, occorre cercare grandi spazi nelle periferie delle città e nel percorrerle occorre ‘vestirsi’ con camice bianco monouso, soprascarpe, cuffietta e mascherina; tutto rigorosamente asettico e meccanizzato. A quei tempi in barba alle strette nozioni di sepsi e di organizzazione tecnologica, erano funzionanti con l’uso di materie prime fatte di sostanze chimiche organiche naturali (dallo zucchero raffinato appositamente prodotto dall’Eridania al vero marsala di Sicilia, dalla antica vaselina borica al burro di cacao) e, assurdo oggi nell’industria, di rispetto delle regole sociali.

Ricordiamo, che se si risale un attimo ai primi decenni del 1900, per aprire una farmacia o una industria farmaceutica, non occorreva alcuna laurea ma solo i soldi per poterlo fare.

   Dagli anni 1930, quando ancora la strada si chiamava via C.Colombo, oggi via San Pier d’Arena, al civico 99 interno 2 - nell’appartamento sulla  cui facciata è appesa la lapide che ricorda la nascita di Nicolò Barabino - c’era una società che produceva farmaci, con il serioso impegno mirato alla salute pubblica basato sull’onestà  professionale. Si chiamava ICFI (Istituto Chimico Fisiologico Italiano) il cui proprietario era un  toscano, Gani Alcide, che aveva messo radici a San Pier d’Arena negli anni attorno al 1925. Iniziando come depositario di allora grandi aziende nazionali (Molteni, f.lli Corvi, Torricelli) e con la collaborazione dei migliori docenti dell’Università genovese, iniziò a produrre specialità in proprio, regolarmente registrate al Ministero della Sanità, ed a propagandarle in area regionale e viciniori.

   La seconda guerra mondiale bloccò per cinque anni il lento evolvere della cultura in merito cosicché, a fine guerra, si trovarono a quasi ricominciare da capo, sulle basi precedenti.

   Nell’immediato dopoguerra, una parte dell’appartamento rimase a lungo inutilizzabile perché sventrato dallo spostamento d’aria di una bomba esplosa vicino nel retrostrada. Vi lavoravano – in forma saltuaria e in base all’occorrenza  - chimici e farmacologi dell’Università, i quali in appositi recipienti mescevano le materie prime, nei dosaggi dovuti approvati anche dalla Prefettura locale; in forma fissa altre 4-5 persone delle quali uno con la qualifica dell’amministratore e del tecnico, che faceva trovare tutti i principi attivi pronti all’uso;  due operai – uno di laboratorio che riempiva i dovuti contenitori (fiale, bottiglie, vasetti, scatole con il granulato, cellofanatura, ecc.) ed uno di manovalanza spicciola (aprire-chiudere-preparare, trasportare le casse che allora erano solo ed unicamente di legno e quindi inchiodate; nonché addetto alle pulizie). Ultimo, il rappresentante esterno, quello che andava dai medici a presentare i prodotti. Verrà più tardi l’obbligo del fustello per le ricette delle svariate mutue aziendali. Il listino comprendeva 21 farmaci ed un dentifricio (chiamato San Candido); si producevano fiale per iniezioni intramuscolo, chiamate Piperjodale, contro i dolori reumatici, a base del principio attivo migliore per quei tempi: la piperazina, aggiunta di vitamina B1 e iodio metalloidico; sciroppi balsamici (Tiobromol, per tosse catarrale) e bechici (Tio Tus, per tosse secca) con principi attivi sciolti nel marsala, e quindi molto piacevoli al palato); fermenti lattici (Lattoscorbina, in fialette chiuse con tappo metallico, su formula dettata dal prof. V.Martini docente di Fisiologia nell’Università di Genova); ricostituente multivitaminico granulato (Vitamol, il cui gusto di puro cioccolato lo rendeva gradito ai bambini); il ricostituente Neurotonil (semplice, iodato e stricnico, a base di glicerofosfati e vitamina D); Normopeptolo (a base di pepsina e pancreatina pure). Questi, i più venduti.

  Ci vollero una quindicina d’anni perché le aziende più grosse ed attrezzate assorbissero le piccole.   L’azienda chiuse l’attività nell’anno 1967 (dopo molti anni, l’appartamento e l’edificio tutto, furono ristrutturati e trasformato in albergo). Scomparve così l’ICFI, assorbito da una più grande industria torinese, la quale poi fu assorbita da una francese, la quale a sua volta finì in una multinazionale. Facendo così, di passaggio in passaggio, perdere tutte le tracce della fervida operosità locale.

ALLEGATO 02 – medicina - DISTACCARSI E RACCONTARSI  BALLE. 

Defungere, è  l’ultimo di una serie di separazioni brutali dalle cose terrene abituali, che l’uomo subisce nel corso della sua vita. Non garantito, perché se poi  ...o cielo! qualcuno ritiene che continuerà eguale anche di là, occorre prenda subito contatto col Parroco.  Rimanendo ‘di qua’, avrete notato il rigiro di parola adottato per addolcire la crudeltà del nome ‘morte’. Non scopro l’acqua calda ricordando che l’uomo, è portato ad autoraccontarsi balle; come narrato poco meno di tremila anni fa da Esopo che l’aveva descritto nella favola della volpe e l’uva: la conclusione con la bugia del “tanto è acerba” è proprio per non confessare di non essere riuscita a cogliere il grappolo. Il professore di psicologia ci insegnava che è umano e normale raccontare frottole, mirate ad addolcire certe polpette che la vita dissemina sul percorso di ciascuno di noi; ma che tutto è questione di misura. Se la morte è l’ultimo distacco, il primo inizia col nascere: quando, da dentro il grembo della madre - dove ci sta benissimo a far niente - il nuovo essere viene cacciato fuori, ed anche con una certa brutalità, seppur abbastanza ben compensato sia dalle cellule nervose impreparate a ragionarci sopra e sia dal successivo nuovo piacere di riempire lo stomaco ciucciando al seno (che rimarrà come simbolo sessuale futuro, ovviamente soprattutto nei maschietti; non parliamo del vuotare l’intestino per non entrare nello scabroso). Sorvoliamo sulle ‘punizioni’ educative; passano pochi anni, ed ecco che un altro distacco avverrà separandosi dalla cameretta di casa, con i giochi spensierati, per affrontare l’inizio dell’asilo e della scuola. Si ripeterà un distacco quando con la scoperta degli amici e fidanzata/o si tenderà a frequentare di meno la famiglia; come eguale con il lavoro fino – con un bel balzo -  alla pensione. Il tutto, sempre condito di bugie: la carota del crescere e poi quella illusionistica di migliorare o liberarsi. Nel mezzo le nozze (bugia di felicità eterna di coppia mentre in realtà ci costerà un sacco di soldi per far casa e poi per avvocati); i governi tecnici che debragandoci ci promettono (bugia) salvezza; ed infine il distacco dalla sessualità: sia per i maschietti (da alcuno di essi, vissuto con nevrotica ossessione: vedi uno molto conosciuto perché già al potere e munito di soldi i quali gli hanno permesso ultimi guizzi illusori e bugiardi perché non del tutto credibili; e da tutti con amara ironia per la constatazione dell’avvilente cerimonia del tramonto con l’abbassabandiera) sia da parte femminile con il famoso ”emmo za dæto”.

Infatti, non deve apparire strano che,  in tutti questi passaggi, l’elemento base psicologico comune a tutti, inconscio, è il raccontarsi delle bugie per illudersi, ovvero démmoghe di nommi pe menâse pe o naso: rispettivamente dapprima ‘diventerai grande’ (e sai che fregatura!); ‘studia e vedrai’; e poi ‘potrai fare quello che vuoi’ (sapendo già che non è vero). E consideriamo, sempre nel mezzo, di quando arriverà che dicono – rivolti alla consorte -“che bello (bugia), aspetta?” non so quale ‘bello’ si prospetta quando uno diventerà genitore: il più pesante distacco della vita, un carcere con palla al piede per tutta l’esistenza ulteriore, preoccupazioni a mille; venduta gratis come gioia pura al 100%. Mah!

Tornando a tutti i distacchi su descritti (e per ognuno di noi ce ne saranno centinaia di altri che non ho citato), è propria dell’uomo il non possedere l’onestà nel valutare ogni situazione, con tendenza a raccontarsi frottole anche nelle cose più intime (figuriamoci se poi, nella vita, diventerà un politico o un divo, laddove intimità ne rimane poca); e la mancanza di un confronto diretto con gli altri (computer) non farà che peggiorare questo autocontrollo  (facebook è un surrogato di contatto umano, già falsato alla base  dall’anonimato di molti e dal racconto di quello che appare,  pressoché mai di quello che è).

L’errore più grave è il raccontarle a se stessi e quindi non essere onesti nelle varie autovalutazioni doverose da farsi ogni tanto; a sua volta fonte di ulteriori sofferenze se non prevarrà quella quota di ‘fondoschiena’  (chi ne ha di più, chi meno... come dire per capirsi, chi è Gastone e chi Paperino) ma sul quale non è saggio affidarsi totalmente e sempre, perché giocare a gattamorta con la verità aiuta lì per lì, ma essa rimane, amara ed allegante i denti come un frutto acerbo. Il risultato di non confrontarsi direttamente, sarà un prolungamento del raccontare a sé ed agli altri delle bugie: illudere che ‘tutto va bene’. Una specie di droga psicologica che in tutti rischia - sempre tenendo a mente, che tutto è misura - di diventare caratteriale e nei soggetti più deboli di impedire di scuotersi e reagire.  E per ultimo, dicevamo all’inizio, il distacco del dover morire, ovvero dire del passare a “miglior vita”... ammorbidendo la cosa con altre grosse bugie tipo “non ho paura della morte, ma di soffrire”. E giù palle! Persino nelle preghiere tendiamo a essere subdoli:  le concludiamo con un “Così sia”! significa che ci affidiamo a Lui perché decida per noi cosicché la colpa di cosa avverrà, non sarà nostra. Noi, essendo bravi (!), “L’abbiamo avvertito” di cosa si dovrebbe fare, ma...

ALLEGATO 03 –  storia -  CONFRATERNITE

Dai tempi dell’origine dell’uomo sulla terra, quarantamila anni fa circa, sino alla metà del 1800, le uniche energie capaci di trasformarsi in lavoro erano quella idraulica, pressoché insignificante; quella animale, validissima, ma solo per chi poteva permettersela; ma soprattutto era quella umana a svolgere la parte  più consistente e costruttiva.

Sino a centocinquant’anni fa quindi, ed ancora per oltre un secolo dopo, superata l’epoca degli schiavi e dei condannati al remo, la fatica dell’uomo rimaneva l’elemento determinante e producente lavoro.

Di questo travaglio rimangono tre ricordi conosciuti ancor oggi da tutti; da una parte, quello pressoché scomparso  a causa della meccanizzazione, ma rimasto come categoria e rappresentatività, dei camalli del porto. All’estremo opposto quello sportivo, tutt’ora in atto quali  la boxe, il sollevamento pesi, lo sci di fondo e qualsiasi altra disciplina che si basa sul consumo delle energie fisiche. Nel mezzo,  ancora in atto come dimostrazione attiva di forza fisica mista a intelligenza prettamente umana, la categoria dei portatori di Cristo. Prima dell’avvento delle macchine, mirate ad alleviare la fatica dell’uomo affidando ad esse l’uso dell’energia necessaria per produrre lavoro, quale migliore  dimostrazione di fede e devozione alla religione poteva esserci se non utilizzare la forza fisica per portare la croce di Cristo; come idealmente alleviare a Lui la sofferenza del peso del legno? Anzi, più la croce era pesante e più era segno di attaccamento da parte del portatore. Le decorazioni sono venute dopo, quali manifestazione di rispetto, di magnificenza ed onore; quello che restava come atto di riverenza era la dimostrazione della forza fisica, che dall’uomo intelligente si vuole commista a scaltrezza (della verticalità, dei supporti, della contrarietà del vento, degli ostacoli come rami d’albero e fili elettrici) ed al lavoro di squadra.

Quando nel 1400 iniziarono a fiorire – a fianco delle chiese -  gli ‘oratori’, congregazione di laici miranti ad una più intensa attività religiosa da affiancarsi a quella mistica sacerdotale, tra le varie mansioni e distribuzioni di incarichi, nacquero nel tempo i portatori delle Casse  - preziose capolavori d’arte di intaglio del legno, come quelle del Maragliano e del nostro concittadino Pittaluga, seguiti dai  portatori di Cristo tra i cui produttori, lo stesso Pittaluga e Ciurlo, ai quali San Pier d’Arena dedica una strada.

La città di San Pier d’Arena, nelle prime decadi del 1900 aveva tre importanti oratori, quello dedicato a san Martino al Campasso, quello di ‘Orazione e Morte’ ubicato ove ora via A.Cantore sfocia in piazza N.Montano, ed a Promontorio. Dei tre sopravviveva solo l’ultimo, essendo andato distrutto da una bomba il primo e demolito per far spazio alla strada il secondo. Da una quindicina d’anni alla Cella, dapprima in sordina per la necessità di organizzarsi e procurarsi il materiale, ma attualmente in piena fioritura di impegni in terra ligure e soprattutto per la serietà d’impegno, è  vitale la Congregazione che – rivitalizzando il nome dell’oratorio che già era proprio della Cella – di Morte e Orazione, aggiunge il nome di san Martino come poi santo protettore della stessa chiesa.

Malgrado innumerevoli difficoltà, non solo legate al mondo esterno sempre più distaccato dalla religiosità  e dal concetto della fatica fisica, il gruppo oratoriano si è fatto forte di materiale, di energie e di ammirazione  da parte delle comunità delle riviere e merita il nostro plauso per la alta rappresentatività che fanno – nelle sagre religiose - alla nostra Piccola Città, oggi Municipio, il quale seppur oberato da enormi impegni civici, si spera non disdegni uno sguardo a quelli religiosi che sono pur sempre il collante della nostra civiltà e partecipazione sociale.

oratorio san martino – vedi  2007/ n. 3 e 4 /

ALLEGATO 04  Quando la leggerezza comportamentale porta danno

Che cos’è un piccolo errore di ortografia? a scuola, solo un segno blu e un quattro; nella pratica, quando basta per capirsi, una inezia; se stai guidando (un’auto; una nave – vedi isola del Giglio;, un aereo) un disastro; se ripetuto nel tempo, un danno enorme. Perché queste valutazioni differenti?

La distinzione è determinata dalla qualità e quantità del ‘danno’ arrecato; ne sono coinvolti sanitari, soldi, avvocati, assicurazioni, giudici. Sin qui, tutti lo sappiamo, sperando mai entrare nel vortice stritolante di queste categorie di professionisti. Infatti e comunque, occorre alla base sempre una denuncia di danno, per colpa del quale una persona chiede risarcimento.

Ma, se il danno andrà a scapito di un concetto astratto, impalpabile, come la Patria, la morale, l’etica, l’educazione, come evolve il problema? Nel calcio hanno risolto il problema coimputando la società: così, almeno uno che paga c’è; anche se essa c’entra per nulla.

Volevo portarvi qui col ragionamento, per arrivare a chiedere di un danno ben preciso: chi potrà pagare il danno arrecato alla propria Lingua, intesa come idioma, parlata, linguaggio parlato e scritto, dialetto? E questo sia per l’italiano che per il genovese.

A questo punto, ancora una premessa: che differenza esiste tra lingua e dialetto? In tanti han provato a dare una definizione, compresi gli eminenti partecipanti all’Accademia della Crusca, ma nessuna risulta determinante in assoluto. Secondo recenti studiosi, si dice “lingua” quella parlata-scritto capace di continuo evolversi per corrispondere giornalmente alle nuove necessità ed invenzioni: ovvero ogni nuova cosa o avvenimento acquisisce un nome specifico espresso con quella, perché “lingua” rimanga. Invece possiamo definire dialetto la parlata, e che nel suo habitat ovvero in uso locale, non abbisogna di definire i nomi nuovi. Orbene, se – per esempio - le cose nuove vengono accettate in lingua inglese senza un corrispondente italiano (per esempio ‘computer’), l’inglese resta “lingua” mentre l’italiano ogni volta perde un colpo. E quando i colpi saranno tanti o importanti, esso diventerà un dialetto. Pertanto siamo noi, con una banale trascuratezza fatta da ciascuno nell’esprimere l’italiano (il non uso del futuro e dei congiuntivi, o uso di parole straniere, ecc.), che permetteremo – quanti siamo? - sessanta milioni di colpi e lo faremo retrocedere di qualità.

Stavolta non è colpa dei politici, anche se loro - con legge adeguata -  potrebbero proteggere la nostra lingua dagli strafalcioni: infatti nei sacri libri con le Leggi, c’è anche scritto che l’ignoranza non è una scusa, né in terra,  né in cielo.

ALLEGATO 05 SPdÆ COMME A L’È = OEG

Non sarà sfuggito, nel sottotitolo, che stavolta non è stato scritto “...comme l’êa”.

Il perché è spiegato dalla possibilità, irripetibile se lasciata sfuggire, di ancora per poco vedere una parte di città come è oggi,  per poi aspettare a valutare come si trasformerà; quindi vivere una premessa storica. Mi spiego: ai lati di via Pacinotti c’erano orti ancora centocinquant’anni fa; poi nell’area sorsero gli edifici dell’OEG, poi divenuti Enel; oggi parcheggio per auto e domani, progettata e con a breve inizio lavori, una zona sconvolgentemente moderna.

Non è certo la prima volta che la nostra città subisce nuovi innesti di produzione edilizia: dai lontani tempi (per la storia, una inezia) in cui il territorio era molto giardini, campagna ed orti, siamo passati subendo la dolorosissima eliminazione del mare, la eclatante eliminazione di san Benigno secondaria a servitù di Tursi, i palazzi di via Cantore fino a saturazione delle colline, per finire con l’eliminazione della Coscia ed il rifacimento della Fiumara. Per chi nasce oggi, è tutto normale; per chi è nato ieri, tout passe et tout lasse; per chi è nato oltre sessant’anni fa molte delle attuali trasformazioni turbano quell’ormai diventato vago senso di identità cittadina che, come sappiamo è invece legato alle piccole cose vissute nel territorio, come giochi infantili e scuole, le crose e viuzze, i negozi e persone.

Comunque, bando alle malinconie; anche perché in casi del genere servono a poco   essendo tutto già deciso in alto, laddove delle nostre ugge gliene importa meno che niente. E guardiamo il lato utile. Scomparirà tra breve un’altra fettina storica di città, la così detta ‘area Enel’ di via Pacinotti, di fronte alla Fiumara. Suggerisco andarla a vedere una ultima volta prima che, distrutta, scompaia anche nell’immaginario. Anzi, portiamoci i ragazzi, per far loro vedere dal marciapiede della ferrovia – lato verso Voltri - la facciata a nord; percorrendo poi la stretta via Salucci (chi fu?), che nel progetto diverrà un viale; passando da via Avio e Pacinotti ove abitò Luigi Morasso pittore che partecipò a dipingere la volta della chiesa della Cella, e poi Wilson proprietario di importante officina meccanica assieme a Mc Laren. Non è che i muri dicano qualcosa  se non ormai convincente a buttare giù tutto, ma accompagnare il percorso narrando la loro storia sarà utile perché essi vedano il presente e, conoscendo il passato, ricordino nel futuro le proprie radici. Nonni, genitori, ma anche insegnanti con le scolaresche specie liceali: portate i giovani a vedere come è,  ora apparentemente squallido, l’anello di casette attuali, mentre spiegate loro come la zona era centro vitale facente parte dell’operosità storica dei sampierdarenesi. Poi aspettiamo che finiscano i lavori per ammirare il nuovo, con tanto di ennesimo grattacielo, nuovo mercato e luminose vetrine sotto i portici,  ricordando non più con mestizia ma con dolcezza il passato, dicendo “io c’ero”.

Forse ed anche, sempre più si sposterà il centro vitale e di attrattive in quella parte della città e, ovviamente, tenderà a far atrofizzare la parte centrale di essa, visto che quella orientale è ormai una sola fredda colata di cemento, con escort di più basso livello... non certo ministeriale.

Nel raccontare a ragazzi la storia di quel quadrilatero di terreno, vi rammento alcuni particolari.

Allegato 06  - SPd’Ænn-a comme – itinerario per le ville

Da un lettore, ci è stato fatto l’invito di proporre un veloce itinerario delle ville sampierdarenesi.

Perché l’argomento non diventi un arido elenco pur dovendolo contenere nello spazio dovuto, cerco di coivolgere il lettore con la fantasia andando a galoppare negli anni del XVII secolo (dal 1601 al 1700)  quando il piccolo borgo di San Pier d’Arena era un semplice paesotto che però aveva già una struttura propria di comune, composto da qualche migliaio di persone: contadini pastori e ortolani, pescatori e facchini, commercianti e artigiani, marinai e servitù delle oltre cento ville che furono erette in quel secolo, nello spazio tra san Benigno ed il torrente Polcevera.

Da secoli, nel borgo si era aperta spontaneamente una strada interna, parallela alla spiaggia, nel mezzo tra il mare ed il monte, che collegava la spianata della Coscia al ponte di Cornigliano (così detto perché pressoché sempre gestito dai vicini a ponente), con diramazione verso nord, lungo il torrente. Ideale il posto, per i ricchi cittadini genovesi che ambivano ‘distaccarsi’ dagli impegni senza dover andare lontano. Acquistare terre nei paesini vicini alla grande città, divenne una moda

sicuramente favorita dall’erezione delle ultime mura (1630-35) e dall’apertura di una strada sotto la Lanterna. Ricordiamo che prima di quella data, per arrivare da Genova non era semplice: tutto doveva essere portato via mare:  mezzo più semplice ed usato bastando raggirare il promontorio di san Benigno e dare attracco alla Coscia o al Canto laddove prolungamenti di roccia facevano da diga e protezione dai venti del sud (libeccio e scirocco). Mentre volendo usare la via terra, dalla zona di Fassolo e poi di Di Negro, occorreva arrampicare per salita degli Angeli – dura per i carri a trazione animale - e sbucare ove ora ci sono i due cimiteri; ma da lassù, se era facile scendere a cavallo, a piedi o in portantina,  in carrozza era impossibile perché troppo ripido e  quindi occorreva percorrere l’attuale salita Bersezio per arrivare a Certosa (alla Pietra) e tornare al mare attraversando il Campasso... e neanche che quelle fossero belle strade, ma ripide crose per lo più in terra battuta, fangose e pantanose se pioveva.  

È su quell’asse centrale che dopo la metà del secolo su detto, le ricche famiglie genovesi costruirono le loro ville, con vaste fasce di orti e giardini disposti a pettine fino al mare o verso i due colli: il percorso stradale divenne affiancato da questi maestosi  palazzi che fecero scrivere ai contemporanei alcune frasi importanti come “luogo di delizie ...”; “il più bel borgo d’Italia...”; “i passeggeri verso Genova credevano essere già arrivati”, ecc.

Partendo dalla Coscia, ed usando i nomi delle strade di oggi, la prima villa era dei De Franchi (A) in via Demarini (distrutta; ma ancora eretta vent’anni fa, posizionata davanti alla trattoria del Toro, dove ora è il WTC ed aveva un grosso parco fino al mare poi occupato dall’oleificio Costa).  Prima che la ferrovia  intersecasse la strada, con un lungo viale (oggi rappresentato dal mozzicone di vico Cibeo) si arrivava alla villa Pallavicini (B), a monte della strada ferrata, la più grossa e sontuosa che c’era, soprannominata ‘la Festa’ per i ricevimenti che vi avvenivano, localizzata dove ora c’è un grosso rivenditore-meccanico di veicoli. Affacciata su quell’unica strada, a monte di essa,  tre ville; due vicine delle quali una ancora eretta: quella dei Negrone (1), angolo via GB Carpaneto); mentre distrutta, con residuato solo il muro di facciata, quella dei Pallavicini (C); la terza è ancora eretta nella sua maestosità con torretta ed usata quale scuola: la villa Spinola di San Pietro (2) alla quale si accedeva con grosso portale e giardino (oggi, seppur soffocata dalle costruzioni davanti ed attorno, è ancora maestosa fuori e dentro). Di fronte, a mare della strada, c’è il palazzo (più che villa) dei Grimaldi, al civico 18 di via Dottesio (3);  subì l’affronto di uso a scatolificio-lavorazione della latta prima di essere convertito in appartamenti.

Sulle balze di via s.B.del Fossato lato ponente (oggi via Vinzoni), la villa Ghiara-suore di s.Anna (D - distrutta, forse residenza del cardinale Demarini, al quale la titolazione della strada omonima).

Dopo la attuale Chiesa delle Grazie,  a lato monte, si apriva un lungo viale  che saliva ai livelli dove oggi l’ospedale:  lassù c’era una grossa villa, dei “principi Francavici” (ma probabilmente Francavilla (F), imparentati con gli Spinola sottostanti; questa fu distrutta  e rifatta (Piccardo), poi ridistrutta per erigere infine il grattacielo davanti all’ospedale, salvando solo la torre. Duecento metri a levante di essa appare ci sia stata un’altra villa attribuita ai ’duca della Molfetta’ (distrutta; anch’essi Spinola (E) della quale esiste una foto; ma appare di discutibile e confusa assegnazione.

Procedendo verso ponente, a lato mare seguiva la ‘via Larga’, sulla quale si apre la villa dei Grimaldi, detta la Fortezza (4);  con – in breve spazio - a monte la villa Imperiale-Scassi detta la Bellezza (5) ed a ponente lato mare - prima un’altra villa Grimaldi (24) - e subito dopo la villa Lercari-Sauli detta la Semplicità (6) e, prima che l’attuale via don Daste si restringa, immediatamente a monte, c’è la villa Doria-Franzoniane (7) col famoso meraviglioso ninfeo e la possente torre cinquecentesca; mentre a fianco, raggiungibile con lungo viale in salita (l’attuale san Barborino) c’era un’altra grande villa Pallavicini (N - distrutta).

Nel tratto pedonalizzato, a mare, la villa Crosa (8) recentemente restaurata, privata, dopo che anch’essa aveva subito il martirio di trasformazione in officina della latta e pesce in scatola.

Da qui, a sino in piazza N.Montano dove c’è la Centurione-Carpaneto (12 - vuota, con gli affreschi del frate Bernardo Strozzi), sulla strada c’erano ancora quattro ville-lato mare, tutte ristrutturate ad appartamenti escluso la terza (in ordine: la Grimaldi di Gerace (9 - angolo via Castelli); la Centurione (10 -con affreschi di A.Ansaldo); la Serra-Monticelli (11) in angolo con via della Cella, disponibile per congressi e cerimonie; e la Gavotti). Sette sono sparse sul lato a monte e alture (delle quali tre distrutte; e quattro rimaste: Serra-Masnata di via Cantore (14 - scuola), De Mari-Ronco (15 - privata, della Compagnia delle Opere), Grimaldi-Carabinieri (13) , Doria-don Daste (23) di salita Belvedere.

Esistono tre ville in via C.Rolando su sette; due ancora  importanti (17-18, ma restaurate ad appartamenti escluso la Currò (25 - scuola).  Sulla strada a mare invece, di cinque ne restano quattro: la Pallavicini-Gardino (19 - in stato pietoso: con le finestre spalancate, si aspetta che crolli qualche pavimento per abbatterla nell’indifferenza di tutti!!! vergogna di tutti i responsabili e di noi cittadini); la Cambiaso-exPretura (20); la Pallavicino (21 - di fronte al Comune, sede di una scuola di danza classica); la maestosa villa del Monastero (22 - scuola). Sulle alture ne esistono ancora una decina delle quali quattro ancora degne del titolo di villa (Crosa-Antoniano, De Ferrari, Frixione, Bracelli-Scaniglia) ed altre, però da valutare più  di tipo agricolo che da lussuosa campagna.

Insomma, di oltre cento ne restano una trentina. Molte private, e quindi teoricamente intoccabili salvo interessino le Belle Arti (che, per quel che ne sappiamo, tacciono); molte del Comune, per lo più, fino a ieri adibite a scuole ed oggi più d’una vuota perché “non a norma” e quindi destinata a...?  Per la risposta, occorre rimanere coinvolti con la fantasia.

 

ALLEGATO 07  Colesterolo, mon amour.

Se il Vico ragionava giusto dicendo che la storia è fatta di corsi e ricorsi legati a catena, se il Parroco ha ragione nel ricordare che le sette piaghe d’Egitto vennero perché la gente si allontanava da Dio, è nella logica di queste due premesse che sia arrivata l’ottava piaga: il colesterolo.

Dopo oltre quarant’anni che parlo di questo grasso, pensavo poter archiviare l’argomento; nel senso che ormai tutti sanno cosa è, che danni può portare, come tenerlo a bada, ecc. Invece, quando incontro vecchi clienti magari anche per strada, cosa mi viene chiesto con viso accigliatoe vocve tremebonda di più frequente?  se il debordamento del  valore del colesterolo nel loro sangue è pericoloso, ecc. ecc.

Dietro a questo comportamento, ci sono sicuramente numerosi fattori psicologici di diversa entità:  o è uno degli argomenti medici che piace di più (come le novelle raccontate ai bambini prima di dormire, con l’orco cattivo – il  colesterolo - che però alla fine viene messo nel sacco – da noi furbi che lo teniamo sotto controllo); o è un bau bau  che distoglie l’attenzione dal cercare di approfondire altre rogne più gravi. O corrisponde al famoso: “ho fatto gli esami, e sono tutti giusti!” sottinteso... non ho il diabete, neanche l’anemia, quindi (illuso!) sono sano; o invece “...ma c’è questo valore del colesterolo più alto che turba ... perché – coscienza sporca - forse “dovrò cambiare il modo di mangiare?”, “mi verrà qualcosa?”); o nel senso che se va bene questo grasso, gli altri valori ... (speriamo in Dio! Infatti, se chiedo “hai fatto anche quelli dei tumori?”... “no, quelli no, facciamo le corna”). Ma assomiglia anche ad un adrenalinico percorso a ostacoli tra apolipoproteine A e B, VLDL, LDL e HDL, grassi saturi e insaturi, trigliceridi e ... luganega,  zigzagando tra i quali riuscire ad arrivare al traguardo che è continuare a mangiare il cotechino o il lardo di Colonnata, le fave col salame, i biscottini col burro, la gorgonzola o la ricotta (quella magra, mi raccomando!) e avere normali i valori ematici (autodimostrando non essere necessario dover dominare la gola per arrivare alla meta di invecchiare).

Bah! i meandri della psiche sono infiniti ed è certo che questo beato colesterolo è riuscito ad entrare nel profondo della cultura generale da diventare “il simbolo” del male, prendendo il posto dei giornalieri dimenticati peccati capitali (provate un po’ a ricordarli tutti), a suo tempo insegnati dal Parroco e fin troppo comodamente chiusi in cassaforte (preziosi ma scomodi).

Non confondiamo le idee: non è che preoccuparsi del colesterolo sia uno sbaglio: la verità è nella misura del problema; ovvero non ha così tanta e vitale importanza come temuto; o meglio, non è l’unico ma  uno dei tanti pericoli che ci presenta la vita, e neanche il più insidioso.

A questo valore, si iniziò a dare importanza quando concomitarono – da un lato la possibilità di misurarlo nelle sue frazioni; e, dall’altro, quando l’industria dei farmaci trovò un farmaco capace di abbassarlo. Maliziosamente, non è peccato trovare una corrispondenza tra gli enormi interessi economici legati alla vendita di questi prodotti e la ‘pompatura psicologica’ formata sia da fiumi di soldi spesi per farne parlare gli ‘esperti’ e per maliziosamente individuare sempre voci nuove di mercato capaci di singolarmente o più specificatamente agire su questo o quel valore (da nomi nuovi di steatine, alla soia, ai fermenti lattici). Il tutto, malamente arginato dai vari Ministri della sanità o della salute (spaventati dall’enorme spesa in quella direzione) i quali aggravarono l’insicurezza ponendo i così detti “paletti” o “le note”  che permettono la prescrizione solo per valori superiori ai 300, o obbligano all’aleatorio controllo della parentela: limiti somiglianti ad una debole transenna che vorrebbe arginare una massa di gente in movimento e in preda ad una ben specifica ossessione, e quindi miseramente falliti perché dimostrativi di un irritante ‘ma allora, mi vogliono morto!’ e conseguente disobbedienza generale.

Ossessione, perché, dicevo, è  un problema che vale cento, ma viene vissuto, pompato, come mille; ed anche perché, poverino, in fondo in fondo un poco di colesterolo è indispensabile all’organismo, se non altro per formare tanti ormoni altrettanto vitali. Ma ossessione anche perché nell’ambito delle malattie vascolari (delle arterie in particolare, con nomi antipatici tipo infarto, ictus, trombosi, embolia, ecc.) se statisticamente c’è una prevalenza di ipercolesterolemici, sia chiaro che essa non vuol dire tutti, ma solo che ce ne è di più, senza precisare chi (ovviamente a scapito dei giovani che non si controllano) e quali altri elementi sono intervenuti (dall’età, alla ereditarietà, dalla pressione al sovrappeso, dal diabete al fumo, da ...a ... non lo sappiamo neppure noi medici). Troppa fatica e ulteriore stress andare a controllare le etichette dei cibi, sapendo che sono ingannevoli (che vorrà dire “magro” o addirittura “zero grassi”?: potrà essere naturale un prodotto senza?

Diamoci una regolata, per favore.

Nella vita quotidiana ci sono altri ben più pesanti pericoli, sia  vissuti con beata incoscienza o sia determinati dal far finta di poterci fare nulla o sia ancora sottovalutati per non affrontare argomenti più rognosi o vizi che nell’intimo gradiamo non modificare: dallo stress mentale allo smog del traffico, dai cibi  riempiti di veleni (carni con antibiotici e ormoni; verdure con pesticidi) ai vizi del fumo e dell’alcol. Riuscite ad immaginare quanti soldi risparmierebbe la sanità pubblica se diventassimo tutti benpensanti ‘naturalisti’ e abbassassimo il colesterolo modificando le abitudini alimentari o facendo del sano escursionismo.

È da sciocchi far finta che la verità sia una sola, e pensare che tutti gli altri difetti di vita hanno poca importanza, purché che sia giusto il colesterolo!

ALLEGATO 08 - TRALLALERO

Sanremo e Napoli, una per un verso e l’altra per l’altro, sono le due città in campo nazionale ed internazionale che propongono un tipo di musica, definita ‘leggera’, che è diventata il modo di cantare popolare. È un dato di fatto quindi, ben conosciuto anche nel campo commerciale che quando alla bella musica ed al bel modo di suonarla si associano sia belle parole che un bel modo di cantarle, l’esprimere così i propri sentimenti: più di tutti l’amore, ma anche i messaggi di rancore, di desideri di andare o volare, o i ritratti di vita comune,  rende d’impatto sicuro la conquista dell’ascoltatore. I tentativi di diversificarsi sono innumerevoli; ma nel mare magnum in cui ciascuno propone il proprio – a partire dai cantautori – non tutti hanno successo.

Ogni città, nel suo mondo più piccolo e locale, ha i suoi “cantori”, più vicini di casa e più dentro il cuore, sia perché parlano lo stesso linguaggio, sia perché raccontano gli angoli della amata terra, e di essa gli avvenimenti, gli amici, la vita di tutti i giorni.

Noi a Genova abbiamo la fortuna di avere, oltre a numerosi ed apprezzati cantautori, anche “i canterini”, con repertorio genovese tradizionale ed esclusivamente dialettale. Sono pochi, ma gente straordinaria. Una squadra polivocale che rappresenta un vero e proprio fenomeno musicale in quanto importante appare il ritmo, più che le parole. Gruppo  capace sia di interpretare la musica e le parole facendo tutto da soli: accompagnamento (chitâra), voci alte del contralto (o segondo, necessario nel perfezionarsi nelle osterie, dove le donne non entravano), vosi basse (baritoni, e basci) e tenore di base (o primmo), imitando infine le tonalità dei vari strumenti.

Ne esce un intrecciare vicendevole del proprio canto, con il quale riescono ad esprimersi in modo caratteristico ed irripetibile. E ciò li pone molto più in alto di quello che i soloni li classificano, e che i commercianti ignorano solo perché dialettali.

A mio sentimento, non è solo questione di tradizione, studiata e poi mantenuta ad usum dei posteri o – come scrivono loro stessi – che oggi porgono al domani il canto di ieri; ma anche vera ed unica maniera di interpretare la musica, in modo – come detto all’inizio – da conquistare l’ascoltatore e di fare spettacolo. Infatti, nell’ascoltarli dal vivo si centuplica l’effetto.

Provare per credere.

ALLEGATO 09 – saluto a Maria Vietz

Cara Maria, abbiamo capito che non leggeremo più i tuoi ‘pensieri’. È un duro colpo. Perché da quando leggo il Gazzettino  la prima pagina cercata è sempre stata quella in dialetto, anche se col genovese ho non poche difficoltà ... colpa dei genitori, come al solito, che tra loro lo parlavano quotidianamente e per noi figli seguirono alla lettera i dettami del regime e della scuola di allora.

I tuoi raccontini, misti di umore e sincera tenerezza, uniti alla musicalità del dialetto, ogni volta mi riportavano immediatamente all’epoca della gioventù ed alla città nella quale sono cresciuta, collegandomi a quando, fin da piccina ascoltavo la parlata per strada o sui mezzi pubblici, e ne restavo affascinata. E la giornata era subito migliore, più piena di vigore e di speranze.

Spero  vivamente che ogni tanto un pensierino continui a farlo e scriverlo sul Gazzettino: per lui, per noi, per me. E, grazie.

Una lettrice Annamaria Giudice

ALLEGATO 10 -  SPdA e sTeodoro unite in politica, divise nella storia

Alle prossime elezioni, verrà eletto il Sindaco di Genova e, con esso i Presidenti e Giunta dei Municipi periferici tra i quali il nostro, definito Centro Ovest II il quale abbastanza impropriamente – ma utile sul piano politico - unisce due parti territoriali di Genova che poco o nulla hanno di simile ed in comune (i tempi tendenzialmente disgreganti non favoriscono una miscela monocorde; ma nel tempo, avverrà. Anche se  per adesso, dopo già svariati anni, c’è ancora sostanziale e netta separazione ed indifferenza. Anche il Gazzettino, nato sampierdarenese, si propone di allargarsi al sestiere limitrofo, ma per ora con scarsissimi risultati in quel territorio: sia di collaboratori, per primi, sia poi di articoli di interesse locale e sia infine di abbonamenti o vendita. E così andrà avanti finché nei secoli qualcosa ci unirà malgrado siamo ancora separati da mura seicentesche che, dai tempi della loro erezione hanno significato che fuori di esse è periferia e dentro è... Genova: un atavico retaggio psicologico di ben netta separazione, ma soprattutto di sufficienza (che non ha San Teodoro, ma che ha Tursi. Infatti, per Genova, aver lasciato san Teodoro aggregarsi con San Pier d’Arena, disconoscendolo come ‘Centro’, direi che è costato poco essendo un quartiere con tantissima storia antica ma fatto prevalentemente di cittadinanza ‘nuova’; per San Pier d’Arena costa poco purché il fulcro degli eventi e delle iniziative sia qui; in un periodo di non gradimento di ulteriore diluizione dell’identità proprio mentre si cerca disperatamente di non perdere quel briciolo di orgoglio di appartenenza, il cui sopore ha lasciato le redini in mano ad un potere sotterraneo che sta rendendo il territorio preda della delinquenza e prostituzione.

ALLEGATO 11 -  l’antica salta ai Bastioni

Da dietro l’abbazia di s.Bartolomeo del Fossato, inizia salendo un ripido sentiero  che si inerpica - non certo con le caratteristiche di una strada ma come semplice  tratturo da capre, con scalini irregolari di sassi sconnessi, largo a volte 30-40  cm. non sempre pulito dalle erbacce invadenti, la via che la targa definisce “Salita ai Bastioni”. Tagliando tangenzialmente tutti i tornanti, arriva in alto a sbucare in ‘via Sotto le Mura degli Angeli’ (o a via Porta degli Angeli come dice erroneamente la toponomastica).

Questo tratturo fu ufficialmente titolato con delibera del podestà, il 19 agosto1935. Penso che in tutta la toponomastica genovese, sia l’unico ‘riâ, (o redola, microviottolo, o come si può definire questo che sembra più un percorso dell’acqua piovana) con tanto di targa di marmo; ovviamente, neanche fa parte dell’itinerario “delle mura” essendo ignorato e pressoché impraticabile. Comunque, salendolo, la vista è effettivamente ancor oggi occupata dalle possenti mura seicentesche.

Le varie cerchia di mura di Genova susseguitesi nel corso dei secoli, avvennero adattandosi sia all’aumento della popolazione e quindi del territorio urbano occupato; e sia all’aumento della potenza distruttiva nelle nuove e sempre più potenti armi da fuoco e delle tecniche di assedio.

Il termine bastione è molto usato – come nel nostro caso - col significato generico di mura difensive; ma nello specifico è un’opera fortificata esterna alla cinta. 

Queste mura, che costituiscono la settima ed ultima cinta muraria (lunga in totale ben 19,560 km.), nacquero dopo il tentativo - anno 1625 - dell’ambizioso Carlo Emanuele I - di occupare Genova dopo essersi impossessato dei centri genovesi d’oltre Appennino (Gavi, Novi, Voltaggio) per avere uno sbocco al mare. Il su detto duca di Savoia fu sconfitto vicino al passo dei Giovi, nella battaglia del monte Pertuso (ove fu eretto, in memoria, il santuario della Vittoria); ma per Genova permaneva il pericolo di questo vicino, bellicoso di famiglia nonché megalomane di carattere, offeso dalla sconfitta nella sua dignità e che teneva accesa anche la “questione di Zuccarello”, ambito feudo genovese di confine.

Genova doveva stare attenta a non urtare nessuno, perché sapeva di essere ricca ed appetitosa, ma debole e poco armata, troppo soggetta agli equilibri dettati dalle grandi potenze (Spagna e Francia su tutti).

I Senatori, nel 1626 si videro costretti a spendere: o costituire un esercito di mercenari, con tutte le conseguenze del mantenimento e fornitura, o potenziare ed allargare ancora le difese,  valutandole in un’ottica più vasta  (cioè considerando sia i nuovi mezzi di guerra, che quelli di difesa che prevedevano tutta una serie di trinceramenti e parapetti per postazioni di artiglieria  tali da intersecare la vallata di San Pier d’Arena e Polcevera.

Il 7 dicembre 1626 si fece la cerimonia della posa della prima pietra: Gian Vincenzo Imperiale (il proprietario della villa oggi impropriamente più conosciuta come Scassi) fu incaricato dei festeggiamenti, avvenuti su un piazzale fatto spianare appositamente  dopo averlo abbellito di decori e festoni. Nel gennaio successivo fu eletto Ansaldo De Mari quale Magistrato delle Nuove Mura e fu dato l’avvio ai lavori indicando di seguire il progetto degli architetti militari Bartolomeo Bianco e  padre Vincenzo Maculano, detto da Fiorenzuola.

La possente muraglia  di pietre grigie scolpite alla perfezione, servirà marginalmente durante il bombardamento navale del 1684 fatto fare per cinque giorni consecutivi da Luigi XIV, e durante gli eventi del Balilla nel 1746; ma  invece servirà decisivamente durante l’assedio austriaco contro Massena dell’anno 1800. Dopo il 1815 – con Genova annessa al Piemonte - servirà altrettanto marginalmente ma a senso invertito:  con le guarnigioni rinforzate e le armi puntate  sulla città per tenere a bada qualsiasi idea di ribellione ai Savoia.

E così, i  bastioni vennero a separare in forma decisa quello che era “dentro” da difendere, quindi la città col suo porto, da quello che restava “fuori”, cioè il suburbio, la campagna o quantomeno il non difendibile di fronte ai frequenti invasori. Questa mentalità è rimasta radicata nei genovesi che guardano dall’alto al basso i “fuori mura” e questi ultimi che ricambiano con un certo distacco e non rassegnata volontà di autonomia.

ALLEGATO 12  - recensione Mancuso

Alessandro Mancuso, 70 ville antiche a San Pier d’Arena, ed. Golden Press, 2012, pag.162

È uscito dalle stampe un nuovo libro sulle ville di San Pier d’Arena. Il titolo, richiama subito l’attenzione e la curiosità anche del passante più frettoloso: settanta ville antiche! Sorbole! (non uso una parola tipicamente nostra, perché non sempre si può liberamente scrivere, anche se  il lettore locale ben la conosce). Infatti, anche il mio cuore esulta, come quando – da qualsiasi parte provenga -  si parla della mia città, la si valorizza, si cerca in tutti i modi di far apprezzare che ella vale mille (anche se viene normalmente svenduta per dieci).

Scorrendo il libro, diviso in itinerari, vengono singolarmente e dettagliatamente spiegati gli edifici, la loro ubicazione e le loro salienti caratteristiche, in modo che seguendo il percorso, il lettore – quasi con libro nella mano – possa facilmente apprendere la bellezza di molte delle ville (anche se col cuore stretto da una mortificante morsa dovuta a come l’uomo è riuscito a rovinare il bello a vantaggio del proprio comodo), la loro struttura e storia. Leggendolo poi, oltre il piacere di scoprire particolari  riferimenti a questi antichi edifici, tanti esistenti e trasformati, tanti demoliti, comunque altrimenti sfuggiti o sottovalutati in altre letture, nel mio intimo di brontolone insoddisfatto, da un lato non posso non accorgermi, e gioirne, che di gente che ama la nostra città ce ne è molta.

La andiamo a cercare

ALLEGATO 13 - Il cervello è macchina imperfetta - Pescivendoli con la cravatta

Può capitare: un gesto, un’occhiata, una battuta non capiti o mal interpretati che scatenano una inutile bagarre; inutile, partendo dal presupposto che tutti i comportamenti dovrebbero essere alla base del dialogare, ovvero “della capacità di cogliere il modo di vivere degli altri”, anche non comprendendo il fatto alla prima, e sopra tutto  senza sentirsi quelli che stanno sempre dalla parte del giusto). Crack! il bon ton se ne va in una crisi  clamorosa, da lasciare attoniti gli astanti.

Non sono pochi quelli che – perduto il self control - usano reazioni clamorose e urlano, senza ritegno alcuno e senza freno, al fine inconscio  sia di sopravalutare se stessi e sia di mettere in difficoltà la controparte. Più sono malati o deboli di carattere, e più urlano per imporre il loro ossessivo pensiero che è quello di essere l’unico ad avere ragione. Come i cagnetti piccini che, se vedendo un cane più grosso, abbaiano sguaiati e petulanti, forse per avvertire tutti i presenti che lui ha ragione, mettendo in perdita un pacato confronto.

A volte, gridare fa bene alla salute psicologica, perché è uno sfogo: ricordiamo le ‘ratelle’ di Marzari (se ci si ride sopra),  Toni Dallara che fu tra i primi cantanti definiti urlatori e le colte lezioni di ‘rabbia in famiglia’ tenute al Ducale pochi mesi fa; anche se il medico precisa, sia che simile sfogo fa parte delle forme istintive  impulsive-compulsive, tipiche dei soggetti che sono alla ricerca di grandi soddisfazioni personali ma con uno sbilanciato rapporto basso con il mondo attorno (ipervalutazione dell’io e/o svalutazione di certi valori come l’amicizia o l’educazione delle relazioni); e sia che se la sfuriata è accompagnata a rabbia, in genere non fa bene alla salute perché comporta una scarica di adrenalina con conseguente vasocostrizione generale e finale innalzamento brusco della pressione).

Solo entro le mura domestiche – anche se con le dovute dimensioni, ricordando che l’ira è una dei sette vizi capitali -  possiamo concedere che, perdute le staffe,una persona si sfoghi ad alta voce. E  sono comprensibili a tutti certe ‘esplosioni di energia verbale’ in determinate circostanze globali: allo stadio per esempio, ove le parole del gatto si sprecano; la voce alzata dal genitore di un bambino ribelle, premonitrice di sculacciata; un diverbio al bar col famoso “tegnìme se no l’ammasso”; dal finestrino di un’auto, lo sbraitare ‘deficiente, chi ti ha dato la patente!”; ecc. Per strada invece, esiste il matto che parla alle sue allucinazioni o - per mestiere - il pescivendolo ambulante, commerciante che – penso unico - tradizionalmente caratterizza il suo lavoro con clamoroso richiamo di attrazione verso il suo banchetto gridando ad alta voce di ‘donne! anciue!!!’ oppure ‘gianchetti  belli!!!’

Questi sopra descritti, non sono quelli del titolo.

Esso è riferito a quelli che, con scarpe lucide, pantaloni stirati, giacchetta e cravatta – quindi mascherati da gentiluomini – gridano le loro ragioni per imporre l’attenzione di tutti ed intimorire l’avversario. Ovvero, quando dentro all’abito elegante c’è in realtà un pescivendolo che pretende attenzione alla sue ragioni.

Infatti, a chi viaggia  con giacca e cravatta tutto ciò non è ammesso perché l’abito vuole sottintendere che vuole non porsi a livello popolare ma di persona che si vuol dare un tono, che vuole far sapere in modo indiretto di sé che - lui non scenderebbe mai i gradini di un molto dignitoso comportarsi, di uno che - è fondamentalmente un sincero democratico, che – sa cos’è ed impone a se stesso il self control  non solo nel normale vivere ma proprio nei momenti  più impegnativi.

È per questo che stupiscono ed indignano i parlamentari quando scendono di livello. Il falso bon-ton è più volgare della volgarità di uno scherzo.Ve l’immaginate uno che a teatro, tanto per citare un ambiente serioso, e – foss’anche per un motivo giustificato - si mette a urlare le proprie ragioni; ma anche solo ad una conferenza o in casa di amici, lo stesso comportamento, che evidenzia quanto egoisticamente il personaggio sia sensibile solo al torto – che lui interpreta subìto - e non all’onore del padrone di casa che lo ospita.

Insomma, la ‘spocchia’ di ritenersi superiori, di ritenersi il sale del comportamento, gli unici ad avere la password dell’educazione, da una parte lui colto ed intelligente e gli altri zotici e maleducati -  e poi alla fine, alzare la voce per farsi sentire, è sempre il segnale di peggiore ineducazione di base. Ci deve essere una coerenza tra valori sostenuti e comportamento; falso moralismo è quello di chi nega possano esistere valori o comportamenti differenti dai propri. E più uno appartiene ai vip o si dà le arie di farne parte, e più non dovrebbe cascare in questa forma di nevrosi impulsivo-comportamentale. Peggio ancora se poi si giustificherà dietro al famoso ‘io sono fatto così’. Eh no, caro amico, se sei fatto così datti una regolata e – chiedi scusa innanzi tutto - e poi cambia; perché alla fine sei più meschino di chi ha commesso lo sgarbo – voluto o ancor peggio se frainteso. Perché da uno colto e che si veste da scignoro, si pretende ben altro che solo esteriorità ma, con appropriato dialogo, la ricerca di chiarezza e misura dell’equivoco.

Speriamo che la vita, da tutti,  sia vissuta con gioia; ma sopratutto con humor mentale e col sorriso sulle labbra: senza di loro non c’è goduria ma solo tanta grettezza. Ovvero, il contrario di avere la cravatta al collo e tanto frustrante sussiego sopra!

ALLEGATO 14 – inaugurazione di villa Serra-Doria-Monticelli-Baselica

Il giorno 4 maggio verrà inaugurato nella villa Serra- Doria di via Daste, 34 (angolo via della Cella)  un centro di ospitalità per congressi, convegni, nozze, ecc.

L’ambiente è molto più che decoroso, rimesso a nuovo nei recenti restauri che hanno conservato gli antichi soffitti affrescati dai pittori della famiglia Calvi e hanno reso i vani magnificamente luminosi, con ampie vetrate e evidenziazione del ‘senso del bello’.

Il Gazzettino plaude questa impresa, che dona alla nostra città il senso del prestigio e l’onorevole dignità che le compete, in ambiente competente, in mano a persone competenti; ed augura  trovi terreno fertile per migliorare reciprocamente.  

ALLEGATO 15 -   SINDACI

Se la prima chiesa parrocchiale di San Pier d’Arena, dedicata a san Martino, appare già citata nell’anno 1006, in cui pagava le decime a san Siro; e se la abbazia di s. Bartolomeo del Fossato risale all’anno 1064,  appare ovvio che, alla data di oggi,  la nostra ‘Piccola Città’ ha superato il millenario della nascita.

In quegli anni lontani, San Pier d’Arena era un borgo, composto da poche centinaia di abitanti, ed era già soggetto al potere di Genova che, nella sua organizzazione politica, primo impegno fu  staccarsi dal giogo dell’impero tedesco e dichiararsi libera ed autonoma Repubblica. A governare gli affari interni - sia politici che  militari, in pace ed in guerra, divennero le famiglie dei ricchi imprenditori marittimi e terrieri (molti già funzionari dello Stato feudale e pertanto dapprima chiamati visconti poi ghibellini; o delle autorità religiose, poi chiamati guelfi); fautori però assieme  dell’espansione verso tutta l’area del Mediterraneo. Essi iniziarono ad accomunarsi tra loro chiamandosi Compagne, insediandosi ciascuna famiglia in un settore della città, ovviamente bisticciandosi anche sanguinosamente. Sorsero così otto rioni distinti, i quali inviarono loro rappresentati al governo e insieme formarono la “Compagna Communis”, destinata a chiamarsi brevemente Comune, al cui comando supremo nominarono dei Consoli. Essi avevano sopratutto l’incarico di far osservare le leggi, pagare le tasse (all’Arcivescovo  si pagavano le ‘decime’), fornire soldati (fanteria e balestrieri) e marinai, eseguire le decisioni dei magistrati di giustizia. 

   Anche il nostro borgo, da allora o comunque dalla prima metà di quel secolo, per quel che ne sappiamo, aveva un suo Console e si governava da solo; infatti - seppur sotto l’egida centrale di Genova – ne fa fede il nome di  Alberto di Bozzolo, che ha titolata una strada nella zona Crociera, e che ebbe l’incarico nel 1131. Egli fu uno dei  consoli che ressero il Comune locale, del quale conosciamo solo il nome (scritto in latino e forse più aderente sarebbe Oberto de Bozolo, poi italianizzato per manie puriste), che operò assieme a Bongio de la Sala e Pietro de la Plada, (nomi, stranamente spagnoleggianti) e lasciandoci dedurre l’operato in rapporto ai tempi. I Bozolo dovevano essere una delle famiglie ricche genovesi, poiché nella cattedrale, presso il portale sinistro, c’è una loro tomba risalente al 1342 con, nel muro e a poco meno di due metri da terra,  una scultura (37x69 cm.) in altorilievo di una Madonna in trono - detta “Madonna del soccorso” - con Bambino ed Angeli sulla quale esistevano gli stemmi di famiglia, scalpellati nel 1797.  

Nell’epoca in cui è vissuto, Genova aveva continui capovolgimenti di governo legati alle mire delle varie famiglie di potenti: per esempio, più conosciuti, dei guelfi come i Fieschi e Grimaldi; dei Ghibellini invece i Doria e Spinola. 

Dapprima Genova iniziò l’espansione territoriale circondaria, con differente e forse un po’ ambiguo comportamento perché, fu di dominio – amministrativo e politico - in Liguria, dalla Lunigiana alla Gallia; mentre era di semplice sede mercantile nelle altre terre, tipo Campania, Sicilia e nell’entroterra (Voltaggio; Alessandria); solo Ventimiglia preferirono lasciarla autonoma.

Sul mare e nelle grosse isole, iniziarono i contrasti con Pisa e con i pirati saraceni: con gli arabi in genere, i rapporti furono sempre improntati a grande reciproca tolleranza e predominio dell’affare sulle idee; solo i motivi di interesse promossero poi battaglie e guerre, o solo spedizioni punitive secondarie a turbativa di potere; ma questo indistintamente sia contro gli arabi che i cristiani.

Verrà poi, prima della metà del 1300 ed allontanati i reggenti ‘foresti’, una maggiore stabilità politica: al governo andò un Senato , composto sempre e solo dai nobili, unici che – oltre avere i soldi - sapevano leggere e scrivere,  retto da un doge. Al posto dei Consoli e degli assessori attuali nominò come amministratori dei vari ‘magistrati’ (della guerra, dei poveri, degli incurabili, ecc) e inviò a turno un nobile nei paesi del genovesato a gestire la parte amministrativa conservando in sede centrale solo quella della giustizia. Quindi, di totale autonomia ne abbiamo sempre goduto anche noi di San Pier d’Arena; a quei tempi, anche se distaccata come governo, Promontorio- e in particolare  la abbazia di san Bartolomeo della Costa - gestiva buona parte anche del territorio di san Teodoro compreso fino a Granarolo.  

Comunque ampia era la libertà di gestione locale,  sia in quella amministrativa  (per saggia politica decentratrice della Repubblica genovese) che in tante  caratteristiche sociali (che andranno dai traffici marittimi al teatro, dal dialetto stesso - con inflessioni diverse dal centro - alla conservazione di strumenti di cultura e tradizione locali, compreso il Santo protettore) ... sino al 1926.

Che io conosca, nulla è stato scritto – e quindi nulla sappiamo – di chi nel borgo si è succeduto sulla poltrona di primo cittadino, nel corso di  sette secoli; fino a metà del 1700  quindi in occasione dei fatti del Balilla, 1746. Sappiamo che il piemontese Botta Adorno (gli Adorno erano genovesi, ma lui aveva scelto stare con i Savoia) alla guida delle truppe austriache, pretese dal sindaco, forse Morasso Giovanni, entro poche ore e dietro minacciose promesse immaginabili, ricovero per gli ufficiali nelle ville private (laddove usarono persino bruciare le porte delle stanze per riscaldarsi), vettovagliamento gratuito (stalla, paglia e biada), buona accoglienza alle truppe e una villa nobiliare personalmente per sé: gli fu assegnata la Serra (poi di Masnata e poi del Comune per diventare ospedale cittadino ed oggi scuola) di via A.Cantore. 

Quando nelle ultime decadi del 1700, Genova si donò ai francesi (giacobini, fortemente laici, genericamente aggressivi, molto – anzi esclusivamente – interessati ai benefici della loro terra oltralpe e non di quelle amministrate), i sei sindaci che si succedettero furono da loro chiamati ‘maire’. Essi spostarono il Governo a Rivarolo, chiamandolo “della Polcevera” (comprendente in nostro paesino, Cornigliano e Promontorio) mandandovi ad amministrarlo un nobile eletto dalla Rep.ca e scelto per due anni tra quelli del Minor Consiglio. San Pier d’Arena divenne così: sul piano religioso, una delle otto Pievi principali; mentre  politicamente una delle tre sedi Podestarili della Città Dominante. Il borgo era allora  distinto in 3. quartieri (Pieve o san Martino, Mercato, e Capo di Faro o Coscia). Questo  ordinamento, rimase immutato sino al 1800, quando col governo napoleonico si applicarono profonde  e radicali riforme. In quell’anno ci fu il francese Massena chiuso entro le mura, assediato dagli austriaci  accampati a Rivarolo e Coronata, e San Pier d’Arena usata come terra di nessuno, che fu bombardata dagli inglesi anche dal mare al passaggio di truppe assediate quando cercavano di alleggerire la morsa.

Nel 1815, col Congresso di Vienna,  ed il regno dei Savoia, nuovo dominatore dell’estinta Repubblica, ritornò in carica un sindaco.                                                                                          Primo fu, Mogiardino Antonio insediato1817 (giurerà in riunione straordinaria il 1.aprile 1818; (morì nel 1820); ogni tre anni si rinnovò la carica tra coloro che sapevano leggere e scrivere e fossero sopportati da loro maestà visto che – repubblicani di base - mai nessuno, al di là delle dovute procedure burocratiche e cerimonie,  cedette alle lusinghe di – per esempio - intitolare una strada ai sovrani; e mai la carica di sindaco fu assunta da un nobile titolato. Nel 1856 il borgo divenne città.                                                                                                                                         Unita l’Italia, appena il governo centrale divenne romano e concesse poter accedere al Parlamento, i rappresentanti sampierdarenesi saranno sempre popolari, tendenzialmente repubblicani mazziniani e giudicati di sinistra. Dagli anni a cavallo tra 1800 e 1900, per due decadi e più, la Giunta locale fu addirittura anarchico-socialista (la quale scelse intitolare quella che oggi è piazza V.Veneto all’anarchico spagnolo J. Ferrer ed una strada al ministro francese Jean Leon Jaurès di quell’orientamento politico).                                                                                                                                                 Lungo ed arido l’elenco delle persone che assunsero tale impegno; anche se sarebbe doveroso ed onorevole rammentarli uno per uno. Così, citiamo solo i più conosciuti:  Romairone Giuseppe; Balleydier Luigi; l’avv. Tubino GB; l’avv. Bonanni Gerolamo; l’ing.Ronco Nino (che rimase in carica dal 1901 al 1907 ed ha una strada a lui intitolata); il dottor Peone Gandolfo, medico, primo socialista a ricoprire la carica, nel periodo 1908–1915; rag. Bettinotti Mario, reduce della Grande Guerra ed il più giovane sindaco sino ad allora.                                                                            Anche in epoca fascista l’Amministrazione locale scelse non asservire i governanti onorandoli di targhe stradali o monumenti, neanche  quando Mussolini impose la ‘Grande Genova’ – chiamandola ‘la Dominante’ e fece ‘assorbire’ il Comune di S.P.d’Arena in quello di Genova: ultimo sindaco locale fu Manlio Diana, quello delle conserve inscatolate nella villa Crosa di via N.Daste e con magazzini e fabbrica in via A.Castelli.

Agli inizi degli anni ’80, tornarono a governare perifericamente i Consigli di Circoscrizione i quali, seguendo la moda (di cambiare nome, mantenendo la identiche funzioni di solo suggerimento delle necessità desiderate), divennero Municipi, ed i così detti mini Sindaci divennero Presidenti (ma pur sempre senza potere decisionale, accentrato a Tursi).

ALLEGATO 16  San Pê d’Ænn.-a comme l’ea  - il forte Tenaglia

Per vedere San Pier d’Arena dall’alto, c’è l’aereo - dal cui finestrino mentre si atterra - guardandola dal lato mare e da poche centinaia di metri, anche se a oltre trecento chilometri all’ora - lo spettacolo dalla Lanterna al Polcevera è da mozzafiato e ricco di passione.

Volendo guardarla dai monti, il punto più alto è dal forte Tenaglia, di poche centinaia di metri sul livello del mare ma dal quale si gode – con calma - il panorama della nostra città e della Val Polcevera, allargato alle due riviere: da lassù, si spazia da Capo Mele a Portofino; con a volte, più o meno velata, la Corsica.

Non è solo il panorama che rende meraviglioso il posto, ma anche il trovarsi immersi nel verde ora ben curato, a sua volta incastonato nelle grigie mura possenti - in alcuni punti alte una ventina di metri, sulle quali abbondanti sono i profumati cespugli di timo, sovrastanti il cimitero della Castagna il quale, nascosto dalla vegetazione dentro la quale scorazzano i cinghiali, neanche è visibile salvo che uno proprio voglia andarlo a vedere tra le frasche.

Una terza cosa rende accattivante il posto è l’accoglienza degli ospiti che hanno in gestione il maniero ed i cui programmi sono esaltanti lo spirito, di per sé già elevato dai due  motivi su descritti (panorama e mura): ristrutturare le costruzioni, renderle abitabili, e fornirle per un uso ‘progetto famiglia’ di ampio respiro e profondità sociale. Questa finalità, nella sua vastità, sembra una utopia; ma la certezza che esprimono gli occhi di chi ce la descrive, fa capire di trovarsi davanti a persone ‘non normali’ nella percezione di ampi spazi, larghe vedute, grande fiducia, enorme ideale e offerte dalle loro tasche ... visto che per ora, a parte tutto l’intorno che con lavoro immane e volontario è stato risanato e pulito, aspettano i soldi (compresi quelli del 5perMille della gente che legge) per mettere in atto il progetto, architettonicamente stilato gratuitamente da valenti professionisti concittadini.

Del forte, storicamente si può facilmente distinguere un settore interno, corrispondente alla parte seicentesca delle mura: essa, fu eretta con la settima cerchia completata nel 1630, già descritta il mese scorso; evidente e tangibile l’ingegnosità e grandiosità, che rendono questi muraglioni estesi per venti chilometri  e secondi solo – anche se con la dovuta proporzione - alla muraglia cinese.

Attorno ad essa, sempre con possenti mura spesse oltre tre metri, le nuove mura, quasi bicentenarie fatte costruire dai Savoia con un fine meno nobile anche se con grandezza di mezzi: tenere a bada i genovesi e dintorni, con fama di ribelli e di essere ‘malcontenti’ della presenza delle loro maestà essendo divenuti loro malgrado e dopo centinaia di anni di indipendenza, recenti conquiste fatte a tavolino.

Tenaglia era stato chiamato, perché rispetto il giro a piramide delle mura, questo forte si protende all’esterno, verso la val Polcevera, con la stessa forma della testa superiore dell’attrezzo da meccanico.  Applicata ad un montante di un cancello delle mura più recenti, c’è ben visibile una piccola lapide marmorea  su cui è inciso “Tenaglie”. Non credo un errore, penso un francesismo: dobbiamo tenere conto che nella reggia dei Savoia si parlava solo francese e, in quella lingua, l’attrezzo viene chiamato tenaille. Così fosse, un noioso come me, si ribella e si rifiuta: il progresso non deve essere distruttivo; lotto disperatamente contro tutte le modifiche o deformazioni delle nostre tradizioni e del nostro meraviglioso idioma: non solo il genovese ma anche l’italiano; magari a volte giustificate, ma molte, troppe, in abuso: con francesismi (oggi, meno frequenti) o inglesismi (oggi imperanti) o, ancor peggio, deformazioni spacciate per vezzi gioiosi (tipo Crocera e Fiumara Antica, Tre Ponti e san Benigno al posto della Coscia, Orgiero e Lungomare; ed ora anche Tenaglie, giustificate come divagazioni fanciullesche o – ancor peggio – per dare un tono di differenza, di superiorità, di élite (ops, ... ecco un francesismo di troppo!) a chi si esprime, quando invece le nostre cose sono belle così come sono, migliori delle straniere, e da proporre con vanto senza servilismi.

Comunque, tornando agli ospiti del forte, loro sono meravigliosi: hanno costituito l’associazione “la Piuma” a fine 2006,  presso la vicina  abbazia di san Bartolomeo della Certosa  con l’impegno statutario di gestire in modo professionale un Fondo di solidarietà ed una Casa famiglia, adatte alle possibilità economiche dei gruppi da ospitare, animate da uno spirito legato ai principi della religione cattolica ovvero del rispetto e valorizzazione della dimensione culturale e spirituale della persona. E, assai tangibilmente, il progetto è serio e ben gestito; non utopia né vanagloria.

Alle parole han fatto seguire i fatti; non tutti, ma quelli attuabili dalla buona volontà, tutti: le necessarie autorizzazioni delle autorità coinvolte, la pulizia dai rovi imperanti, risanamento dei prati e delle piante, rimozione dello strato di terra e rifiuti che coprivano i pavimenti di pietra, la messa in sicurezza delle strutture che aspettano il ripristino, i progetti stilati gratuitamente da architetti di fama e consegnati all’approvazione, ed infine buon ultimi ma primi, come dicevamo all’inizio, l’impegno dei soldi necessari. Frequenti le iniziative e promozioni di visita del forte e mirate a far conoscere il sito, sicuramente in crescendo specie dopo il ripristino anche della strada di accesso.

 

ALLEGATO 17 -  le zecche

Girando all’aria aperta, nell’erba incolta dei prati, nei bassi cespugli laddove c’è umido e ombra, è possibile prendersi una zecca, piccolo animaletto (da uno a sei millimetri) che vive all’aperto, resistente anche in condizioni ambientali sfavorevoli, più frequenti da primavera all’autunno, colpisce l’uomo e gli animali, specie i cani ai quali è opportuno applicare la prevenzione, ed ai quali si attacca come all’uomo, tramite un rostro.

Il più delle volte, specie se ci se ne accorge entro pochi giorni, succede nulla. Ma può essere pericolosa, con conseguenze anche gravi e quindi è necessario sapere come agire. Innanzi tutto, calma: non è questione di fretta: essa può creare più danni che vantaggi. Infatti occorre rimuoverla correttamente, preparandosi prima tutto il materiale necessario (pinzette e disinfettante; un foglietto di carta bianca, lente di ingrandimento, un ago sterile.

Prima di spiegare il procedimento, rendiamoci conto che essa è composta al 90% dal corpo, il quale ha 4 zampette ai singoli lati; all’apice ha una piccola testa (la quale è 1/3 del tutto) munita di rostro o tenaglie (che è 2/3 di quello che sembra testa). È questo ultimo che penetra nella cute e con cui rimane attaccata, succhiando il sangue che rende più sciolto con la saliva (la quale, è quella potenzialmente infettante). Pressoché inutile ed improprio coprirla con sostanze tossiche le più disparate o grasse, sperando bloccarle la respirazione per costringerla a mollare la presa; e ciò sia perché gli atti respiratori sono molto radi, anche con intervalli di ore; sia perché il rostro è come seghettato e anche se l’animale volesse non è facile neanche per lui ritrarlo.

Con un paio di pinzette, senza schiacciare il corpo, afferrare l’animale più vicino alla cute possibile e con trazione lenta e costante verso l’esterno, tirarla via.  Poggiarla su una carta bianca e controllare che sia completa di testa. Chiudere la carta e bruciarla o gettarla nel water tirando lo sciacquone. Se la parte estratta è senza la testa o si vede il puntino nero sulla cute, occorre procedere come quando si vuol togliere una spina: con la punta di un ago sterile, rimuovere la pelle sino ad estrarre il corpo estraneo. Disinfettare la ferita.

Normalmente l’organismo guarisce da solo, senza conseguenze. Per prudenza, a distanza di tempo, controllare la zona colpita: se appare arrossata, rivolgersi al medico; altrettanto se compare dolenzia locale, specie con febbre. Non assumere farmaci, specie antibiotici, senza controllo perché si impedisce ricostruire l’evento e programmarne la continuità (infatti occorre assumerli per un po’ di tempo più lungo) e perché non tutti sono parimenti efficaci.

Raramente – ma possibili – delle conseguenze infettive tra le quali una anche grave, la borreliosi  detta ‘malattia di Lyme’ che compare dopo alcuni mesi con dolori artritici, nevriti e lesioni cerebrali, cardiache e ottiche; e la cui competenza è dello specialista reumatologo.

ALLEGATO 18 -  PREVENZIONE

Appena finito l’evento bellico, con i pacchi UNNRA e piano Marshall arrivò anche la cultura americana sull’igiene e sulle malattie dominanti tipo la pulizia dentale, l’uso delle vitamine e del latte e, non ultima, la prevenzione. Quest’ultima divenne elemento base della cultura medica del dopoguerra, e impegno fondamentale dello Stato quando nacquero le USL: ‘dalla culla alla tomba’.  Finito il boom, i vari Ministri della Sanità, oltre qualcuno a rubacchiare nel sacco, si accorsero che questa promessa diventava gravosa per le casse erariali e, con l’accordo di tutti, iniziò un ‘marcia indietro’ lento e condiviso, limitando progressivamente le funzioni del Medico di famiglia (giudicato produttore di spese) e culminando una decina d’anni fa con un silenzioso ed indiretto segnale di  stop.  Ai medici di medicina generale è ora pressoché impossibile fare prevenzione, dovendosi essi attenere al contenimento della spesa con parametri nazionali che non tengono conto di questo aspetto. Quindi, a quel livello, liberi di farla ognuno per sé; ma solo a proprie spese.

Ecco che ingegnosamente, come si conviene a noi italiani, nascono delle iniziative che vengono a sopperire efficacemente alla carenza organizzativa statale, come sino ad ora eravamo abituati. Una ventina di farmacie in tutta la Liguria, tra cui due sampierdarenesi, promuovono  la campagna di prevenzione “FARMACIA AMICA DEL CUORE” proponendo l’offerta di un check up gratuito a tutti i cittadini di età compresa tra 35 e 55 anni, cioè  la fascia che statisticamente va meno a farsi controllare dal medico. Questo anche alla luce delle clamorose morti dovute a cause cardiovascolari che hanno recentemente riguardato atleti italiani in attività agonistica, nel calcio, ciclismo e pallavolo.

La prevenzione offerta è quella classica nei confronti delle malattie cardiovascolari, ovvero del cuore e cervello in primis (infarto ed ictus): controllare alcuni parametri che servono ad allarmare il soggetto nei confronti del suo  futuro: peso, ritmo e frequenza cardiaca, pressione arteriosa ed esami ematici (check-up) di base (glicemia, colesterolo e trigliceridi).  I giovani che risultassero predisposti, potranno essere seguiti per un anno, sempre gratuitamente,  con ulteriori valutazioni (difetti da sedentarietà, problemi di metabolismo, ecc.) per sensibilizzarli  al problema e indirizzarli a successive valutazioni mediche.

Le malattie cardiovascolari sono le malattie che hanno i costi economici, oltre che umani, più elevati d’Europa. Il dato è ancor più grave se consideriamo che la maggior parte delle malattie cardiovascolari è prevenibile e i fattori di rischio sono modificabili poiché legati a stili di vita non adeguati.

ALLEGATO 19  RECENSIONE FAVOLE

Meriana Giovanni, l’öxéllo Peian e altre Favole di Liguria, Sagep 2012, pag.96

Ho una vaghissima memoria di quando, da piccino, i miei mi raccontavano delle favole. Ricordo meglio le letture, sulla Enciclopedia dei Ragazzi, affascinato anche dalle figure disegnate che le accompagnavano. Ma più vivida è la memoria di quando, diciottenne e dalla parte del narratore, raccontavo ai Lupetti le storie dal Libro della Giungla e di Mowgli, scritte da R.Kipling: ricordo i visi dei bambini di otto, dieci anni, estraniati nell’impersonarsi nel personaggio, e vivere , ciascuno a modo suo, le mirabolanti vicende che narravo. Era uno stupefacente spettacolo osservare le reazioni ed espressioni mimiche legate alle vaghe ansietà delle situazioni difficili, sino infine la gioia che esplodeva al concludere il racconto. Se non fosse che stare con tanti bambini per molte ore di seguito, tutti i giorni, è uno stress enorme, quasi quasi invidierei i maestri (ma, è meglio di no!).

Queste memorie e riflessioni, mi hanno portato da adulto ad avere il massimo rispetto per chi scrive favole. Chi le inventa poi, non è solo un poeta ma ... direi un missionario tanto è il bene che fa. Perché, senza scrivere apertamente la morale che c’è in ognuna di esse, nella novella c’è dare il cibo alla mente di un giovane che deve crescere; ovvero coltivare ed usare la fantasia che abitua la mente a produrre idee nuove o collegamenti fantasiosi da tradurre poi in realtà pratiche, e che è  una caratteristica peculiare di noi italiani, che ci viene invidiata dagli anglosassoni piuttosto educati al pragmatismo piuttosto che all’inventiva. Ed è cosa che non fa la televisione la quale offre il pacchetto del racconto bello e confezionato senza dover far nessuna fatica di immaginare.

Ovviamente, ai tempi d’oggi della contestazione, c’è anche chi predica sottrarre ai bambini la fantasia e condurli nella realtà, che è fatta di coetanei affamati, orfani in mezzo a guerre e cattiverie, le peggiori che gli adulti possano fare. Dipende dai punti di vista; che io non condivido a pieno. Ovviamente un sano ‘media re’ non guasta mai.

Meriana si discosta parzialmente dalla novella classica offrendoci, in edizione tascabile e bella edizione della Sagep, una novità che lui stesso specifica ”non sono favole nel senso che si attribuisce a una narrazione di pura invenzione e fantasia, con personaggi che appartengono al mondo immaginifico dei bambini, ma leggende e storia della tradizione locale adattate a favole”. Sembrerebbero così racconti per adulti. Ma nella verità sono adatte anche ai bambini. E, non da poco, aggiunge un decisivo tocco magico: la novella, scritta in italiano è affiancata al genovese. Da leggere noi adulti per svago, ma anche ai bambini perché inconsciamente assimilino anche il seme della lingua madre.

ALLEGATO 20    Violenza presso gli stadi.  IL TIFO

C'era una volta, ed ancora nel decennio dopo la fine dell'ultima guerra mondiale, il tifo: malattia infettiva anticamente mortale, le cui  epidemie – come la peste - erano legate a pidocchi ed a germi specifici. L'igiene e gli antibiotici han fatto scomparire questa minaccia, che persiste solo se si va in certi altri paesi laddove vaccinarsi è sempre prudente. I sintomi erano classici: infezione viscerale addominale con febbre altissima, debilitazione generale, torpore mentale, frasi sconnesse e deliranti alle quali potevano seguire gesti inconsulti e violenti.

Guarda caso, nello sport, si chiama uguale; poiché i sintomi sono uguali: la componente illogica prevale sul sano concetto di sport e, nel suo torpore mentale,  l'io del supporter si immedesima in quello della squadra partorendo un introverso e delirante principio che ella non avrà gloria “senza di lui”: il super eroe che vince e onora i colori, è  lui, e non il risultato sul campo o i giocatori. Ed allora eccolo nei pressi dell'arena: si sente atteso a scendervi come antico gladiatore che si affidava al dio Tifo (un dio evirato, se può interessare), e col suo nome sulle labbra ed imbecillimento cerebrale totale, sguainare la spada (un bastone, un coltello, un coccio di vetro) per difendere l'idolo contro i nemici (l’arbitro, gli avversari, o peggio ancora “i cugini”: secondo il vecchio detto “parenti, serpenti”), distruggendo tutto e tutti per dimostrare che lui è il messia e che nessun altro è fedele come lui, ovvero per dimostrare il suo concetto del “esistiamo solo la squadra ed io” e che “finalmente è arrivato chi fa e si farà temere dagli infedeli”. Tutto sarebbe giustificato dallo stato di torpore mentale e delirio, nel quale l'intelligenza e la coscienza se ne sono andate a spasso, fino all’estremo del suicidio (martirio da samurai? troppo scomodo!) o, troppo più spesso, più facile, dell’omicidio. Se fossimo avvocati difensori, troveremmo delle componenti, chiamiamole a giustificazione: un giro di soldi eccessivo e smaccato; non è facile capire cosa sta succedendo nell’orbita del foot ball il quale si scrive essere da anni ‘stritolato’ dalla Magistratura; ma constatiamo non ripulito mai abbastanza; associati ad  una crescente carenza di cultura civica e ad una tendenza mondiale alla violenza; forse troppo tempo libero e disoccupazione con una mai estinta mentalità da Innominato che, circondato dai suoi bravi, pensava poter dominare con la forza, minacce e pugnali.

Ma il problema specifico sta nel rispondere alla domanda: “perché uno esce di casa con un coltello il tasca?”. Per ora sta ai magistrati decidere i limiti di questo stato illogico causato da questo tipo di tifo, i cui “vapori viscerali salgono al cervello intossicandolo”; ovvero chi, quando e quanto è da punire, e come.

 Rimane il fatto che, troppo spazio libero hanno questo tipo di furbi, prima e dopo.  Per me, in base al concetto del melius preveni...  e del primum movens è invece misteriosa la psiche dei laureati in giurisprudenza, i quali in forma altrettanto egocentrica rifiutano di capire – o per convenienza o potere, fanno finta di non capire - che  tali comportamenti sono invece, sia prioritariamente che a posteriori, di competenza dei medici; ovviamente specialisti non in malattie infettive ma in psichiatria.

 

ALLEGATO 21  

Il cervello, macchina imperfetta - Concetto di virilità maschile e di coppia (uno+uno=unoemezzo)

Sino a cinquant’anni fa, ‘coppia’ era quell’unione tra due eterosessuali, cerimoniata in Chiesa e valida anche per lo Stato. Quindi, sancita con tutti i dettami prevalenti.

Non che non ci fossero i trasgressori, sia politici, sia anticonformisti, sia i professanti altre religioni o atei; e, sessualmente, c’erano sia le minoranze dei ‘diversi’ che le case chiuse... aperte, frequentate comunemente da tanti bravi padri di famiglia. Ma questi erano una silenziosa minoranza, socialmente ignorata ed emarginata dalla massa  che, più o meno ipocritamente e pedissequamente, seguiva i dettami provenienti dagli avi, i quali erano proiettati quasi unicamente sui ‘doveri coniugali’ come da loro concepiti in rapporto alla qualità di vita di allora.

Questi doveri – risalendo negli anni – erano prevalentemente visti da una parte sola: femminile; col beneplacito dello Stato e della religione stessa. Prevalevano per esse le parole:  sopportazione dei conflitti e dei vizi maschili; sessualità intesa unicamente come mezzo di crescita numerica e soddisfazione del capo famiglia; ideale di famiglia unita malgrado tutto; conservazione delle tradizioni; nonché impegno nella realizzazione di progetti e  responsabilità gestionale economica.  Tutti in forma complementare anche se in proporzione differente. I tempi sono totalmente cambiati.

Ora, sebbene siano sempre Chiesa e Stato a sancire le unioni, nel ristretto ambito familiare i singoli della coppia sono più liberi nel comportamento, nella collaborazione e nell’espressione dell’affetto; in molti casi ambedue lavorano frequentando compagnie e colleghi diversi e divenendo economicamente autonomi. Da un lato, è calata di brutto l’importanza della parola sacrificio, ovvero rinuncia a qualcosa per amore dell’altro (a volte tanto, a volte poco; a volte importante a volte superfluo); così che la parola rinuncia  viene spesso sostituita da abitudine, delusione e intolleranza (o estraneità), vari tipi di disaffezione che portano alla separazione. Sull’altro piatto della bilancia è salita la sessualità, ora bilaterale ma ancora intesa come prevalenza dell’edonismo quale piacere immediato e personale  (secondo la scuola filosofica di Aristippo da Cirene, risalente a trecentocinquant’anni prima di Cristo), tanto per segnalare che  nell’uomo tutto cambia e tutto rimane eguale. La coppia non ancora appare mirata al soddisfacimento del/la partner, quanto di se stessi. Questo incremento della passionalità egoista, ha fatto scendere e cadere in minoranza percentuale la coppia che resta unita per altri principi, quali il ‘dovere’, responsabilità (civico, religioso, sociale) o fedeltà ad una promessa fatta davanti a Dio.

Questa cambiamento ideologico, come tutti i cambiamenti, non poteva avvenire senza alcuna ripercussione. Uno tra i problemi che ne sono nati, non potendo trattarli tutti, è la frequente segnalazione di impotenza (o virilità) che colpisce i maschietti e si manifesta con la mancanza di rigidità del pene; la quale impedisce la penetrazione.

In realtà, a creare il disturbo concomitano molti fattori, quasi tutti psicologici essendo rari quelli secondari a malattie fisiche (genetiche, vascolari, ormonali, neuro/psichiatriche, terapie).

Per portare un esempio di risvolto psicologico, una forma di impotenza è riconosciuta possibile quale indirettamente secondaria alla non progettata ‘produzione’ di prole: in molti soggetti la sessualità di coppia scivola in una pratica fine a se stessa e senza uno scopo, e se anche senza fantasia e senso di donare qualcosa, lasciano spazio sempre più prevalente ad altri problemi,  con raggiungimento finale, scalino per scalino, di un  aumento vertiginoso di disturbi dell’erezione e - nelle femmine – di diminuita ’passione o voglia’ di partecipare. Altrettanto, a distruggere il concetto di coppia sessuale, partecipano anche l’eccesso di libertà nel campo sessuale (sia nel senso dell’età che delle forme, sino ad ieri marginali), favorita da libri, riviste, internet, e dall’evoluzione e maturazione del concetto di individualità (dalla privacy a...).

I numerosi scalini a scendere dell’anoressia sessuale sono ciascuno rappresentati da carenza di comprensione e di comunicazione; dal linguaggio, specie nei giovani, che è più sguaiato e trasgressivo, e  questo può incidere nel rendere il rapporto sessuale (forse) più passionale ma sicuramente meno romantico; o da diminuzione della malizia per totale esibizione e quindi diminuzione della fantasia e del divertimento inventato a vantaggio del compagno/a (andare alla scoperta del corpo dell’amato/a); o dal rituale, eseguito con piccoli e frettolosi gesti;  o dall’annacquamento del senso di complicità (di dipendenza, di condivisione, di dolcezza, di solidalizio) pressoché scomparsi o resi di autarchia di fronte alle imprevedibili astrazioni del gioco sessuale e carenza di intimità (in Internet o film).

Alla fine, recenti statistiche segnalano che una coppia su quattro non fa più l’amore. A questo punto, è opportuno ricordare il concetto di reciproco “dovere della sessualità”: per ambedue i gestori legali della famiglia (Chiesa e Stato), la non ottemperanza bilaterale del “dovere” fa concedere la separazione e il divorzio. Queste leggi fanno intendere che il sesso è molto importante, più di tante altre caratteristiche della coppia; a dispetto quindi del tipo di amore esistente fra i due, dell’etica sociale e religiosa, della presenza di figli, dei risvolti economici,  dei beni comuni, dei programmi iniziati; di così tanto da essere vicini al tutto.

Come tutte le cose da condividere, al medico va bene se ambedue i componenti sono sazi così, anche se il complessato è solo uno di essi; diventa violenza quando è monolaterale e questi – senza preoccuparsi delle necessità del compagna - fa nulla per ovviare all’inconveniente. L’uomo deve ricorrere al medico, e con lui risalire alle cause, e magari nel frattempo usare le famose ‘pastiglie blu’ per sopperire alla carenza di libido ed erezione: hanno il vantaggio della sufficiente innocuità (se nei dosaggi e tempi dovuti) e che funzionano (iniziano ad agire dopo 20-30’-dipende se a stomaco vuoto o pieno; e durano varie ore, dipende dalla qualità e dosaggio); con il solo svantaggio del prezzo e... la necessità della compliance della compagna.

L’allontanamento confidenziale dal medico di famiglia al quale poter comunicare questi problemi vissuti spesso vergognosamente, non ha certo giovato alla risoluzione del problema.

 

ALLEGATO 22   Rischio cardiovascolare – per farmacie

  Iniziamo con un po’ di matematica perché lavorare di conto fa bene al cervello e fa restare svegli; e un po’ di statistica che oggi è elemento base per tutti i ragionamenti speculativi, per le linee da seguire nelle operazioni future e che decidono tutte le scelte di convenienza: dalla finanza alle assicurazioni, dalla sanità (e, in essa, dai tumori ai reparti ospedalieri) alle miriadi di decisioni che prendiamo nella vita quotidiana, anche nell’intimità di casa nostra. È  su base statistica – maggiore convenienza - qualsiasi scelta che facciamo. Il tema del nostro scrivere, si limita alla salute del sistema cardiocircolatorio.

  Se la salute  di ciascuno di noi la quantifichiamo pari a cento, cifra che indichiamo come il top per vivere bene ed a lungo, su questa cifra giocano svariati fattori negativi che riducono – a chi più, a chi meno ma a tutti – la quantità e qualità di vita. Questi accidenti, vanno pertanto considerati e valutati, ciascuno per se stesso, per fare le su dette scelte di convenienza mirate a se stessi.

  Iniziamo i conti: un 10% (quantità simbolica) del cento, dipende da fattori genetici (ereditari) o familiari, sui quali poco nulla possiamo interferire. Solo talvolta possiamo rallentarne l’evoluzione. Così vale per il diabete, per certe malattie vascolari e tumorali. La genetica ha fatto passi da gigante e, per esempio, un apposito ambulatorio può dare indicazioni di predisposizione,  ma questa branca non ha preso ancora possesso totale della rimozione o cura di essi.

  Si aggiunge una grossa fetta di percentuale, dico io un 30%, che dipende dalla fortuna. Non credo che in realtà esista la dea bendata; ma nessuno ha ancora chiarito minimamente perché a certe persone si e ad altre no; ovvero non ci ha ancora fatto sapere perché uno è  Paperone, altro è Gastone  e tanti altri, Paperino. Chiamiamolo altrimenti: destino, fatalità, sorte, culo, fato, evento propizio o funesto, iattura o sventura, divina provvidenza (quando arriva) o il caso: cambia nulla. Troppo spesso nella vita c’è quel ‘pelo’ per cui Martin perse la cappa, ed altri addirittura la vita. Basta leggere i giornali per rendersene conto; il proprio futuro dipende dall’aver incontrato occasionalmente tizio o essersi innamorati di Caio, incontrati per scelte casuali.

  Esiste da aggiungere un altro buon 10% di fattori che incidono negativamente su quel sessanta% che è rimasto; conosciuti ma purtroppo ineliminabili nel contesto della vita: lo smog ed il rumore del traffico, i veleni nei cibi, certe condizioni di lavoro (l’amianto, sconosciuto killer sino a pochi anni fa; e ... le ‘polverine’ dell’Italsider?), il caldo afoso, gli incidenti (specie quelli per colpa altrui: trovarsi nel punto sbagliato, nel momento sbagliato), e quanti altri non tutti ricordabili.

  Se un ulteriore 10-15% potrà dipendere dall’età, poco incide però per chi sarà coinvolto nelle valutazioni che offrono le due farmacie, orientandosi verso persone giovani.  Rimane un 40%, e non è poco,  sul quale invece ed infine possiamo giocarci le carte con le proprie scelte, volute o assecondate.  

   Fermiamo qui il discorso di queste percentuali per ritornarci tra poco; e apriamo una parentesi per spiegare un altro concetto parallelo, relativo alle malattie cardiovascolari (trombosi, embolie, emorragie; conosciute anche come ictus o infarto o paresi-paralisi o angina pectoris...  a seconda dell’organo colpito). La medicina di oggi, basandosi sempre sulla statistica (e sui soldi), ha rilevato che questi eventi su citati, capitano di più a chi si crea ben precise situazioni di vita (e quindi chiamate “rischio”); ovvero esse non solo incidono maggiormente sulla salute ma - essendo secondari a scelte che fa l’individuo - possono essere modificate.  E sono: il fumo, la sedentarietà, l’ipertensione arteriosa, lo stress ed i disordini alimentari (comprendenti sovrappeso sino all’obesità; diabete alimentare; colesterolo e trigliceridi; abuso d’alcol).

  Eccoci ritornati alla statistica iniziale: il nocciolo del problema per rischiare di meno è prendere coscienza di essere “a rischio”: non  occorrono tanti esami per trovarsi in sovrappeso, e se uno sceglie di fare vita sedentaria (al computer) o fumando; perché è lui che lo fa “volutamente”; anche se poi varierà se ne fuma cinque al giorno o trenta, se butta via la sigaretta a metà o fuma anche il filtro, se sceglie quella marca invece di un’altra, ecc.

  Nella necessità di sapere anche gli altri rischi, essendo essi per fortuna rilevabili in una goccia di sangue: occorre controllare i valori di glicemia, colesterolo e trigliceridi,  e- aggiungerei – funzionalità renale ed epatica, per evidenziare un loro debordamento. Si potrà far nulla sulla loro componente genetica, ma si potrà fare molto adattando l’alimentazione all’essere fatti così e sopperendo nello smaltimento con adeguato consumo energetico; o curandosi. Questa situazione limitativa, è dibattuta da secoli, coinvolgendo anche la filosofia della vita, della quale una interpretazione vuole che l’uomo è pressoché mai totalmente libero, non solo religiosamente ma soprattutto, nel nostro caso,  dalle grinfie di Mamma Natura; ma questa dipendenza non significa che quel più o meno tanto di libertà che rimane non venga usata a fine utile personale e delle persone che ci circondano.

   Non dimentichiamo lo stress (termine inglese che in italiano è tutto dire: logoramento): non ci sono esami per esso, non è misurabile con apparecchiature, e non c’è persona che non ne abbia, visto che la situazione economico-sociale è quello che è: ansiogena. Ovviamente tutto è misura perché non avere ansia significherebbe incoscienza; ma averne troppa incide negativamente sulla circolazione (stringe i vasi: quindi ipertensione) e sul cuore (tachicardia e fatica muscolare) al punto che quando esagera, il danno di una pastiglia diventa sicuramente inferiore a quello di essere diventati così.

   Tenere sotto controllo questi fattori di rischio significa adattare il proprio stile di vita alle naturali condizioni in cui siamo, e con  le quali Mamma Natura ci ha fatto, ciascuno per se stesso. Ecco quindi benvenute le iniziative di queste due farmacie, le quali mettono a disposizione dei giovani un ceek-up  gratuito, con i dati base per il riscontro di queste parti di rischio cardiovascolare, che non sono il tutto, ma corrispondono a dove si può intervenire per evitare il famoso “te la sei voluta”.

ALLEGATO 23 . San Pê d’Æenn-a comme a l’ea – la “Battaglia di San Pier d’Arena”.

   La storia racconta di numerosi scontri, avvenuti nella spiaggia e strade del nostro borgo nel corso dei settecento anni della vita della Repubblica di Genova: ogni volta che un potente esercito scendeva ad assediare la città, qui era teatro di scontri per la presenza della collina di san Benigno che, ripida com’era, faceva da primo argine.

Così, i più famosi, quello descritto nel numero scorso da Majocco e quelli legati agli avvenimenti del Balilla (1746) e del generale Massena (1800).

Ma una vera e propria grande battaglia, meritevole di una etichetta specifica locale per il gran numero degli armati coinvolti, avvenne nel luglio dell’anno 1461. Fu un evento mai riportato dai tanti generici trattati storici, perché – anche se determinante per la libertà della Repubblica – fondamentalmente fu di poco peso nello scacchiere politico di allora. Mi spiego. Il re di Francia CarloVII della dinastia dei Valois, nato a Parigi il 22 febbraio 1403 da Carlo VI e da Isabella di Baviera, mirando di liberare il suo governatore Luigi di Lavel assediato nel Castelletto genovese dal doge Prospero Adorno ribellatosi al suo giogo, fece sbarcare sulla nostra spiaggia un grosso contingente che si accampò nel borgo e tentò l’assalto a Genova raggirandola dall’alto di s. Benigno e Peralto. La flotta francese, da Savona era arrivata con sette grosse navi ed altre piccole - e ciò lascia pensare ad un contingente di oltre seimila militari che si sommarono ad alcune migliaia di fuoriusciti ‘amici di Francia’. Sbarcarono anche cavalli per gli ufficiali e numerose armi di grosso calibro. Ma tosto questi ‘marines’ francesi dovettero affrontare gli aiuti al doge, provenienti da Milano da parte degli Sforza duchi di quella città, congiunti alle truppe raccolte dal cardinale Paolo Fregoso messosi a capo del ‘fior fiore’ della gioventù genovese. Negli aspri scontri all’arma bianca, i francesi furono sconfitti dall’arcivescovo genovese Paolo di Campofregoso e dovettero reimbarcarsi lasciando sul campo circa 2500 fanti morti in battaglia – e tutti gli altri prigionieri, compreso un centinaio di nobiluomini cavalieri “con sprone d’oro”, perché abbandonati dall’ammiraglio Renato d’Angiò. La storia non precisa: o fece salpare le navi prima del loro reimbarco perché stizzito, lasciandoli così a terra; o si allontanò avendo ricevuto nel frattempo la notizia della morte del re e l’ordine di rientrare subito perché cambiavano bruscamente le regole del gioco francese, ora affidato al figlio di Carlo VII - che diverrà Luigi XI - soggetto che è dir poco chiamarlo irrequieto e comunque per nulla compiacente della politica paterna. Dopo questa ‘collaborazione’ con Milano, sulla Repubblica inizierà il dominio degli Sforza; e nella miseria, imperante presso la povera gente, tra pochi anni si avvertirà l’arrivo del ben peggiori pericoli mortali, della carestia e della peste.  

   Per comprendere ancora meglio l’evento su descritto, teniamo conto dei vari fattori esistenti in quegli anni: siamo nel finire il medioevo, quando solo la vita dei nobili aveva il valore di ‘poter esistere’ mentre quella del popolo valeva meno che zero; quando da poco la Francia aveva terminato la guerra dei Cento Anni (1337-1453) con dominatrice l’Inghilterra che occupava tre quarti del territorio francese; quando la stessa Oltralpe, stremata, stentava a riemergere da poco retta da Carlo VII di carattere inetto, assunto al trono diciannovenne e in maniera contorta. Infatti non solo era delfino al trono se pur quintogenito - perché i quattro fratelli precedenti erano tutti morti in giovane età; ma anche figlio di un re che, impazzito, tra tante stranezze aveva promesso la successione al trono francese a chi avesse sposato sua figlia Caterina di Valois; ed essendo il prescelto Enrico VI d'Inghilterra, era chiaro che Carlo non poteva ambire al trono. Ma tanto fece, convinse la corte, che si appropriò  del regno, tentando la liberazione della Nazione. In questa operazione, decisivi e determinanti furono per lui due interventi femminili: uno, dopo dure sconfitte militari subite dal re stesso, la partecipazione vittoriosa di Giovanna d’Arco (che poi Carlo abbandonò agli inglesi, sfruttandone il martirio per incentivare gli animi dei suoi); e secondo, la presenza al suo fianco – non della moglie Maria d'Angiò, sposata diciottenne, dalla quale avrà tredici figli – ma della giovane amante Agnese Sorel la quale fu la prima della serie delle professioniste dell’amore che, nel ruolo di favorite del re, seppero tessere intrighi e sostenere le varie fazioni con enorme potere sulle sorti future di quella Nazione (la giovane Agnese morì, molto probabilmente, avvelenata con successive micropozioni di mercurio). Re Carlo iniziò, negli anni seguenti, la politica d'espansione francese, con primarie mire verso l’Italia fin quando fu raggiunto dalla morte proprio il 22 luglio 1461.                                                                                                                                 

   Intanto, in tutti i frammentati ducati, regni, impero e principati d’Italia, era un periodo contrassegnato da un susseguirsi di congiure e tentativi di sollevazione contro i vari governanti, spesso fomentate dagli Stati rivali, e quindi quasi sempre in nome di una libertà solamente vagheggiata, perché abilmente sfruttata per mascherare le ostilità.    Lo stesso succedeva a Genova la quale, aveva in casa le stesse faziosità tra gli Adorno ed i Fregoso (tre dogi eletti in un anno dei quali, uno per soli due giorni); e le due famiglie alternativamente impegnate contro gli aragonesi insediati nel regno campano, ostili per via della Corsica: già alcuni anni prima, alcuni vascelli spagnoli avevano fatto una scorreria sbarcando all’improvviso un drappello armato sulla spiaggia sampierdarenese: esso ben presto si era impadronito del borgo finché un contrattacco ributtò a mare gli invasori costringendoli a tornare a Napoli. Nel mezzo di queste lotte di fazione, nel gennaio 1458 lo stesso doge chiese aiuto a Carlo VII, il quale si autonominò ‘Signore di Genova’ e mandò a governarla Luigi di Laval per suo conto; così scatenando la situazione su descritta. Ci vollero anni per liberarsi dai francesi e dai milanesi: molta astuzia, fortuna e un Andrea Doria per non ricadere sotto la loro non certo disinteressata ‘protezione’ e per iniziare il periodo dell’oro.

EBaglini______________________________________________________