2006 - Articoli pubblicati nel 2006
N 1 – gennaio - pag. 5 Come eravamo Dove c’era la chiesa di sGiovanni
La tabaccheria Sciamà.................................
8 L’influenza aviaria ................................. allegato 16
Via Perlasca ............................................................allegato 2
12 NonnoNonna1: chi è sordo? ...................... allegato 4
13 Centro d’ascolto-sportello del mugugno ................allegato 1
18 Cucina = torta di cipolle
Bombardamento navale.......................................... allegato 3
20 tortino di cipolle
n. 2 – febbraio - pag. 6 Villa Doria primo ospedale..................................... allegato 7
8 i colori della sampierdarenese................................. allegato 8
9 Voltri dice no ...................................................... allegato 5
12 NonnoNonna2:l’ansia......................................... allegato 6
15 Cucina: torta di riso
n. 3 – marzo . pag. 4 affreschi dimenticati
5 la torre del labirinto .................................. allegato 12
9 Roberto Bixio........................................................ allegato 11
10 Novità al Campasso Franco Gallareto ................ allegato 13
20 NonnoNonna3: la sicurezza dell’io....................... allegato 9
24 In ricordo di VMario Roncagliolo ....................... allegato 10
n. 4 – aprile . pag. 6 il 25 aprile .................................................. allegato 15
12 NonnoNonna4: il ciuccio-...................................... allegato 14
23 come eravamo via CColombo..........................
n. 5 – maggio .pag. 3 un altro furto nella sede
4 la chiesa dell’ospedale......................................... allegato 17
9 centenario dell’esposizione ............................... allegato 18
10 affreschi dimenticati
11 NonnoNonna5 : i denti .....................................
16 risposta a lettera: quale futuro?..........................
n.speciale magg. - pag.7 e 8 le ville e s.Ago, del percorso museale
n.6 . giugno - pag. 2 Angelo Vernazza ............................................. allegato 22
3 bande giovanili .................................................. allegato 21
10 gli equivoci in medicina ................................... allegato 19
15 il palio dei gozzi ........................................... allegato 20
17 gli Sciamà in pensione....................................... allegato 23
n. 7 – luglio - pag. 2 risposta al volantino
8 le quattro età di SPdA...................................... allegato 26
9 una domanda al prof Bampi............................ allegato 27
10 NonnoNonna6 : le droghe leggere ................... allegato 24
16 Libertàs, dichiara un cartiglio ....................... allegato 25
17 cucina = melanzane ripiene .............................
18 Luigi Settembrini ...........................................
19 nuovo look per la chiesa delle Grazie -...........
n. 8 – settembre -pag. 1 quello che va e che non va ............................... allegato 29
10 le responsabilità dei medici ........................... allegato 28
13 i laghi di villa scassi......................................
18 Marcolini .......................................................... allegato 30
n. 9 - ottobre - pag. 3 illuminato sindaco
16 Halloween.................................................................
n. 10 – novembre – pag. 1 di cosa si è parlato
5 quelli del gazzettino ...........................................allegato 32
19 l’influenza ........................................................
n. 11 – dicembre -pag. 7 a babboNatale preferiamo il presepe .............. allegato 31
20 considerazioni psicologiche per Natale .......
22 cosa è successo lo scorso novembre .............
Allegato 1 CENTRO di ASCOLTO ovvero lo SPORTELLO DEL MUGUGNO
Sul Secolo (20.2.05; .6.05) compare un “contro-mugugno” che accusa: «...mi rendo conto che lo Sportello del Cittadino altro non è che un posto di lavoro programmato per dare l’impressione alla gente di essere ascoltata; un alibi, per chi comanda (legalmente o meno) di fare ciò che vuole».
siamo andati a chiedere e ci hanno relazionato:
Questo Centro è uno degli 11 genovesi, unico in circoscrizione; aperto dal 19 aprile 2004; ospitato gratuitamente sotto il cavalcavia da FerServizi (gruppo Ferrovie); promosso dalla ConsultaLigure consumatori ed utenti, nell’ambito del progetto “CittadinanzaAttiva, sportelli in rete” (Associazione regionale, basata sul volontariato –quindi ‘no profit’- e che cerca di tutelare gli interessi dei consumatori ed utenti).
Il servizio di questi volontari, non offre assunzione in carica del problema esposto dal cittadino, ma si limita a dare pareri ed i migliori indirizzi utili per risolverlo. In piazza Vittorio Veneto 31rosso; ha tel. 010 642 99 95; orario 9-12 lun-ven. ed anche 15,30-18,30 mer+ven.; dirigente responsabile sig.ra Desogus Maria.
Oltre a quesiti vari e di ogni caratteristica, prevalentemente fornisce assistenza e risposta a tre tipi di essi: 1== tribunale per i diritti del malato; 2== consulenza ed informazione per la tutela dei servizi, offerti dalla pubblica e privata amministrazione; diritti dei consumatori; 3==giustizia per i diritti medicolegali-bancari-assicurativi (questo servizio è svolto da quattro legali professionisti volontari: d.ssa Monica Russo + ...... .
Sono già stati soddisfatti migliaia di interventi: multe ritenute ingiuste, spese non confacenti ai bisogni o all’ordinato, problemi sindacali, condominiali, burocratici, pulizia, pubblicità ingannevole, malasanità.
Allegato 2 NUOVA STRADA IN DELEGAZIONE
La targa, dedica la nuova superstrada che costeggia il torrente Polcevera a PERLASCA
È stata una scelta che lascia perplessi:anche gli addetti al lavoro ne sanno poco, anzi –prima della trasmissione televisiva- ne sapeva nessuno di questo eroe che pare
-seppur fascista- ebbe l’ardire di salvare molte vite di ebrei.
Non sappiamo perché la Commissione lo ha scelto. O ha voluto seguire il messaggio papale col nuovo iter di apertura alle religioni; oppure ci si apre alla categoria dei revisionisti, per cui anche chi fascista ma buono è degno di memoria (non facendo apologia del fascismo, ché è reato perseguibile, ma di un fascista risultato meritevole: la differenza è sottile, ma c’è); oppure a parità di intento, non sapeva che qui da noi abbiamo avuto figura eguale, e che -ai nostri occhi genovesi- ci sarebbe stato più caro fosse ricordato; oppure…
Un anziano partigiano, ha commentato: gli eroi si onorano con delle lapidi e non con delle targhe (anche qui la differenza è sottile, ma c’è; ed a nostro modesto avviso, vale per quanto è in discussione a livello popolare, per Quattrocchi e Giuliani)
Allegato 3 REMEMBER OF = RICORDIAMO CHE
Mentre stormi aerei diversifivano l’allarme fingendo un attacco alla diga del Tirso e posando mine all’ingresso della Spezia, il mattino del 9 febbraio 1941 la flotta inglese arrivò davanti a Genova. Il tempo la assistette: una bassa foschia la rendeva invisibile. Alle ore 8 e 14, l’incrociatore da battaglia e nave ammiraglia Renown, aprì il fuoco seguito dal tiro della Malayo e dell’incrociatore Sheffield. Complessivamente tirarono sulla città, a casaccio, 273 proiettili da 381 mm.; 400 da 114 e 782 da 152. Gli aerei indisturbati osservavano i punti di caduta e stavano pronti a proteggere le navi segnalando l’eventuale arrivo della nostra flotta la quale, guidata dal comandante Iachino subito si pose ad accorrere ma per un perverso gioco di fortuna, di tempestività ed abile controllo dei tempi d’azione, la flotta inglese sfuggì alle ricerche.
Comandava l’azione d’attacco, l’ammiraglio Somerville James Fowne, nato a Dinder nel Somerset nel 1882. Era divenuto contrammiraglio nel 1933 e comandante delle cacciatorpediniere nel Mediterraneo; ma un mese prima dell’inizio della guerra era stato messo fuori servizio per motivi di salute. Il 27 giu 1940 dovette tornare in servizio assumendo il comando della ForzaH a Gibilterra (3 unità da battaglia, una portaerei, un incrociatore leggero, quattro caccia). Dopo aver massacrato la flotta francese per ordine perentorio da Londra, e condotta la confusa azione a Capo Teulada contro la squadra italiana, mise in atto il bombardamento di Genova dal mare. Dopo partecipò alla battaglia della Bismark ed ai rifornimenti e difesa di Malta; nel 1942 nominato ammiraglio di flotta fu inviato in estremo oriente contro il Giappone. Morì nel suo paese natio nel 1949.
Allegato 4 NONNO E NONNA, MAMMA E PAPA’ : CHI, E’ IL SORDO ?
Il titolo è provocatoriamente voluto, a mò di sfida: i genitori, gli adulti, gli insegnanti, sono disposti a sentire i ragazzi? Perché educare non equivale ad insegnare, ma a dedicare a ciascuno di loro il più possibile del proprio tempo, per vedere, partecipare, sentire, ascoltare ed infine parlare e dare l’esempio.
Ascoltare e parlare sono come l’operato di un contadino: prima ara, poi semina; il raccolto verrà molto dopo. Se un genitore non ara raccoglierà assai poco; se non semina, raccoglierà nulla; se arerà e seminerà un orticello, raccoglierà un sacchetto di grano; solo facendo delle grandi fatiche, si avrà un raccolto consistente.
Ovvero accettare di mettere tutto in discussione, se stessi e gli altri, i valori della vita (dipende dall’età dell’interlocutore; libertà, felicità, amicizia, religione, onestà, violenza, sesso, soldi, rispetto del prossimo, ecc.), i reciproci ruoli (responsabilità). Ovvero dibattere anche fino a scontrarsi (anzi, è bene non essere d’accordo, quando -non è però bene- voler avere ragione per forza).
Il suicidio dei giovani, spesso è frutto di una insufficiente comunicazione. Questo, per sottolineare che il colloquio non ha un ruolo secondario nella vita di un giovane
Insegnare, abbiamo detto, si applica col tradizionale cipiglio, decisione, autorità, sia a scuola che in casa, imponendo determinate nozioni (grossolanamente definibili ‘nozioni con regole inderogabili’). Educare invece richiede un approccio diverso, individuale, lasciando al proprio ragazzo spazio per esprimersi (parole, gesti, gioco, fantasie, capricci) e scoprendo il suo talento, la sua personalità; e questo va fatto con umiltà e mitezza, come si userebbe con un pulcino o con una pianticella sul germogliare.
I genitori che magari ambedue lavorano ed a sera sono stanchi e preoccupati, l’impegno di educare non debbono lasciarlo alla TV o alla play station, ma è primario sobbarcarsi il tempo per ascoltare e parlare: prima ancora di fornire il mangiare o concedersi un riposino. Sciuscià e sciorbi non si può dice un famoso proverbio: nel caso di educare i figli, il dubbio non esiste perché il genitore deve, senza alternative e prima di tutto, parlare con il proprio figlio.
Il buffo di questa semina, è che se in uno scambio di opinioni si finisce zero a zero, o peggio zero a due come risultato di convincimento, non è sconfitta: sia chiaro. Nel tempo poi ci si accorgerà che il tema nel ragazzo è evoluto, fino molto spesso a poi farlo arrivare ‘nel nostro caruggio’. Il segreto è che lui ci vuol venire da solo, con la sua curiosità e la sua maturazione dell’idea, e non perché qualcuno glielo ha detto. Questo è per il ragazzo autonomia, creatività, libertà. E con esse autostima.
Crepet, noto psichiatra, porta l’esempio del bimbo che, gattonando decide arrivare al tavolino ove sopra è un bicchiere. Un buon educatore dedica del tempo stando molto attento ed incitando il bimbo a realizzare l’intento di questa sua fantastica curiosità; errore è precederlo e porgerli il bicchiere, abituandolo a operare sulla base di decisioni altrui. E così innumerevoli altri esempi, diversi, adeguati all’età del ragazzo. Egli deve soffrire e fare fatica: a leggere, a pensare, a decidere i propri sogni ed ideali; a montare, smontare e rimontare il proprio fardello cognitivo.
Nel fare tutto questo, deve anche sbagliare: andrà sgridato e guidato ma lasciando lui al volante. E comunque gli andrà trasmessa sempre la gioia di parlare, perché sa di essere ascoltato.
Allegato 5 VOLTRI DICE “NO!, LA SPIAGGIA NON SI TOCCA!”
Hanno il nostro più vivo compiacimento, i voltresi che si ribellano all’ipotesi di un “furto” dell’arenile. Lo sappiamo noi sampierdarenesi che, in virtù di un beneficio per la Grande Genova, abbiamo dovuto cedere al cemento la lunga spiaggia, ricevendone in cambio il nome prendingiro di “Lungomare” ed un totale abbandono dei beni storici quali tradizioni, personalità, carattere, e non ultimo il nome (la Coscia che diventa San Benigno; San Pier d’Arena che è divenuta CentroOvest; e quando ormai per noi, vedere il mare da vicino significa dover prendere un pullman come gli alessandrini!): tutto quello che qualificava ‘la piccola città’.
È vero che il porto è il futuro di Genova (e di Roma; non dimentichiamolo); ma non da diritto a distruggere tutto per ottenere un effimero. Siamo in corsa con altri porti di altre nazioni, e partiamo svantaggiati perché soffocati dalla mancanza di spazio. I politici (e non frilli, ma pedine a livello europoeo) parlano di “porto allargato”: che significherà, amici voltresi?
Una proposta potrebbe essere che Genova si allei con i vicini di Savona e LaSpezia ed invece di entrare in competizione con loro fare invece un tutt’uno con unico fine d’insieme distribuito alla pari: ai giorni d’oggi le distanze sono minimali; oppure ce ne freghiamo di non essere più i primi in quantità nel Mediterraneo perché miriamo a divenire primi in qualità. Comunque basta costruire, distruggendo. Viva Voltri.
Allegato 6 MAMMA E PAPA’ & NONNI. CHI di voi insegna anche la PAURA e l’ANSIA?
“...e Pollicino si trovò nel sacco dell’orco che se lo portò via attraverso il bosco fino al suo antro tetro e buio…”. Il racconto sarà a lieto fine, sicuramente; ma da allora gli sconosciuti, il bosco, il buio rimarranno come paure aspecifiche. Anche, e tanto per esempio, l’ammaestramento relativo alla strada, “dove ti investono”, che vuol dire?: paura, ansia generica per un pericolo freale ma che un bambino non sa quantificare e che quindi generalizza a tutto quello che lo circonda. Ecco, bella ed insegnata l’ansia.
Così ci raccontavano, con le vecchie incantevoli favole. La morale sottintesa è di stare attaccati a mamma, papà o nonni e non farsi abbindolare dalle lusinghe dei tanti gatto e volpe che circolano nella vita ... compresi quelli che offrono caramelline, un passaggio in auto o poi, e tanto per incominciare, una fumatina ….
Ma non sono solo i racconti pieni di fascino, avventuroso e temerario, a far nascere il senso della paura. Anche il famoso «non toccare la presa della luce ché prendi la scossa»...: si, ma per il bimbo, cos’è la scossa? qualcosa di brutto certamente da creare una paura inconscia. Oppure «non ti avvicinare ai fornelli ché c’è l’acqua bollente»...si, ma –penserà, o non penserà il piccino- cosa significa bollente se l’acqua l’uso tutti i giorni e mai mi ha fatto del male; e poi come fa a cadermi addosso se è lassù, e dentro una pentola....Vado a vedere oppure mi tengo la paura senza togliermi la curiosità? ...«non ti sporgere dalla finestra!», frase detta come se lui già sapesse cos’è la legge di Newton sulla gravità.
Obbiettivamente è vero, appare non esserci rimedio diverso; quindi rimane giusto insegnare usando come deterrente la paura: dell’acqua calda, della corrente, delle automobili, degli uomini cattivi, dei brutti voti a scuola, delle ‘belle figure’, dei temporali, delle sudate, di perdere gli oggetti, degli ‘amici’ che fumano o che si drogano o quanto più ce n’è, più è lungo l’elenco.
Alla fine, l’augurio che non farà tutte queste cose; non perché ha capito, ma solo per paura. E ben venga la paura allora, male minore di quelle disgrazie. Ma tant’ è la paura....è come le radici di un albero: non le vedi ma ramificano penetrando nella personalità e, se non contenuta, invade anche le funzioni che non ne abbisognano.
Quindi, se appare ovvio che per tutti i pericoli su citati maturerà nel futuro una dimensione più precisa, e via via il bambino arriverà a prenderne una coscienza sempre più misurata e razionale, la vigliaccata è che purtroppo man mano si cresce e si quantifica un pericolo, ne emerge un altro più grosso, adeguato all’età. Il pericolo è che infine solo una cosa rimarrà fissa: la paura.
Ed allora cari educatori, cosa fare? Intanto, specie i nonni, dare una regolata alla propria ansia: si insegna come la lingua parlata: la si insegna semplicemente con il comportamento, ed il bambino la impara tale quale la cantilena tipica di un abitante nell’entroterra. Poi, dove e quando, ma il più spesso possibile, fargli affrontare rischi e fatica adeguati all’età; ed è meglio far misurare subito con l’uso dell’intelligenza, cosa vuol dire quel determinato pericolo, così lui lo capisce senza paura.
Infine però non sarà mamma Natura che porta spontaneo il naturale rimedio contrapposto: la sicurezza dell’io. Che va insegnata pure lei. Ne riparliamo.
Allegato 7 SanPê d’Aenn-a antiga….villa Doria Masnata
Questa immagine, che a tutta prima appare relativa ad un semplice palazzotto, ha una storia così ricca ed importante che, per chi ama la ‘piccola citta’ non può passare sconosciuta.
È il palazzo Serra-Doria-Masnata di via A.Cantore 29.
Per proseguire in ordine, dobbiamo retrocedere di quattrocento anni. La villa fu ordinata dal nobile Paolo Serra nel febbraio 1613 al famoso architetto Bartolomeo Bianco (una strada per lui a Genova) quale dimora “anti-stress”: di magnificenza, distrazione e vacanza estiva. Da costruire, pare sul sedime di precedente edificio, sul versante a monte rispetto la strada principale (poi chiamata via sant’Antonio, oggi via N Daste); su un terreno che era lievemente in ascesa. Come visibile nella foto, dalla villa alla strada c’era un discreto giardino quando invece era scarsissimo lo spazio disponibile nel retro dello stabile (confinante con villa Ronco) e che nel 1977 fu coperto dalla palestra.
Fino agli inizi del 1700 (quando -forse allora- divenne dei Doria, nella ‘veduta’ del Volckammer, palazzo E) era più armoniosa, perché più bassa e senza i due terrazzi ai lati; solo cinquant’anni dopo (‘carta’ del Vinzoni), compare quello a ponente; e ben dopo anche il terrazzo a levante, che ovviamente fece spostare di altrettanto la salita che affiancava l’edificio (oggi ‘Inferiore Salvator Rosa’) e che -anche lei- iniziava da via s.Antonio.
Fu nel 1746 -quando della grande casata Doria (molto rappresentata a San Pier d’Arena; vedi nella chiesa della Cella; gli istituti Franzoniane e donDaste) il proprietario era Carlo- che la casa fu invasa dagli ufficiali austriaci comandati dal generale Botta Adorno, il quale da queste stanze –dopo i fatti del Balilla- lanciò insulti, rabbia e minacce, ma dalle quali dovette fuggire oltre Bocchetta, arrabbiatissimo ma con parecchi sacchi di monete d’oro, lasciando che le sue truppe a caccia di bottino saccheggiassero il nostro borgo e tutta la vallata del Polcevera.
I Doria rimasero per altre tre generazioni; fino a circa il 1870, quando da Ambrogio l’edificio fu venduto al nobile Giuseppe Masnata (la sua statua, troneggia nell’atrio di ingresso, di fronte a quella di altra benefattrice, la Scaniglia Tubino). Questi però non lo abitò, semplificando la supplica del sindaco -il cav. Nicolò Montano (quello della piazza)- di venderla al Comune. Di meglio, egli la concesse nell’anno1873 senza guadagno (a prezzo di una rendita simbolica) con lo scopo di farne l’ospedale civile locale. Il borgo era da poco divenuto città, ed aveva in pieno sviluppo l’industrializzazione della zona (con i suoi relativi incidenti, sino ad allora da trasportare al Pammatone di Genova, a piedi) e la massiva immigrazione, di gente sostanzialmente povera, piena di acciacchi e troppo spesso malata da ricovero. L’ospedale fu inaugurato nel marzo dell’anno dopo; i malati, ospitati su pagliericci di foglie di mais, erano curati: a piano terra in chirurgia uomini (la chirurgia donne con ginecologia ed ostetricia, abitarono gli edifici anteposti alla villa, già adibiti ai manenti); al piano nobile la medicina; ed all’ultimo piano gli alcoolisti, epilettici ed infettivi (c’erano ancora epidemie di tifo e colera; ed alto tasso di tbc). Nell’interno, in origine le volte erano state affrescate dai pittori Calvi, ma all’atto di presa di posesso del Comune, risultarono così deteriorate da concedere la copertura con calce. Nel 1915 il Comune costruì il nuovo ospedale alla sommità di villa Scassi; la nostra villa fu usata dapprima per i malati cronici, poi per i feriti della prima Grande Guerra, poi per gli infettivi, finché nel 1933 a tutti subentrò prima un collegio femminile e poi il Liceo Classico G.Mazzini (e due anni dopo, per breve tempo, anche la Biblioteca comunale) che vi rimase fino al 1967, quando cedette il posto alla scuola media N.Barabino.
Il giardino davanti, che come scritto, si apriva con cancello in via Sant’Antonio, fu previsto dal Comune di Genova essere distrutto; così nel fondo vicino alla vecchia strada fu in parte venduto: a ponente per costruire il palazzotto della Banca d’Italia (oggi di Novara) ed a levante a privati; nel mezzo fu spianata la via A.Cantore (1930-5) che, passando più bassa, costrinse sbancare il terreno e correggere la facciata dell’edificio creando una doppia scalinata per raggiungere il portone, però ‘squilibrando’ in altezza quello che aveva mantenuto a stento l’armonioso assetto voluto dal costruttore. Di tanta gloria, dobbiamo ancora ringraziare chi l’ha conservata in piedi; anche se non essendo a norma CEE
Allegato 8 LETTERA al Gazzettino
Ci scrive il signor Carta esponendo, con volontà collaborativa, alcune precisazioni sulla casacca della Sampierdarenese. Come citano anche Tuvo-Campagnol, con il Lettore riassumiamo la progressione: 1897 nacque la ProLiguria (o Liguria foot-ball, con maglia bianca traversata da una banda rossa (orizzontale?)). Nel 1911 in seno alla Società Ginnastica Sampierdarenese nacque invece, fondata da studenti delle scuole tecniche, la sezione calcio, presidente Enrico DeAmicis; con pantaloncini neri, la casabbia bianca con banda nera alta (ma, come i ginnasti: trasversale?, e lasciando sul nero anche la scritta ‘Sampierdarenese’?. Nessuno lo dice.). Anno 1919 la Sampierdarenese Calcio assobì la ProLiguria; affiancando le due bande colorate, la maglia divenne quindi bianca con striscia rosso - nero (il nero, dimezzato. Ma, da subito orizzantale? una foto del 1920 dice si ) e pantaloncini bianchi. Giusto così, amici del Club?, ma ancora con dei vuoti. Comunque: Doria olè!
Allegato 9 MAMMA, PAPA’ E NONNI: LA SICUREZZA DELL’IO
A mio avviso, è il risultato più importante cui deve tendere un educatore.
Più importante della cultura per esempio. Sempre secondo me è più importante, per vivere meglio e divenire autonomo da adulto, ovunque si inserirà nell’ambito sociale.
Ed è l’unico rimedio contro l’ansia, che è un male inevitabile dell’insegnamento: già al bimbo piccolo viene fatto insegnamento dei tanti pericoli del mondo, inserendogli il tarlo della paura; non solo quelli reali (la presa di corrente, la pentola d’acqua bollente, la droga, ecc.) ma anche quelli fantastici (il lupo cattivo, l’orco, il buio, la puntura, ecc.). Il bambino, come rapidamente apprende l’italiano parlato (se vivesse con genitori inglesi imparerebbe l’inglese, e così via), alla pari acquisisce l’ansia, che verrà aggravata se il parente con cui convive gliela comunica anche perché non sa governare la propria. E l’ansia, sia insegnata indirettamente o anche solo trasmessa col comportamento, se sbilanciata li perseguiterà per tutta la vita.
Tocca a mamma e papà ‘educare’, e poi nel tempo far educare, con metodi proporzionati dell’età, insegnando l’unico contrappeso che è: la sicurezza dell’io, l’unico a riportare l’ansia alla giusta dimensione di prudenza e a farlo star bene con se stesso.
Il metodo da adottare è legato all’insegnamento della capacità di affrontare i rischi (come già detto, sempre adeguati all’età). E l’errore più grossolano dell’ educatore è cercare di evitare oltre i rischi, anche la fatica.
Sembra ovvio, ma in pratica non lo si applica. Si va dal tipo di merendina (dovuta in base a spot pubblicitari), al peso della cartella (che esiste), al non riprenderlo quando butta le cartacce o si comporta scorretto, al non premiarlo –anche solo verbalmente- quando fa bene. E mille altri.
I rischi. Di usuale per tutti, ci sono i normali della casa, della scuola, dello sport. Meno usuali quelli ‘extra’, i più diversi: per i prati le vipere o le storte, il freddo invernale che non si vince imbacuccando; e poi con l’età in discoteca le pasticche, in gruppo la legge del branco, tra gli amici il balordo, l’handicappato, il debole.
Per educare occorre metterli alla pari tutti e due, quelli normali e quelli extra, ambedue che vanno saggiamente ‘shackerati’ .
La fatica. Prima cosa necessaria far comprendere che per ottenere qualsiasi cosa occorre guadagnarsela. Il rischio vede nel protezionismo e nell’ansia l’insegnamento del menefreghismo o dell’incoscienza. La fatica vede il tutto dovuto, la necessità di ‘escamotage’ per averlo.
Da piccoli è il gioco che insegna le regole del rischio e della fatica; mamma e papà possono a loro volta ‘giocare’ sulla vastità dei divertimenti proponibili, adeguati all’età, e capaci di insegnare la sicurezza dell’io: non solo le play station (tempi di reazione), ma piuttosto quelli dove si affrontano delle difficoltà caratteriali (fatica, convivenza, solitudine, musica, espressione, amicizie). Nei più grandicelli,7-12 anni, sono meno utili i giochi da soli (pesca, sci, tennis, play station, nuoto, ecc), mentre permanendo la musica, maggiore potenziale è la vita in comunità, purché mirata a responsabilità adeguate, sopra tutti i boy scout e le arti marziali, ma anche tutti gli sport di gruppo, dal rugby alla danza, purché il ragazzo giochi con ruolo ben definito e responsabile, che non sia il panchinaro in una società organizzata.
Quindi non con tutti i giochi. Tocca a mamma e papà scegliere quali.
Spesso quelli che costano meno sono i migliori, come la vita all’aperto: zaino in spalla, tenda e …fatica.
Ma sanno mamma e papà che ricca educazione è vivere insieme certe esperienze!
Allegato 10 NECROLOGIO Roncagliolo Vittorio Maria
Poco dopo il nostro D’Oria, anche Roncagliolo ha ceduto la vita, alla bella età di 97 anni; pressoché tutti vissuti in lucidità e nell’amore delle sue cose, dalla famiglia alla storia della sua città.
Così ora, l’intera squadra che ha inventato e sorretto il Gazzettino per tanti anni, concedeteci un pochimno di retorica, è al completo riunita nella redazione celeste; ci piace pensarli di nuovo tutti assieme; un team completo, composto da un geniale Bertieri, un granitico D’Oria, un esplosivo Baselica, un poetico Roncagliolo, una miscela lavica, lasù riunita per organizzare qualche idea nuova da pubblicare sul giornale e con tema fisso: “la nostra San Pier d’Arena”. Ciascuno di loro, a modo proprio, non possedendo l’animo dell’arrivista, ha espresso disinteressatamente l’amore per la nostra Piccola Città.
Roncagliolo -puro sampierdarenese doc- del gruppo era il più schivo ed il meno appariscente; quello che studiava la storia locale, scriveva poesie, raccoglieva cartoline e fotografie, descriveva la delegazione con parole ricche di humor e sentimenti miti; quello che -per chi possiede i vecchi numeri del Gazzettino- si firmava Vi.ma.ro. e di cui fu già scritto nel novembre 1981.
Dopo anni di lavoro alla MiraLanza ed in una società di Agglomerati per fonderie, da pensionato aveva dato libero sfogo alla sua passione di autodidatta arrivando ad essere premiato con la qualifica di esperto d’arte e storia locale.
La nostra generazione, che segue quella che si è recentenente spenta, è orgogliosa di loro tutti, che –come nella staffetta- ci hanno dapprima consegnato il bastocino primi su tutte le testate locali (sulla breccia da 37? anni senza mai fallire un numero, senza entrate se non gli abbonati e i simpatizzanti con la loro pubblicità, le critiche e l’affetto), proiettandoci a migliorare sempre di più.
E ci proviamo: iniziamo aumentando il numero di pagine, entrando in internet, mantenendo prezzo popolare capace solo di parificare le spese vive, valorizzando la società editrice con editoria di libri di impegno, ed infine accettando collaboratori qualificati tutti con eguale qualifica: sempre volontari e tutti amanti della nostra città. La redazione
Allegato 11 PERSONAGGI SAMPIERDARENESI ROBERTO BIXIO
Come pittore, poiché non sono un critico d’arte, non mi esprimerò con quei parolini loro d’uso, inclusi in frasi dai voli pindarici che troppo spesso significano nulla e tutto. Semplicemente scrivo le mie personali sensazioni, conscio che ciascuno ne proverà mille altre.
La prima, merita una premessa. È per me meta ambita, da metà a fine giugno, andare sugli alpeggi di montagna a godersi la fioritura. Perché, come una naturale euroflora, è l’esplosione di tanti colori, blu, rosso, giallo, a chiazze, a ciuffi, a dorsi, senza una figurazione precisa nel verde dell’erbetta, e che mi danno immediata, la sensazione del bello –partecipata anche dagli altri vicini a me-. Ecco, Roberto Bixio riesce, con i suoi colori, a suscitare la stessa gioia, la medesima sensazione: il bello.
Seconda, è che il suo disegno è così semplice, da dare la sensazione che il metodo da lui usato sia facile da riprodurre (‘…sono capace anch’io’). Ma non è così: provate. Sembra elementare esprimersi con tale fantasia, ed invece pochi –o addirittura nessuno altro- è capace. È come l’uovo di Colombo o una musica. È arte.
Terza considerazione è che se tanti si sentirebbero capaci di eguagliarlo o migliorarlo, è perché il linguaggio dei suoi dipinti è già nell’anima di tanti di noi, però sprovveduti nella capacità di esteriorizzarlo; la migliore dimostrazione di come il suo dipinto sia vicinissimo alla sensibilità comune, della massa. Ed è quello a cui mira un artista: essere, tra tanti, l’unico. I soggetti sono spesso apparentemente semplici, come una bambola, una donna, un animale; però sempre immersi nello sgargiante multicolore di una giungla, di un paesaggio esotico, di un foulard dalle mille pieghe; tutti un forte stimolo alla fantasia ed alla visualkizzazione di un sogno bello.E così scopri anche che sotto sotto c’è annesso un sottile messaggio, che è come il sugo sulla pasta: il bello è nelle cose semplici, nella natura, nei sogni, in un disegno. Così, quando guardi un suo quadro, provi insieme delle sensazioni forti e vigorose, miste a pace e relax. Ne godono i croceristi sulle navi di Costa (pannelli e Via Cucis nelle cappelle delle navi), musei d’arte moderna e privati che vogliono investire nel bello della casa.
Come speleologo, piccolino e vulcanico, è invece famoso sia localmente per le scoperte nelle grotte liguri e nel sottosuolo di Genova, sia internazionalmente per essere ripetutamente chiamati dal governo turco per esplorare e descrivere le vaste gallerie della Cappadocia, ricche d’arte e di significati sotterranei. A lui -ed al suo team- si debbono clamorosi reperti esposti anche in riviste internazionali, nella TV nazionale ed in relazioni nei più prestigiosi convegni; dall’accumulo di ossa umane ai piedi del bastione dell’Acquasola, alla ‘via di fuga’ sotto la villa Doria; dai cunicoli dei torrenti sotterranei, alle enormi cisterne sotto ville e palazzi (compreso quelli della nostra villa Scassi).
Entra con merito, tra le piccole-grandi cose di valore, della nostra Piccola Città.
Allegato 12 San Pê d’Aënn-a antiga, comme a l’ëa, e che no se deve ascordâ TORRE DEL LABIRINTO
Vien giù la torre saracena del Labirinto? Non proprio, ma l’hanno transennata.
Per “lo stato di conservazione a dir poco precario” e per il degrado comportante pericolo di caduta di calcinacci dagli intonaci di facciata e dei merli della torre, si è provveduto a circondarla da una ‘mantovana’ di protezione a salvaguardia della pubblica incolumità.
In attesa che i lavori di ripristino, segnalati da ARTE (al momento di preso possesso) al “competente Gruppo di Lavoro”, si spera che da questi vengano inseriti nei futuri programmi di manutenzione.
La torre, a cui si accede dal civ. 17 di via P.Chiesa, ha base quadrata, è alta quattro piani; composta di pietra e malta rinzeppata in laterizi; con la parte merlata totalmente in mattoni; internamente intonacata allo stato grezzo.
In epoca sette-ottocentesca, le fu affiancato a ponente un altro edificio, alto due piani, a forma rettangolare che ingloba la torre nel suo angolo di sud.est.
Il complesso è ora concesso in affitto a quattro aziende private artigianali.
Le novità storiche sono:
--venne segnalata nel 1934 dalle Belle Arti quale ‘Torre del Labirinto’, allora di proprietà Opera Pia Ospedali Civili, e “già pertinente ad una villa Pallavicini, con resti di attiguo loggiato”. Quindi, vincolata.
--Una ‘Relazione Morfologica’ riporta che è “…nei pressi del Palazzo Pallavicino poi Gandino (sic; in realtà Gardino) di cui, presumibilmente, l’area era di storica pertinenza o comunque ad essa collegata.” (non siamo d’accordo, in quanto la torre ha caratteristiche medioevali, del 1200 –1300; mentre la villa Pallavicini-Gardino è del cinquecento, in stile alessiano).
--costituisce un patrimonio già di proprietà dell’Ospedale Villa Scassi, trasferito alla USL 03 Genovese, e da pochi mesi in carico ad ARTE (ex IACP).
--L’insieme porta i civici di via Pietro Chiesa n° 32 e 33 a piano terra e con ingresso autonomo; e n° 34, 35 previa scala esterna. In particolare:
-A piano terra, il civ.32 da adito direttamente a metà dell’edificio aggiunto, vasto128mq.; attualmente affittato alla ditta artigiana edile che usa il vano come deposito di materiale. Ha il pavimento in cemento, impianto elettrico, infissi in legno con inferriata. Matutenzione interna constatata, definita ‘mediocre’.
-A piano terra, il civ.33, da prima accesso alla base della torre e poi, tramite una porta aperta nelle sue mura a ponente, all’altra metà del piano terra dell’edificio annesso; il tutto per una superficie di 77 mq.; così, appare composto di due vani attigui, con soffitto a volta (tipo a botte), impianto elettrico, infissi in legno protetti da inferriata esterna.
-Al primo piano si accede con una scala esterna: tramite un ingresso-ballatoio comune rappresentato dal vano della torre. Si raggiungono il civ.34 (aperto a nord forando il muro della torre; occupa 127 mq.dell’edificio aggiunto; affittato ad una ditta di elettroimpianti; essa, con profilati metallici ha diviso l’area utilizzandola per ufficio, servizi igienici e deposito. Ha pavimento in lastroni); ed il civ.35 che, anch’esso, attraversa le mura della torre a ponente, occupa 140 mq. della costruzione attigua; occupata da una ditta artigiana di falegnameria).
Il Gazzettino manda appello a ARTE quale attuale proprietario, di sollecito ripristino e valorizzazione turistica della struttura in quanto il manufatto storico è di primario interesse per la Delegazione.
A nostro avviso, in realtà il manufatto dovrebbe essere proprietà della Delegazione o di chi ne rappresenta i beni storici; comunque, a noi interessa che non si promuovano i soliti scaricabarile: ne abbiamo la nausea, tra Lungomare Canepa e società varie vincitrici di appalti vari, nel caso specifico ora con Arte e l’ente che si interessa dei ricuperi.
Allegato 13 NOTIZIA AL CAMPASSO: VA IN PENSIONE FRANCO.
Scene di (falsa) disperazione: come osa? E noi? Dopo -anno più anno meno- sessant’anni di ‘bottega’, va in pensione una ‘sacra’ istituzione del Campasso: ‘Franco, quello della farmacia’.
Penso che anche tra i più giovanissimi della zona, non ci sia nessuno che non sia stato curato da Franco: ferite, ustioni, punture d’insetti, indigestioni, purghe o clisteri, i problemi più intimi, beghe, pillole e preservativi, successi ed insuccessi sessuali, supposte confezionate a mano o canule rettali, confidenze sottovoce, problemi psicologici o economici, virtù e debolezze (compresi i medici di zona), ‘ciëti’, debolezze, amori ed odi. Un archivio quindi: potrebbe scrivere un libro su ciascuno che vive nella zona, da via Rolando al Campasso; e ce ne sarebbe per tutti.
Una istituzione scrivevo. E se tutti lo conoscono, lo stimano e gli vogliono bene, un motivo c’è. E lui? Osa andarsene in pensione: disgraziato! E adesso noi come si fa?…; non si contano i ...ma và…, non ci posso credere…, e adesso?…
Per conto di tutti, lui era già lì–in farmacia – da sempre; prima che ciascuno di noi nascesse. In effetti, da ‘garzonetto’ fu protagonista di evoluta progresione fino a ‘guru’ del Campasso: capacità commerciale e psicologica, pratica comprensione dell’animo umano, super partes in un ambiente a senso unico, politicamente, religiosamente e socialmente (l’attuale Campasso è forse l’unica frazione genovese non servita da strutture come uffici postali o bus e localmente a più alta immigrazione).
A mia memoria, quando mi laureai ed iniziai il lavoro mutualistico – siamo nei primi degli anni sessanta – lui era già lì. Anche per i miei figli – che dalla nascita avevano un pediatra scelto e di alta fiducia – il contatto di prima linea è sempre stato lui, sia nelle febbri alte che nelle ferite; perché misurato da quella innata saggezza di saper non superare mai il confine tra il suo ‘camice nero’, e quello bianco dei medici. Era ancora il tempo in cui le ricette non prescrivevano scatolette già confezionate, ma farmaci da comporre nel retro bottega, “dieci grammi di quello, più ‘ana’ di quell’altro…”. Erano tempi in cui ancora non tutti avevano il telefono e quindi la farmacia era il punto di repere dei medici, dove avvertirli delle visite da fare a chi stava male; la mutua principale era l’INAM ma anche l’ENPAS, l’ENPDEP e quelle dei Portuali, dei Tranvieri, dei Marittimi… e Nessuna, per chi non aveva lavoro... (quante visite gratis… e di più… opportunamente segnalate da lui). Era l’epoca in cui la farmacia era l’unico punto di ritrovo per i medici ove essere aggiornati sulle nuove specialità già preparate in bottigline chiuse, o sulle regole di prescrizione (che da allora ad oggi saranno cambiate ancora mille volte, senza mai trovare il sistema giusto per essere funzionale). E per me inesperto neolaureato, solo in farmacia trovai l’amico da cui avere le dritte per dare una mano ai senza mutua; ai rari tossici che ingurgitavano il laudano (a base di oppio) allora di libera prescrizione; a chi colpito da ictus non fruiva di ginnastica rieducativa perché non esisteva; a chi era solo e non esistevano le badanti; a chi si rompeva il femore e moriva per le piaghe da decubito. Tempi più brutti di oggi, ma meno caotici, con rapporti umani più sinceri, con minore malizia e senz’altro maggiore pulizia nel cuore. Lui era già là, con la cappa nera dei garzoni, ma con tutte quelle cognizioni pratiche –di farmacologia, di psicologia, di commercio e di vita- tali da dare lezione a varie generazioni di farmacisti che arrivavano appena neolaureati a fare pratica. Una istituzione. Come dicevo: un punto di riferimento per tutto il Campasso ed oltre. Non gli facciamo un monumento perché aspettiamo che prima cricchi (toccata di rito); da un lato contenti che - anche dopo personali avversità- vada a godersi la sua casa di campagna e la caccia (sua costante passione anche se ora gli creerà delle rogne con l’aviaria); dall’altro lato incavolati perché ora ci sentiamo molto più soli; ma soprattutto perché questa sua scelta, è il segno tangibile che cambia un’epoca.
Allegato 14 NONNO E NONNA, MAMMA E PAPA’ IL CIUCCIETTO
Il bimbo, trasportato in carrozzina, è bellissimo! ed assomiglia tutto a…. È vicino ad essere svezzato: inizia a gustare minestrine, pappette e barattolini di carne comprati in farmacia; cresce tra la gioia di tutti, nonni, mamma, papà e …farmacista.
Ma lui è scontento, perché succube di una violenza: della vitale sensazione di ciucciare dal seno, gli rimane solo il surrogato: il biberon, detto pure ciucciotto. In alternativa ed istintivo, l’autarchico dito. Per i genitori, è una prima grave scelta.
Seppur contrari all’ideale di perfezionismo che gli adulti si prefiggono verso un neonato, questo ripiego apparirà da loro tollerabile purché non pianga: in casa, a messa o per strada, ma soprattutto quando sono impegnati...cioè, sempre!, quindi, non solo in situazioni estreme tipo al cinema, o quando avvinti da uno spettacolo televisivo serale, o peggio di notte quando esiste la prospettiva di tornare al lavoro appena svegli. Sempre.
Allora, tutto bene come rimedio, benedetto anche dai farmacisti che li vendono di colori sgargianti, di forme diverse, di marche prestigiose. E quindi, innocuo? Direi di no: anzi, per alcuni bimbi, possono cominciare dei guai.
Mamma Natura prevede che un neonato succhi liquido per tre mesi circa e poi gradatamente passi a cibi più consistenti. Quindi proseguire oltre, è già di per sé un errore contro natura.
Il succhiotto poi, non viene solo succhiato ma, visto che poggia sulla lingua, tra essa ed il palato, per essere trattenuto da essa viene istintivamente pressato verso l’alto. Dipende dalla forza e dalla ripetizione con cui il bimbo spinge sui tessuti molli della volta: può crearsi il ‘palato ogivale’ ovvero il rialzo della volta superiore della bocca: ricordiamo che il tessuto osseo di un neonato non ha ancora la consistenza tipica dell’organo adulto. Roba di pochi decimi di millimetro, ma sufficienti per avere a cascata altri gravissimi difetti successivi: primo, l’arcata dentale superiore se viene innalzata, ovviamente si restringe, ed i futuri denti non combaceranno più con quelli inferiori nella futura masticazione, con a posteriori danni di carie, disodontiasi e turbe digestive; secondo è che sopra la volta del palato, al centro, il Padreterno ha messo perpendicolare il setto nasale: questo, se spinto dal basso contro il cranio, essendo sottile, ovviamente si incurva (deviazione del setto nasale) con abnorme afflusso di aria lungo le narici: eccessivo dal lato più largo -con conseguente irritazione della mucosa (riniti) e del faringe sottostante; dal lato più stretto difficoltà all’inspirazione e necessità spesso poi di respirare con la bocca aperta -e conseguenti mal di gola e diatesi infiammatoria delle prime vie aeree (faringiti e laringiti, voce nasale). Anche la voce, può risentirne e cambiare tono: ma di questo non se ne avverte la differenza perché quando inizierà a parlare, verrà reputata la sua voce naturale. Però, per mamma e papà, niente allarmi né catastrofi. Solo un pò di intelligenza.
Diano questo vizietto, ma si prefiggano incentivare tutti gli artifizi per toglierlo al più presto; e far controllare dal Pediatra, palato e naso.
Perché nel tempo evolutivo, in Natura sono da prevedere tanti altri vizietti assai peggiori ed in crescendo (come l’ansia, l’insicurezza, il gioco, il sesso, e poi arriveranno il fumo, l’alcool, la velocità): tutto dipende sempre da come i genitori insegnaranno l’autocontrollo e, in questo caso, anche la moderazione; perché se l’inizio del proverbio recita: “l’uso sviluppa l’organo”, ad esso segue: “ma l’abuso dell’uso, porta al disuso dell’uso”.
Allegato 15 25 aprile
Il difetto più stupido e cattivo della Natura, è che il tempo fa svanire la memoria.
“Tout passe, tout lasse” recita un famoso detto francese. Ma, c’è poco da sorridere. Se se ne va la memoria, ‘Alzheimer’ si dice sorridendo per la paura di una malattia che si porta via i ricordi assieme alle esperienze e tutte le fatiche della nostra vita; divenute come sprecate, spese inutilmente.
Per compensare questo difetto, l’uomo ha inventato la Storia. Ovvero scriversi le imprese fatte e tramandarle ai posteri; perché essi acquisiscano i fatti, e con essi la logica, la morale, l’etica delle scelte di una o più generazioni. In modo che queste, a loro volta, scelgano in che direzione procedere.
Il 25 aprile è la data della Liberazione dai Nazifascisti.
Il messaggio che deve arrivarci, non è solo quello di una festa: perché “abbiamo vinto!”, o perché oggi non si va a scuola o al lavoro.
L’imput lanciato è un altro, molto più serio. Da raccogliere e tramandare! Un passaparola molto più importante, fondamentale, determinante.
Per spiegare, lasciatemi premettere un aneddoto. Nel mio mestiere molto spesso ho usato un quesito per proporre, ai miei clienti, un gioco di ragionamento; chiedevo: «se tu trovassi la lampada di Aladino e –strusciandola- emerge un Genio che ti promette tre cose; cosa chiederesti?». Posto così a bruciapelo, il quesito otteneva pressoché sempre risposte scontate e banali: la salute, la ricchezza, andarsene alle Bahamas…
Ma analizzato con serietà e più ponderatezza, direi che queste tre risposte –seppur importanti- in realtà non meritano i primi tre posti nel desiderio degli uomini. La Storia insegna che tutti gli uomini della terra, ovunque, comunque ed in qualsiasi tempo si trovino, si ribellano, lottano, ed anche sacrificano la vita, sempre solo se privati della Libertà.
È quindi la Libertà quello che per primo andrebbe chiesto al Genio.
Noi italiani ce ne rendiamo poco conto, perché –ovviamente regolamentata- l’abbiamo.
Ma è sempre la Storia che insegna come sia troppo facile perderla; anche il Fascismo iniziò apparentemente bene, ‘mettendo a posto’ tante cose scorrette, dagli orari dei treni ai rapporti col Vaticano; proponendo nuove prospettive di benessere sociale ed entusiasmo verso i vertici politici.
Ancor oggi, troppi sono gli sciocchi che si credono furbi nella convinzione che la Libertà duri in eterno; così come troppi sono i rabbiosi che propongono altri stili di vita ritenuti migliori ma che poi finiranno con limitarne il beneficio. Troppi i subdoli e scaltri venditori di fumo che nascondono l’amo con un’esca allettante; come troppi gli stupidi che ignorano la Storia, che è l’unica che ravviva la memoria. Sappiamo come andò dal 1943 al 1945; non certo democraticamente quando i fascisti persero, e mostrarono il vero volto. Ed è la storia che annualmente ci fa ricordare che il 25 aprile: si, vinsero i Partigiani e dietro loro gli Alleati, ma a prezzo altissimo, per tornare ad impossessarsi della Libertà di decidere. Pagando con la pelle, che domani potrebbe essere la nostra o dei nostri figli, se ci crediamo furbi.
Quindi che ognuno celebri questa data a modo suo; ma sempre col cuore verso chi ha preferito morire perché ognuno di noi fosse libero di celebrarla a modo suo.
E la Storia sa nome e cognome di questi uomini e donne. Riproponiamo perché non siano dimenticati, almeno quelli che titolano le nostre strade: non sono tutti ma sono un valido esempio per gli altri mille e mille sconosciuti, che il Partigiano lo fecero davvero.
Con la Liberazione, il Comitato che prese possesso della gestione della città di Genova, come altrove in tutta Italia, decise dedicare alcune strade ai giovani che in qualsiasi modo avevano preferito morire pur di allontanare l’oppressore.
Sampierdarena ne ricorda oltre venti, dedicando loro una strada; ed in questo giorno penso sia utile tutti assieme rileggerne i nomi.
Li poniamo in ordine alfabetico, perché –escluso uno- la Morte è stata una livella che ha appiattito le gesta di tutti ad un unico gesto: il dono della vita. Quindi ognuno è un pezzo dell’abito che portiamo addosso; è una parte del sangue che ci scorre nelle vene; è un neurone del nostro cervello che gode –nel rispetto degli altri- di poter fare, dire e pensare quello che vuole: LIBERO.
È un dovere di tutti, indipemdemtemente dalle ideologie politiche di oggi, informarsi su questi uomini. Se solo uno di questi nomi dice nulla: sconosciuto, ripeto, è dovere informarsi altrimenti è come se fosse morto per nessuno.
Hanno una strada intitolata: sono rammentati con lapidi stradali in San Pier d’Arena
Amedeo Andreani Federico Avio Ghiglione Bruno Giacomo Buranello
Alfredo Carzino Ernesto Jursé Cesare Dattilo Stefano Dondero
Walter Fillak Germano Jori Ugo Lavelli GB Lertora .......Edoardo Malachina
Giuseppe Malinverni............Luigi Andrea Martinetti...............Riccardo Masnata
Antonio Massa ......Tullio Molteni...............Felicita Noli...............Adriano Parodi
Romolo Pensa................Raffaele Pieragostini................Andrea Prasio...........Renato Quartini
Paolo Reti...............Giuseppe Rocco....................Giuseppe Spataro..........Walter Ulanowski
Allegato 16 L’INFLUENZA. Aviaria
Ormai tutti abbiamo imparato a conoscere i virus: il morbillo, gli orecchioni, la rosolia, e poi via via più sofisticate l’herpes la poliomielite (da divenire scaricabarile per tutto ciò che non ha spiegazione immediata). Per avere un’idea della grandezza di un virus, immaginiamo una cellula –che di per sé è visibile solo al microscopio-, e che dentro la quale possono albergare milioni di virus, prima di far ‘esplodere’ la cellula che li contiene, e loro essere liberi ciascuno di invadere un’altra cellula ove replicarsi. E’ ovvio che la velocità di moltiplicazione, di esplosione e di invasione, e la prontezza delle difese, determinano la gravità della malattia.
Anche l’influenza è malattia virale, ed ogni anno tocca dai 5 agli 8 milioni di persone, con tutti i relativi danni sull’organizzazione sociale. Di essa, quella aviaria, è tipica dei volatili (selvatici, o domestici come canarini, polli, tacchini, ecc) nei quali -sino a ieri- solo a loro poteva causare malattia grave o essere solamente ospite passivo.
Ma con l’aviaria, abbiamo imparato un’altra capacità dei virus: quella di poter modificare le proprie caratteristiche genetiche per cui, lentamente nel tempo, trasformarsi in un virus nuovo. Cosicché se l’organismo aveva imparato –con la malattia o i vaccini- a difendersi tramite gli anticorpi, quando quello cambia bisogna che il corpo ricominci tutto da capo essendone vulnerabile. Questo rende grave il problema perché -se arriva un virus già conosciuto, aggredirà solo quei pochi che non sono protetti, perdendo progressivamente virulenza-; ma se ne arriverà uno contro cui nessuno è protetto, può fa nascere una pandemia ovvero ammalare tanti, facendola pagare ai più deboli ed ai più sfortunati (come successe nel 1919 con milioni, e nel 1957 e nel 1969 con migliaia di morti).
Il rischio della pandemia aviaria, aleggia ormai da più decenni (i primi casi nel 1959 in Scozia), ed ogni anno il virus (tipo A, chiamato H5N1) è tenuto sotto controllo (dall’OMS, la FAO e la veterinaria OIE) anche abbattendo centinaia di milioni di volatili infettati o infettabili, scongiurando così l’infezione nell’uomo, al di là di casi singoli e lontani. Però non è controllabile negli animali selvatici, specie quelli che migrano e che sono portatori sani (ovvero quelli enormemente infettati seppur asintomatici).
Occorre quindi che 1)emerga un nuovo virus contro cui non si è ancora formata una barriera anticorpale; 2) passi dagli uccelli all’uomo (per primo è successo nel 1997 a Hong Kong, con 6 morti su 18 infettati. L’infezione avviene sia entrando l’uomo in contatto diretto con uccelli infetti (allevatori-cacciatori); o sia indiretto: tramite saliva-deiezioni-resti di macellazione o l’acqua contaminata dagli uccelli acquatici; o ingestione di loro cibo, non cotto); 3) sia capace di replicarsi nell’uomo; 4) sia capace di trasmettersi da uomo a uomo.
Sino a 2), il virus è già arrivato: i casi sull’uomo ogni anno si avvicinano avendo recentemente toccato la Croazia, Romania e Turchia, ove è stato da poco accertato il 150° caso (dei quali 80, =60%, conclusi col decesso) con casi singoli, separati e quindi isolati e contenuti. Se arrivasse a 3), immediata e forse infrenabile sarebbe l’esplosione a 4).
Un altro timore è che esso riesca –come appare propenso a fare- a scambiare geni con un virus dell’influenza normale; così potrà divenire aggressivo anche per l’uomo tramite le vie respiratorie specie nei paesi che non possiedono la rete di sorveglianza (che invece esiste in Italia: Genova, con i ‘medici sentinella’ ed il prof. Crovari, è protagonista nello studio dell’andamento, della barriera sanitaria e della preparazione di un vaccino specifico).
Il nostro governo, in attesa che l’OMS dichiari ufficialmente l’arrivo della pandemia, ha assunto l’iniziativa di opzionare con rapidità l’acquisto di 36milioni -unico a livello mondiale- di dosi di vaccino, e 6milioni di dosi di farmaci antivirali, disponendo anche un programma preciso a protezione dei soggetti più a rischio.
Noi, che fare?. Piccole ma prezione precauzioni sono:
=comprare volatili di origine garantita – nel frigo conservarli crudi lontano da altre carni – cuocerli bene – abbondantemente lavarsi e lavare gli utensili usati (acqua e sapone) dopo l’impiego
=vaccinarsi contro l’influenza umana annuale (non protegge contro l’aviaria ma frena l’indebolimento delle difese necessarie; essa non va impiegata da tutti, ma solo dalle 10 categorie previste e giudicate “a rischio”)
=attenzione alle secrezioni (naso e bocca: tosse e starnuti) - usare fazzolettini monouso - lavarsi bene le mani (acqua e sapone).
=contattare il Medico, o consultare:
-il Ministero della salute, su http://www.ministerosalute.it/imgs/C 17 normativa 566 allegato.pdf ;
-www.epicentro.iss.it ;
-l’OMS, su http://www.who.int/wer/2005/wer8033/en/index.html ;
-l’OIE, su http://www.oie.int/eng/en index.htm ;
-l’Eurosourveillance, su http://www.eurosurveillance.org/index-o5.asp ;
-la rivisa Nature, su www.nature.com .
allegato 17 ANCHE LA PICCOLA CHIESA DELL’OSPEDALE HA LA SUA STORIA.
Il Comune di San Pier d’Arena, dal suo nascere gestito da socialisti ed anarchici (mangiapreti; con tutte le piccole ritorsioni di malcelata sopportazione, dal far aspettare per i restauri ad anche banali tipo far pagare la neotassa sui cani anche al prete, seppur il suo sempre chiuso nel recinto: dopo varie proteste, dovette pagare; però di aiuto alle attività sociali, specie quelle di don Daste), volle sempre essere distaccato dalla Chiesa, se non addirittura contrario: laico sempre; perfino contrario alla formazione di più parrocchie –ritenendo sufficiente quella sola della Cella-; sempre nel larvato timore di ripresa di potere dei preti.
Quando nel 1915 si inaugurò il nuovo ospedale sulla sommità del giardino della villa Imperiale-Scassi, già dai primi progetti del 1908 c’era il licenziare il cappellano; comunque non si aveva previsto un alloggio per lui. Per le suore, quelle col cappellone, della Congregazione di s.Vincenzo de’ Paoli, chiamate “figlie della Carità”, l’ospitalità c’era ancora, ma precaria, discussa politicamente, sopportata solo dalla mancanza di infermieri qualificati (e...gratis).
Ovvie le proteste dei cattolici, i quali proposero due progetti: per primo la formazione di un comitato mirante a raccogliere offerte per riammettere il prete senza che gravasse sulle spese pubbliche. Ottennero soddisfazione solo nel 1933 –in epoca fascista- quando potè riprendere servizio interno il famoso prae Giordan, quello che gestiva l’Oratorio della Morte e Orazione demolito nel 1935. Ovviamente all’atto del pensionamento, il vecchio sacerdote fu dato in esempio e salutato dall’Amministrazione, per la qualità del servizio reso al nosocomio. Ancora nei primi degli anni ‘60 esistevano alcune suore, che fungevano da caposala. Ma un ridimensionamento dell’ordine (che anche toglieva il cappellone), la ristretteza numerica, l’emergere di concorsi ed assunzioni di infermieri qualificati (scuola-convitto iniziata nel 1959), determinarono la cessione del servizio.
Per il secondo progetto, mirato a far erigere una chiesa, l’Amministrazione trovava costanti intoppi ed imprevisti per non farlo: ritardando i tempi, fu dapprima adattata una baracchetta in legno nel settore Giardino sopra il padiglione 8, coperta dai famigerati ondulati di eternit. La guerra congelò tutti i progetti, anche se nel frattempo era stata accumulata una cospicua somma per iniziare i lavori, approvati da un non precisato ing. Ferrari. Solo ben dopo la fine del conflitto, nel 1954, padre Rinaldi, dei padri Camillani o Ministri degli Infermi, riprese le redini del progetto adattandolo sia alla ristrettezza delle finanze (lotterie, beneficenza, spinta riedificativa generale) che al posto (ovvero nell’estremo levante dell’area, anzichè sopra il pad. 7 come era previsto). Solo così nel 1955 fu completato il piccolo edificio, ad unica navata, un solo altare sopra il quale –in un retro affrescato di angeli- domina la statua della Madonna ‘Regina Mundi’ donata dalla squadra di calcio U.S.Sampdoria.
Allegato 18 MOSTRA INTERNAZIONALE DEL SEMPIONE A MILANO - 1906
Cento anni fa, 1906, si era in un’epoca di gradissime trasformazioni. L’industria del settore faceva passi giganteschi e sconvolgenti: il motore e la ferrovia sono l’espressione dell’inizio - dal 1850 circa - della prima rivoluzione tecnologica coinvolgente i mercati, l’ambiente e la vita di tutti.
In quella prima decade del secolo maturarono altre invenzioni determinanti, come l’elettricità nelle strade e nelle case, i primi telefoni, la radio e su tutti, l’uso del ferro e dell’acciaio. Esso divenne determinante, non solo per i ponti, binari e locomotive, ma anche per le lamiere in genere, per le navi non più a vela, e per le armi - a preparare la prima guerra mondiale.
San Pier d’Arena, con l’insediarsi dei fratelli Balleydier, dei Wilson-MacLaren, di Taylor-Ansaldo e con tutte le grandi e piccole industrie della latta, dal 1865 città, venne a trovarsi il centro e perno della situazione siderurgica –prima italiana, poi anche internazionale-.
Gli ingegnieri Grattoni, Sommeiller e Grandis (a loro, tre strade nella nostra città) inventarono una perforatrice che snellì in modo determinante i tempi per l’apertura della galleria del Sempione; per l’occasione Milano sentì l’opportunità di ribadire le Colombiane del 1892 indicendo una grande Esposizione internazionale sui manufatti metallici ed invenzioni tecnologiche.
San Pier d’arena era allora in piena espansione: raddoppiati gli abitanti, moltiplicati gli occupati nell’industria (operai), nodo ferroviario vitale, culturalmente in evoluzione tangibile (cooperative e società di Mutuo Soccorso in primis l’Universale; teatro Modena; Croce d’Oro; ginnastica Sampierdarenese; i primi operai in Parlamento; rigoroso laicismo e socialismo politico; i primi progetti di una metropolitana). Milano non ebbe dubbi sulla nostra partecipazione; l’invito fu trasmesso al sindaco avv. Nino Ronco ed alla sua Giunta, retta da uomini forti del Risorgimento.
E la risposta fu alla grande.
Venne chiamato l’architetto più estroso del tempo, Gino Coppedé; a lui fu chiesto di imporsi all’ammirazione di tutti, di essere diversi, di stupire. Lui per l’evento inventò uno stile architettonico che inizialmente chiamato postLiberty fu in realtà l’inizio del “futurismo”. Riuscì a creare un edificio con struttura che era destinata a creare un misto di forte e compatto, misto a stupore, ammirazione e sgomenta incomprensione perché anticipatoria sui tempi (molti ancora abituati all’architettura classica, ed –al limite – floreale dell’Art Nouveau).
L’edificio fu a due piani, ricco– come d’uso allora - di simbolismi mito del progresso e dell’industria: da grossi bulloni (i chiodatori sampierdarenesi erano i migliori del mondo), agli ingranaggi di ruote dentate, a bassorilievi rappresentativi il lavoro di fucina; una facciata arredata da ruote alate e col muso stilizzato di una locomotiva con relativi respingenti; il tetto a forma di ponte di una nave con pennoni e gru sporgenti; l’ingresso principale con due ovali ricordanti l’imboccatura della galleria del Sempione e trichechi stilizzati a significare la vincita dell’acciaio persino nei ghiacci del nord.
Nel giugno 1906, all’Esposizione Internazionale di Maila, fu un trionfo di importanza rilevante. Quando chi ci governava, mirava anche a che ci si sentisse orgogliosi di essere sampierdarenesi.
Allegato 19 EQUIVOCI in MEDICINA –1-: “sono contrario alle medicine”
Troppo spesso, e da persone di alta cultura, mi sento dire la frase del titolo. È una espressione non legata all’intelligenza, ma all’istinto di una persona che ha sentito parlare solo dei danni nell’uso delle medicine, ma ha anche ritenuto opportuno non approfondirsi sul tema rimanendo in inconscia sensazione di paura. Antipatica la situazione quando questi, per sua sfortuna, si trova inguaiata da una inopinata malattia, magari lieve ma noiosa.
In ogni modo, è una espressione sciocca anche se un pò disperata, tipica di chi appare frustrato dall’insicurezza di sé ed inefficacia delle contromisure adottabili. Spiego il perché. Anche l’acqua, quando assorbita nell’intestino, nella sua naturalità, modifica la composizione del sangue (più diluito) rispetto a quello che era prima di bere. Ma un farmaco è tale se, in più, produce una azione radicalmente diversificante. Quindi, innanzi tutto occorre fissare il concetto di base, fondamentale e vero: non esiste ‘farmaco’ che sia innocuo; o almeno che, in qualsiasi modo entrato nel sangue (iniezione, pillola, supposta, aerosol) e quando poi a giro per i tessuti, non provochi un intervento modificatore. Non sarebbe un farmaco.
In secondo luogo, ma in parallelo, è ovvio che se una persona sta bene e gode ottima salute, perché intervenire sull’equilibrio con una medicina? In questo caso quindi è giusto ed ovvio dire “no, sono contrario” (è tema dei tempi, l’uso di farmaci negli sportivi o in quei ragazzi che iniziano l’esperienza della droga scioccamente convinti di sapersi fermare quando vogliono: è indispensabile dire ‘no’, anche senza ‘grazie’).
Ma, e qui inizia il secondo punto di riflessione: quando l’equilibrio viene rotto da una malattia? Il discorso cambia, diventa totalmente diverso; non è più come prima.
Ecco che nella testa dell’interessato deve scattare un meccanismo di valutazione: vantaggi e svantaggi. Deve saper valutare quanto danno comporta la malattia (dolore, insonnia, incapacità o riduzione lavorativa, impegni perduti, tempi necessari, esami, ecc.) ed in parallelo dovrebbe essere capace (o farlo fare dal proprio MedicodiMG) di valutare gli effetti positivi-negativi del farmaco occorrente (dal costo, al tempo occorrente ad agire, alla tolleranza, ecc.).
Per esempio, è facile il discorso di fronte ad una polmonite: era spesso mortale prima dell’avvento degli antibiotici ed invece per merito loro oggi ridotta a malattia controllabile. Ma l’antibiotico è mica innocuo; leggete il bugiardino e troverete un sacco di precauzioni e controindicazioni, di dovuti dosaggi, di possibili intolleranze o allergie, di possibile inefficacia (mica tutti i germi muoiono: e se si sbaglia il ‘tipo’ di germe da combattere?); ed in più, tutti sappiamo che ‘butta giù’, che occorre affiancarlo a vitamine (ci sarà un perché), e non ultimo –anche se lo passa il Servizio Sanitario- il costo.
Meno facile, di fronte all’ansia, o ad un mal di gola fastidioso come la tosse. In questi casi –e mille altri- è meglio una medicina o è meglio tornare alle camomille, alla valeriana (è un farmaco pure lei) oppure suffumigi, erbette, latte e miele, o suppostine di … (nell’immaginariuo collettivo, chissà perché -forse perché usata anche dai pediatri nei lattanti-, la supposta non contiene medicina ma il famoso supercalifragilistespiramidoso…).
Ecco perché ad ognuno il suo mestiere. Ed evviva la libertà ognuno di scegliere quello che vuole. E, se vuole, si tenga la malattia. Ma per favore, non dica bel..sciocchezze.
Allegato 20 AVVENIMENTI CITTADINI==PALIO dei GOZZI
Da oltre cinquant’anni, istituita dal Comune nel lontano 1955, dieci rioni si contendo annualmente il palio di Genova, trofeo Andrea Doria (copia del batacchio bronzeo cesellato dalla scuola del Cellini, che ornava con un gemello il portone del palazzo Principe –lato nord-). Ma la storia inizia ancora prima, e vede la sfida iniziare nel lontano 1925 col nome “Palio di san Pietro”; sponsorizzata dal Municipio genovese che dotò ogni rione di un gozzo fabbricato a s.Margherita; disputata inizialmente a Prà (dove ancora esistevano la spiaggia, i pescatori e gli amanti del mare secondo le regole della tradizione locale) poi alla Foce davanti alla chiesa omonima del palio e poi girovagare assecondando le necessità locali (tipo piazzale Kennedy) ritrovandosi al porto antico, a calata Zingari, alla Foce ed a Nervi.
Si sviluppa davanti a corso Italia a livello del Lido (bagni San Nazaro), a conclusione di altre sfide locali (palio del Levante disputato a s.Ilario; e di ponente a Voltri)
É composta da 4 muscolosi vogatori su scafi di: Voltri (vessillo, maglie e barca, verde); Prà (rosso; ben 13 vittorie); Multedo ((bianco granata; 5 vittorie); Sestri (bianco nero; il più forte, con 17 vittorie); Sampierdarena (bianco verde; quattro vittorie compresa la prima inaugurale); Foce (rossoblu); Sturla- -Vernazzola (giallo; una vittoria); Quinto (blu; una vittoria); Nervi (arancio; una vittoria); s.Ilario-Capolungo (violetto)). Il Boccadasse (3 vittorie), nel 2005 non compare tra gli equipaggi in gara
Nel pomeriggio le “batterie”; seguite dalla “finale”. Sono 1500 metri tirati allo spasimo, in tre giri attorno alla boa ed arrivo alla battigia ove il rispettivo “mozzo d’arrampicata” (anticamente chiamato “scimmia”) afferrata la bandierina a prua del gozzo deve completare la fatica dei colleghi salendo in arrampicata con una corda su una impalcatura (castello), e fissarla sulla cima.
Naturalmente non è solo una gara ma assai di più: c’è il peperoncino della sfida tra rioni, tra amici di voga e di pesca, tra amanti dello sport più antico bello e completo, in una città che dovrebbe essere la più marinara di tutte ma che arriva ultima alla gara nazionale. Però fa parte di un patrimonio culturale-tradizionale da non perdere: è un evento che -seppur poco evidenziato dai mass media (TV in particolare)-, è seguito da migliaia di spettatori.
I gozzi, una volta scolpiti a mano dai maestri d’ascia, fanno parte delle antichissime regole alle origini dell’imbarcazione: lunghe 22 palmi, in legno di mogano e cedro, a mano (solo dal 1986 sono in vetroresina; lunghe 5m,65; pesano 220kg).
I vogatori sampierdarenesi nell’edizione scorsa furono : Filippini Antonio; Leoncini Davide; Lucchini Donatella (timoniere); Leoncini Stefano (mozzo); Ricci Massimilano e Scavia Marco.
Allegato 21 BANDE GIOVANILI (in parallelo con Ferrari)
ricordo bene sessant’anni fa, quando bambinetto anch’io facevo parte di una banda: quella di via Agnese e Storace, ambedue affacciate sui giardini ora Pavanello, contro quella di via Currò ed Armirotti che volevano venire a giocare da noi. Ero tra i piccoli, quelli che erano guidati; ma ricordo bene che ‘quelli là’ erano proprio antipatici e prepotenti nell’insistere a voler giocare ‘da noi’: a cannette, al pallone, alle piste con le agrette, alle figurine lanciate contro un muro, alla cavallina.
Presumo che unirsi in bande faccia parte dell’istinto primordiale dell’uomo: e in tempi più recenti è stato lo spirito che ha fatto nascere l’Universale, il club dei Carbonai, le società di Fratellanza ed Amicizia.
L’unione fa la forza, recita l’antico proverbio.
Pertanto nulla di strano che i giovani immigrati, alla ribalta quasi sempre sud americani, si riuniscano in bande, dove possano parlare ed intendere la stessa lingua e dove hanno gli stessi problemi da affrontare. Anche i nomi adottati possono significare nulla se non il richiamo a similari delle proprie terre. Potrebbero chiamarsi ‘angioletti del paradiso’: cambierebbe nulla.
Lo squilibrio nasce subito dopo nata la banda: con l’inserimento dei grandi, i problemi dei grandi. Degli ultraquindicenni, purtroppo non inseriti né nella scuola, né nella società produttiva; molto spesso già inseriti nella pericolosa -ma ben remunerata- controsocietà; con tempo a disposizione. Quindi situazioni ben più gravi e pesanti, viste sul piano sociale. È con loro che il gioco diventa pesante: coltelli, muscoli, prepotenza, bisogno di apparire, e poi riti, spirito di gruppo tenuto insieme non con statuti ma con la paura. E più c’è paura, e più c’è coesione.
Non c’è bisogno di cercare nuove denominazioni per questo evolvere di un fenomeno che alla base è naturale: in italiano si chiama ‘mafia’. Per ora una mafia giovanile, ben strutturata ma senza profonde radici; ma se lasciata crescere, il passo successivo -solo di qualche anno a venire- sarà un disastro poiché scarse sono le prospettive di inserirli ‘di qua’ e tante quelle di vederli scivolare lentamente ‘di là’ della Legge.
Sino ad ieri, erano il lavoro e la famiglia i due sistemi di collocazione ‘di qua’, proposti dalla società. Adesso, del primo ce ne è poco, e non per tutti; l’altra si sta facendo di tutto per lasciarla sfasciare, un pò per dispetto alla Chiesa (detentrice di questo messaggio di per sé con pesanti obblighi); un pò perché nel loro caso è proprio la mamma quella impegnata nel lavoro e quindi assente; un pò per progressiva esasperazione dell’Io a scapito del Noi (divorzio, privacy, telefonini, TV definita spazzatura ma con percentuali di audience spaventosi); un altro pò per distorto valore della Libertà (conquistata a caro prezzo nell’ultima guerra, ed ora alla mercé del più astuto imbonitore di cui il nostro Paese è pieno: nel calcio oggi si discute di Moggi; ma similari sono presenti e ben inseriti in tutti i settori della vita, da altri livelli dei vari sport ai media, dalla musica al commercio, dalla politica alla stessa religione).
I vecchi valori vengono gradatamente sgretolati. Ma se cambiare è un bene; il male consiste nel non sostituirli con altri principi, e lasciare il vuoto istituzionale. Questa anarchia di valori (non di leggi: di queste ce ne è una pletora), di per sé è come una flebo che alimenta questi personaggi con astute capacità di infiltrazione; sia quelli che mettano su le bande, sia i vari Moggi, e sia i mafiosi che si impongono con la forza della paura su pecoroni belanti ma indifferenti. EBaglini
Allegato 22 VERNAZZA Angelo
All’Accademia Ligustica di Belle Arti, il conseguimento della laurea della oggi dottoressa Raffaella Bertelli (assistita dal relatore prof Alessandra Gagliano Candela; acquisita discutendo la tesi sul nostro concittadino Angelo Vernazza), ci ripropone la necessità di -anche noi- seguire l’ “itinerario di un artista nella Genova del primo novecento”.
Per chi non lo ricorda, iniziamo col descrivere chi fu Angelo Vernazza, in brevissime righe. Nacque il 23 aprile 1869 a San Pier d’Arena in via A.Doria 1/3 (oggi via Giovanetti), figlio di noto commerciante di olio d’oliva; si iscrisse all’Accademia, ne seguì brillantemente i corsi per tre anni vincendo il premio di ‘soggiorno cultura’ gratuito nella culla dell’arte, Firenze. Qui fu allievo dell’altro grande nostro pittore, Nicolò Barabino. Dopo un lungo viaggio all’estero, tornò a Genova e si sposò, creando famiglia con due bimbi ed andando ad abitare in salita (oggi Superiore) Salvator Rosa, esercitando la libera professione di pittore e maestro, non trascurando un inserimento nella vita cittadina nella qualità di consigliere Comunale (quando SPd’Arena era ancora Comune a sé, prima del 1926).
Per capirne il valore, occorre adesso inquadrare in che periodo visse: eredità di più secoli di arte poittorica, imperava la mentalità dei classicisti: non ci doveva essere improvvisazione; si doveva andare a scuola e rigidamente imparare tutta una serie di nozioni classiche; tutto doveva essere meticolosamente studiato, preventivato, perfezionato. Essi con questa disciplina, volevano così separare l’artista dal pittore dilettante, mettendo su due piani ben distinti chi faceva arte e chi mestiere; chi aveva virtuosità spirituale e chi aveva solo quella manuale; chi si esprimeva seguendo con rigore i canoni legati alla convenzione pittorica e chi invece viveva di esteriorità (come la capigliatura a ‘zazzera’, un vistoso ‘papillon’ o l’abbigliamento in genere).
Il Nostro provò a vivere i nuovi slanci creativi, ma nel suo intimo fu sempre un classicista e seppur concedendo libertà espressiva ai suoi allievi (tra tutti Dante Conte) non la applicò quasi mai nella sua produzione. L’aver aderito al fenomeno artistico del divisionismo (di per sé ribelli e rivoluzionari per la visione della luce e divisione del colore), non fu sufficiente a farlo distaccare dallo stile con cui aveva maturato il suo estro. Lo si legge nelle sue opere, sempre precise, corrette, puntigliose; specie nei ritratti, allora molto richiesti non esistendo ancora a livello popolare la fotografia.
Così, il tempo non gli ha dato ragione: gli impressionisti hanno stravinto; e –assieme a Barabino- il suo non transigere lo ha fatto confinare nella schiera dei non più ‘baciati dall’arte’: gli sconfitti; e quindi piccoli, anche se grandi. Per entrambi quindi, la sfortuna di esercitare in un’epoca in cui la pittura classicista stava concedendo sempre più spazio a forme non più legate ai loro canoni, a chi dipingeva più spontaneamente (i Macchiaioli, gli Impressionisti) o con floreale fantasia (il Liberty).
Così, sia Nicolò Barabino che Angelo Vernazza, seppur persone molto amate e rispettate in vita, tipici artisti bravi da essere classificati Maestri e con opere universalmente riconosciute belle, sono poco valutati rispetto al loro reale valore.
Sue opere sono in tutta la Liguria: da Tursi a villa Hanbury, da privati alla chiesa della Cella, ma soprattutto dell’Adorazione Perpetua di via Farini, dalla GAM alla scuola in piazza del Monastero.
Inutilmente, suoi estimatori hanno chiesto alle autorità la possibilità di porre una targa nella casa di nascita, o in quella di residenza (come è stato concesso a Barabino e Conte). E sarebbe sempre poco una lapide, quando sarebbe giusto onore dedicargli una strada. Ma ogni richiesta è caduta in uno strano silenzio; in una sorta di impalpabile dimenticatoio. Non naturale.
Deformato dalla mia professione, che mi ha abituato a interpretare un messaggio tra le righe; nel non detto direttamente; nel dover capire un disagio comportamentale esternato con mezze frasi o con silenzi, sento che può esistere un’altra verità. Il giudizio su di lui è tipico per la persona caduta in disgrazia. Allora non si può fare a meno di pensare che l’ultima parte della sua attività avvenne in epoca fascista. Questa componente politica, mai descritta da alcuno perché mai compare una sua partecipazione attiva con la dittatura, è una mia illazione. Ma ho la forte sensazione che sia difficile non abbia inciso, come per altri barabiniani un pò più compromessi visto che per vivere bisognava adattarsi. Poco; ma come il sale nella minestra, decisivo. Quantomeno, perché sia meglio parlarne il meno possibile.
Se fosse vero, per chi si pecca di intendersi d’arte, sarebbe la peggiore vigliaccata professionale.
Da noi sampierdarenesi, onore e grazie alla neodottoressa aver stilato la sua tesi su Angelo. Vernazza; ed altrettanto alla sua insegnante nell’averla guidata nella ricerca. EBaglini
Allegato 23 gli SCIAMA’
Per regio decreto del 1857, per primo, lo stato sabaudo conferiva ufficialmente un nome ad alcune strade del borgo di San Pier d’Arena (diverrà città otto anni dopo). La ‘via superiore’ era stata divisa in tratti: via DeMarini (dalla Lanterna alla Fortezza); via sant’Antonio (a via della Cella); via Mercato (a casa Ferrando).
Ecco che già 150anni fa, l’inizio della via verso san Martino del Campasso, aveva una persona come punto di riferimento amministrativo e sociale (era posta nell’angolo con l’attuale via Dattilo).
Nel 19__ nella zona arrivano gli Sciamà, aprono una tabaccheria, e con la loro frenetica attività soddisfano ogni giorno le necessità di migliaia di persone divenendo in breve punto di riferimento per tutta la via, poi la zona ed infine la città (i Salvemini sono molto più ‘vecchi’, e presenza fissa da oltre tre generazioni; ma non affrontano le minute necessità di tantissimi, tutti i giorni).
Prima che il sistema li divori (lei è già così magra da far concorrenza ai fiammiferi che vende; lui un pò più goloso –e quindi rotondetto-, come la capocchia dei fiammiferi stessi) han deciso di andare in pensione, lasciandoci ‘orfani’ della loro personale presenza. del sorriso, della prontezza. I nuovo proprietari dovranno fare una fatica tremenda per restare al passo delle abitudini che i due & C. ci hanno dato: riforniti di tutto, velocità, precisione, freschezza e ...punto di abbonamento per il Gazzettino.
Se se lo meritano, che vadano! Però noi, ai quali tocca incominciare tutto da capo...beh! siamo contenti per loro...
Allegato 24 MEDICINA === MAMMA, PAPA’ E NONNI - LE DROGHE LEGGERE
Tra giovani è detta ‘canna’ o ‘fumo’; nei libri sono similari ‘marihuana’ e ‘hascisc’; fondamentalmente è il tetra-idro-cannabiolo sostanza dal potente effetto su psiche e sui sensi, con effetto tendenzialmente sedativo, tanto da essere proposto per la terapia del dolore nei malati terminali. Innocua? non direi. Come l’alcool: è la quantità e la ripetitività a determinarne la gravità. Meno forte di altre droghe, ma pur sempre una molecola con azione di rallentamento sul cervello e sul sistema nervoso in generale. Quindi, non è senza effetto. E come per gli stupefacenti, l’uso continuato porta molto lentamente all’assuefazione; e questa a sua volta ad una alterata percezione dei sensi, pericolosa sia all’atto della guida sia nel mondo relazionale con gli altri.
L’hascisc, falsando la realtà della vita ed i suoi cardini (meno della coca e dell’eroina, ma pur più che niente), porta –se non ad un danno psichico immediato, a più d’uno di tipo psicologico-: demotivazione (vincere e lottare, è faticoso); allentamento della volontà (insuccessi scolastici, lavorativi e sentimentali, con ovvia emarginazione); diminuzione della creatività e costruttività, per rannicchiamento nella passività della fantasia; svuotamento delle emozioni che nei soggetti più deboli –e chi ne sente il bisogno di fumerne già lo è- dovranno essere sempre più forti (anche quelle sessuali).
La società conservatrice e la Chiesa, di fronte al materialismo e liberismo crescenti, hanno cercato di porre dei freni ed anatemi; ma – come quando si vuol trattenere dell’acqua nel palmo delle mano - perdendo ‘come una cavagna’ -, han dovuto scendere a successivi compromessi, quando si sono accorti di mantenere in seno personaggi di forte caratura che ne fanno uso in pubblico. Ma qui sconfiniamo con la politica e le scelte di alleanze, per cui esuliamo dal discorso medico.
Ci domandiamo, non è ipocrisia oggi far scrivere sui pacchetti di sigarette le frasi che ci sono, e nulla sull’hascisc –perché non venduto dal tabacchino-?. E non è ipocrisia collocarla nei reati di spaccio, ma essere legale possederne per uso personale?; non è ipocrisia la benedizione dell’uso anche in TV, di ministri (laici e religiosi) apprezzati da noi per il loro ruolo?
In più, i giovani di oggi non hanno certezze dalla società attuale, dove tutti parlano e si sentono espressione della Verità; ed essi, senza alcun guard-rail dei principi sociali, agevolmente possono sconfinare fuori strada... chi nel prato vicino, ma anche chi nel burrone. E se fosse nostro figlio? Che altra ipocrisia gridare allo scandalo! Questa società la stiamo scegliendo noi. È tutto frutto di un lassismo individuale che parte dal soggetto trainer ma che coinvolge chi lo segue o vota o se ne fa alleanza. E siamo arrivati ad un punto che nei programmi politici non c’è nemmeno più il minimo tentativo di moralizzare questo settore, lasciando che tutto vada avanti così, facendo finta di nulla.
Tocca a mamma, papà e nonni essere responsabili: loro debbono insegnare la sicurezza dell’io e prestare attenzione e scegliere gli ambienti e le amicizie.
Tanti sports giovanili, la musica, la danza, l’oratorio, gli scouts e certi centri di volontariato sono ancora sani. Forse faticosi e forse noiosi, ma insegnano il rispetto della vita, propria ed altrui.
Allegato 25 LIBERTA’ io vo cantando; e “Libertas”, dichiara un cartiglio della Repubblica
È stato Papa Giovanni XXIII che recentemente ha proposto ‘liberare’ le carceri. Ed in effetti Marassi è strapieno, sia perché è aumentata la popolazione, sia perché è diminuito il senso civico.
Anche noi siamo per la pietà ed eventuali condoni, ma limitati a chi nelle maglie della Legge c’è caduto una volta. Per chi delinque abitualmente (‘diabolicum perseverare’) provo meno sentimento; soprattutto per quelli che vanno a rubare nelle case della gente, asportando i quattro oggetti di valore che costituiscono la base ed il simbolo dei sacrifici e minano la sicutrezza dei più deboli.
Dobbiamo essere civili; e questo lo si dimostra anche nel modo con cui trattiamo chi sbaglia.
A me -cui piace spulciare nella storia- sapete come funzionava ai tempi dei romani? Semplice per loro: dall’ammenda (per chi l’aveva), al carcere (immaginiamoci quale, minimo una polmonite, con pulci, topi, ecc.; spesso anticamera di un definitivo strangolamento); dal taglione (occhio per occhio, dente per dente...braccio per braccio e così via) al bastone o frusta (a go-go). Per poco o nulla –specie se plebei o schiavi- si finiva nella condanna a morte (precipitati, decapitati, impiccati, crocefissi.
Nel tanto decantato Rinascimento, il mondo si era civilizzato, ma le pene erano ancora così drasticamente severe da quasi far meravigliare mentre si accappona la pelle. Leggo sul diario di un nobile Pallavicino che un giovedi di ottobre del 1580 veniva così aèèlicata la Legge: «Questa mattina è stato fatto giustizia del Savignone e Rocca, in questo modo, il Savignone fu messo sopra una caretta alta 4 palmi, con le spalle nude, e al uscir di Palatio gli diedero due tanagliate di fuocho, e passando per Piazza Nuova gline dettero una altra, quando furno a Banchi gline diedero due altre, e Sossilia due altre, e in Piazza Doria gli tagliarno una mano, era dove amazzò il Negrurino, al Rocca andava a piedi quando furno da S.Lorenzo gli tagliarno una mano, era dove sparò l’archibusata al Cesare Vernazza, e così poi gli tagliarno la testa in Sossilia, era dove amazzò il formagiaro, costui morì assai constante con la mente verso Idio, il Savignone rimase aspetando sino che fossi finito la Giustitia del Rocca, e stava vedendolo il Savignone, li Ministri della Giustitia si aviorno verso l’Arco con tante persone quanto si possa mai dire, fu appicato a una mezza forca, e poi brusiato, fece devota morte, e certo con molta costanza.».
Oppure più rapido sabato 4 marzo 1587 «E’ stato mandato alle forche uno che stava al molo per causa de furti fatti alle butteghe di SottoRipa». È un lungo elenco: dagli assassini con tagli di mano, piercing con tanaglie arroventate, seguite da impiccagione e squartamento (uno, che «alla mattina lo trovarono apicato e così poi l’hanno posto così morto in un casetto col capestro al collo, e conduto da un mullo alle arbore dove la è stato atacato»; ai falsi testimoni con marchio a stampo sul viso.
Nel 1699 veniva edito a Genova il “Criminalium”, ammodernato secondo le nuove esigenze: rimaneva il concetto che una pena crudele, terrificante e corporale funzionasse da deterrente ai misfatti. Per i piccoli reati esisteva anche la pena pecuniaria (per i possidenti) o carceraria (a Malapaga, per debitori, bestemmiatori, ladruncoli) o piccole corporali (per falsi testimoni, i minori, risse con feriti) con fustigazione per tutto un percorso cittadino, lungo in base alla gravità: una passeggiata a suon di botte!; oppure il remo, strappi di corda (legate le mani, come diceva il giudice davanti o dietro, sollevati, poi lasciati cadere senza toccare terra). Per i reati più gravi, la mutilazione era –oggi raccapricciante- la pena tutt’altro che rara: taglio delle orecchie, del naso, lingua, mani. Se la pena era di morte (congiura, assassinio, rapina, sodomia, sacrilegio) meglio per tutti l’impiccagione: per l’imputato, nella speranza fosse applicata da un professionista perché istantanea, altrimenti era un bel soffrire penzoloni, ma sempre meglio del taglio con la spada per il quale troppo spesso ne occorrevano più di uno per completare l’opera; per la gente perché più facile a vedere e lasciarlo in mostra, magari dopo averlo cosparso di pece perché ‘durasse’ di più.
Meno di un secolo dopo, i francesi inventarono la ghigliottina. Spettacolare, rapida, sicura.
Dovette arrivare Cesare Beccaria –al quale SPd’Arena dedica una scalinata- quando nel 1764 scrisse il trattato su “i delitti e le pene” col fine di dare una diversa dimensione a tutto il settore, ed avviare il processo, lento, di migliore somministrazione della giustizia.
Lento...in 250 anni siamo arrivati ad essere giusti nella giustizia? Non credo. C’è ancora tanta, troppa confusione per l’ottica della gente comune.
Ma questo è un discorso non più storico, ed allora mi fermo qui.
Allegato 26 LE QUATTRO ETA’ DI SAN PIER D’ARENA
E’ constatazione quotidiana raccogliere giudizi disparati ma convergenti sulla nostra delegazione. Il sunto dei pareri è tendenzialmente negativo; per esempio, nessuno dal centro o dalla val Bisagno in genere gradirebbe trasferirsi qui, sentendosi ‘declassato’; quasi nessuno dei personaggi di spicco (i Vip) sceglie venire ad abitarvi; hanno spostato alla Fiumara le luci della vitalità, ma in compenso la regione della Coscia è stata ricreata moderna e fredda; e quella del Canto è in agonia, sta morendo: negozi chiusi, luci smorte, anche di giorno c’è più nessuno in giro, soggezione della criminalità. È come un mazzo di fiori: è stato bello; ma ora, è da buttare?.
Analizziamo, cronologicamente le varie età vissute:
IL BORGO dalle sue origini (1), per mille anni e più, seppur politicamente dipendente da Genova, conservò un governo proprio, un ambiente apparentemente laborioso e poco bellicoso. Sono attuale testimonianza di quei tempi –mille anni fa- le tre torri (tre e mezzo per l’esattezza (2)) e la chiesuola di s.Agostino.
Di tanti storici che descrissero il territorio di allora, ne cito due (3): mons. Agostino Giustiniani che nei suoi annali del 1535 scrisse “…una spiaggia..che non potrebbe essere di più, e par che la natura l’abbia fabbricata a questo effetto…le case son magnifiche e in tanto numero (4) che accade a forestieri credere di essere a Genova”. Nel suo Atlante Ligustico del 1774 circa, il rev. FrancescoMaria Accinelli descrisse tutti i paesi della Liguria, ma solo per Sampierdarena precisò “…il più sontuoso borgo di tutta l’Italia”; e proseguì spiegando il perché: “Una doppia linea di palazzi cinti da delitiose ville e da amenissimi boschi rendono il borgo capace di dar aggiato ricetto non solamente a quella moltitudine di nobili cittadini che vi villeggiano, ma a quasi tutti li sovrani del mondo che vi volessero fare un’assemblea…”.
LA CITTA’. Nel 1853 arrivò la ferrovia: il lungo serpentone irriverente, tagliò a metà tutti gli orti e giardini delle ville, imponendosi per legge di pubblica utilità, svalorizzando tutto escluso per gli imprenditori edili che eliminarono irrazionalmente tutto il verde, e per l’industria pesante rappresentata soprattutti dall’Ansaldo. Con quest’ultima arrivò l’immigrazione: da 4mila abitanti del borgo, divennero 9mila nel 1864 al punto che nel 1865, per concessione del re, divenne città; 33mila nel 1892. Ma a corte, se poco importava Genova, nulla San Pier d’Arena ed il suo ambiente. Pregi e difetti. Dopo una iniziale profonda diffidenza nelle capacità locali, il governo si vantò della nostra vittoria di possedere la prima solida industria meccanica italiana, offerta da solerti imprenditori locali, svincolando il centro da svantaggiose importazioni. Fu dato lavoro a larga messe di italiani; la qualità della vita migliorò, seppur restando miserevole di fronte ai guadagni del potere, che divenne sempre più ricco, e che per lusinga propose far merito e gloria chiamandoci la ‘Manchester Italiana’ come se fosse una cosa da vantarsi far morire di cancro la popolazione residente. Ed alla faccia degli operai, i cui micromiglioramenti se li dovettero guadagnare a suon di sudore, scioperi, e continue lotte sindacali, ma col premio di un nome su una targa stradale.
Altro aspetto positivo fu il risanguamento genetico (la ‘nova gens’ di Paolo Lingua) ed il lentissimo ma inesorabile e tangibile salto di dignità degli abitanti. La qualità di vita è migliorata rispetto l’era precedente, seppur a scapito dell’ambiente.
LA DELEGAZIONE. Fu Mussolini che nel 1926 volle ‘la Grande Genova’, la Dominante, disse lui. I tempi erano maturi per ristrutturare gli spazi: ormai esisteva una continuità abitativa e produttiva con la periferia che non lasciava concepire paesi distaccati. Ma col trasferimento del potere a Tursi, tutti i progetti locali furono congelati in attesa di un coordinamento generale: eravamo un comune col bilancio in attivo e ci trovammo che benevolmente ci confermarono l’industria pesante, ci relegarono a dormitorio operaio e ci crearono due altre enormi negatività. La prima fu l’agognata –per il potere- espansione del porto a ponente: a parte aver sacrificato spiaggia e bagni, da allora i sampierdarenesi sono l’unica città di mare che il mare non sanno più cos’è, e se vogliono vederlo, debbono -come fanno i piemontesi- prendere un pullman ed andare a Pegli. In compenso, come seconda, possiamo godere di un ‘lungomare’ (intitolato a Carlo Canepa): è esclusivo per gli abitanti batussi, alti oltre tre metri, in quanto un muraglione alto due e mezzo impedisce di vedere cosa c’è dietro…il mare? forse...no: camion e cemento. In cinquant’anni, la qualità di vita è migliorata, ma l’ambiente è ulteriormente regredito in modo irriconoscibile (5).
LA CIRCOSCRIZIONE: nacque nel 1997. Il CdC è politica, un ramo della poltrona principale di Tursi, e funziona –a volte- solo se è in sintonia col Palazzo; comunque in pratica impotente di fronte alle arroganti decisioni del Centro. Ne consegue un lento strangolamento della personalità e delle più antiche tradizioni locali (avete mai visto il sindaco alla festa del SS.Salvatore?): pochi soldi per poche microiniziative di poco rilievo, da coinvolgere quattro gatti. La voglia di vivere, agonizzante; la dignità di essere nati qui, scomparsa. Chi è sampierdarenese mugugna, ammicca con sciocca superficialità, ma non si espone partecipando (o abbonandosi o collaborando): ho votato, ci pensano loro; maniman!. Ma ahinoi, musi lunghi, arrabbiati, tristi; allegri -fin troppo a volte- solo gli ‘abla spañol’: tutte persone per bene, ma ai quali delle nostre tradizioni frega nulla. Persistono le Associazioni di mutuo soccorso, la Banda musicale, il Modena, la Croce d’Oro, il Gazzettino stesso; ma tutti non più fucine di ribollente fervore, ma banale e cagnesca sopravvivenza in attesa dell’osso dal padrone, che non arriva; solo qualche privato getta lampi di luce: il don Bosco, Fiumara: grazie, da coma profondo a coma vigile; ma sempre in coma. Nel 2002 fu promossa da un gruppo di volontari, aiutati dai Lions locali, una ‘mattinata’ di informazione sulla ‘piccola città’ per gli alunni della scuola Sampierdarena: ne risultò che in genere la loro ignoranza sulle realtà sportive, storiche, geografiche, dialettali locali, è totale. Purtroppo sono flash di volontari che, singolarmente, producono poco ed anzi, passano per rompiballe; hanno evidenziato che -se non c’è più fiamma- un pò di brace esisterebbe ancora.
(1) la chiesuola di sant’Agostino conservata nella Cella ma in pratica appare abbandonata a se stessa. Avrebbe 1250 anni e sarebbe la più antica di tutta Genova. Ma è a SanPier d’Arena, interessa poco perché impura.
(2) oggi esistono ancora, ma completamente nascoste dalle case, sconosciute a tanti. Barozzi scrisse per assurdo: fortuna che sono nascoste, così non le hanno abbattute. Risalgono al medioevo; testimoniano che tra guelfi, ghibellini e saraceni, tanta pace non c’era neppure qui.
(3) trascurando il Petrarca, GB Gonfalonieri, D.Bertolotti e tanti altri.
(4) ve ne erano ben 110 circa. Ne restano una diecina un po’ curate; ed altrettante, solo esistenti.
(5) chi conosce salita Bersezio -il cui percorso ha oltre 2000 anni-; non parliamo di salita Millelire: uccidendola, con mossa astuta un Sindaco ha ‘eliminato’ la droga dalla città.
Allegato 27 Domanda a Bampi
La lingua inglese è stata denominata ‘pescecane dialettofagica’ perché nel volgere di poco tempo è divenuta dominante e distruggente le lingue più deboli (sia nell’economia, nella cultura moderna, nella politica che nel parlare quotidiano). In questa lotta della giungla, gli idiomi locali tendono a scomparire per primi, con possibile ”estinzione della razza”. Migliaia di problemi attanagliano i nostri politici alle loro poltrone; ma –sull’argomento- visto non il poco, ma lo zero interesse da loro parte, chiediamo: siamo a livello di abbandono all’autodistruzione o solo di ignoranza? A chi può far comodo “un dialetto morto”?
Allegato 28 LE RESPONSABILITA’ DEI MEDICI 1
È un argomento troppo vasto e di aggrovigliata complessità perché lo si concluda in un solo articoletto; nel contempo, merita iniziare a parlarne per fare una certa chiarezza. Su Repubblica di aprile scorso, si riferisce di un libro italiano scritto da tre medici, i quali hanno conteggiato che 32mila persone muoiono all’anno per errore; (dei quali 5mila proprio per errore del medico nella interpretazione, ragionamento e trattazione del male (imperizia o naturale fallibilità umana. La quasi totalità, nei ProntoSoccorso, di fronte all’emergenza, sommata alla non conoscenza del soggetto); gli altri 27mila (corrispondenti all’80%) legati ad errori del sistema.
Ambedue (etica medica e sanitaria) coesistono in un periodo storico mondiale –cioè rispetto solo 30, 40 anni fa- di vistoso aumento tecnologico sbilanciato da altrettanto vistoso calo dei valori civili e religiosi. Ad esempio, aumento di telefonini e riduzione di presenze nei teatri e nelle chiese. Questo problema, metterebbe sul banco dell’accusato solo i medici e l’organizzazione in cui lavotrano; ma non sono solo loro i colpevoli: ci sono radici iniziali non molto lontane, all’incirca quarant’anni fa. Parliamo di radici.
Prima di quarant’anni fa l’ambente sanitario era prevalente paternalistico: paga lo Stato. In ospedale certi vecchietti passavano l’inverno al caldo; e la convalescenza era completata in corsia; le cento diverse mutue assistevano solo i lavoratori, ma bisognava dare una mano anche a chi non lavorando non aveva assistenza.
Tutto è iniziato quando anche la sanità fu coinvolta nel famoso ’68. Si produssero due effetti paralleli: fu tolto lo scettro decisionale ai baroni medici (elemento forse positivo), ma si lasciò il vuoto di comando (sicuramente negativo). In quest’ultimo si gettarono, per acquisire quel potere, politici, sindacati, manager amministratori (favorita la laurea alla Bocconi), mass media (veleni di parte), farmacologi, opinionisti… e chi più ne ha, più ne metta. Ovviamente, esclusi i medici. Questa frantumazione del comando, se ha democratizzato la gestione del baraccone, ha però permesso che questi nuovi comandanti non vedessero più come prioritario l’aspetto umano, ma quello pratico: l’organizzazione ed il suo costo. Naturalmente non bisognava dirlo conclamatamente, per cui due modi di agire contemporanei e contrari.
Con la gente, mai accuse dirette (per motivi di voto), e solo frasine vaghe e svolazzanti, da leggere tra le righe, l’ho detto ma non l’ho detto, usando parole come indirizzate ‘agli altri’: tagli alla sanità, spreco, abuso, supporto alle classi deboli, invito a rivolgersi alla magistratura contro chi non applica l’assistenza (non specificando ‘quale’ assistenza), ecc..
Con i medici, in quanto diretti ordinatori di spesa, innanzi tutto ridurli a pecoroni, con i quali usare polso rigido, regole obbligate, innumerevoli leggi non democraticamente discusse ma imposte con decreti, paletti, note, controlli (ora anche della GdF), ecc.. Tutto, a chiaro significato della sfiducia totale sulla categoria. Era sempre stato che il servizio al letto dell’ammalato si reggesse sulla disponibilità, sensibilità, umanità e cultura del singolo, sentimenti mai appresi nel corso universitario né mai soggetti a regole o impegni secondo regolamento. Era implicito che chi scegliesse medicina già l’avvesse dentro, questi principi. Dal ’68 di cui sopra tutti i diplomati si possono iscrivere a medicina. Giusto. Però allora non aspettiamoci più un elevato tipo di cultura né spirito di sacrificio ed altruismo; e poi, con l’occhio obbligatamente fissato sulla spesa, hanno fatto diventare i medici bassi esecutori di ordini burocratici, belanti applicatori di leggi che non prevedono sentimenti; anzi, la pietà è aberrata perché istigatrice di consumo. Così, i medici debbono non essere più ‘missionari’!. È stato quindi un logico percorso: una volta dislocati da posizioni di alta responsabilità a quella di operatori che debbono solo obbedire (peggio che impiegati a cottimo), questi sentimenti sono stati via via emarginati, frustrati, osteggiati ed alla fine volutamente fatti scomparire.
Il cittadino ci ha messo un pochino del suo: sia scegliendo a governarci chi ha programmato ciò: e vi posso garantire che il politico, quarant’anni fa già sapeva che saremmo finiti così; quindi non è stato una evoluzione fatale, ma voluta. Sia ricorrendo sempre più alla Magistratura, che non prevede l’errore umano e la buona fede. E poiché non è umano non sbagliare mai, per il medico è divenuto obbligatorio proteggersi dietro quelle aberranti leggi di cui sopra, in una spirale sempre più perversa.
Se tutto appare come un vortice inarrestabile, tutti noi abbiamo contribuito direttamente o indirettamente a girare l’acqua per crearlo. Almeno abbiamo la dignità di dircelo. Torneremo sull’argomento
Allegato 29 CRONACA dai quotidiani, dell’agosto e settembre 06
Sempre d’attualità il tema delle ‘baby gang’, stavolta per avvertirci che i cinquanta ecuadoriani già arrestati per violenze e rapine, merito l’indulto, sono tutti scarcerati. E i duecento circa, che erano a piede libero, godranno della stesso provvedimento.
Unici appigli che fanno sperare nel loro inserimento nella nostra società che li ospita, sono: che abbiano capito come si deve vivere in questa nazione; che venga mantenuta quella ‘pace’ stipulata tra loro, un patto già a suo tempo siglato di non aggresione o belligeranza; il lavoro svolto in silenzio ma fruttuoso di tutti coloro (polizia, sociologi, università, psicologi, insegnanti) che hanno lavorato per il recupero di questi giovani in modo psicologico, affettivo ma anche e soprattutto proponendo inserimenti costruttivi.
In pieno sviluppo non solo albanesi o rumeni o ecuadoriani, ma malavita anche nostrana. Continue richieste di ‘maggiore presenza’ della forze dell’ordine nelle zone a mare, praticamente abbandonate essendosi ‘spostato’ il centro vitale cittadino. La crocaca segnala l’ennesimo ‘spari e sangue davanti al night’ e ‘coprifuoco’ dopo le 22,30 per scippi, rapine, auto distrutte a bastonate, prostitute, droga, lame di coltelli, auto-hotel per barboni e per pungersi. Nella bilancia, è l’altro piatto di GeNova04.
Per finire i margini del sociale, per tre giorni le pagine si sono riempite di prostituzione, di ragazze incinte che sono all’apice della richiesta, dello sfruttamento, di retate.
Gli islamici sono un altro tema di quotidiano riscontro. Gli atteggiamenti nei residenti sono i più vari e coinvolgono pareri tutt’altro che univoci, andando dall’estremo di chi vorrebbe tutti a casa sua a chi vede tutto una enorme gonfiatura di un problema che non esiste. Ciascuno ha una sua formula interpretativa, che si ostina a giudicare l’unica intelligente e vera, accettando il dialogo per educazione, ma arroccandosi nella convinzione di essere l’unico che ha capito tutto. E qui –a mio avviso- l’errore: il tema è molto complesso ed ha tante facce, e quindi non soggetto ad una sola interpretazione né una unica soluzione: occorre essere disponibili a plurime sfaccettature, tutte importanti ed ognuna da affrontarsi separatamente; il tempo farà da mediatore; ma nell’immediato, vanno prese con fermezza –come per le baby gang- più d’una decisione. Intanto, della moschea a Cornigliano, tutto tace: è un bene?
Le corsie gialle sono rimaste lì; gli ausiliari hanno mitragliato i disobbedienti fornendo ossigeno economico all’azienda tranviaria che godrà di queste entrate per rafforzare la rete. l’AMT aumenterà il biglietto e gli utenti aumentano la bile.
Il depuratore di Cornigliano, parzialmente attivo, ha avuto anche lui le sue giornate di gloria; in negativo, ovviamente. Dovrebbe trattare non solo il percolato di Scarpino (da collegare un collettore) ma anche la rete locale e di San Pier d’Arena. Autorizzato nel 2003, non è mai stato attivo come depuratore totale scaricando nel torrente il materiale ‘nero’ solo dopo un pretrattamento. Sul SecoloXIX di metà luglio 2005 si leggeva la promessa del Sindaco che ‘entro due anni’ i depuratori sarebbero entrati in funzione. Ne è già passato uno, quando si rilegge che sei persone sono indagate, accusate di ‘inquinamento ambientale’. Non solo odore – da tutti i passanti sul ponte, o dai grandi magazzini – ma anche pesci morti: e l’Arpal in allarme permanente.
Ottimista ad oltranza, interpreto che –anche se con errori- ci stanno lavorando. Il Sindaco ha a disposizione ancora un anno; ma non gliene calerà più di tanto, non proponendosi di essere rieletto. Ma sicuramente al suo partito, si.
La bimba rapita, costituisce un nuovo e mai discusso prima problema etico: sino ad ora era beneplacito – e la Convenzione di Ginevra lo sancì - che più importante di tutto era la vita. Ora emerge quantificare non la vita ma la libertà e felicità di un minore. Sono regole ancora da scrivere.
I lavori stradali nella circoscrizione vedranno l’Aster interessata, con a disposizione più di un milione di euro, a piazza VittorioVeneto per instaurarvi una rotatoria e rifare marciapiedi e aree di sosta; e via Pietro Chiesa per marciapiedi, asse stradale da riaprire e parcheggi. Speriamo non sia epoca di ulteriori ingorgoni.
In compenso, veniamo a sapere che i giovani atleti dediti al canottaggio, stanno esprimendosi gloriosamente anche a livello nazionale facendo della Sampierdarene una delle società più in vista del settore giovanile. Si affiancano così non solo alla Sampierdarenese’46 che quest’anno militerà in Eccellenza, ma anche agli atleti della società Universale, delle bocciofile, delle arti marziali, che hanno goduto di premiazioni anche internazionali.
A livello di popolo, peccato che perseverando lo sciocco: ‘mugugnare, ma ostinatamente ognuno per sé’, nessuno usi il nostro Gazzettino che informare gli altri: di tutto quello che si vorrebbe non succedesse o che si vorrebbe succedesse diverso.
Noi della Redazione, tutti volontari, non possiamo essere dappertutto; e non possiamo sapere tutto, se i Lettori non ci aiutano.
Allegato 30 EVELINO MARCOLINI, capitano di fregata.
Abitava a San Pier d’Arena, nella villa liberty detta Bertorello al civ. 2 della via omonima, prima di trasferirsi ad Arenzano, è morto nell’ospedale di Villa Scassi il 9 settembre scorso. Veronese di nascita, si arruolò volontario in Marina ove iniziò una carriera progressiva ed intensa: elettricista, cannoniere, palombaro col grado di sottocapo, sommozzatore, esperto di mezzi subacquei e d’assalto. Nell’ottobre 1943 entrò nelle fila della Liberazione, sempre impiegato nell’ultima specializzazione che lo portò, nel 1944 ad essere decorato con la Croce di guerra al V.M. sul campo; e - con l’aiuto del sottotenente di vascello Nicola Conte - nella notte del 19 aprile 1945 – sei giorni prima della liberazione - a danneggiare irrimediabilmente la portaerei Aquila, che i tedeschi volevano usare, affondandola, per bloccare il porto di Genova. Era una missione ad alto rischio, sia per i materiali a disposizione di scarsa affidabilità, sia per le ostruzioni e la attenta vigilanza a cui era sottoposta la nave, e sia perché se scoperti non avrebbero avuto scampo per le leggi militari tedesche sui sabotatori. Furono bravi, furono fortunati, furono eroi.
Genova deve esser loro grata, perché grave sarebbe stato il danno commerciale una volta finito il conflitto; la Marina deve errer loro grata per aver risollevato le sorti dell’efficenza e coraggio dei suoi uomini; la storia deve esser loro grata perché furono due in più nel gruppo di migliaia e migliaia di esseri che nella tristezza della guerra hanno rischiato onorevolmente la vita per la Patria. Furono ambedue decorati con medaglia d’oro al V.M..
Ma non fu sufficiente: sopraggiunta la pace, partecipò attivamente allo sminamento dei porti italiani, rischiando ancora ogni volta, come dimostra il lungo elenco di sminatori, ricordati in una lapide e che comprende anche numerosi militari inglesi.
Riconosciuto invalidato dalla lunga permanenza sott’acqua, sia in guerra che in pace, proseguì la carriera assunto nell’attività portuale, sino a raggiungere il grado di capitano di fregata ed essere collocato a riposo per limiti di età.
Sicuramente fortunato anche, sia di aver realizzato il suo sogno di volontario, sul mare e sotto; di aver realizzato più di un gesto eroico; di aver vissuto una vita ricca.
Allegato 31 BABBO NATALE da dare per il numero di dicembre
La festa di Natale è sempre stata da duemila anni la celebrazione della nascita di Gesù Bambino, sinonimo di tutti i bambini del mondo, scambipo di doni tra loro (Gesù che da la gioia della sua venuta e del suo significato; il bimbo che riceve dei doni). E poiché siamo poi tutti in fondo un oò bambini, i regali si fanno anche agli adulti. Il presepio è sempre stato dalla sua creazione, il far rinascere il Bambino nella culla, nella stalla, tra Giuseppe e Maria, tra il bue e l’asinello.
Ma è stimolo dell’uomo non accettare le cose come stanno; ognuno cerca di inventare qualcosa di diverso, che lo distingua, che magari gli frutti qualcosa (fama o soldi, perché no?). Ma molto-troppo spesso, tutto finisce nel dimenticatoio e nell’oblio generale.
Così, a fianco del tenero Bambinello, nacque il bonario Babbo Natale, un barbuto, grassoccio, pacioccoso e munifico papà, vestito di rosso, che con la slitta portava i doni entrando in casa attraverso il camino. E la cosa attecchì.
Ma come tante storie, anche Babbo Natale ha una sua storia personale, che inizia con san Nicola, un santo di tutto spessore, vissuto tanto lontano nel tempo da aver difficoltà nel valutare la realtà della sua vita. Fu vescovo a Mira in Turchia nel IV secolo, ove morì il 6 dicembre dell’anno 350 ca. Aveva preso parte al Concilio di Nicea nel 325, quando venne proclamata la divinità di Gesù. Già in vita era venerato come santo, per la sua bontà estrema, per atti giudicati miracolosi rivolti più spesso a fanciulli e marinai. Il culto, si diffuse dalla chiesa greca a quella slava ed a quella russa fino alla Siberia(Nikita); solo nel X secolo arrivò in Germania e Svizzera (Klaus); in Italia invece iniziò solo dopo la traslazione delle reliquie a Bari nell’anno 1087. L’aver salvato dei fanciulli dall’essere messi in salamoia o avviati alla prostituzione, lo fece anche qui diventare il santo degli Innocenti, colui che genericamente dona ai bambini.
Con l’emigrazione europea, il culto arrivò negli USA (Nick). Nella sua qualità di protettore dei bambini una vignetta fu abbozzata per prima dall’americano William Gilley quando nel 1821 pubblicò un libretto per bambini, narrante la novella di Sinterklaas o Santeclaus corredato dal fantasioso disegno di una persona vestita di pelliccia ed alla guida di una slitta colma di regali trainata da una renna.
Localmente la cosa dovette piacere, se dopo soli due anni un altro scrittore di New York editò un altro libro per bambini, intitolato più chiaramente “Racconto di una visita di san Nicola”, nel quale il portatore di doni era similare e la slitta trainata da ben otto renne. E se nel 1885 circa, un tipografo di Boston lanciò l’idea degli auguri natalizi sotto forma di biglietto-letterina: adottò l’immagine del panciuto e bonario santo, vestito di rosso e con barba e berretto, allargandone così la conoscenza.
L’attuale, definitiva e popolare immagine di “Santa Claus”, bianco-rosso vestito, con tanto di berrettone, barba, cinturone e stivali, nacque nel 1931 dalla fantasia dell’illustratore americano Haddon Sundblom su richiesta-contratto della Coca Cola; lo scopo, era incrementare la vendita della famosa bibita in periodo invernale, cioè fuori stagione. Il disegno pubblicitario raffigurò il santo vestito come oggi, ed un pò panciuto come lo è la bottiglietta del prodotto tenuta bene in vista. La globalizzazione della ditta, non fece altro che diffondere e far conoscere quel personaggio dappertutto; la propaganda commeciale natalizia, ha fatto il resto. Al punto che del vescovo di Mira non ne rimane più alcuna traccia se non il valore, nella speranza tipicamente cristiana, che almeno i bimbi vengano salvati dalle brutture del mondo: da San Nicola, o San(ta) Klaus, o Père Noël o Babbo Gelo, o Babbo Natale (così tradotto forse perché il disegno arrivò in Italia durante il fascismo quando era proibito usare termini inglesizzati). Così, da tre generazioni, Babbo Natale è il prestigioso portatore di regali: in una sola notte, a tutti i bimbi del mondo.
Allegato 32 – QUELLI DEL GAZZETTINO
Dovreste venire un giorno in redazione. Venite.
Aleggiava un vuoto quando da poco se ne era “andato” il ‘Capo’, quello che da secoli faceva il giornale perché ci credeva. Malgrado l’età, era un bulldozer con degli imput di imprenditore e delle volute politiche decise e ferme. Aveva rapporti tosti con la gente, usando una irruente saggezza che a volte sconfinava in una sana follia dittatoriale: ho ragione solo io, il giornale è ‘mio’. In fondo era vero, lo ha sempre fatto; ed ormai è tradizione farlo così. Ultimamente, anche se era meglio che lo scrivessero gli altri, gli bastava che gli restasse nelle mani una certa supervisione come le briglie d’un tiro a dieci. Un panzer.
Ora, in una delle due stanze, quella poco più grossa di un francobollo (l’altra è un coriandolo quadrato), c’è una signore che si chiama Stefano. D’età è indefinibile perché viene superbamente compensato dall’aspetto casual ma dal cipiglio deciso, capace, moderno. Lui è il tuttofare, non il Potere, ma il Lavoro. Ed il nome che ha, lo responsabilizza ancora di più. Pluri impegnato, pepato: un manager moderno, senza essere il capo che stressa i collaboratori. Mira in alto; sicuramente a divenire autonomo e mai più un dipendente!; ma in un settore, la stampa, dove occorre invece quotidianamente guardarsi le spalle... in basso. Ha un sacco di difetti: uno, grosso per essere un Moggi: è un buono e, quel che peggio, onesto; poi è uno ‘scrupoloso’ del centesimo di euro, così passa un sacco di tempo a controllare i conti invece di insegnare ai collaboratori come si usa il computer. Comunque è ovvio che senza lui il Gazzettino si vanifica, come un orologio munito di tante rotelle ma senza le lancette. Come i giovani d’oggi, contemporaneamente scrive a macchina, risponde al telefonino, conversa con i presenti e fuma a getto rapido sotto un cartello, che ha scritto lui –anche se l’ha fatto firmare a me-, con un vistoso ‘Vietato Fumare’. Gli è che tutti fumano li dentro, e guai se lo dici: zac, ti ignorano o, se quel giorno sono buoni, ti mandano.
C’è sempre anche Carino, ex usciere di teatro. Un altro buono che, come un guardiano, smista visitatori ed abbonati, raccoglie i necrologi, svolge le mansioni più semplici e di fiducia. Il factotum che vuole bene a tutti ed ha sempre una parola di comprensione per tutti. In questo lavoro trova una gratificazione in più. Di per sé lui è “sostanza”, come il formaggio sui maccheroni; e questo lavoro è per lui complementare, come la nutella sui biscotti.
Ci sono poi una serie di collaboratori: tra essi c’è di tutto. Chi scrive articoli perché ha qualcosa da dire, con professionalità: perché ama la sua città nei vari settori, dal dialetto, allo sport, ai CIV; e vorrebbe raccontare agli altri la gioia e la possibilità di viverla meglio, e chi, che presupponendo essere reduce da un premio Pulitzer, ama il se stesso che scrive: buttare giù un pezzo, lo gratifica molto perché la stampa, di per sé è una espressione di potere; anche se il Gazzettino ha il suo pubblico scarsamente collaborante; il suo problema, come capita spesso, è nella fragilità: più siamo banali e più ci riteniamo perfetti ed intoccabili.
Tra tutti, caratteristico, è il giudice di pace: già la figura fisica ti mette serenità, anche se la grinta non sempre è rassicurante perché è abituato ad analizzare i fatti nelle sue minuzie: quindi se afferra un problema, con prudenza e lentezza tende a sfogliarlo, sviscerarlo e valutarlo in tutti i cavilli; quando arriva alla conclusione... io sono già andato a Parigi, serata con le Follie, e tornato.
ll vulcanico professore universitario è un personaggio autorevole. Quando interviene è perché di quell’argomento sa. E quindi è sempre deciso, conciso e preciso. Invece il presidente del CIV è e si comporta da ipersuperimpegnatissimo; non sai se è un play-man o se se la da; sicuramente farà carriera in politica perché in quell’ambiente ci vogliono tipi come lui che col sorrisino sanno cosa e come fare.
Per la quota rosa, ci sono sette presenze, tutte di rassicurante alto livello. Tra esse due sono nuove e quindi non valutabili; la neo sposina, adesso è poco presente per tanti suoi motivi; con dolcezza e snagliante sorriso, svolge il suo ruolo con fiduciosa competenza. La grintosa Laura, è incaricata ed affronta la parte più impegnativa del giornale, la pubblicità, con una grinta che alla fine offre risultati non solo grafici ma soprattutto economici di alto respiro. Mi sembra sempre tesa e seriosa, proiettata in avanti, poco incline allo scherzo: è ben inserita nel personaggio produttivo.
L’avvocatessa, non so come faccia ad essere ‘cattiva’ per mestiere quando ha il viso ed il comportamento della buona mamma, sensibile e sorridente. Forse, come un altro dottore celebre, in certi momenti si trasforma: allora sarà meglio non averla di fronte e quindi non andare a verificare. La “ex maestra”, ora “professoressa” è quella che più di tutti ha esperienza, avendo scritto e pubblicato libri; è quindi indiscussa vice-redattrice-capo. Ha un visino dolce che le perdoneresti tutti gli errori di svista grafici o tipografici; ma non li fa.
C’è anche chi non ne ha più voglia di fare il giornalista, ma tant’è una posizione di prestigio lo gratifica, e molto. Ad una certa età è bello far vedere che si è ancora lucidi e sulla breccia. Ma a quell’età occorre fare il giornalista piano piano, che non va più d’attacco altrimenti sono rogne che impegnano l’immagine, e rovinano il tran tran di tutti i giorni. Per ovvietà, è diventato il classico ‘Maniman’.
C’è un altro vecchietto infine, testé andato in pensione. Per fortuna sua già gratificato per affari diversi. Difetta perché, oltre essere un rompiballe, è anche un idealista che ama la sua città e vorrebbe vederla trattare meglio: un illuso, che vorrebbe avere il potere di convincere la gente che si potrebbe vivere meglio conservando ed utilizzando la storia ed il passato come collante che unisce. Ma non è del mestiere, ed anche se in buona fede, fa tanti casini.