BURANELLO                                            via Giacomo Buranello

 

                                                           

TARGHE:

via - Giacomo Buranello – caduto per la libertà – 1921 -3-III-1944

 

 

 

angolo piazza N.Barabino

 

angolo via Giovanetti 

                                                      

angolo piazza VVeneto,  presso il bar

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia e Castello

 

da MVinzoni, 1757. ipotetico tracciato

 

 il neo tracciato (ferroviario) in una carta del 1847

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2736

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   08700

UNITÀ URBANISTICA: 26 – SAMPIERDARENA

                                           28 – s.BARTOLOMEO

 da Google Earth, 2007

 

CAP.  16149

PARROCCHIA:  2 e 4 = NS delle Grazie  -  resto = NS della Cella

STRUTTURA:

   Senso unico viario, da piazza Nicolò Barabino a piazza Vittorio Veneto.  Civici neri fino al 36; civici rossi sino al 155 e 254.

E’ lunga 582m; larga da 9,30 a 16m; praticamente piatta.

Solo in parte è servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera

Nel 2005, si è dato via al progetto di insonorizzazione del viadotto (la strada è apparsa una delle più esposte all’inquinamento acustico causato dalla linea ferroviaria).sperando prendano il via i cantieri,  dal 2006 ( ma a febbraio 2008 neanche l’ombra) fino al 2020.

STORIA DELLA STRADA:

   Nel regio decreto del 1857, che per primo descrive le strade di San Pier d’Arena, non è ancora inclusa, anche se era già stata tracciata a fianco del muraglione della strada ferrata .  

   La strada ebbe quindi il suo primitivo naturale tracciato negli anni prima del 1850, fiancheggiando la linea ferroviaria dal lato mare -tagliando con essa tutti i giardini ed orti delle ville (esse, solitamente piazzate sulla strada centrale – oggi via Dottesio-Daste- avevano più o meno larghe striscie di terreno sino al mare), ed inaugurando il terzo asse viario parallelo alla riva; già nel 1841 era stato presentato un progetto poi non eseguito, che prevedeva il passaggio della ferrovia  “poco addentro alla strada pubblica a mare” (via SanPierd’Arena) con espropri ed abbattimento di alcuni caseggiati alla Coscia e vicini a via Larga-.   La legge (Amministrazione delle Strade Ferrate, Intendenza Generale e Comune di San Pier d’Arena) impose sia che la linbea ferroviaria passasse più internamente rispetto il mare creando un allineamento rettilineo tra Largo Lanterna e l’attuale piazza Vittorio Veneto, sia anche l’impossibilità di costruire case ai lati della scarpata ferroviaria, se non salvaguardando una distanza minima di venti metri se il palazzo voleva salire oltre il livello delle rotaie; e tollerata più vicina se eretta più bassa del “sopradotto”, allineandosi ad alcune già costruite (specie quelle delle famiglie Arnaldi e Dallorso -che ancor oggi esistono- costruite una di fronte all’altra, ma con portone in via Sasso (via Gioberti) a dimostrazione che  era nata prima quella strada, che portava al mare); e ciò col fine che si potesse vedere dalla stazione tutta la linea  (allora ancora portante due distinte rotaie, e non quattro, e più come ora) praticamente fino alla galleria.

E’ datata 8 febb.1853 una lettera dell’Intendenza Generale della divisione amministrativa di Genova, firmata dal ministro dei lavori pubblici Paleocapa ed indirizzata al Sindaco, riguardo la domanda  di vari proprietari (Nicolò Arnoldi, Sebastiano Traverso, Franco Dallorso, Giobatta Tobini, Bar.meo Portico, Nicolò Scaniglia (erroneamente è scritto abitanti nel quartiere Palmetta), per un accesso alla strada Reale in fase di costruzione: la lettera conclude che ‘non hanno il benché minimo diritto di usare la nuova strada finché è in costruzione (appaltata dall’impresa Tolchini), possedendo altre vie di accesso‘.  Così sappiamo che dapprima fu chiamata  “strada Reale nuova da Genova a Torino”, popolarmente “a stradda nêuva”, declassando così a “vecchia” quella a mare.

Tra i primi ad aprire bottega sulla strada già dal 1864, furono i soci della Cooperativa di Produzione e Consumo (chiamata poi Alleanza Cooperativa Avanti, ed infine –subentrata alle cooperative- una Azienda autonoma o Consorzio annonario) che nelle ore serali -liberi dal lavoro usuale- occupavano il tempo producendo farina con macine girate a mano, al fine di produrre del pane nel proprio forno e poter vendere il prodotto finito a prezzi stralciati per i soci stessi.

Nel 1875, l’Alizeri la chiama “strada Centrale lungo la ferrata del 1852”; veniva volgarmente chiama “stradda nêua”. Ma proprio in quegli anni venne ufficialmente intestata via Vittorio Emanuele (II), con inizio da largo Lanterna per tutto il tragitto  sino al confine con Rivarolo ed oltre. La strada era percorsa praticamente solo da rari carretti, da pochissime carrozze private o qualche cavallo da sella, essendo senza selciato e con rade case  dalla parte mare di fronte alla massicciata.

   I primi servizi  pubblici omnibus, transitarono per questa via dall’anno 1880, in linea con l’apertura dell’apposita galleria sotto san Benigno; per la piazza a metà strada, ove avveniva la fermata e capolinea di questo servizio, nacque la dizione popolare di “piazza Omnibus”; le eculissi del tram, poste in secondo tempo, probabilmente sono ancora in sede, sotto l’asfalto.

     I primi tram elettrici la percorsero dall’inizio dell’anno 1900  ponendola in distinzione per bellezza e frequentazione  rispetto via N.Daste (più piccola) e via C.Colombo (via San Pier d’Arena; più larga ma ingombra di merce operativa del porto, di treni e di barche, di cavalli e muli e di carretti tutti ancora a trazione animale).       

In quello stesso anno, sull’onda emozionale per la morte di Umberto I il tratto dal sottopasso ferroviario di piazza Vittorio Veneto -compreso lui-, al confine nord della città fin oltre Rivarolo, fu dedicato al re assassinato, e con l’antico nome rimase solo il tratto iniziale dalla Lanterna fino alla piazza degli Omnibus.

  Una cartolina di quell’epoca, evidenzia il binario doppio, e che a lato mare non esisteva alcun caseggiato degli attuali ma solo casupole

     Nel 1930 sulla via fu calcolato un passaggio giornaliero di 191 carri a trazione animale, 1030 tranway e 2549 vetture a motore.

   L’erezione dell’elicoidale per raggiungere la camionale, tagliò la strada trasversalmente, chiudendola, cento metri dopo il suo nascere: pertanto il tratto iniziale di 50 metri circa fu inglobato in  Largo Lanterna; mentre dall’elicoidale a piazza Barabino, cambiò nome divenendo  via Chiusa (vedi). Da piazza Barabino fino a piazza V.Veneto mantenne l’antico e primitivo.

    Nel periodo fascista, per delibera del podestà del 19 agosto 1935 divenne via Secondo Fascio d’Italia (vedi) 

e dopo la guerra infine, con delibera del sindaco del 12 magg.1945, via Giacomo Buranello

   Il Pagano/1950 vi segnala  7 bar: 2r bar Manin  di Suardi M.; 6r di Innocenti R.; 24r bar Vignale; 98r caffè Odeon; 145r di Ricci Alberto; 212r dei f.lli Dagnino;  202r di Bertorello O.. Nessuna osteria né trattoria.

  Alla fine dell’anno 2000, si previde per la strada un uso più pedonalizzato spostando il traffico a mare. Ma delle varie migliorie promesse (come l’illuminazione), ben poco è stato realizzato per cui ancora nel 2002-3 è una potenziale camera a gas per l’intenso traffico che procede assai lentamente, e per il degrado (igienico e strutturale) delle volte ferroviarie.

CIVICI

2007=uu26=NERI  = 1                  e 236 (aggiungere 20C)

                    ROSSI= 15r155r (aggiungere 41A, 49°; mancano 31r,33r,79r)

                                 2r252r(aggiungere 24A→D, 26ABE, 42ASVWXYZ, 166ABDH)

          uu28=ROSSI = da 1r a 13r

   Da ancor prima del 2000 (ed ancora nel 2008), i negozi –con civici rossi dispari- locati sotto i fornici del viadotto ferroviario (da loro chiamati “nicchia”), sono gestiti dalla soc. “Metropolis” società per le valorizzazioni e diversificazioni patrimoniali spa” con sede a Genova, via Lagaccio 3

 

CIVICI A MONTE sotto i fornici della ferrovia.

Iniziano in prosecuzione degli uguali di piazza Barabino (i quali finiscono col 49r).  Molti sono gli insediamenti di autoofficine (ai civv. 37, 41A, 49A, 51-53, 61,...); ma i più sono chiusi e lasciati al maggior degrado possibile, che inficia tutta la strada declassandola a squallida, sporca, triste.

Da questa parte sono tutti civici rossi, a parte il civ.1 nero,  della biblioteca.

 

      

il 90%, chiusi                               i civv. 1r e 3r - 2010 – si vede un cartello appeso,

                                                     stinto, che avvisa “chiuso per  malattia”.                

Di alcuni residuano dei particolari:con questi particolari 

 

Agenzia Ligure, al civ. 9 (ora ospita ‘esposti’ di una immobiliare)

 A. Marson

===9r=chiuso ma con réclames di impresa artigianale Nocentini; legname e plastica.

via Palazzo della Fortezza (tra 13r e 15r); si continua a mare con via A.Prasio

===29r Chiuso; c’è l’insegna di CapurroMarmi;

via R. Pensa (tra 29r e 31r) a mare passa a ponente del civ.8 e arriva in via SPdArena tramite           

                                                    cortile privato 

===35 insegna di Porte blindate di Peterlongo

===37r autofficina

===49Ar autocarrozzeria non si spiega perché questo fornice abbia un numero aggiunto. È con ampio cancello a tutto fornice;  occupato da una autocarrozzeria.

Dopo il 53r chiuso, c’è

via Albini  (tra 53r e 55r) in prosecuzione di vico A.Raffetto

=== corrisponderebbe, per conta, al civ. 55r ma in pratica reale non ha numero, perché quel civico lo ha il fornice dopo:   uno dei rari vespasiani cittadini, solo per uomini, abilitato a 4 posti, posto di fronte al cinema, troppo spesso dimenticato nell’igiene e manutenzione (funzionanti sono solo quelli di via Pittaluga, 2 in via P.Reti, via del Campasso;  sbarrati quelli di pza Settembrini e via della Cella). È stato ristrutturato nel 2007.                                                     come era prima del 2007

===civ. 1 (unico civico nero, dei vari sottopassi ferroviari; è collocato tra il 65r e 67r):  l’ingresso veicolare alla Biblioteca ed al Centro Civico Buranello, descritti in via Daste.

Anticamente veniva usato per arrivare agli uffici dello: -stabilimento “Silvestro Nasturzio” (benefattore dell’Ospedale Scassi. Citato ancora nel Pagano/1950 nella fabbricazione di ‘bande nere e stagnate’);+“soc.an. Ligure per la Lavorazione della latta e la Fabbricazione di Conserve spa”  (sul biglietto si legge «casella postale 93/telefono inerc 6-61 / Società Ligure / per la lavorazione della Latta e fabbricazione di Conserve / anonima 7 capitale £ 5.600.000 ineramente versato / sede in Sampierdarena / stabilimenti in Sampierdarena-Pontelungo (Pistoia)-Spezia-Albenga-Boscomarengo (Alesssandria)-Augusta(Sicilia) / marca registrata – Estratto Amphitrite di puro pomidoro / concentrato nelm vuoto / onoreficenze: due medaglie d’oro Esposizione di Genova 1902; medaglia d’oro Esp.Vienna 1902; medaglia d’oro Milano 1903; Grand Prix e medaglia d’oro Bologna 1907; Gand rix e medaglia d’oro alle esposizioni di Parigi-Anversa-Budapest-Londra 1907»; sul retro sono stampati i prodotti «Cartelli reclame lisci ed a rilievo --- targhe per pali elettrici, società dAssicurazioni, carri, cantieri, ecc. ---Barattoli-scatole di latta greggie e colorate per olii, mostarde,burro,conserve,pesci,fichi,funghi,mandorle,datteri,pinoli,pistacchi,dolci,vernici,biacche, colori,cere,creme,lucidi,vaselina,pillole,cipria,sigarette,polveri da caccia,da mina, pellicole cinematografiche,ecc. ---bidoni bianchi e litografati per petrolio,benzina,acquaragia,carburo, strutto,grasso,ecc. --- cappellotti-collari-placche per damigiane --- casse legno per imballaggi / chiede i prezzi alla .../ telegrammi:”Amphitrite”»,  

he poi –e già nel 1950- unificheranno il nome ed avrà telef. 41-453); + e  “soc. lav. latta Ligure Emiliana: tre delle innumerevoli fabbriche in attività ancora nel 1961 nella lavorazione di scatole di latta, (assieme alle altrettanto famose Diana, Galoppini,Tardito, Costa, Bozzolo, ed altre sicuramente non meno di 10).  

   

Nasturzo-da via Buranello-foto 1979                 1921 – soc. Ligure

Via Gioberti   (tra 77r e 79r)    

Vico Stretto s.Antonio  (tra 81r e 83r)                                          

===civ. 85r. Ancora nel 1971 dava accesso allo sede-stabilimento ‘spa Diana R.D. & C.’ (vedi anche via san Benigno) fabbricante fusti di ferro, litografie e lavorazione della latta e dei metalli. Attualmente porta all’officina di Monti & Barabino, forniture navali

via A.Castelli

===civ. 91r: per anni dal dopoguerra -1957, 87- è stato occupato da un rinomato negozio di porcellane, cristalleria ed articoli da regalo  ‘Marilena’ gestito dal sig. Passerini e consorte. I due coniugi avevano conservato il nome che già c’era prima di subentrare. Dopo loro ha iniziato un elettricista. Ora (2010) è chiuso.

===civ. 105r : nel 1970 c‘era un fotografo, Roasio. Residua una insegna sovraporta “ A.Marson”

===civ. 111r : residua una insegna sovraporta, parzialmente leggibile: “...AZZINI”.

===civ. 113r: la fermata dei bus

via L.Pancaldo

===civ. 131r ha, sopra l’ingresso – ora serrato - la lapide dedicata al motociclista dei Demon

via della Cella  

===civ. 133r = vuoto e chiuso. Appeso alla saracinesca, un cartello della Croce d’Oro

===civ.153r  vecchio negozio che vende –ancora nel 2010-  vetrerie.

via A.Carzino

 

CIVICI A MARE

 

  palazzo d’angolo            civico 2r

===civ. il palazzo è di tipo popolare ed ha nella facciata a est due file di finestre – mentre in foto vecchie ne aveva quattro: fose due erano finte, ed alla prima ristrutturazione le hanno tolte. Nella facciata anteriore, i negozi hanno una cornice decorativa stile ultimo liberty, economico... ma significativo della rcerca di una se pur  minima bellezza.

===civ. 2r: c’era un tabacchino; nel 2010 il negozio è chiuso

===civ. 4r:  un numero civico per due fornici con l’entrata di due negozi, con un marmo che li arreda egualmente: elementi decorativi lineari tipici della fine ottocento (in stile definito ‘liberty secessionista’).   civ. 4r

===civ 6r dopo il portone 6, anche il 6r -come il 4r- è unico civico per due fornici, arredati con marmi stile liberty e con disegni lievemente diversi.

===civ. 28r   nel 1970 c’era il grosso “autosalone Sampiedarena”

       

civ. 6r                                                                                       in angolo con via Prasio, anni 70

                                                                                                 foto Gazzettino Sampierdarenese

 

 Ditta Giuseppe Cavo questa targa è stata scritta, e poi sovrascritta altre due volte, sembrerebbe senza cancellare le precedenti; il primo testo descrive “ferri – acciai – attrezzi – porettes? - ??? ; reti - ?? – ferramenti – cartoni incatramati e intum??”. Una soprascritta celeste ripete il nome e “acciai – attrezzi – ferramenti”.

Via  A. Prasio

===civ. 6 e 8:  due palazzi con portici, come fu richiesto negli anni attorno al 1925-30 per costruirli signorili.  Il portale ed i negozi, sono in stile liberty ottocentesco, e decorati in marmo (materiale usato sin dalla fine del settecento, per l’arredo interno ed esterno dei negozi).

   

civ. 6                                                                        civ. 8 

Nell’area dei palazzi prima era un grosso deposito di legnami della ditta Forni (Vedi a Pensa- Nel Pagano 1950 una Forni Luigi Tullio fu Enrico, legnami, è a Genova con deposito a Rivarolo). Questo grosso deposito era raggiungibile con un privato binario ferroviario: dalla strada a mare via C.Colombo, passava sotto il palazzo –ancor oggi col foro di passaggio intravvedibile nel retro e che proseguiva (vedi sotto a 42Srosso) oltrepassando la via VEmanuele (G.Buranello; sottopassando il viadotto ferroviario) ed arrivava infine ad un secondo deposito posto ove ora c’è la piazza Treponti; il passaggio dei vagoni -carichi di legname e trainati da cavalli- interrompevano non per poco tempo il raro traffico stradale).

Al civ. 8 s.s. aveva sede nel 1950 la UVAL –una delle tante società che lavoravano latta, recipienti e scatole. 

===civ. 42r : nello spazio tra i due palazzi (foto sotto), residuano segni di antichi insediamenti commerciali; al 42S rosso la scritta “divieto di passaggio a via Barabino – proprietà privata”;  al 42V rosso il “Laboratorio della ditta E. Corsini” (seguono l’indirizzo e telefono non ben leggibili).

 

   

spazio tra i due palazzi 6 e 8         civico 42S rosso                                              civico 42V rosso

  civ. 10,  e 12 con  il cinema

 

===civ.  10  nel pavimento all’ingresso del portone, a mosaico è riportato l’anno di erezione:  1912. Nel retro del palazzo ed al di là di un muro, è visibile una  torre saracena, detta “dei Frati”. Baluardo, merlato in alto all’altezza del 5° piano delle case che lo soffocano; nato sul litorale  per avvistare le provenienze amiche o nemiche dal mare, ed ora lontano dalla spiaggia di quasi mezzo chilometro.  Viene descritta in via San Pier d’Arena.

 

   

 

vico Angelo Raffetto

===civ. 12 il palazzo ospita  il cinema.  civ.12

===civ.90r:  c’è il cinema Eldorado (all’inizio secolo ed ancora nel 1910 quando la strada era via Vittorio Emanuele civ. 166r, era “cinema Dante”, forse il più vecchio di tutti perché vecchi frequentatori ricordavano i film muti, accompagnati dal pianoforte che segnava i momenti più esaltanti con un ‘andante forte’ sia nelle comiche che nel momento in cui il prepotente di turno veniva ‘calmato’ dall’eroe, nell’entusiasmo partecipato di tutti gli spettatori; ad essi seguirono i famosi “arrivano i nostri”, con i ‘cavalli e püa’, o Tom Mix e poi RinTinTin. Allora aveva tre ordini di posti: poltrone, sedie e panche: un locale per ragazzi.

Sino alla guerra, si ritrovò tra i più frequentati, per i prezzi popolari che per la qualità dei film, assieme al Verdi ed Eden (poi Massimo), al Mameli, all’Excelsior, al Modena, al Politeama, allo Splendor (di Stefano Frugone, imprenditore detto ‘el Tigre’).

Aveva poco spazio ed un soffitto basso e  piatto, che  nel 1912 fu decorato a cassettoni, con rosoni tipo floreale, “improntato ad una severa semplicità e di effetto efficacissimo” dal pittore Nicola Mascialino (vedi a piazza Tubino).

Nel periodo tra le due guerre il proprietario si chiamava rag.Gorresio Arvigo.

Poi, dopo l’ultimo evento bellico (nel 1949 circa) -ed ancora nel ’65- era “cinema Odeon (con i muri di proprietà del cav. Curti di Rapallo; qui in delegazione aveva altri otto locali di proiezione in concorrenza). Dal 1969 entrò sotto gestione dei Gadolla che, insieme ad un Terrile (negoziante di idraulica, vasche da bagno, ecc.) rinnovarono l’ambiente chiamandolo come attualmente “cinema Eldorado”. Nel 1971 divenendo sempre meno frequentato e vi si proiettarono solo film vietati ai minori fino a quelli a luci rosse. Nel 1989 è stato classificato di 3° categoria, ha 530 posti a sedere dei quali 354 in platea e 176 in galleria; senza palcoscenico; poltoncine in legno; acustica monofonica; impianto proiettivo da 35mm; gestore sempre Conte Curti tramite l’impresa Nuova Gestione Eldorado.

Oggi  -2007- è l’unico cinematografo rimasto (assieme a  quello del Club Amici del cinema, da  don Bosco). In epoca in cui è divenuto facile procurarsi film ‘a luce rossa’ visibili in casa con banali dischetti DVD, la sopravvivenza di un simile locale lascia presupporre veritiere le voci che la vogliono  legata non tanto alla visione di film ma a luogo di raduno di “deviati sessuali” ovvero incontri occasionali, scambi di coppia,  ed altre perversioni simili.

===civ. 14 detto palazzo DeFranchi, completato nel 1915 da architetto e decoratori sconosciuti, e forse il primo abitativo in città in cemento armato da poco inventato; è ricco di fregi in stile liberty  però già in una fase eclettico-modernizzata,  che è stata classificata “tardo-liberty”, e che a Sampierdarena venne così ampiamente riproposta, da potersi giudicare un  vero e proprio nuovo stile-. Così il maestoso portone, sormontato da tre grandi mascheroni a sostegno cariatideo del terrazzo del piano nobile, e con  le due sirene nel timpano  sopra la porta, a sua volta affiancata da fregi con  teste di guerrieri;  così la facciata, con altri fregi, mascheroni, e le teste femminili allo stipite di alcune  finestre del primo piano;

     

 

    

 

così i ferri che decorano il tetto mansardato;  e così pure nell’interno: l’atrio (il cui pavimento è  a mosaico genovese,  sulle cui pareti c’è un lungo fregio dipinto ai due lati, arricchito da putti e da allusioni all’industria, all’agricoltura, alla marina; ed il soffitto con l’allegoria di San Pier d’Arena, città di mare);  le porte; le cassette della posta;  le ringhiere;  i vetri. 

 

FAMIGLIA De Franchi:  Nucleo importante facente parte di un albergo di nobili, arricchiti da attività mercantili molto positive, come altre 28 di tale provenienza (come gli Adorno).

 Probabilmente fu l’unione di più d’uno imprenditore (Joannes Tortorinus, Nicolaus de Turri q.Simonis, Joannes et Raphael Figonus fratres, ...Vignoso, Luxardo, Goano, Magnerri, Sacchi),    che, accortosi che da soli poco potevano non essere oppressi, si aggregarono ad altri i quali -come ciascuno era ‘franco’ ovvero libero. Assunsero così il cognome “de Franchis”. Furono ghibellini. La zona di piazza Posta Vecchia ha palazzi dei Rolli, dei De Franchi.

La fondazione dell’albergo avvenne il 28 genn.1393 con atto rogato dal notaio Desirino Pastine di Bavari che aveva come scrivano Giovanni Stella (futuro Cancelliere ed annalista, continuatore del fratelloGiorgio) il quale descrisse anche l’arma (un falcone nero in campo aureo. Modificata 5 anni dopo: “tre corone d’oro in campo vermiglio, due sopra alla pari ed una sotto nel mezzo”. Più tardi ancora verrà aggiunto il ‘capo di Genova’), comunque scelta da loro e non concessa da autorità superiori.

Facero poi parte dell’Albergo i: Bulgaro, Calcinara, Figone, Giulla, Illuminati, Luxardo, Magnerri, Sacco, Spinola, Tortorino, Toso.

-Persone: -a Genova, 5 dogi  dal ramo Toso, e Sacco, religiosi con arcivescovo di Genova, ambasciatori, comandanti di galee, incaricati della vita pubblica.

Gerolamo, 1522-1586, doge dal 1581-2, ambasciatore a FilippoII di Spagna, eresse s.Pietro in Banchi; nel 1566 un Francesco legato della Repubblica a Costantinopoli quando Cipro stava cadendo in mano ai turchi; Pietro dei Sacco, 1545-1611, doge dal 1603-05;  Federico di Gerolamo, 1550-1630, doge nel 1623-5 che difese la Repubblica dal duca di Savoia ed istituì il Magistrato della guerra;  Nicolò, 1666-1746, arcivescoivo di Genova dal 1726; Conestaggio scrittore storico nelle prime decadi del 1600; Girolamo di Federico, 1585-1668, doge 1652-54 molto attivo durante la peste; Giacomo di Federico, 1590-1657, doge 1648-50, scampò la congiura di Stefano Raggio; Federico di Cesare, 1643-1734, doge dal 1701-3;  Cesare di Federico, 1666-1738, doge 1721-3 e preside degli affari in Corsica;

-- a SanPierd’Arena  Originaria del nostro Borgo fu la famiglia di Figone Nicolò, comandante di una galea di Pagano Doria nel 1352: si introdusse a Genova acquistando per sè ed i discendenti sempre più alti incarichi finché entrarono nell ‘Albergo dei De Franchi all’atto della fondazione.

La presenza dei De Franchi a SPdA ritengo sia più tardiva, ritrovandola negli anni a cavallo 1700-1900, con possesso anche della villa in salita Belvedere (già Crosa; poi Antoniano) e del cinema Verdi (poi Massimo, a san Martino del Campasso). Tuvo, a proposito del palazzo di via G.Buranello del 1915, scrive –giocando con le parole- che era ‘ricco petroliere De Franchi, un sampierdarenese che aveva fatto i franchi...’. L’ultimo erede, mancato negli anni 1970, viveva senza lavoro; ma quando poi i beni -non adeguatamente alimentati finirono- dovette cedere via via i possedimenti andando a vivere in un bel appartamento del civ. 40 di via Cantore. Andò sposo alla dott-ssa Balboni, famosa pediatra sampierdarenese negli anni 1950-60.

I nipoti beneficiano del meraviglioso quadro ordinato dallo zio ad Angelo Vernazza,  che immortala la villa  immersa nel verde della collina di Belvedere.

Ancora nel 1950 vi aveva sede la soc Pearson Guglielmo fabbricante di disinfettanti (vedi via Vittorio Emanuele).

===civ.160-162r : la farmacia Popolare Della Ferrera. Già di proprietà del dr. Mario negli anni 1933 (seguito da Francesco; e poi forse da Fortunio A., che nel 1961 appare iscritto nell’albo  dei laureati, mentre in esso non c’è più Mario). Nel 1934 era aperta nella via, che allora si chiamava via Vittorio Emanale al civ.128 e telef. 41.958,  e si pubblicizzava con “faccio servizio municipale”. Nel Pagano/1950 appare ai civv. 160-162.

Segue un palazzo che non ha il portone nella strada, ma in via Gioberti, civ.5,  a significato che quest’ultima è nata prima di via Buranello.

Via Gioberti

Il palazzo non ha portone nella strada, ma in via Gioberti civ. 8

Vico Stretto s.Antonio

===civici dal 16 al 24

 

civico 18  decorato                                                                    la farmacia

 

   

civ. 22                            finestre dipinte              civ.22 (a destra) con finestre dipinte

via F. Aporti

===civ. 26

 

via G.Giovanetti

===civv. 28 e 30

Al civ.30  negli anni del dopoguerra 45, era in attività il fotografo Svicher, ‘casa fondata nel 1868’ che comprendeva anche il settore musica (fonografi, dischi, radio, fisarmoniche) e con sede anche in san Siro.

 

via della Cella

===civ. 32  il portone, bellamente decorato, è sormontato da uno stemma con la sigla PC (non di Capello ché erano Vincenzo e i fratelli Filippo e Nicola).

  civ.32

===civ. 36

piazza G.Modena

===68r (cancello): il Pagano/61 segnala la ditta “Cavo Giuseppe (negoz.) di   ferro, acciaio, ghisa e metalli (probabilmente sbucava anche in via SanPierd’Arena perché è citata anche in quella via al civ. 9r)

===civ. 182r: la centenaria ditta Robba di carrozzieri, a conduzione familiare, nata nel XIX secolo, in data non precisa. Qui ebbero il deposito delle carrozze (dette ‘legni di servizio’) e le prime stalle ‘in zona di piazza Treponti’ (allora la piazza non esisteva come è oggi, quindi il riferimento si può interpretare sia ‘vicino alla’ e quindi già in questo terreno distante poche centinaia di metri dalla piazza; sia che dove ora è la piazza ci fossero le stalle, possibile nelle varie casupole che affiancavano la Fortezza).

 

 

 

Si ricordano Antonio, dapprima dipendente della Società Ligure Trasporti come  conducente gli ‘omnibus’ (vedi a piazza V.Veneto) poi iniziatore dell’attività in proprio (servizi per le regie Poste, trasporto di generi del monopolio –sali e tabacchi-); sua moglie, la signora Barbara Morasso (madre di 7 figli) che quando restò vedova nel 1889, divenire la prima titolare dell’azienda; a lei successe Luigi il primogenito nato nel 1871, che creò e diresse la ‘Robba trasporti’ fino al suo decesso nel 1924. L’azienda passò al fratello GB, finché mancato anche lui nel 1928, lasciò al figlio Guido le redini dell’azienda fino al 1972. Dalle carrozze a traino animale (eleganti landò appositamente bardati per la festa e con vetturino in livrea e tuba, -e, per i ricchi, un palafreniere affiancato- ed una scelta tra circa trenta cavalli; per funerali o matrimoni, per trasferte di squadre di calcio, pellegrinaggi alla Guardia, trasporto di comitive e di reclusi usando apposite carrozze con le sbarre), alle prime vetture Lancia ed agli autobus, fu un aggiornamento professionale costante (se non altro, per entrare nella sede di via Buranello, stretta e ad angolo retto); con questi divennero affittuari di mezzi da trasporto per cerimonie (tristi e gioiose) e di pullman gran turismo più moderni.

Il 30 ott.1943 un bombardamento rase al suolo la sede di via Buranello uccidendo e straziando tutti i cavalli.

Non c’è anziano sampierdarenese attuale che non ricordi o non abbia usufruito dei servizi dell’ultimo Robba, Serafino -uno dei 10 figli di Luigi; nato 1910 e deceduto nel febb.99- che per anni ed anni fu il tutto fare ed anima dell’azienda: posto giovanissimo alle briglie, poi al volante e poi alla conduzione amministrativa della sua azienda, è stato di tutti i Robba il più ricordato e rappresentativo,  fino alla cessione totale. Da allora l’azienda è stata rilevata da Renato Rebora, noto col soprannome di Gimmi.

===Una lapide tipo cimiteriale, posta abusivamente sul muraglione vicino all’incrocio con via della Cella, ricorda la morte  per incidente stradale, nel feb.67, di un motociclista  vice presidente dei Demon Eyes. La lapide è stata rimossa nel 2011 a seguito di pulizia delle arcate effettuata dalle ferrovie.

Via G.Giovanetti

===civ.28 - 30  in nico paazzo che ha, ai due lati est ovest, delle finestre chiuse decorate.

  

civico 28 in via Giovannetti       civico 30 in via della Cella

===civ. 204r un ingresso della famosa ‘sanitaria Bisio’. Il negozio, agli inizi del 1900 fu una banca (la Commerciale Ialiana, ma il Pagano/33 scrive con sede al 154r); poi una trattoria con camere (si dice ‘tolleranti nell’affittarle’); poi ancora, negli anni quaranta, negozio di stoffe (il Pagano/33 cita un  Campodonico & Roisecco proprietari di negozio di teleria-tessuti, ma al civ. 230, un Torre al civ.250r ed un Berretta al270r. Uno di questi, arredò i locali con le cassettiere tutt’ora esistenti ed applicò la doppia porta con apertura secondaria anche in via Giovanetti: Questi però, francamente parteggiante per il fascismo per i cui esponenti procurava la stoffa per le divise e gli arredi, nell’immediato fine guerra fu soggetto a scassinamento delle saracinesche e svaligiamento del materiale depositato nel negozio). Il locale fu rilevato, così bello svuotato, da Aristide Bisio (già garzone della farmacia Raffetto, e che lavorando e studiando si era  preso la laurea in farmacia. Carattere estroso, repubblicano antifascista ebbe i suoi guai durante il regime ma seppe -seppur manifestamente avverso- non essere coinvolto in azioni di rappresaglia. Nel 1939-40 rilevò la gestione della farmacia stessa che da allora popolarmente appunto si chiamò ‘la Bisio’; e nel dopoguerra acquistò questo negozio che affidò al figlio Ottavio). Nel 1974 alla sua morte i figli cedettero la farmacia al dr. Fioretti e –coinvolto anche Marco nell’esercizio-, si dedicarono alla sanitaria ortopedica. I due fratelli sono anche i benemeriti  Rettori della confraternita di san Martino, ora ospitata nella chiesa della Cella.

Via della Cella

===civ. 240r la nuova farmacia Modena, qui aperta nel 1999 dal dr Fioretti Paolo trasferendola da via Ghiglione dove si chiamava popolarmente ‘Bisio’ (ex Raffetto). Attualmente è gestita dal dr. Gaetano Nostro, la cui storia -invece assai antica- si collega alla ex Raffetto di via della Cella.

===civ. 252r :l’entrata al bar Teatro.  Aperto sulla piazza con veranda ad ampi vetri una volta colorati, è caratteristica appendice sia al teatro che alla terrazza del primo piano dell’ottocentesco edificio che conclude la via (caratteristica ed espressiva del linguaggio architettonico dell’epoca della costruzione,  è la ringhiera che corona la terrazza, in bello stile liberty;  l’esperto, legge nella ricorrenza dei cerchi  dei riferimenti all’arte belga o al periodo secessionista ).

I   In origine fu un’osteria: il piemontese Rivaro Brillé l’aprì per vendere il vino delle sue terre ai carrettieri del mercato, ed ai clienti che frequentavano la zona della Cella, allora la più viva e vissuta parte della città (con il mercato, la chiesa, il teatro, i primi cinema, i negozi più ricchi). Da lì il passo fu breve a preparare qualche piatto caldo, tra cui lo ‘stocche coi bacilli’ (fu questo cibo, che lo rese famoso; non è un piatto difficile, ma si diceva che ‘buono come dal Brillè nessuno sapeva servire’); e altrettanto lo fu trasformarsi in un vero e proprio ristorante, divenendo famoso non solo in città ma anche fuori confini, segnando un’orma ben precisa ed indimenticabile nell’arte culinaria locale (artisti come Virgilio Brocchi, Sem Benelli, Salvator Gotta, Ercole Rivalta, amanti di Genova –soprattutto…a stomaco pieno-, ne divennero i cantori). Cessò l’attività il primo di novembre del 1929).

   Il locale divenne poi negozio di tessuti, abiti da sposa, ed ora bar pubblico.

Piazza G.Modena

 

Da sistemare:

===civ. ___ vi fu l’ultima residenza delle suore di santa Marta, prima del loro totale abbandono dopo quasi sessant’anni di attività nella cura ed assistenza ai malati e piccole prestazioni sanitarie generali per i meno abbienti. Tale ordine di suore, nato nel 1878 a Ventimiglia si trasferì anche a Genova , quando il loro arcivescovo -mons. T.Reggio- fu incaricato della nostra diocesi; il 25 mar.1931 arrivarono a SanPier d’Arena in 5, alloggiate in via A.Castelli; divenute 15 nel dopoguerra, si trasferirono in via Sampierdarena al civ. 31/1 (Pagano/61, definisce ‘assistenza malati – Casa del S.Cuore); finché di nuovo ridottesi in tre, occuparono un piccolo appartamento in via Buranello, che abbandonarono nel 1989.

===civ.96r nel 1950 c’era una libreria che vendeva edizioni “arbiter Elegantiarum”. Non si hanno ulteriori informazioni risultando nel 1961 esserci una cartolibreria di Barbasio A.

 

   Nel 2003 veniva annunciato il restauro del viadotto ferroviario: Il CIV legge il problema come assai più complesso, coinvolgendo la illuminazione, la pedonalizzazione al massimo transito di filobus, allargamento marciapiedi, parcheggi.

 

 

 

 ====La linea ferroviaria:

la iniziale Torino-Genova  degli Stati Sardi, fu materialmente iniziata nel 1846 ed aperta all’esercizio il 18 dicembre 1853.

   Non solo per il trasporto di truppe,  ma anche per i traffici commerciali che divenivano sempre più a largo interesse da coinvolgere tutta l’Europa, già Napoleone aveva fatto iniziare dall’ing. Progny una perizia circa un collegamento tra la pianura padana ed il mar Ligure.  Questo fino ad allora avveniva a dorso di mulo o su carri e rudimentali carrozze (in ‘pool-position’ come possibilità e studi, erano anche le vie fluviali, a chiuse:  il conte Sauli fu fervente sostenitore di questo metodo, e cercò di applicarle da Albenga al Tanaro). Ma la caduta dell’imperatore fece sospendere tutte le iniziative francesi e si perdette un buon lustro, per darsi una nuova regolata politica istituzionale internazionale chiamata  ‘restaurazione’. Intanto, nel 1814 il Padreterno illuminò George Stephenson, giovane inglese che da operaio analfabeta, iniziò la ricerca di meccanismi idonei ad alleviare le immani fatiche dei minatori di carbone di Killingworth: dopo quattro anni di ricerca propose una macchina a caldaia adatta a spingere i carrelli, che chiamò locomotiva e che battezzò ‘the Blucker’: verrà ripagato perché essa a sua volta applicata in superficie, rivoluzionerà il mondo. Pare che l’idea di far scoirrere i veicoli su rotaie, sia del fisico Trevethick che nel 1802 ne sperimentò l’uso determinandone la validità. In quegli anni, solo l’Inghilterra sembra capace di avanzare nella tecnica (che porterà a loro forte risparmio e guadagno:  due anni dopo 25 sett.1825 inaugurerà la prima ferrovia del mondo da Stockton a Darlington che trainò con la locomotiva ‘Locomotion’ 17 carri di 64t alla velocità di 4 miglia/h). Il resto d’Europa sembra procedere al rallentatore. Il Piemonte alla eterna ricerca del mare verso Genova, nel 1823 aprì per carrozze trainate da cavalli la ‘strada regia carrettabile tra Torino e Genova’; e nel 1831 adottò un servizio trasporto persone usando una vettura con balestre a sospensione trainata da 4 cavalli finalmente tramite i Giovi,  ma per arrivare da città a città ancora occorrono 25 ore compresi i cambi di cavalli ed esclusa la sosta pasti. Nel frattempo anche l’Austria ovviamente inizia collegamenti con l’Adriatico (Venezia e Trieste) non disinteressandosi che si collegassero i suoi possedimenti fino al mar Ligure (ma al limite con Livorno in quanto politicamente e militarmente più sicuro: Vienna temeva quello che poi successe: maggiore velocità nel trasporto di truppe e masserizie di rifornimento militari).

   Quindi a vuoto andarono i primi esposti, per una linea da Genova a Pavia, fatti a ‘sua maestà’ nel 1826, da parte di una cordata di negozianti e possidenti genovesi, diretti da Cesare Cavagnari, Raffaele Pratolongo, Settimio Noli.

   Solo nel 1837 (da poco cessato l’allarme colera da Marsiglia) una delle varie commissioni del governo Sardo (Carlo Alberto regnante e con componenti due membri della Camera di Commercio di Genova), visto che nel frattempo altrove avevano iniziato a funzionare con notevoli vantaggi le prime locomotive, fece archiviare il progetto fluviale; concesse l’apertura di una linea di 8 km in Savoia (da Chambery a Bourget); e dopo altri tre altri anni di studi si rese capace di proporre un  preciso appalto di  progetti di realizzazione). Mentre nel 1839 entra in funzione la prima ferrovia con locomotive a vapore, Napoli-Portici, a cui segue la Milano-Monza, ambedue inizialmente per un singolare scopo: lo svago dei rispettivi sovrani, collegando il centro con le loro residenze estive.

   Fu promulgato a firma del re Carlo Alberto  in data 10 settembre 1840 (‘regie lettere patenti’), l’appalto prioritario avviante la società privata ad iniziare gli studi necessari per la costruzione di una strada ferrata da Genova (da fuori delle mura) al  Piemonte  (inizialmente “verso Alessandria, con riserva di proseguire verso Torino e confine lombardo (Pavia)). Erano un gruppo di banchieri e negozianti, a cui fu concesso un ‘impegno preliminare’, sempre guidati dall’ideatore del progetto  Cavagnari Cesare: a) una seconda cordata era composta da  Pratolongo Raffaele quondam Rocco, Parodi Bartolomeo banchiere, Massone M,  Conto Giuseppe ed alcuni capitalisti ‘foresti’ di Torino e Milano e, nel consiglio di amministrazione il duca DeFerrari;    b) una terza cordata fu composta da Morro, Alberti Carlo & compagnia –banchieri-, Antonio Quartana fu Gioanni, Rocca Francesco e figli –bancari-, Ranieri Giuseppe, Balduino Sebastiano –banchiere-, Laviosa & C, ditta Berlingieri, e ditta Laviosa & C. nonché il marchese Francesco Pallavicini (tutte persone spesso impegnate anche in altre grandi operazioni finanziarie come ad esempio la ‘compagnia per l’illuminazione a gaz’, la transatlantica, l’acquedotto, l’Ansaldo.

   Si dichiararono disposti a prestare una cauzione, richiesta in guarentigia della debita esecuzione di studi-disegni del terreno. In 29 articoli vennero stabiliti i patti: concludere gli studi in 18 mesi; fissato il tempo di esecuzione in 5 anni; Sua Maestà si riservava di permettere che tale strada ferrata avrebbe assunto il nome di ‘società nazionale della via ferrata Albertina’ e la società costruttrice  quello di ‘Società reale della strada ferrata da Genova al Piemonte e confine Lombardo’; che la società sarebbe rimasta padrona per 99 anni; per l’occupazione dei terreni la compagnia sarà equiparata al regio Demanio con immunità dei tributi necessari per risarcire i terreni occupati dalla strada.

      La società  fiduciaria,  prescelta per realizzare l’opera, diede incarico all’ing. Porro di stendere il progetto originale di massima: questi previde partire dal porto (dentro Genova così) o da San Pier d’Arena, ed avviarsi lungo la val Polcevera fino arrivare a Riccò da dove iniziava la risalita dell’Appennino per piani inclinati sino all’altezza di 380 slm: qui un tunnel lungo 1800m sboccava a Busalla da dove, lungo la valle Scrivia arrivava a Serravalle-Novi-Pozzolo (qui avveniva la biforcazione: una linea via Bassignana, Po, Lomellina arrivava a  Pavia (per poter proseguire verso Milano-Trieste: (divergenze sostanziali videro da subito Torino che voleva una linea diretta a sé; e Genova che  desiderava allacciarsi con la Lombardia tramite la quale maggiori erano le possibilità di espandersi verso il nord);  l’altra lungo il Tanaro, a Casale col Po ed a Torino (165 km). Il primo progetto fu bocciato e si dovette rielaborarlo, accumulando ritardi; nel frattempo gli studi iniziati, ebbero clamore in tutta Europa e nacquero interessi internazionali a finanziare questa impresa che si previde assai proficua di guadagni; a Londra erano pronti numerosi sottoscrittori di azioni per formare una nuova compagnia: tra i tanti investitori di capitali, leggiamo i fratelli Balleydier per la costruzione e riparazione del materiale rotabile. Per maggiore sicurezza e non certo per sfiducia, già nell’aprile 1842 da Torino era venuto a Genova l’ingegnere Brunel (quale consulente esperto, avendo già costruito le ferrovie inglesi) per controllare ed approvare i progetti stilati dal maggiore Porro. L’esito positivo della verifica, consegnato nel 1843 (suggerì di diverso di attraversare il Po a Bassignana, alla confluenza del Tanaro nel Po, eliminando così una serie di ostacoli che si sarebbero presentati (colline e numerosi  corsi d’acqua che al disgelo avrebbero rappresentato un pericolo particolare), e offrendo così il sevizio ad maggiore quantità di popolazione), determinò la firma del ministro dell’Interno conte Gallina il 18 luglio 1844 (sempre con regie lettere patenti firmate da Carlo Alberto, giunto al 14° anno di regno).

    In contemporanea, localmente in SPd’Arena,  già l’anno dopo si videro in opera impiegati della società, intenti a misurare e controllare le proprietà (giardini, pozzi, case, orti, torrenti ancora a cielo aperto (come il fossato di san Bartolomeo, quello della crocetta di NS della Vista dove circa ora è via Cassini, e via via tutti i rivoli provenienti da Promontorio e Belvedere)) al fine di espropriare il segmento previsto, in virtù di leggi impositorie per “necessità di pubblico interesse”. Nolenti o volenti, potevano tutt’al più fare (inutilmente) ricorso, i proprietari dovettero cedere la striscia decisa per il passaggio delle rotaie. Si arrivò persino, in zona  attuale piazza Barabino, a tagliare una fetta di un palazzo, allora sede di un pio lascito del marchese rev.do don Morando Gerolamo.

Questa decisione, incatenò tutta una serie di avvenimenti, a spirale degradanti, sia ambientali (a causa dei lavori e del materiale necessario specie legna e sabbia, tutto il paesaggio mutò aspetto),  che del piccolo commercio marittimo, portando la città al totale sovvertimento. Dall’altro lato la ferrovia fu determinante per dare un impulso manifatturiero industriale specie portuale ma per noi le  grosse industrie meccaniche iniziando dalla zona a ponente  presso la Fiumara, al pendolarismo operaio favorente il richiamo di immigrati in numero sempre più crescente (creando nell’amministrazione pubblica quella che venne chiamata “fame di alloggi”). In concomitanza, i vari proprietari terrieri vistasi deturpata la proprietà, probabilmente carenti economicamente essendo finiti i loro privilegi ed in contemporanea lusingati dalle offerte dei costruttori e speculatori, iniziarono a cedere porzioni sempre più vaste dei propri possedimenti agli industriali o imprenditori vari; la mancanza di un piano regolatore facilitò non solo una disordinata erezione di palazzi quanto anche il non rispetto di proporzioni col verde, della larghezza delle strade, del soffocamento delle ville e dello spazio a loro necessario per conservare il valore artistico che contenevano.  Insomma si doveva pretendere da parte di una amministrazione sagace, che  si costruisse rispettando almeno le cose più importanti,  e non relegare per esempio le torri, la villa Spinola e tutte le altre ville cinquecentesche  ad una semplice e squalificata casa prospiciente una via, inopinata sede industriale e predisposta all’abbattimento.

  Il ministro successore Des Ambrois fece emanare dal re Carlo Alberto il 13 febbraio 1845 una nuova ordinanza: di arrivo della ferrovia a Torino; di applicazione immediata di quella legge, però…considerati i vantaggi per i sudditi, la necessità di dirigerne l’esercizio e regolare le tariffe, nel vero interesse delle popolazioni, “ci siamo determinati a statuire che un’opera di tanto momento sia eseguita per cura del governo stesso ed a spese dello Stato” (15 milioni). Le casse dello stato erano abbastanza vuote, ma sopperirono intese  tra Cavour e finanziatori privati come il barone Rothschild generosamente presente  in tutte le corti europee.

   Previo congruo ma equo compenso, la società progettatrice e costruttrice venne esautorata  e nel novembre 1845 furono autorizzati i primi appalti statali.

 

   Il lavoro fu iniziato col tratto Torino-Moncalieri di 8 km., realizzato il 28 settembre 1848 altri dicono il 21 ed altri il 24: venne inaugurata usando le locomotive ‘Carlo Alberto’ costruite nelle officine inglesi Stephenson capaci di 200 cv per 50 km/h di velocità. In quell’anno 1848, il 24 marzo Carlo Alberto aveva fatto guerra all’Austria ed il 9 agosto -dopo la sconfitta di Custoza- fu firmato l’armistizio dal generale Salasco; Carlo Alberto abdicò a favore di Vittorio Emanuele).

   Fu proseguita –auguratamente con buona preveggenza sia a doppio binario che cercando di eliminare passaggi a livello- per Asti (km 57 ,15 novembre 1849)  Novi (km 113, 1 gennaio 1850); da qui con i monti, i tempi si allungarono: Arquata (km 125, 10 gennaio1851), Busalla (km 143, 10 febbraio 1853). Importante fu la costruzione di grandi ponti, per superare otto grandi fiumi, come il Tanaro, il  Bormida, e lo Scrivia.

 In contemporanea risultò arduo, complesso e durato 8 lunghi anni  superare l’Appennino. Nel traforo dei Giovi, il problema più grave fu la pendenza da Pontedecimo, che appariva allora insuperabile: di proponeva –per la prima volta al mondo- dover superare il 35 per mille quando un 14/mille era sufficiente a bloccare una locomotiva prima maniera;  solo nel 1851 si ottennero trazioni adatte a più ardue salite. A fine 1850 venne invitato persino il figlio di Stephenson, Robert; questi, nel sopralluogo constatò l’impossibilità di superare i monti con le locomotive sino ad allora in produzione, e quindi promosse il progetto a gallerie nonché l’uso di trazione a fune con una macchina a vapore suppletiva fissa, come già sperimentato con successo in Belgio nella linea Liegi-Colonia. In particolare alla fine si preferì sia traforare più in basso e sia a metà del percorso interporre un tratto di linea in piano (il famoso ‘Piano Orizzontale dei Giovi’) nell’intenzione di impiantarvi dei motori fissi idraulici che rimorchiassero i convogli  tramite grosse funi.  Furono trovate anche sia abbondanti infiltrazioni d’acqua (sfruttate peraltro dall’impresario genovese Nicolay per convogliarle a PonteX assieme a quelle provenienti dallo Scrivia, per approvvigionare d’acqua la val Polcevera e parte di Genova; ma per la ferrovia fu costretto a costruire una galleria sotto l’alveo dello Scrivia stesso –detta di emungimento- atta da sola  a garantire l’acqua in quantità necessaria per essere usata per la ferrovia stessa. Solo la scoperta di locomotori più potenti, più aderenti ed appaiabili, risolsero il problema); e sia una roccia così friabile da richiedere un rivestimento totale in mattoni (ne furono usati più di 30milioni di pezzi).

 Solo questo tunnel assorbì un decimo delle spese previste in totale (11 milioni su 120). Il 2 dic.1853 la prima locomotiva attraversò la galleria dei Giovi). Poi si affrontò la ripidissima discesa da Busalla  fino a Pontedecimo (con pendenze in galleria di 28,7/mille, in altri tratti  di 35/mille -superiore a qualsiasi altra ferrovia allora esistente-) aprendo in tutto sette altre gallerie di cui due rispettivamente di 686 e 197 m;  nonché erigere muri, viadotti, arditi ponti, dighe, tutto di elevato impegno ingegneristico ed eseguito con quella attenzione che destò l’ammirazione di tutti i tecnici. Anche i signori ingegneri Grandis, Gattoni e Sommeiller furono nominati ‘tecnici aggiunti’ con l’incarico di occuparsi delle rampe per superare i Giovi usando il loro ‘ariete compressore’ (utilizzando la caduta delle acque per comprimere l’aria in un tubo e divenire capace di imprimere una spinta non indifferente: l’esperimento di porre il tubo in asse alle due rotaie non fu sufficiente per potenziare le locomotive, ma lo fu  per praticare dei fori nelle rocce tali da poter porre delle mine in profondità). Nel frattempo in Inghilterra vennero costruite due locomotive  opportunamente adattate nella potenza motrice e senza tender.

   Anche san Benigno fu traforata con una galleria chiamata poi san Lazzaro (Lazzaro di Betania, fratello di Maria e resuscitato da Gesù; non conosco i diretti motivi di questa scelta se non riferita ad un antichissimo ‘ospedale’ ove si ricoveravano gli ammalati di lebbra) che ancor oggi usata, sbuca a Di Negro. Neanche so cosa era scritto sulla lapide sovrapposta al tunnel, oggi illeggibile qualsiasi segno.

   La stazione d’arrivo fu decisa provvisoriamente presso Palazzo Doria e poi a Caricamento. La scelta non fu secondaria allo scopo prevalemtemente commerciale e di trasporto merci. Infine, si  decise usufruire dell’area di piazza Acquaverde, ma occorrendo tempo per predisporla, la cerimonia d’inaugurazione fu fatta  provvisoriamente a Caricamento.

 

   Il 6 dicembre 1853, alle ore 13,30, dopo  4 ore per 165 chilometri, giunse a Genova sulla piazza del Principe la prima corsa sperimentale composta di sette vagoni, trainati da due locomotive inglesi (di Stephenson, ma combinate in sintonia da ingegnosa partecipazione degli ing. Grandis e Rua), partiti da Torino alle ore 9,30. Lento il tragitto, causa le numerose fermate necessarie per far ammirare i lavori ai ministri Camillo Cavour, Pietro Paleocapa, Dabormida ospitati in locomotiva e La Marmora in vettura. A Genova tutte queste autorità furono ospitate all’albergo Feder dal sindaco della città. Se ne ripartirono l’indomani mattina alle 9,30 con sperimentazione del tragitto nel senso opposto. Ovviamente gran folla era convenuta ad ammirare questo primo esperimento, ma altri (“La Maga” giornale politico dell’opposizione) sottolineava che invece  il popolo accolse i ministri con un silenzio sepolcrale.

   In quei giorni, benché già collocato a terra un doppio binario, sino a Busalla ne era stato attivato solo uno.

   Quaini segnala un “progetto per la costruzione della strada ferrata del 1852, opera dell’ingegnere Luigi Gastaldon. Evidenziato in rosso sono il tracciato della ferrovia parallelo all’asse viario, e la zona che di lì a poco verrà edibita a stazione”. La data di questo documento è troppo posteriore per essere un progetto: infatti la strada ferrata era già fatta.

 

   Fu inaugurata domenica 18 dicembre 1853, (Sia Massa, Miscosi che l’autore de “La storia del trasporto pubblico a Genova” pag..21, scrivono che la cerimonia avvenne il 20 febb1854. Ma sui giornali dell’epoca, la relazione è datata domenica 18 dic 1853) riscuotendo un enorme successo, interesse ed entusiasmo: sul convoglio proveniente da Torino, viaggiavano il Re Vittorio Emanuele II, la Regina Maria Adelaide, il duca di Genova (su magnifici vagoni appositi, reali, costati allo stato 400mila franchi)  ed oltre 1200 viaggiatori.

   Dalla Lanterna, un colpo di cannone alle ore 8,30 avvertì che i reali erano partiti da Torino; due colpi significarono l’arrivo ad Alessandria; cento colpi e scampanio di tutte le chiese del territorio, salutarono alle ore 13,30 l’uscita del convoglio dalla galleria sotto san Benigno (poi dedicata a san Lazzaro). Il tempo era sereno, anche se con temperatura rigida da tramontana.

   Seppur arrivato con un’ora di ritardo (causa un guasto ad una locomotiva presso la galleria di Craverina, Miscosi scrive galleria di Villavecchia e che arrivò a Genova trainato da una  locomotiva che portava il nome della nostra città, non dicendo se era stata aggiustato il guasto o cambiata –cosa meno probabile perché non avevano certo a disposizione un cambio), la smania di veder passare il convoglio portò una tale ressa di gente, che tutto il tragitto e soprattutto Caricamento -ove erano fatti arrivare i binari di fronte al palco di accoglienza dei reali-, era stipato di folla in delirio (Lungo il  porticato e sui balconi sventolavano bandiere e festoni; sulle logge erano ospitati importanti personaggi locali e –tra essi- gli emigrati lombardo veneti compromessi con lo stato austriaco. Al centro della piazza, un tempio ottagonale o circolare -costruito dal Canzio- sorretto da colonne corinzie, elevato sopra quattro gradinate ai cui angoli erano delle statue rappresentanti la Fede, Speranza, Pietà e Sapienza; tutto aperto attorno, con un altare in centro –rivolto a ponente- e ricco di addobbi e lumière. Ai lati del binario due linee parallele di palchi, dei quali quello a levante per le loro maestà Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide, riccamente addobbato di bandiere ed aquile dei Savoia, l’altra per gli invitati del Municipio ed il basso clero);  le strade e le finestre adiacenti, erano occupate da bandiere e gente in festa che  cambiavano entusiasti saluti con i viaggiatori (due dipinti riproducenti l’arrivo a Caricamento, sono nell’Istituto Mazziniano). A ricevere il treno, ovviamente c’erano tutte le autorità locali civili e religiose, diplomatici, senatori, deputati e personalità.

  

acquarelli di Binelli Carlo – particolari – Museo del Risorgimento – 1854 Caricamento

 

   - inaugurazione

   Il re, salito sul palco diede avvio alla cerimonia che durò un’oretta circa, comprendente una benedizione (del treno, dei binari, di altre quattro locomotive, battezzate con i nomi Colombo, AndreaDoria, Torino e Carlo Alberto, e di un treno merci pronto a rifare il percorso inverso, partendo subito dopo) eseguita dall’arcivescovo mons. Charvaz (proveniente dalla Chiesa di s.Luca ove aveva vestito l’abito pontificale, arrivando in processione seguito dal Capitolo, collegio dei parroci ed alunni del saminario; nel sermone l’arcivescovo preconizzò l’allacciamento con la Svizzera); ed un breve discorso di sua Maestà (riportato sulla prima pagina de la Gazzetta di Genova del 23 febbraio 1854, n° 46). Finita la cerimonia, i reali in carrozza furono portati alla loro dimora; l’arcivescovo tornò in san Luca, mentre la città restava in festa sino a notte, tutta illuminata.   

Alla sera, con concerto eseguito dal violinista Camillo Sivori, in Genova fu inaugurato il teatro Apollo; la città fece coniare da StefanoCarlo Johnson una medaglia ricordo (nel retto lo stemma di Genova con i grifi dalla coda abbassata, nel verso la scritta “Genova – alle arti – ed – all’industria – MDCCCLIV” e nel tondo “quando Vittorio Emanuele II inaugurava la via ferrata ligure subalpina”); il maestro Giuseppe Bosco scrisse un ‘valzer per pianoforte’.

   Anche il giornale “La maga” convenne che il tempio, seppur posticcio, era all’italiana, di architettura semplice e di buon gusto. Invece il giornale “Corriere Mercantile” segnalava che lunedì 19 era avvenuta l’apertura del viaggio al pubblico: 5 o 6mila persone avevano acquistato il biglietto per uno dei due convogli già divisi in classi economiche (in prima erano 24 posti, nelle altre 36): uno partito da Alessandria alle ore 5,45 (con 14 vagoni passeggeri, arrivò alle 9,14 con quasi un’ora di ritardo) e l’altro da Torino alle 6,15 (per soddisfare tutti, erano stati uniti 12 vagoni passeggeri più 4 per i bagagli: dovettero aggiungerne altri, fino a 29 vetture; arrivò a Genova  con 1ora e 20 di ritardo ma trovò ad accoglierli la banda della Guardia Nazionale ed un coro di operai allievi della scuola di canto popolare diretti dal maestro Novella che diresse l’ “inno della carabina” e l’”inno della strada ferrata” composti dal maestro stesso; il clamore della folla e la scelta della posizione  presso ‘l’imbarcatojo’ determinò che pochi udirono questa parte della manifestazione).

    Le disfunzioni dipesero principalmente dal non aver ancora provveduto a tutto il personale necessario e per carenza di materiali di ricambio ed assistenza.

   Particolare rodaggio ebbe questa linea nel 1859 quando via nave arrivò il contingente francese che partecipò poi alla guerra franco-piemontese contro l’Austria. Le truppe (30mila) e i carriaggi (cannoni (350), cavalli (9000), vettovaglie, materiali, ecc.) sbarcati il 26 aprile in porto furono –con convogli ogni 30’- trasferiti verso Novi. Il 14 maggio vi transitò l’imperatore Napooleone col suo stato maggiore, diretto ad Alessandria, per la finale Solferino.

La linea da SPd’Arena verso Voltri di 15 chilometri,  iniziata nel 1853 fu inaugurata l’ 8 aprile 1856 ed aperta all’esercizio il giorno 13 successivo: fu concessa ad una società appositamente costituita, per 99 anni. In Francia, un convoglio ferroviario aveva da poco attuato il record della media dei 100 Km orari per la tratta Parigi-Marsiglia.  Nel 1859 si riaprì il conflitto con l’Austria che terminò a luglio con l’armistizio di Villafranca: grandi masse di soldati (circa 120mila compresi i francesi sbarcati a Genova) e di animali, vennero per la prima volta spostate in treno raggiungendo i campi di battaglia in pochi giorni (contro la necessità di mesi, nei tempi precedenti): le nuove tattiche militari dovettero prevedere la protezione delle linee ferroviarie a tutela anche dei rifornimenti. La prima corsa sperimentale fino a Savona, ed a levante fino a Chiavari, ebbe luogo nel 1868; nel 1872 la locomotiva arrivò a Ventimiglia.

 

===Il viadotto ferroviario, chiamato anticamente “viadotto della strada ferrata”, venne costruito su progetto degli ingegneri Sarti e Randell (usufruendo del tracciato più facile,  indipendentemente dalla deturpazione che ne sarebbe conseguita ed allora giustificata come conquista; come poi anche in tutti i paesi della riviera) da una impresa italo-belga (una multinazionale quindi, chiamata come la strada, “società Vittorio Emanuele”) che si aggiudicò l’appalto presentando un preventivo di 340mila lire al chilometro (poi ne risultarono necessarie 370mila). È ovvio ed indiscusso che il giorno dell’inaugurazione, la linea fosse doppia anche se ancor  unica quella usata.        

   Un incerto sul quale molto si è equivocato, è se la linea fosse a piano terra o già sul cavalcavia: DeLandolina pag.62 e Lamponi pag. 38, danno per sicuro che fosse inizialmente a piano terra, ma le singole convinzioni hanno poco valore storico: nessuno racconta con documentazione adeguata se i binari furono inizialmente a piano terra o già sul manufatto precostruito; le ferrovie hanno trasferito i documenti relativi negli archivi della capitale o a Torino o altre sedi ferroviarie, e nessuno ne ha più raccolto la storia documentata. Ma decisiva dovrebbe essere la galleria di s.Lazzaro, aperta in san Benigno ad una determinata altezza che assolutamente non si confà con una linea poggiata a piano terra. Quindi il viadotto è antecedente all’inaugurazione.    

   È vero che risulta che pochi anni dopo l’inaugurazione, una legge del 13 luglio 1857 obbligava l’isolamento di tutta la linea ferroviaria anche extra urbana dal traffico cittadino, appunto per scongiurare il pericolo degli incidenti con la popolazione ed animali (questo però non indica il nostro tratto, ma tutto il percorso in campagna); e che in quella data circa, le rotaie poggiate sul mostruoso serpentone furono raddoppiate (un quadro ex-voto, ritrovato, segnala l’eroica impresa di un casellante sampierdarenese che scongiurò qualche grande disgrazia: ma trattandosi di un’opera datata 1912 -ed anche per la sagoma più moderna della locomotiva- evidentemente  si riferisce a qualche linea portuale o ad essa vicino o comunque non necessariamente al viadotto in città).    

   Quindi, se fosse vero, si calcolerebbe che le rotaie rimasero a piano terra per un lustro abbondante, dalla inaugurazione (18 dic.1853) alla conclusione del viadotto. In conclusione, incerto era se il viadotto fu eretto prima o dopo (ma, se fosse dopo, mentre lo alzavano, i binari dove correvano?). È una grande opera affatto semplice; non è solo lunghissimo corrispondente alla via Buranello di oggi, ma comprende tutto il tratto parallelo a via Reti e Fillak, e via via fino a  Pontedecimo, -ed oggi in più- anche tutto il vastissimo parco della stazione e poi del Campasso: tutto dovette essere rialzato di parecchi metri e soprattutto riempito (da dove il materiale?) per tutto il tragitto, usando operai manovali e carri a trazione animale: di questo immane lavoro, nessuno sa dire nulla di utile. Pertanto, come accennato in precedenza, decisiva dovrebbe essere la risposta all’evidenza:  la galleria di san Lazzaro sotto san Benigno, fu ovviamente aperta per l’inaugurazione e quindi in orizzontale con la linea: dovrebbe essere stata aperta più bassa se la linea era a livello del piano terreno; invece è rialzata come si vede sbucare a Di Negro, come se i binari fossero –già fin dall’inizio- sopra il viadotto. Allora, gli incidenti segnalati con la viabilità normale cittadina, riguarderebbero solo le linee ferroviarie posate alla marina in via C.Colombo-via Garibaldi (via San Pier d’Arena- Pacinotti) o quelle inerenti alle linee che servendo ditte private (vedi ditta Forni a pag.87 per il civ.6; sappiamo dei Diana) attraversavano impunemente le strade cittadine. Così, se Pietro Chiesa la definì “la ferrovia della morte”, non necessariamente spiega il quesito iniziale.

    Può essere -ma siamo sempre nel campo delle ipotesi non precisate- che lungo tutto il viadotto, sulla strada sottostante, fosse posato un binario per servizio e trasporto del materiale necessario per la costruzione del viadotto stesso e collegato sia col porto che con  la prima stazione posta presso il ponte sul torrente –poi ed ancor oggi detta ‘stazione piccola’-, riferita tale rispetto quella definitiva.

   Tutta la struttura fu ‘collaudata’ nel 1859 quando le truppe francesi arrivarono a Genova per essere avviate verso la Lombardia (il trattato tra Cavour e Napoleone era di mutuo soccorso in caso di aggressione; Cavour manovrò perché l’Austria muovesse le truppe per prima; cosicché il francese dovette arrivare: sbarcarono nel porto 113.560 soldati, con 17.828 cavalli, 350 obici, e tonnellate di materiale logistico, e rapidamente alloggiati alcuni a s.Benigno altri a Rivarolo; e con la ferrovia trasferiti verso la Lombardia). Per la sussistenza, sotto le nostre arcate (allora ancora vuote) fu collocato un ‘panificio volante’ (boulangèrie, in francese) che in quei giorni sfornò tonnellate di pane.

   L’opera venne allargata a quattro binari, nel 1893 con allargamento di tutto il viadotto (come si può constatate dalle singole volte dei sottopassi: essendo aumentate le esigenze, anche e soprattutto commerciali di smaltimento delle derrate arrivate in porto fu aumentato a più binari, allargando il viadotto dal lato monte raddoppiandolo di larghezza; questa operazione fu resa possibile da una previdente legge che –come già scritto-  voleva le case lontane dalla linea, portò ad un “avvicinamento” delle case al viadotto stesso, come facilmente riscontrabile in più sedi, per esempio in via Gioberti, via Castelli e nella sede della Croce d’Oro. Sicuramente, tutta una serie di industrie poste a monte del viadotto, furono servite singolarmente di linea ferroviaria che, proveniente dalla marina saliva a pettine passando sotto gli archivolti; per quanto ad ogni archivolto transitabile, avessero posto un cantoniere di guardia che con una tromba segnalava il pericolo alla gente allorché era in procinto di transitare il merci; e nonostante la sorveglianza generale, gli incidenti agli attraversamenti non dovettero mancare facendo nascere la qualifica di “viadotto della morte”, esteso poi anche a quello sopraelevato ed -a mio parere- innocente.

 Pietro Chiesa condusse una campagna ostinata ed appassionata per la rimozione di questa linea sul suolo cittadino.

La linea ferroviaria commerciale stesa sulla via a mare (via C.Colombo→N.Barabino), rimase invece sempre a piano terra, frammista alle rotaie dei tramway, poi coperta dall’asfalto ed infine rimossa quando si avvenne alla totale ristrutturazione di quella strada. Attualmente la linea viene usata solo per i treni locali (sulla linea Ge-Sv ne passano 180/die), per quelli diretti verso la riviera di ponente e per i merci; le linee veloci  da tempo by-passano la città  tramite gallerie.

   La sua costruzione, dettò la fine di una San Pier d’Arena basata su ville  e case agricole, su contadini e su  radi opifici artigianali;  e segnò invece l’inizio di una città industriale, basata su fabbriche con ciminiere, caseggiati popolari, aumento vertiginoso della popolazione (da 10 mila a 50 mila in pochi anni),  del traffico, dell’inquinamento.  Il grave è che questo passaggio non avvenne inserendosi nel precedente habitat, ma inopinatamente distruggendolo, praticamente tutto.

 

   Divennero ‘guardiani della strada ferrata’ i genitori sia di A.Cantore (vedi) che di don Minetti, ambedue nati sampierdarenesi.

Don Vincenzo Minetti nacque a San Pierd’Arena il 16 ottobre 1856 da Rosa Cereseto


 

(sorella sia del sacerdote Giacinto Cereseto, dei filippini, che di Giovanni, sacerdote secolare) e dall’ovadese G.B. venuto a Genova per la nuova strada ferrata GenovaTorino=allora Ligure Subalpina). Fu battezzato alla Cella con i nomi


Emanuele, Vincenzo (Vigliero scrive erroneamente che il sacerdote nacque a Genova; il Cittadino scrive ‘al Borghetto di Rivarolo, poi divenuta parrocchia dopo il 1945’; ma anche lagenda della curia lo fa nativo  fu battezzato alla Cella). Ebbe tre sorelle (due, Maria e Adelaide fattesi suore; una divenuta insegnante ma morta precocemente) e due fratelli (uno, Emanuele, sacerdote –l’agenda della Curia scrive ‘relgioso laico cappuccino’; solo G.B. ebbe prole).

Trasferiti da SPdA a Certosa, qui frequentò le elementari e poi un collegio degli Artigianelli; ovviamente fu assiduo frequentatore della parrocchia di Certosa dove divenne presidente dell’AzionCattolicaGiovani e poi la Soc.Operaia Cattolica della quale era factotum. Divenuto maestro di scuola, nel 1880 a 24 anni divenne insegnante nelle scuole civiche (incarico che resse per 40 anni e oltre) raggiungendo il grado di Direttore quando già era insegnante di catechismo nella parrocchia dove aveva fondato la Società Operaia Cattolica.

Trovò la strada della vocazione sacerdotale dopo aver parlato con don Bosco nel marzo 1886, il quale stimolò la sua vocazione. Dopo tre anni di seminario, nel 1889 mons. Magnasco lo rdinò presbitero, restando in servizio nella sua parrocchia come curato; nel 1892 aprì degli spazi della chiesa di Certosa all’oratorio per i giovani (sulla scia di don Bosco) abbinandoli alla già esistente congregazione operaia in una unica “Piccola Congregazione Operai di s.Giuseppe” nella quale diede via ad una formazione culturale religiosa nei giovani ai qualila religione non veniva insegnata nelle scuole pubbliche. Da sacerdote, con l’incarico di cappellano in san Teodoro, conservò fervente e fecondo lavoro per i giovani,  fondando patronati (in vico Sparviero il primo, titolato a s.Giuseppe; seguito da 40 orfani o abbandonati); scuole (famoso soprattutto per le sue capacità di educatore ed insegnante: per primo al Chiabrera; scuole serali ed estive (in una villa ereditata da una zia alle Capanne di Marcarolo ed altra, da un benefattore, alla Vittoria dei Giovi; a SPdArena una scuola fu aperta “sopra via GB Monti” per raccogliere fanciulli).   Molto si prestò perché venisse eretta una nuova chiesa in località Borghetto di Rivarolo, la quale –dopo un incontro con la suora  Teresa Rossi, ‘serva di Dio’-voleva fosse chiamata  “SS.Nome di Gesù” (questo tempio  ebbe tempi lunghi di erezione per carenza di fondi, ed il sacerdote nel 1926 dovette  lasciare la gestione ad una Opera milanese -nata dopo la morte del loro arcivescovo Ferrari- perché la completasse).           

I       

foto del 1904 - in alto, tra gli alberi, il              a sinistra: il collegio, davanti ai villini

convitto don Minetti, in salita Belvedere              a destra: villa Crosa-Antoniano

 

Inseritosi nella Compagnia di san Paolo, fu inviato a Roma per due anni, là benedisse la prima pietra di una chiesa -eretta a MonteMario- dedicata alla Madonna della Guardia.  Tornato a genova in vico Sparviero, riprese in mano le opere avviate finché la fibra resse gli stress.  Morì il 14.2.1935 (altri scrive il giorno 4) di broncopolmonite bilaterale in diabetico e fu sepolto a Rivarolo. L’educatore dei giovani è ricodato a Genova con una strada in s.Teodoro.

 

    

foto anni 1970 – Gazzettino Sampierdarenese -  traffico         in attesa del medico

 

      

verso ovest                                                verso est

 

 

 

Dopo 150 anni, il manufatto è andato gradatamente deteriorando con progressivo lento decadimento e generale squallore; i negozi sottostanti, tutti affittuari delle FF.SS. (servizio produzione Metropolis poi Ferservizi) provvedono a intercapedini per le infiltrazioni d’acqua, aggrediti da una  umidità costante e devastatrice specie per chi ha oggetti deteriorabili (dischi, libri, mobili moderni ed antichi, ecc.).

   I progetti per disfarsi  del viadotto non mancano; ancora nel discutere il piano regolatore nel 1956 l’on Bettinotti esortò ‘l’Amministrazione ad adoperarsi per ottenere lo spostamento a monte della linea ferroviaria che divide l’abitato di Sampierdarena’ (l’assessore dei LLPP Mereta gli rispose che la demolizione del viadotto, e la costruzione della metropolitana, restano nel campo delle possibilità), ma la realizzazione politica ed i programmi delle FFSS segnano il passo allontanandosi da questa esigenza. Accorato l’appello dalle pagine del Gazzettino: “questo viadotto ferroviario, o-u diggo senza malinconia, pe piexei o-u portaê via?”

Roncagliolo negli anni ’70 scriveva «questo viadotto ferroviario, o-u diggo sensa  malinconia, pe piaxei v’o-u portaê via?»

   Nel 2002 si è provato a censire i vani ospitati e quelli rimasti vuoti da anni, deteriorati  e marciti dalle infiltrazioni d’acqua, ricettacolo di ogni immondizia, di proprietà delle ferrovie (ma dati in gestione): le Ferrovie si giustificano segnalando che il restauro ‘non può essere improvvisato, e comporta l’interruzione del traffico ferroviario’. Alcuni affittuari hanno intentato causa legale all’azienda per le infiltrazioni d’acqua, vincendo un ‘parziale risarcimento’. Alla ristrutturazione, ancora dipendente dall’apertura della nuova stazione a san Benigno, sono interessati il Comune, CdC, le Ferrovie ed il CIV.

   Nel 2011 è stata eseguita una pulizia della facciata a mare del lungo viadotto; rimettendo in pulito i mattoni delle arcate e le pietre dei piloni.

DEDICATA al partigiano, nato a Meolo (VE) il 27 (Simonelli dice il 17) mar.1921, ma ancora in fasce lo troviamo abitare a Sampierdarena, dapprima alla marina nella zona del Canto vicino all’Ansaldo, poco dopo in via Leon Pancaldo 5/8, al terzo piano  (col padre Giuseppe, operaio, tenace lavoratore, qui trasferitosi quale  operaio dell’Ansaldo, e la madre Domenica Bondi, donna di famiglia toscana una volta benestante, molto semplice ma volitiva e di carattere deciso: voleva il figlio laureato per fargli fare in salto sociale; nel contempo apprezzava e condivideva le idee sociopolitiche del figlio per le quali anche lei subì il carcere nel 1942). Ebbe la licenza elementare a 11 anni, avendo cominciato quando ne aveva 5, alle Mazzini; poi quattro anni all’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele III (altri lo chiama Tortelli); da qui al liceo scientifico GD Cassini (rara possibilità per il figlio di un operaio; anzi, era unica possibilità avere l’esenzione tasse per meriti culturali: voto medio l’8) assieme a Fillak e Galeazzo; e poi infine universitario nella facoltà di Ingegneria.                            

Già da giovane, prevaleva sugli altri non tanto in statura fisica quanto nell’intelligenza e predisposizione allo studio: un primo della classe che iniziò ben presto a subire l’ingiustizia di  venir scavalcato nella classifica di classe, per ordine del direttore, dal figlio del podestà (cav. Massardo Diana) o del benestante (Anselmo Nasturzo). Maturato in ambiente con ideali socialisti, manifestava apertamente e con coraggio  di non accettare il regime fascista; contrario agli amici che preferivano letture facili, per lui era impegno scovare libri della sinistra del risorgimento (Mazzini, Buonarroti, Pisacane) e dei grandi autori stranieri (un compendio di C.Marx, Barbuse, Fourier), o di insegnanti contrari al fascismo (Ardigò, Tilgher, Rensi), maturando da giovane il concetto che per la libertà e giustizia occorreva essere disposti a sacrificarsi, che solo il sangue dei martiri apriva quella strada con maggiore efficacia, che la nuova struttura reattiva al fascismo doveva essere -come aveva letto da Lenin- centralizzata e basata su rigida disciplina.  Le leggi eccezionali del 1926 contro il comunismo e gli anarchici, erano riuscite a troncare qualsiasi velleità politica diversa dal regime, ed era possibile  solo come studenti ritrovarsi a parlare per approfondire questi argomenti  stando però attenti ai vicini, spesso delatori. Il gruppo discuteva solo in casa di Buranello, anche se poi si ritrovava compatto  al cinema Odeon o in qualche bar a giocare a boccette : erano ‘quelli di Sampierdarena’.  La ribellione da lui organizzata si basava  su semplice propaganda (scritte tipo ‘viva Stalin’, oppure ‘viva Lenin’,‘abbasso il fascismo’, la semplice falce e martello) atta a destare  attenzione e stimolare vitalità in tutti i simpatizzanti, annichiliti dal soprapotere dei neri. I più seri tentativi di organizzare i comunisti erano falliti per opera dell’OVRA, che avevano costretto all’espatrio Pieragostini (1935) ed all’arresto di altri.  Istituì un ‘Centro Direttivo Comunista’ composto da 4 operi e 3 studenti, il cui fine ultimo sarebbe stata la ribellione armata su scala nazionale: l’organizzazione dettagliata, la raccolta del denaro necessario tramite sottoscrizioni, il frasare cifrato, trovarono in lui l’esperto pignolo ed altamente produttivo.

    Richiamato (1/3/1941) nell’esercito, frequentò per 5 mesi scarsi il corso preparatorio per allievi  ufficiali marconisti a Bologna; e dopo per due mesi -sergente- inviato a Chiavari, 3a compagnia marconisti del 15° reggim.Genio,  in attesa della vera scuola allievi ufficiali  a Pavia. Classificatosi tra i primi del corso, poté scegliere la sede di destinazione; per cui si fece rinviare a Chiavari.

Fu in questi mesi di militare che già ben inquadrato politicamente, con chiari programmi, e già ampi contatti in Italia del nord, tra tutti diventò il capo. Contandosi, a Genova, i ‘compagni’ erano diventati 340. Le espulsioni dal gruppo riguardavano coloro che presentavano ‘mancanza di disciplina e lealtà comunista, debolezza di carattere, paura di fronte al pericolo, atteggiamento opportunista, deviazione dalla linea marxista-leninista-stalinista adottata dal partito’. (Una specie di fascismo antifascista.nda

   Ma per delazione di un ex comunista divenuto squadrista, agente dell’ Ovra chiavarese (nella GNR, sez. UPI=ufficio polizia investigativa della questura) di nome Bruno Fiorellino (il nome molto probabilmente è falso), infiltratosi nell’organizzazione, fu arrestato l’11 ott.1942 assieme ad altri circa 30 compagni (praticamente tutti i membri del movimento che faceva capo a lui ,tra cui anche sua madre e Walter Fillak), condotto a Marassi e deferito al Tribunale Speciale. Del fatto ‘tenente Buranello’ nel parlò pure ‘radio Londra’. Incatenati, furono incarcerati ad Apuania (marzo-aprile), fu poi inviato agli inizi di maggio alle carceri giudiziarie Regina Coeli ove rimase fino al 31 lug.1943, quando - rimesso in libertà per gli eventi del giorno 8 settembre (l’ armistizio con le forze alleate, la fine della guerra al fianco della Germania, la fuga del re, la confusione morale totale civile e politica, l’arresto di Mussolini poi liberato il 12 settembre), tornò subito a Genova incaricato da Pieragostini di costituire -sempre ovviamente in clandestinità, assieme ai compagni del Fronte della gioventù- i primi gruppi di Azione Patriottica (detti GAP, dei quali fu il primo comandante e rappresentante di spicco,  assieme a W.Fillak, G.Jori, assumendosi il compito di colpire l’avversario in città), e di riorganizzare il Partito nell’Università.

    E’ ufficialmente riconosciuto che sino all’eccidio della Benedicta ed alla entrata in piena funzione -primavera 1944- del CNL, le singole ‘bande’ armate di ribelli in montagna, alcune forti di oltre 200 uomini, erano però scoordinate, senza organizzazione finalistica, carenti di sussistenza materiale di guerra, con prevalente impegno di attesa più che di azione, tali comunque da non impensierire i Comandi tedeschi visto che anche gli Alleati non ne riconoscevano ancora il ruolo. Lo sbarco in Normandia -anche per non concedere spazi d’Europa ai russi-, sclassificò a secondario l’impegno militare alleato in Italia (armi, viveri, mezzi meccanici, finanziamenti) preferendo l’offensiva aerea sulle città sia perché poco contrastata, sia per destabilizzare la gente contro il governo. 

   In città, abitando lui in via san Vincenzo (ma con possibilità di rifugio in via I Frugoni o a Borzoli), partecipò e diresse  numerose -non è scritto a quante- azioni armate (tra cui –le varie fonti segnalano in cronologia non corretta ed in forma ciascuno incompleta; con l’asterisco quelle segnalate nel libro di Simonelli)

-la sua presenza il 12 settembre 1943 all’attacco in piazza Portello contro lo squadrista Bruno Fiorellino già citato sopra, che rimase ferito;

-* l’uccisione –da parte di 2 gappisti protetti da altri due- il 28 ott.1943, alle ore 18, nell’atrio della sede della milizia fascista nell’attuale via C.Dattilo, del capo manipolo della milizia Manlio Oddone

-* assieme ad altri gappisti: l’uccisione della spia dell’Ovra Gesuino Lai, artefice dell’arresto generale dell’11 ottobre;

-*l’uccisione di 2 militi della X Mas di V.Borghese;

-*l’uccisione ed il ferimento di due soldati tedeschi transitanti a cavallo per via XX Settembre, il 12 (o 13) gennaio (con conseguente fucilazione di otto militanti comunisti e deportazione in Germania di 42 persone; fu posto anche un ‘premio’ di un milione, a carico degli ignoti assassini descritti sommariamente dai testimoni oculari);

 -lo scoppio di una bomba a mano nella sede dei fasci repubblicani a Genova in piazza della Meridiana;

-un assalto ad un locale-ritrovo dei tedeschi (non viene descritto se fu quello del 25 giugno, nel bar Olanda di via del Campo, dove una bomba uccise sei militari tedeschi: la rappresaglia ordinata non dalla Autorità italiane ma dal Comando Tedesco causò la morte di 70 imprigionati perché già condannati dal Tribunale di Guerra Tedesco, e prelevati dalla IV sezione del carcere di Marassi); ----Buranello  e Scano, dal viadotto ferroviario, gettarono*  bombe a mano contro la casa del Fascio di  SPd’Arena, creando panico tra i nemici (Gimelli scrive che rimasero uccisi due fascisti;  ed un altro poi, in altro attentato a SestriP).

-lo scontro il 13 gennaio 44 alle 18 in via XX Settembre-angolo chiesa della Consolazione durante il quale esplosero colpi di pistola ed uccisero due ufficiali tedeschi esperti di guerra partigiana e per lo scopo provenienti dall’est);

-sabotaggio in città  (a SanPierd’Arena fecero saltare con dinamite le rotaie del tram per appoggiare lo sciopero dell’UITE, mentre Buranello faceva saltare al Righi un traliccio dell’alta tensione);

-raccolta di abiti ed armi (per aiutare eventuali disertori e farli fuggire abbandonando la divisa –l’occultamento della divisa rappresentava un aggravante se catturati, perché espressione di  palese volontà di tradire);

-relazioni con alcuni professori universitari antifascisti ( con i quali era in atto di fondare i comitati di Liberazione nazionale).

    La scelta di questo modo di agire, trovava primaria giustificazione in un decreto ufficiale del CNL: dopo aver eliminato la direzione ‘attendista’, finalmente era stato chiarito l’orientamento -sulla linea dettata dal PCI- dell’azione militare diretta. Iniziando ad agire contro tutti gli appartenenti al Partito Fascista Repubblicano valutati traditori della Patria e quindi punibili con pena di morte senza processo. Luigi Longo –istruito a Mosca- fu assai esplicito nell’esporre il parere del PCI su questo tipo di lotta, dichiarando essere ovvio che il nemico tedesco attui e si serva -quale deterrente per i più pavidi ed attendisti- del rapporto 10 a 1 o che comunque sia capace di infliggere più perdite di lui; ma a lui  interessano non i singoli caduti per la causa, ma la destabilizzazione, le misure difensive che il nemico avrebbe dovuto assumere, la diffidenza e paura costanti nelle cose e persone apparentemente normali; e non ultimo l’esaltazione delle masse nazionali all’idea della lotta.

 Sia nei tempi di esecuzione che dopo la guerra, ed ancor oggi, innumerevoli sono le polemiche, interpretazioni morali ed etiche, strascichi di responsabilità e legittimazione. Nel brevissimo passaggio tra giusto ed ingiusto e nel contesto del tempo, trova valido alimento chiunque voglia sostenere una sua ipotesi.

   Nel 1944 i fascisti avevano imparato a conoscere Buranello ed a  temerlo, creando un fitto dossier informativo a suo carico; così mentre preparava un attentato contro CarloE. Basile, prefetto di Genova, Scappini gli ordinò di allontanarsi dalla città. A fine gennaio lo vediamo sul monte Tobbio, dapprima presso la ‘cascina del Brignoletto’, e poi la ‘cascina Lombardo’ comandante del 1° distaccam. della 3° brigata Liguria. Usava il  soprannome di battaglia  “ Giacomino” (Simonelli dice Pietro).

   Ma il 28 febbraio fu comandato, assieme a Fillak ed altri quattro, di rientrare in città per sostenere con azioni di sabotaggio lo sciopero insurrezionale del giorno 1 (poi praticamente fallito); allo scopo malgrado poi l’invito di abbandonare l’impresa, volle rimanere per organizzare un clamoroso attentato che fosse capace di far sentire agli operai che il partito esisteva.    Il 2 mar.1944, alle 9, entrato per una colazione nel bar di Luigi DeLucchi posto d’angolo tra l’attuale via Brigata Liguria (a ricordo di unità operativa omonima durante la prima guerra mondiale) e via Maragliano (oggi G.Macaggi; altri dicono erroneamente via Perani), fu riconosciuto da tre agenti in borghese della squadra politica della Questura centrale la cui sede è a poche centinaia di metri; malgrado il tentativo di una compagna (Neda Fiesoli) di fargli capire che era meglio una rapida fuga, fu presto affrontato dai poliziotti e non gli rimase altro che reagire per primo: con due spari colpì all’addome i due questurini fascisti più vicino (maresciallo di PS Gravina Cosimo e vice brigadiere Graziano Armando, deceduto poco dopo all’ospedale di SanMartino) e scaricò il caricatore sul terzo (Trailo Michele) che si era rifugiato dietro il bancone; indi  si diede alla fuga. Ma raggiunto dal sopravissuto e da miliziani di passaggio, fu sopraffatto e catturato dopo violenta colluttazione.

   I giornali riportarono la notizia, probabilmente secondo le indicazioni della questura : Il Lavoro  descrive “il drammatico incidente che ha rivelato l’animo criminoso di un esaltato individuo da tempo ricercato dalla polizia”; il Corriere Mercantile “un delinquente esplode…la cattura del criminale dopo un movimentato inseguimento…”; il Secolo “il fuggitivo è stato catturato”.

Per apparire nella legalità (e ben gli tornò, nel processo dopoguerra) il questore convocò d’urgenza il ‘Tribunale speciale straordinario’; dopo un rapido processo per accertare le colpevolezze, –in giornata stessa- fu approvata la condanna del pubblico accusatore, il cap. Franco Santini (della Gnr del raggruppamento di Genova, ex carabiniere) e fu decretata la pena di morte mediante fucilazione alla schiena. Nella sentenza si legge: “alle ore nove del 2 marzo 1944, agenti e sottufficiali avevano notato che nel  bar “De Lucchi” di via Maragliano si trovava Buranello Giacomo (…) segnalato alla P.S. quali pessimi precedenti penali ed attivamente ricercato come terrorista. Avvicinatisi gli agenti al Buranello questi fulmineamente estraeva una pistola Berretta calibro 9 sparando contro i primi numerosi colpi alcuni dei quali ferivano gravemente all’addome i camerati Fascisti Maresciallo di P.S. Gravina Cosimo e Vice Brigadiere Graziano Armando che venivano prontamente trasportati e ricoverati all’ospedale ‘San Martino’ di questa città con prognosi riservata versando in pericolo di vita (il secondo morì all’ospedale il giorno stesso). Il Buranello prontamente disarmato dall’altro camerata Trailo Michele che rimaneva fortunatamente illeso, riusciva a scappare ma inseguito veniva presto acciuffato e tradotto in una guardina dell’ufficio della locale Questura Centrale. Il Questore raccolti tutti gli elementi di fatto e redatto analogo rapporto deferiva per competenza il Buranello all’Autorità di questo Tribunale designandolo quale disertore, organizzatore e capo di una cellula comunista, responsabili  di gravi crimini i più recenti dei quali: di detenzione arbitraria di armi e di tentato omicidio in persona dello squadrista Bruno Fiorellini (…). Dal pubblico dibattimento è risultato che i fatti si sono realmente svolti come sono stati illustrati dalla denuncia del signor Questore che è stata confermata dal mutismo assoluto  tenuto dall’imputato durante tutto il dibattimento”.

In questura fu ovviamente soggetto ad interrogatorio e -visto il l’ostinato silenzio- per dodici ore continue a tortura fisica compreso la corrente elettrica ai testicoli (il medico Luigi Lacroix di servizio, fu  chiamato per un parere di sopportazione; essendo in realtà un infiltrato, ebbe autorità di far sospendere la tortura. L’organizzazione Spartaco,  composta da combattenti  accomunati da avversità ideologica al regime seppur appartenenti alle  più varie correnti politiche che poi diverranno democratiche, aveva infiltrato nella caserma E.Tellini delle GNR anche il partigiano Pietro DiMattei quale tenente medico. Quest’ultimo fu estremamente utile per la Resistenza, prestandosi molte volte in situazioni assai delicate. Entrato nell’occhio del sospetto, riuscì a sottrarsi alla cattura della Gestapo, fuggendo dalla sede nel luglio 1944).

La versione ufficiale recita che Buranello fu condotto scortato ed ammanettato nel forte di san Giuliano alle ore 6 circa del 3 marzo 1944. Erroneamente altre fonti scrivono aprile. Altre ancora testimoniarono che in realtà si era suicidato lanciandosi da una finestra (è probabile che ‘fuga e suicidio’ furono superficiali tentativi di accreditamento nel processo di canonizzazione del personaggio, eletto a ‘eroe comunista’); si scrive che morì nel bar dell’agguato: esisterebbe testimone oculare una negoziante vicino al bar stesso, che interpretò il fatto come un vero agguato conseguente ad una soffiata e conseguente omicidio volontario tipo regolamento di conti: di conseguenza la fucilazione fu una farsa imbandita dal questore Bigoni, mirata a legalizzare previo processo una morte che era già avvenuta prima; si scrisse pure che quale Cancelliere al processo era presente Giusto Veneziani, riconosciuto quale ‘solerte collaboratore del Comando SS alla Casa dello Studente e dichiarato dal Cnl ‘criminale di guerra’, ma non in tutte le fonti e documenti questo personaggio compare nell’elenco del tribunale giudicante.  

Nei fascicoli della Prefettura della RSI ora conservati all’ archivio di Stato, si legge la relazione ed i nomi dei presenti alla fucilazione: “fatto tradurre il condannato medesimo in questo forte a mezzo di un plotone degli agenti della forza Repubblicana al comando di un sott’ufficiale della stessa arma, letto ad alta voce (dall’avv.Cappelli, ndr), in presenza degli intervenuti il dispositivo della suddetta sentenza, questa viene eseguita alle ore 7,15 con la fucilazione alla schiena (erano presenti: il questore A.Bigoni, il vice questore Sergiacomi,  i commissari G.Veneziani e F.Sanguigno, il Comandante dei carabinieri, i Pubblico accusatori avv Cappelli ed il cap. della Gnr Franco Santini, il cappellano militare ten. Rosaia, il tenente medico L.Lacroix (alias Pietro DiMattei ?) ed un cancelliere -nds).

La salma fu consegnata ad un necroforo (Gaudenzio Lunati) per l’inumazione nel cimitero di Staglieno. Un loculo a suo nome è nel cimitero partigiano di SPd’Arena.

Nel suo diario, una frase può rappresentare il suo testamento morale: «ieri ho concluso che bisogna sacrificarsi, che il sangue dei Martiri segna la strada più sicura alle idee…liberi da nuova famiglia perché la nostra eventuale morte debba lasciar il minore lutto possibile: niente moglie, niente figli. Che occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione; questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia maggiore efficacia».

Al di là delle glorificazioni di parte, evidentemente fu un uomo altamente maturo per l’età (morì ventiduenne), intrepido organizzatore, di vasta cultura politica ed umanistica, di ferma volontà, fonte di idee mirate a far rispettare gli altri contro tutte le violenze fisiche e morali.

Fu riconosciuto eroe nazionale, meritevole di Medaglia d’oro al V.M. alla memoria, in riconoscenza del suo impegno di lotta, e per l’eroico comportamento quando -torturato- non si lasciò fuggire alcuna informazione che potesse danneggiare i compagni .

Un manifestino ciclostilato su cui era espresso lo sdegno dei suoi compagni del Fronte della Gioventù, con esaltazione della persona e minacce di vendetta contro le autorità, fu bloccato e sequestrato prima della distribuzione avendo l’ufficio politico investigativo della Gnr scoperto la tipografia di via Ristori.

Nell’ulteriore evolversi della guerra, assunsero il suo nome una brigata della divisione “Mingo”; e la 292a e la 692a brigata SAP garibaldine, della VI zona operativa.

Una lapide a ricordo, è stata posta nell’’89 , nell’aula magna dell’istituto scolastico Cesare Abba in via Chiusone (edificio rimodernato nel 1998).         Un’altra lapide è posta di fianco al portone in via Leon Pancaldo.

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