CHIESA via Pietro Chiesa
TARGHE:
San Pier d’Arena – via – Pietro Chiesa
S.Pier d’Arena – 2754 - via - Pietro Chiesa
Via – Pietro Chiesa
lato nord-est; angolo con via De Marini
lato nord-ovest
lato sud-ovest
QUARTIERE ANTICO: Coscia
da MVinzoni, 1757. In fucsia la crosa Larga; rosso, villa Pallavicini; celeste via DeMarini; blu via sBdFossato; giallo, largo Lanterna..
N° IMMATRICOLAZIONE: 2754, CATEGORIA: 2
CODICE INFORMATICO: n° 16120
UNITÀ URBANISTICA:
Da Google Earth 2007. In fucsia via San Pier d’Arena; giallo via Balleydier.
CAP: 16149
PARROCCHIA: NS delle Grazie
STORIA: Premessa: Oggi, 2010, non esiste più un confine tra Genova e San Pier d’Arena. Ma poiché nel mio lavoro c’è il desiderio di conservare una certa identità della città di San Pier d’Arena, la descrizione storico-strutturale è sempre stata fatta salvaguardando l’antico territorio della ‘piccola città’, che è compreso tra il margine ovest del colle di san Benigno e la metà del torrente Polcevera. Quindi anche addesso, come per via Cantore, mantengo questa delimitazione, anacronistica essendo tutti genovesi, ma necessaria per proteggere la storia millenaria da incoscienti picconatori che han voluto anche cambiare nome.
La strada Sino alla fine del 1800, questa strada faceva parte della lunga litoranea detta “a Mænn-a”, ovvero “la Marina” (vedi) ove sono segnalati solo dei magazzini (di Carpaneto, Garibaldi ed altri).
al centro della foto l’«Ufficio Ferroviario delle Fermate»; a destra «Grandi Empri Commerciali G.B. Carpaneto» con in basso la sede di «Compagnia di Assicurazioni ... VITA»
Nelle cartoline e disegni delle prime decadi del 1900, considerata la barriera del colle, la visuale è pressoché sempre orientata da ovest verso est, e mostrano la strada che lambiva il mare, a partire da via J.Ruffini (via Prasio-Palazzo della Fortezza) a sotto Largo Lanterna (non esiste più; era lievemente sopralivellato rispetto il mare); possedeva solo poche case (tre) che erano state erette sicuramente da molto prima.
Seguendo quindi la strada da ponente verso est, inizialmente essa aveva un solo nome: dapprima strada della Marina; poi strada Reale (poi venne distinta con due nomi contigui: via C.Colombo+via Galata; e dopo via san Pier d’Arena+via P.Chiesa); vi esisteva ancora qualche casa sul lato monte; pochissime sul lato mare sia perchè il terreno apparteneva al Demanio e sia perché avendo consistenza sabbiosa era difficile costruire stabilmente con i mezzi di allora.
Questo tratto di strada, passava davanti alla villa Pallavicini, ai docks, per arrivare all’altezza di via Balleydier e delle arcate per salire alla ‘camionale’.
Dopo esse, iniziava la zona della Coscia vera e propria: inizialmente una piazza leggermente in salita e profonda una cento metri e più dal mare (ove poi saranno aperti i bagni Margherita); a monte, sopraelevata rispetto la battigia la piazza prendeva il nome di Largo Lanterna, al quale convergevano le vie De Marini, Vittorio EmanueleII, della Marina, dalla Lanterna e dal tunnel la via ferrata del tram; e dove era stata posta la casetta del dazio.
foto anno 1900- collez. Canepa. In alto a sinistra la facciata
ovest della casa che a est si affacciava in Largo Lanterna
Partendo invece dal colle, dalla Lanterna per prima era la strada (che in realtà si chiamava salita alla Lanterna) scendeva un poco alla volta lungo la mezza quota del fianco di san Benigno, arrivando infine nello slargo sudetto: Largo Lanterna; come già detto, questo slargo era lievemente sopraelevato rispetto la battigia, alla quale si arrivava tramite la degradante spiaggia della Coscia composta di grossi ciottoli nell’interno, ghiaino a metà e sabbia fine dove lambiva l’onda.
La numerazione civica, come da regolamento, è centrifuga rispetto il centro città (di Genova), fu posta da est verso ovest anche se ‘scomoda’ alla memoria che preferirebbe leggere la strada da ovest verso est (quando SPdArena era città autonoma, era infatti l’inverso).
Nel tempo però la zona della Coscia è stata totalmente rivoluzionata, compreso quello che anticamente era il colle: tutto è stato spianato e rifatto; così resta dificile descrivere il vecchio naturale tracciato, rispetto l’odierno.
Nel 1900, fu chiamata via Galata (vedi)
Nel 1906 Gino Coppedé – per l’estremità più ad est della via - presentò un progetto, non realizzato poi, di sbancamento dell’apice di san Benigno, per collegare le due città con una ‘nuova strada’ che facesse anche da ‘scalo’nautico -traffico pedonale e veicolare (allora scarso) - ferrovia; essa nel punto di incrocio (zona dogana!) doveva essere allargata a piazza; e qui sarebbe sorto un megapalazzo (in stile secessionista) con cupola a base ottagonale e con –verso il mare - il ‘ponte
Cristoforo Colombo’ sovrapposto da folla di statue e coronamento a raggiera; raggiungibile con scalinate e rampe. Il palazzo si sarebbe sviluppato allontanandosi dal mare, con portici e ferrovia proveniente da gallerie.
Nel 1910 avvenne il primo sovvertimento: non mancavano i progetti: dallo sbancamento della collina a nuove gallerie. Fu optato per quest’ultimo: l’apertura della galleria Romairone, la cui uscita a ponente segnava il confine tra Genova e SPdArena e quindi linea daziale; fu fatta ‘combaciare’ ovvero essere in linea con la via Galata.
La galleria inizia da dentro il porto, dal Molo Nuovo. Fu la sua apertura a determinare una continuità anche veicolare ma solo da/verso il porto; ed ha determinato l’inversione della morfolgia stradale da est verso ovest.
Fu costruita a cura del CAP (allora presidente il prof Nino Ronco) su progetto dell’ing. Odone Bernardini ed inaugurata l’ 8 mag.1910. E’ lunga 290m, larga 15, fu adibita al passaggio multiplo di treni, veicoli ed anche pedoni. Fu dedicata al vice presidente del CAP Natale Romairone (deceduto nel 1916), sampierdarenese, essendo benemerito anche delle industrie locali e dell’amministrazione comunale.
dipinto di L.Garibbo-fotoCoopTopog.Comunale
1910-15 via Galata, senza case a mare-villa Pallavicini?-non aperto accesso a piazza Barabino
1920-25, prime case lato mare, i 1926-30, i preparativi per interrare il porto
civ. 2 e 4; e l’illuminazione elettrica
la galleria Romairone – a sinistra la facciata a mare dei
palazzi che si aprivano in Largo Lanterna. Casette (forse)
del Dazio e di un bar - foto Canepa.
Nell’immediato dopoguerra 15-18, tutta la strada, sino alla galleria, fu intitolata al Chiesa.
Nel 1927 era di 4a categoria
La strada è sempre stata molto trafficata, forse non quantitativamente quanto qualitativamente, causa lo stretto rapporto col porto. Ancora dopo lo sbancamento di san Benigno era la principale a collegare commercialmente la nostra città con Genova e col porto stesso (per il quale, dalla parte sampierdarenese e per interesse di questa strada, l’attuale varco Etiopia è l’unico accesso).
Nel periodo dal 1929 alla 2a guerra (dirigente del CAP l’ammir. marchese F.Negrotto Cambiaso), si procedette alla copertura del bacino per il porto. Con i lavori nacque Lungomare Canepa, la quale però lasciò alla nostra il traffico treni; infatti furono impiantati dei binari ferroviari, collegati sia con i primi due sporgenti dal porto (ponte Etiopia ed Eritrea) e sia col porto al di là del colle, passando sotto san Benigno attraverso gallerie.
La parte a monte era fiancheggiata dai Docks Liguri (vedi sotto)
**Nel 1930-1 la strada subì nuovi (secondi) intensi lavori straordinari di sistemazione della sede stradale, con difesa della sede ferroviaria (già in atto dal 1926) tramite scogliera del lato mare, ed anche con l’impianto della rete estesa al ‘parco Forni’. Nel 1935 terminarono i lavori della camionale con l’erezione dell’elicoidale di accesso/uscita verso est/ovest.
Come scrivevo, le devastanti operazioni demolitive della zona della Coscia, hanno modificato tanto.
anni 1960 – foto Gazzettino SPdArenese
Negli anni 80-90, terzo sovvertimento: scomparso il colle, iniziò la ristrutturazione della zona; essa ha fatto aprire una nuova strada (non conosco l’anno preciso nel quale è stata aperta) che provenendo da via Milano, passa sotto un tunnel (corrispondente ad una nuova galleria sotto un ipotetico san Benigno) la cui uscita siamo a livello dell’antico confine Ge-SPdA, e slivellati in basso di una decina di metri rispetto la antica via DeMarini i cui residuati storici passano trasversalmente sopra lo sbocco.
Questa nuova strada ha bypasato la galleria Romairone a monte, tagliandola fuori dal rettilineo con via P.Chiesa e, praticamente, rendendo inutile la galleria il cui imbocco rimane dentro la cinta del porto. Ma i lavori sono proceduti con estrema lentezza.
Nel 2004 ritroviamo i 150m del tratto finale della strada in completo degrado, sottotitolato dal Secolo e parole del Presidente del CdC: “una scheggia di terzo mondo nel cuore della città”. Da grande direttrice, affiancata dalla bellissima spiaggia, è divenuto un largo budello, chiuso ad est per lavori non completati e così divenuta terra di nessuno. Passata a Tursi per asfaltatura (emergono ancora le rotaie dei treni) ed illuminazione, è in attesa della grande ristrutturazione locale che però, ritardando, l’ha resa deposito di carcasse di moto o auto, parcheggio selvaggio, discariche abusive (anche di materiale in calcestruzzo per la condotta fognaria), luogo di frequentazione del degrado illegale umano (prostituzione, tossicodipendenti ed avventurieri). Villa Gardino stessa, ristrutturata non moltissimi anni fa è nuovamente allo sfascio estetico, vetri rotti, isolata e circondata da aiuole incolte.
Sul SecoloXIX del febbraio 2005, si legge la notizia del progettato restyling della via: parte di 3milioni di euro (400mila per questa strada) saranno spesi per ridare il volto di strada togliendo le rotaie del treno, rifare la pavimentazione, riaprendola a levante e allargando i marciapiedi; sistemare i posti auto, ponendo alberi, cstini rifiuti ‘tipo sabaudo’ e panchine circolari. Nel 2009 il lavoro pare sia stato eseguito.
All’uscita del tunnel notiamo che le due corsie sono separate da una abbastanza grossa e lunga aiuola: la corsia proveniente da ovest, è in linea diretta con Lungomare. La corsia che invece va verso ovest, dal tunnel, dopo una lieva discesa di 2-3cento metri, più a monte di 30metri dell’altra, si incrocia via Balleydier, e passa sotto l’elicoidale della caminale.
STRUTTURA: attuale
Da Genova, percorrendo via Milano verso ponente, come già detto SPdA inizia teoricamente dall’uscita dal tunnel (corripondente alla ‘facciata’ di san Benigno); in quel punto, la strada è senza indicazioni non essendoci caseggiati: presupponiamo quindi che sia sempre via Milano; in quel pumto le due corsie della strada si biforcano: la corsia di destra, che va verso ponente, arriva sino al sottopasso della camionale (ove dovrebbe esserci la targa di fine strada, ed inizio – in continazione - di via Pietro Chiesa; invece c’è solo quest’ultima).
La corsia che proviene da ponente e va a Genova, è in diretta continuazione del Lungomare Canepa.
Quindi, da via Milano, solo la corsia del traffico verso ponente, interessa la via Pietro Chiesa, la quale inizia dopo l’incrocio con via Balleydier, il sottopasso dell’elicoidale e via De Marini (la quale ha un percorso nuovo, che non corrisponde a quello antico).
--Sempre da Genova verso ponente, la prima targa della nostra strada è posta nell’angolo ovest di via DeMarini, sul primo dei grattacieli (detti ‘complesso san Benigno’, costruzione di 13 piani, con civico d’ingresso in via De Marini, n° 61; e che nella facciata opposta limita via Scappini fino a via Scarsellini); seguita dalla base delle Torri Gemelle).
-ad essi segue la villa Pallavicini Gardino (civ.11). Prima del 2008 la villa Gardino era separata dall’antico tratto di strada titolato al Chiesa, da un muretto alto meno di un metro, aperto solo ai pedoni, che chiudeva al traffico verso via San Pier d’Arena. Questo tratto di strada al quale si accedeva solo da via SPdAren, rimase a lungo un grosso parcheggio a più strati, laterali tendenzialmente caotici ed irregolari. Con la messa a punto della zona, il muretto è scomparso; però una auto, per andare verso levante, quando arriva davanti alla villa deve optare una biforcazione passando – anche per soli pochi metri - per via Fiamme Gialle
-a questo punto la corsia si biforca: a mare, si innesta nel Lungomare assieme a quella che proviene dalla camionale; a monte, traversa diagonalmente via Fiamme Gialle e si inserisce nell’ultimo antico tratto della strada per sfociare in via SPdArena.
Nella foto: provenendo da ponente, l’antico tratto ha alla fine, davanti a sé, una aiuola pedonale: un veicolo deve entrare in via Fiamme Gialle; non potrà proseguire la nostra strada verso levante essendo senso unico inverso.
--È lunga 540m; larga da 17 a 28m; praticamente piatta (pendenza 1%), con doppio senso veicolare. A mare c’è il lungo fianco del grattacielo + caserma Testero della GdF (zona militare ‘sorvegliata con le armi’); poi il Club dei Carbonai (civ.14) e due case sino al civ.18. A monte, a destra, una lunga sequela di case vecchie che iniziano dal civ. 15 (quindi mancherebbe il civ.13). Sino a ieri il traffico avveniva in una così stretta carreggiata, racchiusa da più ampio posteggio auto genericamente selvaggio, fitto in modo tale che impedire perfino la manovra di inversione marcia.
È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera
CIVICI progrediscono da est verso ovest.
2007 = NERI = da 7 a 25 (mancano 1→5, 13 in via Palazzo dF?)
12 a 18 (mancano 2→10) id
ROSSI = da 17r a 99r (mancano 1→15, 37, 41→49) id
4r 52r (mancano 2, 14→34, 38→50) id
Il Pagano 1919 include, unici, i Bagni Italia, ancora presenti nel 1925 (di proprietà Bertorello Salvatore; tutti gli altri bagni sono localizzati in via C.Colombo); al civ, 1 il negoziante di legnami Leiss Paride tel 41225 (già presente nel 1919, ancora nel ‘25);
=== In questa area avevano l’ingresso i magazzini della soc.anonima di servizi portuali (con 3milioni di capitale nel 1901;poi per azioni) Docks Liguri (una delle due italiane similari esistenti in porto, a fronte di altre 8 a capitale straniero); i vasti edifici erano stati eretti nei primissimi anni del 1900, tra i primi in cemento armato, per soddisfare l’esigenza del traffico portuale di possedere dei depositi delle più disparate merci pervenute ed in attesa di essere smistate (soprattutto il vino, da essere primitivamente chiamati ‘docks vinicoli’; poi dagli spumanti, al cacao, a merci varie). Nel 1925, nell’edificio era ospitata la Cooperativa Facchini Merci Varie per carico e scarico dei docks.
La società possedette dentro -al limite esterno- l’area portuale un vasto deposito a Genova (a ponte Morosini, prevalente per il vino); ed un altro a Sampierdarena in riva al mare -quando qui da noi ancora il porto non esisteva, chiamato ‘magazzini generali’-, rappresentati da due edifici di 7 piani (più un sotterraneo).
Le merci entravano ed uscivano essendo raccordati con la ferrovia ed attrezzati con grosse gru elettriche (tre scorrevoli, poste sui terrazzi; più altre 5 poste a bandiera sulle facciate).
i docks, con le gru sul tetto
Finanziariamente seguirono l’andamento dell’attività portuale, con un calo vistoso del valore degli impianti solo nel periodo prebellico la prima guerra mondiale, ripresa dopo e totale decremento con l’avvento dei containers.
Questi ultimi sovvertirono la modalità dello stoccaggio delle merci al punto che le antiche costruzioni come erano state concepite divennero obsolete e quindi abbandonate per anni. Agli inizi degli anni ’90 l’edificio fu abbattuto per lasciar posto a parte del nuovo gruppo di costruzioni dei cosiddetti “comparti del complesso di san Benigno” direttamente collegati con la sopraelevata, la metropolitana, l’autostrada e le linee AMT: WTC, i Gemelli (incompleto fino al 2003 con la sola Torre Ovest) , torre Shipping, torre Francia. torre CAP, Novotel, Finanza, sino al Matitone.
Il Pagano/1920 al 21r (oggi la villa è all’11n) il negozio legnami con segheria dei f.lli Gardino, tel.41226 (l’anno prima, come successori a V.Borzone erano in via Galata; nel ‘25 saranno al civ.47. In quest’anno possiedono una sede con stabilimento ed un deposito anche a Torino; erano importatori diretti di legname pitch pine, abete, satin ecc; possedevano segheria con le macchine per la lavorazione. Penso sia della famiglia Gardino Paolo, genovese professionista commerciante in legname a livello mondiale, che si diletta a sfidare la natura –freddo, vento e gelo- nell’anno 1996 nell’artide e l’anno dopo nell’antardide); 75r segnala l’attività di Specker William che esisteva ancora nel 1925, tel. 41392 (iniziata nel campo dei cotoni e nei ‘cascami negli anni 1910, quando la via si chiamava via Galata e tel. 459;
Il 31 marzo 1921 il comune deliberò straordinariamente un aumento delle tasse ad alcune società aperte nella strada, e vengono citati : Gardino e figli, legnami;--- Paride Leiss legnami esteri;--- Pittaluga Pietro costruzioni navali;--- soc.an.Lavori del Porto, costruzione porto;--- soc. Doks Liguri, magazzini merci.
Per questi era chiamata ‘la strada dei docks’ .
Nel Pagano 1925 --al civ. 6 la soc.an. Coop.Ligure Calderai in ferro; (La soc. era nata il 25 magg. 1919 come coop. e con presidente Ferraris Anrea, segretario Macciò Natale, vice segretario Dotto Giuseppe, cassiere Sacco Antonio, consiglieri Ferrari Giovanni, Dagnino Francesco, Derchi Edoardo e, capo officina Canneva Pietro. Si proponevano “costruzioni navali-caldaie-capannoni in ferro-riparazioni di bordo-travature-ponti-serbatoi-stagnatra saldatura autogena-riparaz.-carpenteria in genere-ringhiere e cancellate”. Nel 1922 avevano 20 soci dei quali due tracciatori e 18 calderai.
Ancora attivi nel ’27; in quest’ultimo anno si emette il bilancio e si comunica alla Prefettura che con atto notarile del 24 giu.26 la coop è divenuta soc.an. Officine Liguri Costruzioni Metalliche);
---al 20 le “Industrie Marittime Sampierdarenesi” società di demolizione navi e bastimenti; 25r la trattoria Livrone Prospero (ancora nel 33); 47r i commercianti in legno-segheria f.lli Gardino.
Nessuna novità nel Pagano/1933
Nel Pagano/40 la strada va dalla piazza N.Barabino alla galleria Romairone. Nei nn. neri sono inclusio i Gardino all’11; e al 14 il circolo Carbonai OND e “l’ing Coronella Raffaele con la sua off. costruz. mecc. (sotto rampa Camionale)”. In quelli rossi officina, 2 bottiglierie, tabacchi, cappelleria, trattoria di Cecchi Renata al 19r e di Arcella M. al 25r, 4 osterie, cascami, bar, officina, trasporti espresso bagagli, autotrasdporti Bandieri al 77r, friggitoria, commestibili, carbonaio,
Nel Pagano 1950 invece le trattoria erano due: all’8r Baudino M., ed al 19r Cecchi R.. In quest’anno fu costruita nuova il civ. 12, caserma Testero della GdF, (divenuta poi, a richiesta del Comando del 1967, secondaria al civ.3 di lungomare G.Canepa). Vi compaiono due soli bar: 59r di Guerra G.; e 93r di Baraldi L.; e sei osterie (al 23r di Frattos Maggiorino; 25r di Dameri Ersilia; 31r di Pastorino Maria; 49r Berorello Maria; 69r di Calcagno L; 87r di Ferrettini Francesco); 2 trattorie : 8r Baudino M; 19r Cecchi R. .
Nel 1956 furono invece demoliti il 27 e 29.
Ancora nel 1961, ad indicare l’alta densità di lavoratori legati al porto, la strada ospitava nella sua parte terminale 5 osterie, 3 bar, 2 trattorie, 1 tripperia essendo punto di riferimento per camionisti ed operatori.
Risultano nuove costruzioni il 7 (1996). E soppressi per demolizione il 3, 5, 7, 13 (1995); l’1 (1996).
Dopo l’apertura della strada a mare (L.Canepa) il movimento veicolare si è spostato su quest’ultima, e la Nostra è divenuta prevalentemente un gran parcheggio e sede di molte attività artigianali specie nel campo meccanico.
Le case e l’apertura delle strade al lato mare, tutte sono in territorio di proprietà del CAP.
Il complesso di san Benigno (così chiamato dal nome dell’impresa; ma che nulla ha a che fare col colle), è rappresentato da vari “Comparti”. Inizia proprio a ponente dell’elicoidale che sale all’autostrada ed attualmente è ancora in fase di rifinitura definitiva.
luglio 1992 - le torri da erigere
Le due Torri gemelle (Il complesso, nato secondo dopo il WTC, fu progettato da Gino Valle, dato in appalto all’impresa mlanese Marcora e diretti dallo studio Muzi di Roma: due torri di 13 piani emergenti da una piastra comune di 5 per parcheggi e centri commerciali; finanziato e gestito dal gruppo SCI-Gardino srl che dichiarò fallimento negli anni 1998-9; doveva essere il più vasto del gruppo, occupando ben 15mila mq.. La Torre Ovest, nata per prima, nelle infrastrutture offre le soluzioni tecniche più avanzate come ascensori ad alta velocità, TV a circuito chiuso, ingresso con steward, telecamere di controllo, ampi parcheggi interni, moderni sistemi di ambientazione-comunicazione-soggiorno per uffici e loro attività, ampi magazzini, collegamento ditretto col network del WTC; furono previste anche 86 unità immobiliari residenziali. La Torre Levante fu iniziata negli anni 2002 per carenza di acquirenti; i lavori sono arrivati a tetto a metà 2004.
Altro grattacielo è quello chiamato ‘Torre CAP’. Costruita dalla Sci Ge su progetto dello studio ing. Gambacciani-Garibaldi e della Seicom. E’ proprietà del CAP per i suoi 22mila mq., 20 piani (di cui 5 per parcheggi pubblici e privati, e 15 per uffici). Assieme al WTC fa parte del Comparto 3.
Sottostante al grosso complesso, scorre il torrente, san Bartolomeo, proveniente dal Fossato, che già anticamente fu interrato, e poi ha dovuto essere riadattato, ed - è scritto - deviato non si sa come e dove.
=== tra il grattacielo ‘dei gemelli’e la villa Pallavicini, è stato molto opportunamente lasciato un vasto spiazzo di 4500 mq. che potrebbe essere utilizzato a ‘piazza’ se opportunamente salvaguardata ed attrezzata, capace di evidenziare in modo piacevole il contrasto tra il nuovo ed l’antico. Il Gazzettino gradiva intitolarla ‘piazza della Coscia’, in onore di una fetta di storia nostrana, distrutta, ma da non dimenticare. La localizzazione non è matematicamente sovrapponibile alla vera omonima piazza ottocentesca, trovandosi un po’ più a ponente di essa, ma senz’altro più corrispondente della ‘via’, che è invece decisamente decentrata . Sono stati messi a dimora una decina di lecci, piante significative di forza e tenacia: speriamo bene.
===civ. 11 : villa Pallavicino-Gardino
numerosa famiglia, quella dei Pallavicino, che si insediò nel tardo 500 nella zona del borgo, con un gruppo di ville familiari (ormai distrutte quella in vico Cibeo, quella in via Dottesio 3 e quella acquistata tardivamente di sal.s.Barborino; ne rimangono una in via Sampierdarena di fronte al Comune, la Gardino, e sulla costa di Belvedere), tutte caratterizzate dalla struttura architettonica del filone alessiano diffuso dagli allievi.
Nulla si conosce di questo edificio: non la data di costruzione (fine XVI secolo) né il nome del committente; la carta del Volckammer (1708) la riconosce genericamente di proprietà della famiglia di cui rimane, in cemento lo scudo con l’insegna sopra il portone.
Il Vinzoni (1757) precisa essere del magn.co Alessandro Pallavicini.
foto anno 2010 foto anno 2009
Non sappiamo se relativa a quella di vico Cibeo ma più presumibile questa, fu soggetta a danni relativi allo strariupamento del rio Prementone nel 1826: la marchesa MariaOrietta Pallavicino chiese i danni e prevenzione al Comune (allagamento orti, trasporto in essi di pietrame).
Di questa nobile e potente famiglia, assieme a tutte le ville contemporanee, era un insediamento estivo e villereccio al mare.
Abitata dal 1920 dai Gardino, fu da loro acquistata nel 1946; ma già in uso da molti anni. Nel 2002 essi la cedettero ad una società Immobiliare di Cuneo (probabilmente di loro stessi; e quindi sempre di loro l’intero edificio abbandonato, con vetri rotti, intonaco caduto a grossi tratti, finestre semiscardinate).
Di impianto cubico lineare e regolare, con caratteristico tetto a padiglione il cui aggetto perimetrale è sostenuto da eleganti mensoloni binati, è costituita da un piano terra con un ammezzato sopra; un piano nobile, anch’esso con un ammezzato sopra; ed un piano sottotetto. La facciata anteriore, posta verso il mare, da cui era lambita e forse anche minacciata di inondamento nei casi di mareggiata se non fosse stata eretta leggermente sopraelevata rispetto all’arenile, è senza terrazze né balconate; ha sette grandi finestre equidistanti sopra l’ingresso caratterizzato da uno stemma familiare Pallavicino molto
semplice: in alto una sbarra rettangolare con tre tratti trasversi verticali a distanza regolare,
simboleggiante una corona; sotto lo scudo contiene 5 rettangoli in rilievo e rigati orizzontalmente delimitanti una croce interna: essi sono posti alternati due-uno-due, dei quali i due più in basso sono arrotondati per seguire la curva dello scudo
Il motto della famiglia era «ogni bellezza ha fine», che per la villa non mi sembra di buon auspicio visto le condizioni in cui la lasciano. La facciata posteriore, alessianamente caratterizzata da una centrale grande triplice loggia balconata, con due finestre ai fianchi, affacciantesi sul terreno -allora esteso a monte sino alla strada principale (via Dondero)- coltivato con grande effetto scenografico a giardino all’italiana ed orto. L’apertura della ferrovia e relativa via Vittorio Emanuele (via Buranello), tagliarono questi terreni che vennero poi invasi da costruzioni industriali della società Fratelli Gardini-Legnami, sconvolgendo la loro naturale bellezza. Lo sbancamento del colle e, negli anni ‘90 la costruzione dei grattacieli, hanno rivoluzionato l’insieme che, seppur stravolto totalmente, ha generato un accostamento antico-moderno accettabile e che può apparire interessante; ed un minimo di spazio attorno che dona alla villa un più ampio respiro.
L’interno fu modificato dagli ultimi proprietari, specie il piano nobile adibito ad abitazioni, così come l’ammezzato superiore; al punto che ora è difficile leggere le antiche strutture. Aveva due ingressi, per offrire continuità a chi entrava tra l’interno e gli ampi spazi posteriori. Rimangono indenni lo scalone (in ardesia come da antica consuetudine genovese, a tre rampe disposte a C e sboccante al piano nobile presso la loggia, da tempo non più utilizzata e tamponata), ed in parte le cucine poste nel sottotetto, interamente decorate con dipinti che sottintendono cosa poteva esserci di decorativo nelle sale del piano nobile, prima delle ‘ristrutturazioni’ che la villa ha subito.
All’atto della costruzione del centro direzionale di san Benigno, i Gardino all’incirca negli anni ‘90 hanno ceduto alla SCI i terreni, spostando la direzione delle numerose filiali sparse nel nord Italia ed il materiale di legname in un supermagazzino di distribuzione posto a Rivalta, e lasciando nella villa la loro nuova società, divenuta Gardino Immobiliari .
Nelle antiche carte si rileva la presenza di una torre, scomparsa nel tempo.
Qualcuno ha pensato fosse quella del Labirinto, ma non è così: nelle antiche carte la torre è posta subito accanto -a levante della villa-, mentre il labirinto è un pò più lontano, distaccato ed a ponente, in un tessuto edilizio che seppur antico, nelle carte non viene rappresentato.
La villa nel 1963 fu inserita negli edifici protetti e vincolati dalla Soprintendenza per i beni Architettonici della Liguria. Questo atto presumibilmente diede il via nel 1996 ad un restauro –almeno nella sua componente esterna-. Nel 2007 è in completo e squallido abbandono: persiane spalancate, finestre con vetri rotti, tende sventolanti fuori e rotte strappate dalle intemperie, calcinacci caduti. L’averla isolata ed evidenziata, queste tristi condizioni la rendono ancor più triste.
Sino al 2006, la via Pietro Chiesa, a ponente della villa e prima dell’ultimo tratto racchiuso da più vecchie case, era stato sbarrato da un muretto alto un metro, tale da impedire il transito veicolare se non all’unico imbocco di via san Pier d’Arena. Nel 2007 il muretto non c’è più ma i lavori in strada non sono ancora finiti anche se nell’ultimo tratto sono già stati rifatti i marciapiedi.
===civ 2 Negli anni 50 l’area era occupata dai magazzini della casa di spedizioni di Grendi MarcoAntonio e figlio. Il telefono aveva ancora poche cifre: 43-737. Nell’anno 1950 fu costruita nuova -assumendo il civ. 12 di via P.Chiesa-, la prima parte della caserma T.Testero della Guardia di Finanza (divenuta poi, a richiesta del Comando del 1967, secondaria al civ.3 di lungomare G.Canepa). Allora vi avevano sede il Comando Gruppo Porto ed il comando della 4.a Compagnia Porto. Ancora nel 2007 essa esiste e funziona sempre, ma si apre a mare assieme al grattacielo.
===civ. 17 (compreso tra il 55r e 57r) Un comune grosso portone, normalmente chiuso, da accesso alla retrostante “zona del Labirinto”, invisibile perché inclusa tra via P.Chiesa e piazza N.Barabino ed i cui palazzi fanno da scudo all’occhio curioso dell’amante della propria città.
a destra in alto la zona del Labirinto – foto Canepa
Accessibile attraverso un archivolto, è la fortuita sopravvivenza e testimonianza -ora apparentemente abbandonata a se stessa- di un non lontanissimo passato, invisibile dall’esterno dell’isolato in cui rimane racchiusa, irrazionale esempio di utilizzazione del territorio urbano.
ingresso al Labirinto a sin. il corpo della torre in trasversale verso est
due vecchie insegne: a sin
“officina...”; a dx “GO...”
Al centro (raggiungibile da via P.Chiesa) si trova la duecentesca omonima torre del Labirinto, alta una ventina di metri, fino al primo 1800 punto di avvistamento verso il mare (da cui si aspettava con ansia il ritorno previsto dei vascelli o potevano provenire attacchi di nemici), e di segnalazione del pericolo tramite grossa campana. Appare in estremo grado di deterioramento (in condizioni igienico-estetiche non valutabili essendo chiusa). Si dice che abbia ospitato anche un ‘centro orante’ dei frati benedettini di Cornigliano (la cui abbazia era sugli scogli, dove poi è sorto castello Raggio). Attualmente pare in consegna a privati che la usano come magazzino. La Soprintendenza per i beni architettonici la vincola e tutela dal 1934. (vedi al fascicolo Torri). Alla sua base si possono vedere gli anelli, a cui legavano le imbarcazioni alla rada. Il Gazzettino e Fravega dicono che era la ‘Torre del Popolo’ (ma la confondono con quella del Comune, posta un poco più a ponente).
la torre da piazza NBarabino atrio iniziale da via Chiesa scala esterna di accesso
la torre è a sinistra
scalinata di ingresso interno della torre; primo piano
--l’officina a ponente, non facente parte della torre
scala per salire al 2 piano stanza del secondo piano con tracce di affreschi
tracce di affreschi vano del terzo piano feritoia
scala per apice spazio apicale, con solo muretto e volta catramata
Tutto l’intorno appare degradato e svilito, con stradine inglobate tra stretti anditi, in un tessuto composto da cantine o depositi, non aperti al pubblico) caratterizzato da inimmaginabili vicoli strettissimi (un metro o poco più) limitati dal retro di case molto alte (di sei e più piani, il cui portone si apre sulle strade adiacenti) che hanno reso l’area inutilizzabile a qualsiasi attività attuale escluso i suoi proprietari, simbolo di un utilitarismo imprevidente, miope ed incapace di fondere le nuove crescenti necessità con le fonti storiche esistenti, promotore del nuovo senza porre valorizzazione dell’antico (ma di questo irrazionalismo, tanti sono gli esempi perpetrati anche ai giorni d’oggi: vecchie crose asfaltate o altre chiuse ed abbandonate a se stesse, valori enormi abbandonati all’incuria, al menefreghismo ed all’ignoranza di chi gestisce le cose pubbliche: tutta gente che è nata ed abita altrove e non prova sentimento alcuno per queste piccole cose importanti per noi): questo l’ha preservata dal piccone demolitore, sia perché di proprietà dell’Ospedale civile locale, e -dal 1934- perché è ‘area tutelata’ dalla Sovrintendenza; oggi di ARTE.
Da una foto di fine 1800, si rileva la presenza di una seconda torre vicina, ma di cui non resta traccia; forse quella di villa Gardino.
===civ. 49r . Ancora nel 1973 era aperta l’ antica osteria-trattoria popolarmente detta “del Lucco” anche se ufficialmente intestata alle donne di casa. L’attività fu iniziata centocinquant’anni prima da Angelo Bertorello detto Gianello (da giovane ‘assistente al tiraggio e cadren’ (cioè portava da mangiare fatto dalla moglie e cognate ai marinai che lavoravano al largo e non potevano sbarcare), era maturato a proprietario.
Nel suo locale avvenivano le primissime ‘chiamate’ per i coffanti ed i minolli. Una pedana posta all’ingresso, e gli attrezzi in cantina testimoniavano il sistema più ovvio allora per far chiamare i portuali e le loro carrette con le coffe (grosse ceste che, lavorate a Livellato sulla salita verso la Guardia, venivano usate per trasportare uno o due centinaia di chili di carbone.
L’arredamento era dei più tradizionali dei locali per operai: cucina semplice ed ovviamente squisita. In quello ereditato dal figlio Luca (chiamato popolarmente Luco per ’ maschilizzare’ il nome terminante con la a; e da lì a Lucco il passo fu breve anche perché era analfabeta; la moglie titolare Adele) –seppur assai modesto - trovarono mensa illustri personaggi come il D’Annunzio, con Lorenzo Stecchetti, Salvatore Gotta, Sem Benelli, Ercole Rivolta. Nel Pagano/50 appare di Bertorello Maria; l’ultima proprietaria era Ilde Brianta.
===civ.67r l’ingresso è sormontato da una putrella di ferro che regge un montacarichi, per quello che doveva essere il lavoro svolto nell’officina
===civ. 14: la palazzina del club dei Carbonai apre l’ingresso al ritrovo di questi lavoratori dal 1912; essendo stata progettata nel dic.1911 dall’ing. Ettore Geri, e costruita specificatamente per loro, divenne uno dei ritrovi popolari più frequentato della delegazione.
L’associazione già dal 1904 si chiamava ufficialmente “società operaia mutuo soccorso Fratellanza e Progresso tra carbonai “.
Agli inizi del 1900, i lavoratori del carbone -che tra l’altro sborsarono direttamente i soldi per fondare il giornale “ Il Lavoro”, furono sempre tra i primi a partecipare attivamente sia per l’ospedale, sia per tutte le manifestazioni impostate dalla città ad uso beneficenza- erano il gruppo (oltre 3mila) più numeroso ed importante, più organizzato e combattivo dei portuali genovesi.
Il club Fratellanza e Progresso per i Carbonai, non si è mai limitato all’assistenza corporativa, ma già dagli albori associativi fu attore di aiuto ai bisognosi della città: viene ricordato quando attivamente partecipò alla raccolta di materiali utili a combattere una grave carestia in Russia: dai portuali tutti, furono riempiti addirittura due piroscafi (l’‘Amilcare Cipriani’ ed il ‘Goffredo Mameli’, della Cooperativa Marittima Garibaldi gestita dal cap. Giuseppe Giulietti) che, con a capo-spedizione il sindaco sampierdarenese Peone Gandolfo, portarono tutto questo materiale a destinazione.
Il carbone era allora merce indispensabile per l’industria, prioritario su tutto perché unica fonte di energia: rappresentava il 70% del volume del traffico portuale.
Gli operatori del ramo, erano divisi in “caricatori”(che operavano per rifornire la nave), “scaricatori” (lavoravano dentro la nave), “facchini “(o cuffianti, che portavano le ceste o cuffe, da oltre cento chili cadauna), “ricevitori e pesatori” (che controllavano il carico sui treni o a terra), “chiattaioli”(manovravano le chiatte alla banda delle navi). Consapevoli del ruolo chiave, furono promotori di scioperi ed agitazioni varie (specie contro i “commercianti” , ovvero agenti marittimi, spedizionieri, negozianti, al fine di ottenere riduzioni di orari massacranti e miglioramento di salari adeguati, turni, assistenza); ma anche di attività cooperativistica, ricreativa ed assistenziale: così nacque col loro personale contributo la sede nella palazzina decorata in stile definito “liberty-operaio” (tra liberty , classicismo ed eclettismo) che si stacca in maniera voluta, quale affermazione della propria immagine, dal contesto edilizio circostante; la facciata è divisa in tre parti da lesene o pilastri verticali, che centralizzano l’ingresso sopraelevato e con cartiglio e la scritta ***.
Nel 1933, sotto la legislazione fascista, la palazzina fungeva solo come sede del circolo ricreativo e quindi solo “club Fratellanza e Progresso tra carbonai“. In questi anni 1930-35 ospitava una squadra di canto popolare chiamata “Faro Sampierdarena” diretta da Giuseppe Barbareschi (la componevano un baritono (Gino), un 2° baritono (Pruzzo), tenore (Gamba Disa), basso (il ‘tranviere’); si alternavano Niguin, Tullio, Pedrin, Nino, Raimondo, Amedeo Morando; quasi tutti della Coscia. Frequenti peregrinazioni per tutta la Liguria.
A dimostrazione della non perdita della tradizionale cantata, sappiamo che nella metà di ottobre 1954, Alan Lomax, in compagnia di Diego Carpitella, primi ad occuparsi scientificamente del trallallero genovese, cercando di stabilire dei legami tra questo canto e altre tradizioni, nel club organizzarono la registrazione di trallalleri, trovando straordinarie analogie con quello conviviale georgiano (in seguito confermate). Nel salone del circolo, nel 90° anniversario (1994) il pittore sampierdarenese Giovanni Clerici ha dipinto un vasto affresco riproducente momenti della vita degli scaricatori di carbone .
Anche ora, l’ampio salone viene utilizzato per riunioni, dibattiti e conferenze, o in occasione delle feste, balli e giochi. Le attività sviluppano gare sportive di biliardo, o ai tavolini per gioco delle carte, un antico gioco ‘della Carolina’.
A lato mare è curato un giardino con due campi per le bocce.
In Argentina ancor oggi sopravvive una identica associazione di mutuo soccorso, nata da emigrati genovesi.
Nel 2004 è presidente Sergio Cepollina.
===civ. r
antica struttura
===sul lato a monte si apre – ma dopo le ristrutturazioni del 2009-10 chiusa al traffico veicolare - “via della Coscia” (vedi).
===civ. 16n è la penultima casa della strada; assomiglia ad austera casa-familiare, costruite a fine 1800
===civ. 18n è l’ultimo edifici lato mare. Ospita la vecchia trattoria ‘da Maria’, che era una Gormani; ed ora è gestita dal figlio.
===civ.79r: poco distante dal portone civ. 25 e dall’incrociare la via della Coscia, in una nicchia è custodita una statua marmorea della Madonna con il Bambino in braccio, riproducente l’effige che sul molo fu battezzata ‘la Regina della Città’.
DEDICATA ad un ‘figlio adottivo’, che tanto operò come pioniere nel campo politico e sindacale, negli anni nascenti delle organizzazioni,da godere la massima stima sia dai sostenitori che dagli avversari.
Come spesso succedeva a quei tempi, a Casale Monferrato (AL) ove era nato nel 1858 (qualcuno, scrive 1854; Ragazzi, che nacque ad Asti), in età tenerissima rimase orfano di ambedue i genitori (la madre era morta nel partorirlo), poveri; fu allevato dalla nonna e lontani parenti.
A nove anni, 1867, uscì da casa per più tornarci: possiamo solo immaginare la vita drammatica e randagia, fatta di sotterfugi ed espedienti per sopravvivere; era così uno dei tanti giovani, che pochi anni dopo don Bosco avrebbe cercato di sottrarre alla strada ed alla delinquenza.
Lui ricordò poi, in una lettera, che «a Varallo, Domodossola, Novara, Borgomanero, tredicenne (1871) io mi trovavo a verniciare le vetture, e guadagnavo così il pane per la vita. Ricordi di una fanciullezza birichina e spensierata ma onestamente laboriosa e laboriosamente onesta». A Novara aveva lavorato pure nelle risaie ed in varie officine, ultima quella dei tramways. Fu forse questo lavoro che lo spinse nella nostra città, ove trovò occupazione proprio come verniciatore nelle officine tranviarie.
Arrivò giovanissimo a San Pier d’Arena, trovando lavoro stabile. Riuscì così - e probabilmente da solo - a non farsi travolgere dall’abbruttimento sociale a quei tempi comune e normale per i poveri, i malati, i feriti; tutti miseramente abbandonati a se stessi.
Iniziò a frequentare le nascenti società assistenziali, qui iscrivendosi alla S.O. Universale nella quale usufruì degli insegnamenti politici di Giuseppe Torre, dei corsi serali, della biblioteca (alla ricerca di una cultura autodidattica perché forse aveva frequentato appena le elementari, non essendo obbligatorie neppure quelle) e della filodrammatica. Parimenti occupò il suo tempo libero dedicandosi alla passione per il teatro, sia come attore e poi anche autore di commedie.
Maturò così la sua formazione politica (in un periodo in cui, finite le guerre risorgimentali, venivano al pettine i nodi della fede mazziniana e repubblicana messe in un cassetto in attesa dell’Unità, ed ora contrapposta e schiacciata dalla realtà monarchica; e della società operaia in rapidissima evoluzione ed estremizzata da duri conflitti sociali) fino a divenire in breve un ‘leader’ operaio. I primi suoi scritti, teorizzanti il socialismo di classe, apparvero su un settimanale genovese intitolato “L’89”.
Nel 1890 al congresso di Forlì abbandonò il partito repubblicano giudicandolo causa del rallentamento politico: scriveva «ma perché tra tante voci di lotta e di speranza, neppure un balbettio viene a voi da questa forte e operosa Liguria? Il perché –pur troppo- ha le sue radici profonde in tutto un intrico di fatti, fra i quali primeggia un trentennio di storia della democrazia mazziniana locale, che irrigiditasi nelle sue formule, inceppò ogni azione e ogni sviluppo al partito dei lavoratori e produsse, senza volerlo, l’apatia e l’incoscienza della classe sfruttata».
Da un lato i problemi sociali vissuti sulla propria pelle, ed un sindacalismo sempre più necessario per aggiustare gli equilibri ancora eccessivamente spostati a danno dell’operaio e dei poveri in genere (in eredità di una mentalità aristocratica già ormai assurda ma ancora sorretta sia dai pochi ed impoveriti signori, che dalle loro servitù che in essi trovavano garanzia di lavoro e sussistenza. Le categorie di lavoratori in agitazione (gasisti nel 1901 e 1903, spazzini, lavoratori del porto sino ai demolitori di navi, muratori, carrettieri, conciatori, zuccherieri, metallurgici, ferrovieri, vermicellieriu, dovettero gradatamente accorgersi che l’azione del singolo era inconcludente e poco muoveva a vantaggio, mentre maggiore consenso derivava dall’aggregazione e dopo essa, dalla rappresentanza della categoria; poco a poco nasceva il sindacalismo); da altro lato un carattere mite ma forte, nobile ed avveduto, assieme lo indirizzarono a formarsi dapprima una buona cultura. Grazie ad essi, iniziò così poi a frequentare compagnie più illuminate, convinte dell’idea di una necessaria presenza degli operai in politica (primo tra tutti il maestro Giuseppe Torre). Era un momento di enormi fermenti, di necessità di coesione per essere più incisivi nelle rivendicazioni che -diveniva chiaro- non arrivavano spontaneamente dall’alto ma si potevano conquistare solo a prezzo di sacrifici ed incomprensioni nascevano i primi scioperi generali e le lotte sindacali con manifestazioni di massa; la nostra città era teatro di comizi e -come riferisce il Secolo XIX del mag.1891- di cortei di “ribelli” (dopo una riunione al Politeama gli operai arrivarono in massa sino alle gallerie di san Benigno; qui “furono dispersi dalle guardie poste all’imbocco che furono costrette a sparare in aria -tra fischi, urla, sassi e finimondo-“. Queste prime ribellioni portarono nel 1892 a chiarire una doverosa scissione tra socialisti ed anarchici, inizialmente associati (sono di quegli anni la titolazione di alcune vie e piazze ad anarchici, come Ferrer (vedi); quest’ultimi accusati di volere tra le riforme l’ abolizione dello Stato, della religione e di molte regole, quali erano in atto. Fu presente -come uno dei presidenti- il 14 ago.1892 ad una riunione a carattere nazionale, con cui si formò l’elemento precursore e vessillifero del socialismo mondiale. Infatti, svoltosi il congresso nella sala Sivori in salita santa Caterina, con lo scopo di iniziare ad organizzare le attività, fu approvato uno statuto e nominato un comitato centrale, che avrebbe partecipato ai congressi internazionali; alla presenza di Turati, dell’on.Prampolini e di operai, tra cui Chiesa, si concluse -dopo acceso dibattito- con la fondazione del primo Partito Socialista italiano (al convegno erano presenti oltre alle numerose associazioni regionali, anche quelle sampierdarenesi chiamate: Fascio socialista, Forza e Idea, Circolo operaio Pisacane, Lega Lavoro ed Emancipazione). La sua posizione critica nei confronti del comitato organizzatore del congresso, e la successiva sua smentita di una ‘aperta dissociazione’ da essi, gli valse da parte degli anarchici sampierdarenesi la polemica sfottente di essere un ‘girella’ o un ‘Loila’ .
Queste società portarono il 13 maggio 1894 al primo convegno regionale socialista svolto a SanPier d’Arena; ed il 24 marzo 1895 alla fondazione della Camera del Lavoro di San Pier d’Arena.
Primo socialista, fu eletto nel Consiglio comunale di San Per d’Arena.
Pubblica il testo teatrale “La Vispa Teresa” Con questo testo, volle comunicare il senso del socialismo e la necessità dell’educazione del proletariato: umana fratellanza –anche tra operai e datori di lavoro- mirata al progresso sociale di tutti, anche tramite la liberazione di antichi pregiudizi.
1896 a 38 anni, aderì definitivamente alla politica socialista dirigendo la Camera del Lavoro locale. Sensibile ed attento riformista ed illuminato dal buon senso, privo di fanatismi o impulsi rivoluzionari, capace di capire i limiti tra la teoria e l’azione, divenne uno dei più attivi ed ascoltati organizzatori, rimanendo altresì coinvolto nei procedimenti antioperaio dello stesso anno (persecuzione poliziesca ordinata dal ministro F.Crispi contro i “rivoluzionari”: arresti e scioglimento forzato delle “camere del lavoro” e dei circoli socialisti per ordine prefettizio motivato da “attentato all’ordine pubblico”. Questi estremismi, in realtà erano dovuti prevalentemente alla corrente estremista ‘rivoluzionaria’ del partito socialista, e non auspicato dalla corrente ‘progressista’ del Chiesa che anzi precisò: non ricorreremo alla violenza, se non saremo attaccati dalla violenza borghese).
discorso al Club dei carbonai comizio in villa Scassi
A questo punto fu sollecitato (Ragazzi scrive nel 1895) a candidarsi alle elezioni politiche del 1897: si trovò a gareggiare a 43 anni contro Raffaele Bombrini (uno dei fratelli a capo dell’Ansaldo, che era già stato deputato di San Pier d’Arena per due legislature, e che ancora vinse il confronto). A Roma però – nel dopo Adua e dopo Crispi - con la conquista del governo da parte di DiRudinì, e Zanardelli guardasigilli, iniziò una politica tendenzialmente anticlericale ed antisocialista. Questi, seppur diversi e genericamente contrastanti furono accomunati nell’accusa di deteriorare, ed essere quindi nemici dello Stato. A Milano BavaBeccaris disperse a cannonate la folla che reclamava il ‘pane’. Pressoché tutte le Società operaie e molti giornali vennero chiusi. Personalmente, sottoposto a vessazioni continue e denunciato nello stesso anno per attività sediziosa ed incitamento all’odio di classe, fu condannato a tre mesi di carcere, e licenziato dal lavoro: fu obbligato a fuggire in Francia per non incorrere nel provvedimento.
Tornato nel 1899 fu reintegrato nel lavoro di verniciatore di carrozze tranviarie. Aiutato dall’attività teatrale, divenne un bravo oratore, capace di esprimersi con semplicità e con persuasiva eloquenza, con parole e frasi che in poco esprimevano profondi concetti ed idee molto chiare.
Nel 1900 fu rieletto consigliere comunale.
Ma, in più, in quest’anno fu proposto per le elezioni generali politiche nel collegio di San Pier d’Arena: dopo memorabile battaglia politica, ottenne l’elezione a deputato al parlamento, vincendo con una lista che federava socialisti, radicali e repubblicani, contro i conservatori (plutocrati, industriali, tradizionalisti) rappresentati dal direttore dell’ Ansaldo ing.A.Omati (persona di forte personalità, universalmente considerato una potenza in vampo nazionale imprenditoriale e quindi conosciuto ed ammirato da tutta la ‘città bene’) divenendo così il primo deputato operaio d’Italia, eletto nelle liste del partito socialista ligure (gli iscritti al partito non raggiungevano il migliaio: quindi la vittoria proveniva da un vero consenso popolare. Nel governo in cui Ministro degli Interni fu Giolitti Giovanni, assieme al Nostro furono eletti Antonio Pellegrini per il II dei tre Collegi di Genova ed Imperiale di s.Angelo Cesare per il I; erano senatori liguri il conte Albini Augusto, il comm. Giovanni Bombrini ed il prof. Boccardo Gerolamo).Si racconta che a Montecitorio fu respinto da un usciere che non voleva credere alla sua carica, vedendolo varcare la soglia vestito con abiti cosi dimessi; ma forse è leggenda, non come quando -nell’approssimarsi all’aula-, l’amico Turati lo salutò con enfasi esclamando forte all’enclave: ‘in piedi ! entra il lavoro’. Invece, quando poi rientrava in città, si presentava regolarmente al lavoro in officina, come nulla fosse.
Sempre nell’anno fine secolo (19 dic.1900) quando il prefetto march. Garroni sciolse nuovamente la Camera del Lavoro dichiarandola sovversiva, trovò in piazza per uno sciopero generale (dal 20 al 23 dic.) il Chiesa (con A.Pellegrini) che, fedele all’impegno, guidò gli operai compatti e risoluti alla giusta e pacifica soluzione. Su ordine del Ministro Saracco il prefetto revocò il decreto di scioglimento ma si innescò una serie di dibattiti parlamentari che culminarono nel febbraio successivo con la caduta del governo : ne approfittarono Zanardelli e Giolitti per iniziare la famosa “età giolittiana”. Partecipò attivamente alla ricostituzione del movimento (il che avvenne con grande solennità, accrescendo la fama di organizzatore e paciere. Praticamente tutte le categorie di lavoratori, alla ricerca di rivalutazione (degli orari di lavoro, dei salari, dell’assistenza, delle cooperative, di qualsiasi minuzia necessaria per migliorare la qualità della vita e che doveva essere conquistata con sudore e lotta) facevano capo a lui: muratori, ansaldini, ferrovieri. Lui pronto a spingere le iniziative ed agitazioni, ma altrettanto pronto ad arginarle, frenarle, guidarle nella giusta direzione.
Nel lug.1901 ebbe un imponente riconoscimento popolare quando in luglio si sparse la falsa notizia di un attentato alla sua vita mentre viaggiava sulla Savona-Cuneo: si riversò alla stazione una ‘enorme’ folla, confusa ed agitata per una ridda di allarmanti informazioni le più strampalate; composta prevalentemente dagli operai assentatisi dal lavoro, da soci delle varie associazioni con bandiere, da rappresentanti delle Camere del Lavoro, dalle socie della Lega femminile. In un tripudio fu accompagnato sino a casa, in via UmbertoI (via W.Fillak) dove, affacciandosi alla finestra, calmò gli animi e disperse l’assembramento. Era divenuto il simbolo locale di vittoria, gloria e lotta degli operai: ed effettivamente erano prevalentemente i socialisti che in campo nazionale difendevano le categorie più deboli ed inascoltate.
In Parlamento, tenne il suo primo discorso alla Camera proprio sullo sciopero genovese. Ma si interessò pure di scuole (contro le scuole rette da religiosi o comunque che non riconoscono l’apertura ai giovani poveri) e di bilanci.
Si legge sul quotidiano ‘Il Cittadino’ del 18.XI.1902 un trafiletto firmato ‘Turritanus’ che inizia con “via, finiamola!” indirizzato alla “abilità parolaia” del deputato socialista; riferisce averlo sentito in una sala della Società Universale parlare delle ostetriche, poi nella locale Camera del Lavoro parlare del policlinico, e poi di nuovo nell’Universale parlare della farmacia cooperativa; ironicamente conclude che “se andiamo di questo passo vedremo Pietro Chiesa inaugurare fra breve l’anno accademico del nostro ateneo, con a latere il nostro egregio sindaco il quale per l’eccessiva bontà, prendendo tutto per merce buona, appoggia tutte le elucubrazioni visionarie dell’enciclopedico deputato. Ma è tempo di finirla, perché in carnevale non siamo ancora”.
Nel 1903 contribuì alla creazione dell’Unione regionale delle Leghe, delle Cooperative e delle Mutue; nonché del quotidiano socialista Il Lavoro divenendone poi presidente del consiglio di amministrazione.
Nel 1904 avendo dovuto (per discordie interne, malgrado le forze cattoliche disdegnassero la candidatura al voto, consigliando il ‘non expedit’ ovvero “non importa, non compiere”) cercare il mandato in Emilia, alle votazioni fu rieletto come deputato di Budrio (incarico abbandonato dopo due anni perché la sezione del partito emiliano aderì alla linea antiriformista del partito). Le discordie locali, a loro volta furono in parte legate alla sua precedente partecipazione ad un congresso a favore di Turati candidato dei socialisti autonomi, e contro il Labriola sostenuto dal partito; ed in parte anche in conseguenza dei numerosi scioperi promossi, giusti e riusciti in genere, ma che diedero luogo a disgustosi incidenti che spostarono i voti a vantaggio dell’altro concittadino GB Botteri (uomo posato, saggio, onesto ma digiuno di politica) ed a scapito del Chiesa.
Non è scritto quando iniziò a frequentare con maggiore assiduità il teatro Ristori (costruito nel 1833 fu demolito nel 1904); sulle sue scene, soddisfacendo la sua naturale passione per il teatro, aveva imparato a divenire oratore disinvolto, semplice e simpatico alla gente. Nel 1902 fa stampare a San Pier d’Arena la seconda edizione de La ‘Vispa Teresa’, con copertina e disegni di C.Orgiero (Ragazzi scrive senza la i) e con prefazione di A.Costa. Era, e sarà ancora per anni una delle rappresentazioni più attuate in Italia, sottolineata dalla popolarità e dalla propaganda del partito.
Nel 1905 promosse l’apertura di due nuovi teatri: il Gaetano Donizetti (vedi in via Dattilo) e quello, d’ Arte Moderna o socialista in via s.Antonio (non precisato dove), primi nel genovesato (mentre ne erano già nati simili a Palermo –1893- ed a Milano –1984-,Trieste e Torino). Scrive allo scopo – tra il 1905 e 1915 - dei testi teatrali: il dramma anticlericale “Per gli altri”, “Estremi che si toccano” ed “I Passionisti”.
Ma nel 1909 (ed anche nell’ott.1913 con 8967 voti, contro i 6842 di Broccardi e 1494 di Prampolini) avendo rioptato per il collegio di San Pier d’Arena (rinunciando a quello di Genova, vinto pure lui, dal partito) fu rieletto alla carica di deputato, con stragrande maggioranza. Le cronache parlamentari testimoniano i suoi continui interventi a favore degli operai e della loro assistenza (del porto, del mare e dell’industria); la cultura pari a quella di un laureato non gli bastava mai ma era sufficiente per affrontare temi basati sul buon senso e sulla vita pratica di tutti i giorni (lavoro femminile e minorile, marina mercantile, asili, istruzione, sanità).
Ormai ricoperto di cariche (consigliere comunale di San Pier d’Arena; assessore alla pubblica istruzione (nel periodo 1911-13); consigliere provinciale a Genova; presidente della ‘Alleanza Cooperativa Avanti’; rappresentante nel CAP del comitato esecutivo dei lavoratori; vice presidente dell’Assemblea e del Comitato permanente del consiglio superiore del lavoro; onorevole, deputato al Parlamento), svolse tutti questi incarichi con modestia e trasparenza. Se nelle complicate lotte interne di partito, il vero leader locale fu il direttore de ‘il Lavoro’ Giuseppe Canepa, vedi, più preparato e colto, più capace di una visuale panoramica, più abile riformista, sulla stampa lo leggiamo costantemente preente a costutire ed inaugurare nuovi circoli operai, leghe, cooperative, s.MS, casse mutue, biblioteche, università popolari e teatro (nel 1905, si dibatté un tema internazionale fattosi acuto a Genova con la proposta di un imorenditore di un “teatro popolare” inteso come prezzi contenuti per molti posti a sedere, a cui si contrappose in polemica il Chiesa con l’idea di un “teatro del popolo” ispirato all’educazione della massa operaia al di là delle ideologie politiche: due idee con profonde divergenze sui contenuti, sui rapporti culturali tra classi sociali, sulle finalità).
Nel 1911 viene rappresentata in teatro ‘Arte Moderna’ la commedia “Estremi che si toccano” (un medico socialista viene boicottato dagli eminenti del paese, ma per malattia sopraggiunta debbono ricorrere alla sua opera, stringendosi poi la mano)
Chiesa era, in parallelo ideologico col Canepa, ma sempre attaccatissimo all’operaio più che al partito, all’uomo più che al sistema. E tale rimase, sino alla morte: quando nel 1912 l’intera sezione dirigente del partito uscì dal partito stesso per solidarietà con Bissolati, lui rimase, non accettando che l’ideologia di partito lo allontanasse dal movimento operaio; e lo stesso durante la guerra: l’impegno antimilitarista –suo e del partito- lo vide attivo sino all’entrata in guerra; iniziato il conflitto, 1915, mentre il partito convinto neutrale annunciava una ennesima grande battaglia contro l’interventismo, Chiesa si votò per proporre festa di beneficenza pro famiglie dei richiamati (il 29 luglio, sul poalcoscenico del politeama, vennero chiamati la banda Risorgimdento Musicale, i membri della soc. Corale Orfeica, gli attori della filodrammatica, cantanti lirici, bambini attori), per coordinare una popolare assistenza ai soldati, per esprimere il suo appoggio sino a recarsi al fronte per incoraggiarli. Tanto che il partito pensò necessario –e qualcuno tramò- arrivare ad espellerlo.
Decise il destino: alle 20,15 del 14 dic.1915, morì nella villa Piccardo in via E.DeAmicis, dove abitava.
Fu sepolto nel cimitero della Castagna (vedi Gazz..Sampierdarenese foto funerale 1/77 pag.5).
Nel 1922 fu bandito un concorso tra gli scultori locali, per il monumento dove riposa.
il funerale in piazza V.Veneto
Non fu certo la figura del politico, quella che lo fece amare dalla popolazione e rispettare dall’avversario, meritando l’omaggio riverente anche dei più accaniti oppositori; quanto la sua pacatezza mista a tenacia e capacità di volere. Riformista ma pacato, preciso, deciso; agitatore rivoluzionario ma nel rispetto delle regole; autodidatta fino a colto, da divenire deputato al parlamento italiano; figura di primo piano che rimase umile, illuminato, fedele alle sue convinzioni. Nei momenti drammatici di lotta, come sempre la rabbia e l’ira possono causare enormi danni all’idea della causa da difendere; invece suo tramite, l’ordinata espressione del sentimento divenne la base di preziose conquiste e memorabili trionfi della classe dei lavoratori.
Convintissimo che la massa operaia non doveva solo proporsi nell’ambito del lavoro, ma anche nella cultura, favorì l’apertura di scuole stimolando l’educazione dei giovani; elevò il concetto dei diritti umani paralleli a qualli dei doveri sociali (il lavoro femminile e dei giovani).
Senza particolari pretese letterarie, quasi più per sé che per un pubblico, con lo scopo di ricreare, persuadere, spiegare seppur sotto ed oltre l’evidenza politica, nacquero i suoi lavori, esiste l’artista e poeta: non solo la collaborazione a vari giornali e rivisite (come con “Era Nuova”, organo dei socialisti genovesi);
ma anche alcuni scritti teatrali e poetici. Più importante è la ‘Vispa Teresa’; fu rappresentata nel 1902 al Politeama Sampierdarenese (locale considerato “per la borghesia”) e nello stesso anno all’ Arena estiva a DiNegro (allestita dalla Compagnia drammatica Landini); la stessa opera fu ripresa al Politeama in una serata di beneficenza il 23 marzo 1910 prima del restauro (che avvenne nel 1913). In esso aleggia sempre il suo mondo poetico, romantico, genericamente ed ingenuamente indirizzato all’utile e all’ entusiasmo delle idee socialiste –espresse ed indirizzate diritte al cuore della gente che si commuoveva e si persuadeva-.
Il soggetto inizia con Teresa, la fanciulla che spensierata corre per i prati prendendo farfalle. Ma quella, catturata e prigioniera tra le sue dita, le chiede: “vivendo e volando,/ che male ti fò?... tu sì mi fai male/ stringendomi l’ale...la vispa Teresa/ allora arrossì,/ dischiuse le dita/ e quella fuggì”. Ella scopre così il senso dell’amore terreno, della umanità e di conseguenza della solidarietà; da esse il senso della coscienza sociale che innesca a catena un nuovo tipo di amore. Diverrà così una giovane socialista, impegnata, capace -con il linguaggio del diritto e con l’amore- di compiere il miracolo di maturarsi. Collaborano il fratello Benedetto, che lascia il seminario per andare a Napoli ad assistere i colerosi e poi seguire Garibaldi; e Guido, un giovane socialista di cui si innamora e che le fa dimenticare l’idea di farsi monaca “di te sono sposa / e non più del Signore”. Tutti e tre, per arrivare al padre, sino ad allora soggetto ed obbediente alla parola del parroco don Pasquale. Finché anche lui saprà ‘svegliarsi’, allontanando il prete conservatore, benedicendo gli sposi (perché ‘amor s’impone a tutti, e più che legge è fato’) e dando ai suoi operai una struttura sindacale. L’opera si conclude con una corale di canti ed inni degli operai, inneggianti alla fabbrica trasformata dal padre-padrone in società cooperativa, ed al primo Maggio.
Sono ricordate altre opere scritte tra il 1905 e 1915, racconti brevi come:
“Contro la bestia umana” (panphelet moraleggiante) e “Mezz’ora di officina” (novella proletaria) fino a nuovi drammi come “Estremi che si toccano” (estremi sociali: ricchi e poveri apparentemente staccati ma uniti nella reciproca utilità e collaborazione. La più matura delle sue commedie, scritta nella convalescenza della malattia che poi sarà finale. Il tema ebbe spunto da una visita fattagli dall’amico prof. Gustavo Lusena quando lui era in campagna a Borlasca, in una casetta rustica in affitto annuale e lontana due ore a piedi dalla stazione ferroviaria. Rappresentato per la prima volta al teatro ‘Arte Moderna’ di via s.Antonio nel nov.1911. Nella fantasia, creò un professore medico, socialista, che decide andare a fare una conferenza al popolo di un paesino sperduto; le forze reazionarie (sindaco, nobile signorotto, parroco) gli preparano ed applicano una rumorosa boicottazione per impedire di parlare. Durante la chiassosa tempesta di fischi ed urla, la figlia del signorotto si ferisce gravemente con un vetro e, agli organizzatori della gazzarra, non rimane che affidarsi al medico socialista ancora fermo sul palco inibito nel parlare. L’umanità del professionista ‘corruttore e spregiatore delle famiglie’, fa chinare il capo a tutti i suoi nemici: trionfano i sentimenti, il ravvedimento, la scoperta che non è il diavolo; la scena si conclude con il salvataggio della bambina ed una stretta di mano tra ‘nemici irreducibili’ ).
“Per gli altri” (un suo dramma in 4 atti con gli ingredienti tipici della sua ispirazione: anticlericalità vestita da frate mendace che approfittando dell’ignoranza istilla odio e superstizione; ed il giovane redento a nuove idee per le quali sacrifica se stesso e chi lo ama creando lotte sociali che generano una emancipazione ignorata dalla precedente società. Fu rappresentato nel 1913 al Politeama Tripoli di Rivarolo, fu allestito dall’Unione Filodrammatica Arte Moderna di San Pier d’Arena, su testo pubblicato dalla Libreria Editrice Moderna di Ricci, in galleria Mazzini. (Ragazzi scrive che a Rivarolo il teatro si chiamava Margherita; e che la compagnia professionale che ripopose l’opera al Politeama Sampierdarenese il 24 ottobre 1905 si chiamava Artale-Musella);
i “Passionisti” (anch’essa proposta nel teatro Arte Moderna nel 1912. Nella processione di frati Passionisti salmoidianti, un furtivo cenobita sfila vinto dalle delusioni del mondo; sarà lo sforzo di un umile pittore che ama una nobile fanciulla e che il divario sociale impedisce potersi esprimere; diventa lotta contro la cattiveria, contro il passato tradizionalista, contro il sussiego della superbia; che verranno vinte e tornerà la felicità nelle cose future e nuove);
“Prevedere per provvedere” (è l’ultimo testo teatrale, recitato il 13 dic.1914 da bambini, al Politeama Sampierdarenese, in occasione della festa per l’inaugurazione della bandiera della Mutualità Scolastica, solidalizio che il Chiesa ha voluto propagandato e difeso dalle polemiche. Appare mirato a persuadere le nuove leve alla previdenza e mutualità, per sfuggire da subito all’avvilimento della carità borghese.
Sono tre fanciulle, Elisa Adele e Paolina che incontrano un vecchio, povero seppur onesto ed ex combattente, abbandonato a se stesso anche dai parenti ricchi “a loro non garba possa sapere la gente che fra i loro congiunti vive un meschin pezzente!”. “Come mai non avete pensione? poiché di buon diritto questa vi spetterebbe!”. Ma lui non sapeva, e nessuno gliel’aveva detto di preventivarsi. Le tre escono di scena proponendo “orsù sotto i vessilli fiammanti, formiamo la crociata, suvvia, coraggio, avanti!! lottiam contro un poassato che fa cattivo il mondo, diam mano all’avvenire, al progresso fecondo”.
In piazza Montano, un semplice cippo col suo busto, fu posto a memoria.
Ed a suo nome, dal 1893 è stata chiamata la Compagnia portuale di sbarco ed imbarco del carbone (con sede il piazzale Giaccone, luogo tipicamente imbrattato di polvere nera, nacque come Lega dei Carbonai; nel 1900 promosse il primo sciopero generale nella storia italiana, contro lo scioglimento della locale Camera del lavoro, e commentato su “la Riforma sociale” dal giornalista Luigi Einaudi; tiepidi risultati ebbero altrettanto agitazioni del 1901 e 1902 con però sostanziali vantaggi economici e di qualità di vita. Chiave di volta nella storia del porto genovese fu lo sciopero del 1903 -detto “i 5 giorni del porto”-: i carbonai diedero dimostrazione di autodisciplina (guidati dal Chiesa = leader operaio, da Giuseppe Canepa=l’intellettuale ‘transfuga’ dalla borghesia ponentina- e da Gino Murialdi=l’amministratore), respingendo i crumiri e le subdole istigazioni a proseguire le agitazioni, promosse dalle lobbie mercantili che tentavano di usarli per loro interessi (a scapito del nascituro Cap; momento assai pericoloso perché se sbagliavano, il loro futuro non sarebbe stato più né gestibile né influenzabile da loro. Rimangono punto di riferimento le pratiche di mutualismo e solidarietà generalizzata, la fondazione del giornale Il Lavoro, ). Nell’evolversi delle modalità dei traffici e della globale rivoluzione organizzativa, sociale, architettonica e tecnologica, ora la Compagnia si esprime con i termini delle reti informatizzate, inviando un messaggio preciso nell’ambito dell’industria manufatturiera: “saper fare”.
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