DASTE                                                 via Nicolò Daste

 

 

 

TARGHE:  (in verde, gli errori)

S.Pier d’Arena – 2764 – via – Nicoló  Daste – sacerdote-filantropo – 1820-1899

Via - Nicolò Daste – sacerdote filantropo – 1821-1884 – già via sant’Antonio                                           

 

                                                               

da stabilire dove è

  sommità di via Gioberti

 

via Giovanetti

 

Angolo con via della Cella

 

angolo con via Carzino (contenente quattro errori: ó, 1821, 1884, sant’Antonio)

 

QUARTIERE ANTICO:  da Mercato a Coscia                                         

da Vinzoni, 1757 – in rosso creusa dei buoi; fucsia, via della Cella-sal.Belvedere; ocra, vico Stretto; blu, via Larga

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2764,    Categoria 2

      

Codice INFORMATICO della strada - n°:   21420

UNITÀ URBANISTICA:  26 - SAMPIERDARENA

                                            28 – s. BARTOLOMEO

 da Google Earth, 2007. Da rossa, via S.Canzio a fucsia via Palazzo della Fortezza.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:  NS della Cella

STORIA  DELLA STRADA:         ai tempi dell’impero romano (come già detto per la strada ‘via Aurelia’ (vedi), con Genova racchiusa nelle sue mura dove ora è Santa Maria di Castello, che solo nell’anno 1155 arriveranno a porta dei Vacca; e solo dopo il 1320 alla porta san Tomaso di piazza del Principe) i militari o i carovanieri diretti al nord o all’ovest,  arrivati  nella zona dell’attuale piazza Di Negro, trovavano più semplice salire agli Angeli, allora collina senza nome specifico, piuttosto che raggirare la scogliera di san Benigno; da lassù poi, costeggiare in alto  per scendere a Rivarolo tramite via Pietra l’attuale salita V.Bersezio. La sottostante spiaggia, lunga e bella, era praticamente ignorata, deserta o abitata solo da qualche sprovveduto e singolare pastore amante della solitudine, ma a rischio di assai brutti imprevisti (difficoltà di scambi, ma anche pirati, saraceni, sbandati, ecc.).

   Dall’alto dei colli, allora la via più frequentata, potevano scendere alla spiaggia, solo tramite le attuali salita Belvedere o salita S.Rosa, abbastanza scomode e ripide da non favorire, anzi scoraggiare, l’afflusso sia dei pellegrini che dei carovanieri di passaggio.  Molto lento fu quindi l’aumentare di questi contadini-pastori stanziali, in virtù dei quali nacque l’embrione e poi l’espandersi del nostro borgo.

   Si presume lentissima quindi l’evoluzione residenziale se, solo vicino all’anno mille,  iniziò a dirsi popolato da sette-ottocento anime, agglomerate più o meno vicine, e facendo assumere all’abitato una forma allungata parallela al mare e fiancheggiante l’unica via spontaneamente creatasi che la percorreva parallela al mare: la via centrale; nella sostanza una strada non tanto in alto da dover salire e scendere, non troppo vicino alla spiaggia soggetta ai marosi. Così si strutturò spontaneamente questo primo tracciato nell’antico borgo, il quale però, quando arrivava ai tre estremi si fermava drasticamente (a est, alla Coscia con l’aspra scogliera di san Benigno; a san Martino dalla parrocchia; al Torrente, nel punto più largo e non sempre in secca). Le comunicazioni col mondo esterno erano tutte con difficoltà: o traversare torrente e acquitrini, o salire, o scavalcare la roccia, o remare.

   Quando  aumentò per la Repubblica la necessità di navigli: la spiaggia divenne comodo centro di cantieri navali, fino ad essere scelta quale cantiere principale e posto di esercitazioni  navali e terrestri  (per Genova, la costa di ponente ‘fuori mura’ – da porta dei Vacca a san Benigno - era anch’essa piuttosto rocciosa e con scogliera frastagliata; non come la nostra piatta, sabbiosa e rapidamente profonda; inoltre la nostra era posta alla confluenza con il nord ed il ponente, ambedue  punti di arrivo via mare e via terra del legname).

   La necessità di erigere nuove case e la scelta di aprire chiese ed abbazie, Cella, s.Sepolcro (Monastero), s.Bartolomeo e Belvedere con Promontorio e quella parrocchiale in zona  san Martino, comportò allargare la strada, trasformandola da mulattiera a carrettiera.

1100 – Sul tema dell’insediamento, le crociate diedero  un impulso decisivo: il trasporto ed il ritorno di numerosi volontari, pellegrini-soldati, provenienti o diretti verso l’Europa centrale, sollecitò la produzione di centri di accoglienza (vedi la chiesa in piazza del Monastero), e di centinaia di navi. La prima forse, delle numerose immigrazioni e mescolanza di razze a cui questa delegazione è stata soggetta, per lavoro. Permise ai sampierdarenesi di crescere e divenire i migliori costruttori e calafati conosciuti a quei tempi: a loro -già organizzati in famiglie come i Coronata, i De Marini, i Vento, i Piccamigli, i Lercari, i Da Pelo, i Sambuceti, i Casale,  i B...cacci,-   si rivolsero anche i sovrani stranieri  (in particolare viene ricordato re Luigi IX di Francia, che scelse i Lercari).

1200 -   In pochi secoli  avvenne il primo intenso aumento di popolazione residente, portando il borgo ad avere un migliaio di persone. Misura  tale da permettere, dopo poche decine d’anni (ed è da allora che iniziano le testimonianze scritte) di essere già organizzato con una ben precisa struttura di comando, similare a quella esistente nella città vicina, di cui inevitabilmente seguirà le vicende tutte  (sono descritti al comando del borgo dei consoli: ricordiamo, probabile nobiluono locale, Alberto di Bozzolo; coadiuvati dal cintraco e con discreta autonomia dirigenziale. Già ben organizzati i servizi di guardia costiera, le gabelle, e la suddivisione in  quartieri: la nostra strada, posta al centro, era  compresa nella cosiddetta zona del Mercato o della Cella, confinante a ponente con la zona san Martino ed a levante con la zona Coscia). Fu forse allora che la strada divenne ’strada Comunale.

1400 -  E tale era ancora quando i ricchi nobili genovesi  iniziarono ad interessarsi della zona e del ponente in genere, per costruirvi comode e sontuose ville di vacanza  e villeggiatura che ancor oggi  ci arricchiscono in modo sommerso e sconosciuto ai più (in Liguria, solo noi e Sestri Levante, possiamo vantare l’onore di possedere il numero più elevato di ville patrizie dopo la città; col vantaggio per noi di averne di più che eccellono per ricchezza d’arte e di prestigio);  le principali di esse, si affacciano su questa arteria, piccola ma unica, e di enorme importanza per il borgo. Nel frattempo, si era lentamente formata anche una nuova parallela lungo la spiaggia, la ‘strada della Marina’. In questi anni, i signori genovesi, per arrivare qui o usavano il mare, o risalivano gli Angeli e scendevano da Belvedere o alla Pietra, con disagi non da poco.

Solo nel 1633, con l’erezione delle ultime mura di Genova, e con una strada spianata sulla scogliera raggirante la punta del promontorio di  san Benigno, fu progettata l’apertura della “porta della Lanterna” e, da essa, della ovvia discesa (questo tratto di strada, pur Genova vantandone il possesso, fu chiamata ‘salita alla Lanterna’ e non ‘discesa dalla-‘...) che sfociava da noi in uno slargo poi chiamato Largo Lanterna. Fu meglio strutturata anche una nuova strada a mare che probabilmente era già tracciata dall’uso quotidiano dei frequentatori della marina. Per chi arrivava proveniente da Genova quindi, dopo poche centinaia di metri dalla Lanterna, si proponeva un bivio: poteva scegliere se proseguire diritto  usando la nostra strada, attraversante l’interno  borgo, o usufruire dell’altra neoformata strada a mare, parallela alla nostra, necessaria per condividere lo sparuto e poco intenso  traffico stradale e commerciale.

   Sotto i Savoia, un loro regio decreto del 1857, ovviamente riconobbe la via - da san Benigno a san Martino - chiamandola genericamente “strada Superiore”.

   Ma ben preso a seguire, dopo solo pochi decenni, alle vie più importanti si iniziò a dare un nome personalizzato anche se non ufficializzato, in genere caratterizzato dall’evento che vi risiedeva di maggior significato popolare: infatti leggiamo che già poche decadi dopo - la nostra lunga strada era spezzata in più tratti ciascuno con nomi diversi: dalla Lanterna sino a via Larga (via Palazzo della Fortezza) il primo tratto era via DeMarini; seguiva ad esso il pezzo stradale denominato via sant’Antonio che arrivava sino all’incrocio con la crosa della Cella; continuato a sua volta  da via Mercato (sino all’inizio dell’attuale via C.Rolando; ovviamente via Cantore non esisteva. Alcuni testi la scrivono con ‘del’, altri senza: le prime targhe in genere non mettevano articoli o preposizioni); da questo punto  iniziava come terzo pezzo, o la via san Martino (verso il nord e la ex parrocchia) o verso il ponte, la via san Cristoforo.

La cultura di allora, per delimitare i vari tratti, più che  i nomi stessi delle strade tramandava il nome di proprietari di case d’angolo;  così via sant’Antonio era compresa tra villa Grimaldi (la Fortezza) e casa dei fratelli Monticelli (la villa Serra, all’angolo con via della Cella); e, da qui, la via Mercato era sino a casa Ferrando (molto probabilmente un palazzo ora demolito che faceva angolo dell’attuale via Dattilo in terreno che nella carta del Vinzoni era degli Spinola).

Popolarmente è stata anche chiamata “via delle ville artistiche”.

   Con la morte del venerato don Daste (1899), il Municipio (e, in esso, per primo l’assessore Giacomardo Pietro - sull’onda della vastissima emozione, dimostrata con l’alta affluenza di folla e nobiltà alle esequie - tutto proteso a commemorarne il nome ed il ricordo, decise di  eliminare il nome antichissimo di via Mercato  (che poi scomparirà ufficialmente con delibera del podestà nel 19 ago.1935) ed affidare il corrispondente tratto di strada – da via della Cella a via Nino Bixio (tratto interno della crosa dei Buoi, oggi scomparso in quanto inglobato in piazza N.Montano) -  al nome del sacerdote, ma con l’errore di scriverlo con l’apostropofo ‘via Nicolò D’Aste’ (così come però era da sempre scritto negli atti comunali e che - dopo il 1915 - sostituirà definitivamente anche il tratto a levante chiamato  via sant’Antonio,  dedicandolo al “generale A.Cantore”, e facendo scomparire definitivamente anche la dedicata al santo. Sappiamo che il Comune nostro è sempre stato laico e platealmente di sinistra, anche estrema - visto  la miscela politica con gli anarchici prima della scissione: i santi, quando poteva, li eliminava dalle vie, che erano state così denominate per scelta popolare e per l’esistenza di corrispettive abbazie o chiese: s.Antonio, s.Antonino, s.Martino, s.Cristoforo, ecc.; vedere anche la protesta del parroco di Promontorio).

   Immutata la situazione ancora nel 1910, quando la strada, già delimitata completamente da palazzi i cui civici raggiungevano il 34 ed il 23, si legge essere riconosciuta per il tratto confinato tra “via  Cella e via san Cristoforo”.

   Ancora nel 1925 è scritta “D’Aste”; ricordando che allora era da via della Cella a ponente. 

   Nel 1927 il Comune di Genova la include nelle sue strade, scrivendo ancora scorrettamente  ‘via D’Aste Nicolò’, di 4a categoria.

   Subito dopo il 1935, con l’apertura della attuale via A.Cantore, la targa dedicata al generale alpino venne trasferita in questa nuova grande arteria, e il nome giusto  Nicolò Daste  ne prese il posto, prolungando quindi la dedica sino all’altezza del  Palazzo della Fortezza:  come è oggi.

   Paradossalmente, nel Pagano/1940 la strada non compare nello stadario, né con l’accento né senza; e tutto il percorso da via L.Dottesio a via A.Cantore è chiamato ‘via del Mercato(vedi); con civici da 1 (scuole) a 33 (privati); e da 2 a 28 (con civ.4 pastificio Rebora, e 14 abitaz.  del comm. M.Diana (villa Crosa)). Ritenendo errata questa informazione, metterò ai civici sottoscritti la descrizione di quanto rilevato.

    Nel 1987, da una commissione di esperti facenti parte di un fantomatico ‘club dei Pignoli’, ricevette l’Oscar del degrado stradale - specie il tratto tra via Carzino e via G.Giovannetti -.

   Nel 2002 il Comune concesse la titolazione al medico Pietro Gozzano al piazzale antistante villa Imperiale; pertanto la nostra strada è stata privata dei primi tre civici dispari comprendenti la villa Scassi e le due scuole ai suoi lati (civv. 1, 3, 5).

   Nel 2004  otto milioni di euro legati ad un “contratto di quartiere” dovevano cambiare volto alla strada, ricupero dei palazzi, pavimentazione, marciapiedi, ed infine, pedonalizzarla. Nel 2010 è ancora un progetto.

 

STRUTTURA === è strada comunale. I civici iniziano - proseguendo verso ponente la via L.Dottesio - dal punto di incrocio con via Palazzo della Fortezza ed arrivano allo sfociare della strada in via A.Cantore e via Carzino.

È lunga  553,29 m.; larga da m. 2,15 a 8,45; con 1 e 2 marciapiedi

La numerazione civica va da levante a ponente.

Il transito veicolare è spezzato in vari segmenti diversi: senso unico  verso ponente, dall’inizio sino alla via V.Gioberti;  da qui, a via  A.Castelli è solo pedonale; da questo incrocio alla via G.Giovanetti  è ancora senso unico verso ponente; da questa a via A.Cantore, è senso unico verso levante.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

CIVICI

2007= UU26- NERI   = da 7 a 15 (mancano 1→5;   aggiungi 13A)

                                            2 a 36 (mancano 4, 6, 18→22; aggiungi 8A)

                       ROSSI da13Ar a 109r (mancano 1r→13r, 77r, 89r, 91r;

                                                                                aggiungi 41Ar, 59ABCDEFGr)

                                                da  2r a 126r  (mancano 4r, 6r, 20r, 98r; aggiungi  16A→Dr,             .                                                                      18A→Dr, 22ABCr, 24ABCr, 48Ar, 52Ar, 56Ar, 58Ar, .                                                                        60A,r 64ABr, 68Ar, 70ABCr, 94Ar, 106Br)

        =UU28-ROSSI da 1r a 13r 

 

Dai Pagano, occorre prestare attenzione alle successive e non concomitanti variazioni, sia del tratto stradale che dei civici:

Il Pagano 1912 vi descrive: al 1r il forno di Barabino Agostino;--- 10 la levatrice DellaCasa Teresa;--- all’11-11  Pisani geom Ezio (fino al 1912 interessato sia ai materiali da costruzione, sia come marmi greggi e lavorati; rappresent. delle principali case marmiste della regione Apuana);--- ed anche al 21r, Massa Carolina commestibili;--- al 27r un forno per pane di Dellacasa Giovanni –attivo anche nel 1925;--- al 30r commestibili di Soldaini Dionisio;--- 41r il forno per la produzione del pane dell’Unione Consumo L.L. acora attivo nel 1925;--- 46r commestibili della Coop. Ligure Lombarda. Non specificato il civico: ristorante ‘Unione’ di Cocito Attilio posto ‘angolo via Nicolò d’Aste’.

Nel Pagano 1925  compaiono in più il droghiere Gaggero Giuseppe al 38r;--- 24r Toma Regolo fu GB, tappeziere in carta e stoffe (nel § era ‘di GB’ ed al civ. 6);--- 37 rivendita di sale e tabacchi di Corazza Roberto;--- 62r l’ufficio dell’industria Penna & Galliano di saponi-negozianti candele e affini-materie prime-olii e grassi;--- non specificato il civ.: (8r) il verniciatore Galimberti Gius.;---

Nel Pagano/33 appaiono essere aperte sulla strada (scritta d’Aste) le imprese: al 2r negozio di merceria e di filati all’ingrosso di Valle A.G.; al 4 il floricoltore Bertorello Luigia; all’8r negozio di biacca-colori-vernici di Galimberti G¨; 38r droghiere Gaggero Giuseppe; 41-43 cartoleria-legatoria di Berardi Giovanni. Non specificato dove: il fruttivendolo e negozio di articoli casalinghi  di Casale Davide.

   Nel Pagano /40 abbiano parlato sopra, non essendoci la strada con questa titolazione, ma ancora quella vecchia di via del Mercato.

In esso compaiono: -civici neri= al civ. 1 Scuola M.Mazzini; al civ. 2 r.scuola second. d’avv. prof . Principe di Napoli + scuola serale comm. O.Scassi; civ. 4 Rebora A % figli, pastificio; civ. 5 scuola el. Maria Mazzini (invece è G.Mazzini ndr); al civ. 7, la 110ª   Leg. Duca del Mare; civ. 9, collegio madri pie Franzoniane. Scuole elem. medie.; civ 14 ‘abitaz comm. M.Diana’ e ‘s.a. f.lli Diana cons. alim ‘; ai civv. 11, 13, 15, 33 privati; civ. 26 Liberti A., metalli.   Invece, civici rossi=  62 negozi, dall’1r e dal 10r a 107r e 116r; con  una trattoria (al 114r di Mancini Zaira), un bazar (Trieste, di Chianese Nicolò al 101r); una farmacia (Italiani Dom. al 74r); mobili usati (di Frambati G. al 62r);  e – onde stabilire anche la qualità delle richieste= 6 osterie; 5 commestibili; 4 salumerie; 3 fruttivendoli e mercerie; 2 macellai, parrucchieri, carbonai, pasticcerie, drogherie; 1 di tante qualità, da cartoleria, tabacchino, latteria, bar, ombrelli, colori, tessuti, calzoleria, giornalaio, pollivendolo, pescivendolo, rigattiere, modista, tintoria, terraglie, friggitoria, caffè,  .. perfino un ‘fumista’ (Piacenza G. al 57r (riscaldamento ndr)).

 

1) CASEGGIATI POSTI A MONTE DELLA STRADA (civici dispari).

 

Inizia da via Palazzo della Fortezza

 

=== Nella carta Vinzoni del 1773, proprio di fronte ed a monte  della via Larga, e quindi al confine levante della strada, si apriva la proprietà con villa, del principe di Francavici (se Francavici è una località, non è inclusa nell’Annuario Generale del TCI/1985. Più probabile però che si tratti di una errata copiatura o trascrizione di ‘principe di Francavilla’. Una ‘grida’ della ss.Repubblica datata 1641 vietava il commercio con gli abitanti di Francavilla e Tassarolo non sappiamo il perché.

Ma più importante è la descrizione nel 1813 una ‘villa degli eredi Francavilla, posta in cima alla crosa Larga’, nella quale era una cappella privata. Signori di Francavilla, furono un ramo degli Spinola di Luccoli che – sul Battilana, vol.II  pag. 122- inizia con Gherardo Spinola, vissuto nel 1385; passa in successione ai rispettivi figli: Lucchesio (1368); Benedetto (1385); Giacomo (1439-50); Martino (1474-1502); Leonardo (1502-36); Stefano (1572); Leonardo (1595-1616); GioBatta (1613); con Stefano, senza prole,  finisce il ramo. E degli Spinola era la villa che ancor oggi esiste come scuola, e che allora aveva ampissimi terreni confinanti.

Oggi, otto sono le città con questo nome, una posta in Piemonte,  ma le più nel sud: Basilicata, Sicilia, Puglia, dove i ricchi genovesi andavano a comperare i titioli nobiliari (molti, in vendita, nel sud Italia).


 Questa proprietà si sviluppava affiancando quella (a ponente) degli Imperiale-Scassi e sul fianco di ponente del ramo torrentizio. Questa parte di terreno, ora è incluso dentro i confini di levante dell’Ospedale) ed arrivava dove circa si incontrano via Fanti con via Carrea


.

La villa col giardino, ben visibili nella carta  erano nel centro rispetto la lunga striscia di terreno, e sotto la torre (che si vede nella carta e che esiste ancora; e ci spiega la localizzazione della villa: dove ora è il grattacielo).

Di essa, del personaggio del principe e della sua famiglia,  non rimane nessuna testimonianza più precisa. Sappiamo solo che la villa, o un’altra eretta dopo sul sedime di essa nel 1800, fu abitata dal Piccardo descritto in via GB Botteri.


 

 Nel palazzo che segue, non ci sono portoni sulla via Daste perché essi sono stati aperti sulle due strade laterali (per ragioni di mercato, sulla strada principale è meglio lasciare gli spazi a negozi).

 I civici rossi iniziano con 1r (che per tanti anni nel decennio 1990-2000  ha ospitato il bar Kriter) e finiscono con il 13r.

 

Da via Damiano Chiesa Qui scorre la separazione tra la UU26 a ponente, e la UU28 a levante.

 

===civv. 1, 3 e 5  attualmente non sono più di via N.Daste, ma di Largo P.Gozzano.

 

===civv. 7-9:  Di fronte al Centro Civico, sul lato opposto si apre la villa Doria, oggi casa dell’ISTITUTO MADRI PIE FRANZONIANE .

Riconosciuto civilmente come Conservatorio Madri Pie Franzoniane, casa madre genovese; nel 2002 con scuola materna, elementare e media.

Dapprima si incontra il cancello che dà accesso alla chiesa  intitolata a N.S. DELLA SAPIENZA (o “nostra Signora sedes sapientiae“ per l’annesso istituto scolastico, una volta definito anche “monastero per educandato”).

 

 L’edificio, disegnato di forma rotonda  (e così appunto chiamato anche “Rotonda” o per le smussature esterne “Ottagonale”), fu disegnato dall’architetto Angelo Scaniglia nel mag.1821; e come appare su una scritta all’ingresso,  fu consacrata il 29 set.1822 dall’arcivescovo di Genova mons. Luigi Lambruschini. Il piccolo presbiterio fu aggiunto dopo vari anni, per volere e generosità di una suora.

Caratteristica esterna è la statua in marmo che la sovrasta: essa fu ricuperata dallo stesso Scaniglia, in una villa dei marchesi Franzone ordinatari della chiesa; la statua -che dapprima rappresentava Diana cacciatrice- fu arricchita di ali e di una croce, e trasformata in san Michele arcangelo, tutelare della chiesa.

Sul portale, una lapide ricorda: D.O.M. SEDI SAPIENTIAE VIRGINI DEIPARAE - CONGREGATIO MATRUM PIARUM A FUNDAMENTIS EXTRUCTUM - DICAVIT - ANNO DMDCCCXXII.

                      

L’interno ha tre altari, con quadro di Antonio Storace (sampierdarenese, criticato esteticamente: “non molto felici” dall’Alizeri; “tele di poco valore” dal Masini), raffigura san Giuseppe con san Francesco di Sales; di Carlo Giuseppe Ratti (raffigurante sant’Antonio da Padova e santa Caterina da Siena); ed una statua marmorea della Madonna seduta e col Bambino, scolpita da Ignazio Peschiera.

 


  

Remondini nel 1897, scrive che a ricordo della consacrazione fu ordinato un marmo: “TERTIO.KAL.OCTOBRIS.MDCCCXXII – ALOISIUS.LAMBRUSCHINI.GENUENSIUM.

ANTISTES – SACELLUM.HOC.DICAVIT – DECESSORUM.PRIVILEGIA– MATRUM.PIARUM.INSTITUTO.COLLATA – CONFIRMAVIT.AUXIT”


   


                     


grosso quadro  collocato                                       la Madonna del Peschiera

nel preambolo

   Lamponi segnala che nella cripta sotterranea, trovano riposo le spoglie della sorella di Giuseppe Mazzini, suor Rosa, morta a 24 anni facendo parte di questo ordine monastico.

   Primo rettore fu don Luigi Ottaggio (uno dei primi Missionari Rurali) che morì nel 1785 (Remondini riferisce altra data, precisando che morì a 70 anni il 15 mar.1791).    Sono ricordati rettori, don Giacomo Bovone (il quale il 25 ago.1822 precisò per scritto al sindaco che l’istituto non era un monastero religioso ma solo una casa scuola; le suore erano pie ma come madri o maestre; le regole sono quelle dettate dall’istituto della Visitazione fondato da san Francesco di Sales; a cui possono accedere nubili o zitelle di ogni condizione sociale e per quelle povere, l’ospitalità era gratuita. In quegli anni l’istituto aveva 16 madri, 8 aspiranti, 4 associate, 12 faccendieri, 6 aiutanti e 30 educande); don Traverso Emilio (1933); mons Aldo Livraghi (1978);

   

     

   Dal 1934 la chiesa è tutelata e vincolata dalla Soprintendenza per i Beni architettonici della Liguria.

 

 

La VILLA DORIA  nacque nel tardo 1500, non  si sa ad opera di chi.

   Nel 1582, ne era proprietario Giovan Battista (O Gio Batta) Doria (figlio di Domenico (che aveva restaurato la cappella di s. Agostino nella Cella, e di cui si parla in una epigrafe come se nella chiesuola avesse avuto la sua tomba: «Dominicus DeAuria q. domini Nicolai fecit hoc sepulcrum anno MDLXVIII»; sposò Maria Doria sorella di Giannettino; fu inviato come commissario nella guerra di rappresaglia contro i Fieschi arroccati a Montoggio; in quell’anno, oltre questa villa,  possedeva un palazzo a Genova costituenti il 22,6% delle attività patrimoniali ed il 68,5% del suo patrimonio netto; ma nel 1591 avrà 2 palazzi a Genova – valutati 45mila scudi d’oro=cifra medioalta rispetto altre ville di altri nobili - e ‘ville’ a SPdA,  valutati il 36,1% delle attività patrimoniali e 50,1% del patrimonio)  e fratello di altri 10 figli di Domenico tra i quali Nicolò (1538-1594, carmelitano, fondatore e del convento di s.Anna a Genova) e di Camilla (sposa nel 1576 di Giulio Pallavicino di Agostino, autore di un manoscritto intitolato «inventione di scriver tutte le cose accadute alli tempi suoi». Aveva sposato Gironima Grillo qLuca con la quale ebbe tre figli Angela fattasi monaca, Domenico (sposato con Vittoria Doria qBattista) e Maria sotto descritta)

Fu lui probabilmente l’ordinatore della villa ed a finanziare le spese della grotta (descritto a pag 63 del Battilana).

   Nel 1594, sua figlia Maria Doria,  sposò Camillo Pavese  (erede quale primogenito di anche del titolo di barone 2° di Gevisi e di Castelnuovo.

La famiglia Pavese, seppur ascritta alla nobiltà genovese ed imparentata con le più nobili famiglie aristocratiche locali, era di origine savonese.

Nicola, il padre di Camillo, fu nel 1576 uno dei primi a farsi ascrivere nel libro d’oro tra la nobiltà genovese. Era plurifeudatario nel napoletano.

Battista fu Luca fu Stefano, fu Luca, ecc.; sposo di Violante Salinieri, oltre al titolo baronale, aveva beni e ricchezze “più di ogni altri ai suoi tempi”-. Nel 1557 acquisì la carica di Consigliere di Stato sabaudo, imprestando al duca Emanuele Filiberto di Savoia una ingentissima somma in scudi d’oro necessaria per rinforzare la fortezza di Villafranca minacciata dai turchi e l’acquisto dai Fieschi del castello di Crevalcuore; dopo la sua morte nel 1566 la moglie fu gratificata con l’usufrutto del castello di Larenzo vicino a Torino. Tra i suoi figli vengono segnalati Stefano (gran  tesoriere generale si sar il duca di Savoia); GioLuca (cappuccino); Geronimo (gran tesoriere a Torino) e Maria (sposa ad un conte).

Camillo, l’ordinatario e progettatore della grotta-ninfeo, costata molte migliaia di ducati. Egli, insediatosi a San Pier d’Arena, ebbe un ruolo economico-politico assai intenso specie nei rapporti  Genova-Savona. Al padrone di casa, il compositore genovese Marcello Tosone, nel 1590 aveva dedicato un “Primo libro de madrigali à quattro voci”).

Le nozze furono celebrate in modo sontuoso ed assai festoso (Maria Doria fu condotta a Savona su una galera tutta imbandierata a festa; dalla nave andò al palazzo del suocero e poi in chiesa; in occasione dei festeggiamenti, nella sala inferiore del palazzo comunale ove venivano discusse le cause civili, degli attori recitarono una commedia, intitolata “i Lucidi”, opera di Agnolo Fiorenzuola (1493-1543), costata una fortuna (800 scudi) solo per poterla apprestare, e conosciuta e famosa perché già rappresentata a Parigi nel 1555 alla presenza di Caterina de’ Medici).

   La nuova famiglia, ascritta tra i patrizi genovesi, si stabilì nella casa, che divenne momentaneamente “villa Pavese” (il nobile savonese, interessandosi dei rapporti tra le due città liguri, si adoperò perché fossero rimesse 70mila lire, prese in prestito da Savona per fabbricare una cittadella presso il molo, ottenendo grande ossequio dei serenissimi governatori).

 L’unico figlio Scipione morì all’età di  9 anni, interrompendo la discendenza Pavese e facendo tornare i beni ai Doria.

   Qui forse soggiornò dal 18 giugno 1599, per 10 giorni, l’infanta di Spagna Isabella Clara trentacinquenne figlia di FilippoII ed Isabella di Valois, decisa a sposarsi solo dopo la morte del padre, e così in viaggio da Madrid verso Bruxelles per andare a nozze col cugino l’arciduca Alberto d’Asburgo e con lui governare i Paesi Bassi. Pizzagalli scrive “installandosi a due leghe da Genova, nella principesca villa dei Doria a Perdese” (sic. Ma Perdese forse vuol significare Pavese). Leggere sotto, a villa Lercari del civ. 8, il viaggio di andata verso la Spagna dei reali, l’anno prima, a scopo nozze reciproche. Arrivò accompagnata da 40 galee, come all’andata, colme di cortigiani al seguito la cui presenza dovette costituire un grandioso avvenimento come anche i banchetti che ne seguirono. Fu riavvicinata durante il soggiorno da Sofonisba Anguissola che era stata sua tutrice alla corte di Madrid da appena nata, e con la quale quindi si era stabilito un rapporto affettivo assai stretto; la pittrice approfittò di quei giorni per comporre un ritratto della sposa, che poi fu inviato in omaggio al fratellastro di lei Filippo III e custodito a Valladolid ma condannato all’oblio perché – come usava allora per le opere delle donne - non firmato.

   Nel 1606, con bolla datata 1 gennaio, papa Paolo V concesse  che Camillo Pavese aprisse una cappella privata nella propria villa che abitava       

   Camillo morì a Genova il 28 aprile 1607; il corpo - portato a Savona - fu sepolto nella tomba di famiglia.col fratello Ottavio.

   Nell’inverno (metà novembre) del 1707 il proprietario, mag.co Giuseppe Doria ospitò nella villa alcuni ufficiali di scorta del re Filippo V (a sua volta alloggiato in villa Spinola). Essi, avendo freddo, usarono delle porte di cantina per alzare il fuoco del caminetto, in modo così disordinato che oltre il danno intrinseco, incendiarono il caminetto stesso arrecando non indifferente pericolo all’ala del palazzo. Il re, addolorato del fatto, in atto di munifico risarcimento, graziò il proprietario di tutte le tasse, sequestri e taglie o comunque pendenti che avrebbe potuto avere in futuro nel reame: il commento finale fu ‘un incendio di lieta memoria!’. Alla fine del soggiorno, il Doria con la sua feluca accompagnò il re alla galea che lo riportò il Spagna.

   Nel 1757 appartenne ancora alla famiglia, in particolare al marchese  “magnifico Nicolò Doria “ (purtroppo tanti sono i Doria che vennero chiamati Nicolò, ed -a complicare - esistono omonimi, a loro volta figli di genitori omonimi. Precedente all’epoca di due secoli, il più illustre era nato nel 1525, divenuto doge. È del 1604 il monumento funebre nella chiesa della Cella, dedicato ad un Nicolò)

       Nel 1751 le suore Maria Nicoletta Gatti (da oltre vent’anni dedita all’educazione –leggere e scrivere, ricamo, ecc- delle giovinette, prima a Novi L. poi a Sestri P.), Anna Colomba Merlani e Antonia Francesca Serra, tutte di Novi ma alloggiate a SestriP.  cercavano di fondare un conservatorio avente lo scopo dell’educazione gratuita delle fanciulle. Furono chiamate a svolgere questa missione a San Pier d’Arena da Domenico Derchi (o D’Erchi) industre e benestante mugnaio, ricco di virtù e fortuna.

   In concomitanza, anche l’abate Gerolamo Franzoni, assistito da Marcello Durazzo pensava far nascere un Collegio per raccogliere le numerose giovani bisognose di aiuto. Le due iniziative si fusero negli anni subito a seguire, creando il 3 dic.1754  la Congregazione o il Collegio delle Madri Pie.    

   Andarono alloggiate dapprima in una locale ‘villa Badaracco(ancora agli inizi del 1900, veniva chiamata ‘villa’ non una casa, ma tutto un terreno coltivo, compresa l’abitazione, curato da un contadino). Questa casa delle suore è localizzabile ove ora è il tabacchino nell’angolo tra la via loro omonima e la via A.Cantore (a mio avviso Badaracco fu il contadino vissuto parecchi anni dopo, a cavallo di quel secolo, che col suo nome diede agli storici una localizzazione quando ai tempi iniziali era pressoché tutto anonimo).

Tre anni dopo, nel 1754, con l’intervento attivo e non parsimonioso di Paolo Gerolamo Franzoni che nell’idea profuse tutti i beni necessari, si trasferirono nella vicina ed attuale sede, dopo aver disposto tutte le modifiche necessarie al loro scopo, senza per fortuna far perdere all’edificio i caratteri originari della villa signorile preesistente.

Il prete (perché il titolo di abate solitamente usato non fa riferimento ad un monastero, ma in quanto dato – a quei tempi - ai preti più distinti in cultura e pubblica importanza) in visita ogni settimana al collegio, dettò le regole base del comportamento e delle scelte; dettò come patrona la Madre Vergine SS., chiamandola ‘Sapienza’  e come modelli san Giuseppe e san Francesco di Sales; scelse come direttore spirituale un missionario, don Luigi E. Ottaggio;  protettore il marchese Marcello Durazzo, cugino del Franzoni e poi doge.

   Nel 1764 la villa ed il terreno, divennero proprietà dell’abate Paolo Gerolamo Franzoni

 

sac. PG.Frazoni                                           stemma di famiglia                  stemma OperaiEvangelici

Della famiglia patrizia –con lontane ascendenze svizzere- vengono ricordati il doge  Matteo (1682-1767); Maria Brigida, vissuta  nella metà del 1600, molto donò all’oratorio di s.Filippo Neri perché conservasse musica religiosa; Agostino di Anfrano (1614-1705) il quale fece costruire una cappella gentilizia nella chiesa di s.Carlo;  Gaspare che comprò dai Lomellini il bosco di Camaldoli e dell’eremo ivi costruito ne divenne il gius patrone; uno zio Giacomo divenuto vescovo; un altro zio paterno omonimo (1619-1704, pure lui abate, promotore della prima -e quindi più antica- biblioteca cittadina, senatore-governatore-procuratore, ascritto alla nobiltà nel 1622 con tutti i numerosi fratelli tra i quali altri 2 cardinali); uno zio Domenico militare contro i turchi. Altri avi, tutti ricordati perché generosissimi.

Dei genitori, il padre marchese Domenico abitava un severo palazzo in piazza Serriglio a Luccoli (valoroso combattente della Repubblica genovese- assai spesso inviato come ambasciatore: infatti morì a Vienna  quando il Nostro aveva 20 anni). La madre fu la nd Maria Maddalena DiNegro (la quale generò sei figli:  un fratello maggiore deceduto in tenera età; quattro sorelle delle quali tre divennero monache ed una andò sposa a GianFrancesco Spinola; ed infine il Nostro, ultimogenito).

PaoloGerolamo. Nato a Genova il 3 dic. 1708 – morto il 26 giugno 1778 (altri dicono erroneamente nato a settembre; o morto il 14 febbraio).

Dopo aver studiato con un istruttore privato, a 15 anni  fu inviato  nel ‘Collegio dei Nobili’ di Modena, che godeva fama di severità e celebrità: ci restò per 7 anni, tornando a genova 22enne nel 1730: unico successore dei non indifferenti beni familiari, iniziò a frequentare salotti e feste come conveniva ai nobili seppur studiando Legge, quanto bastava per gestire il patrimonio (lo zio abate, sognava donargli in eredità la sua abbazia se avesse accennato darsi al sacerdozio: ci rinunciò ed accettò che la carica andasse ad altro nipote prete). Invece la frequentazione con il march. Gerolamo Spinola (frequentatore della congregaz. dei missionari –chiamati anche Lazzaristi- di s.Vincenzo de’ Paoli che a Genova era già cento anni operavano in zona Fassolo-DiNegro) gli fece cambiare idea: dapprima accarezzando l’idea di farsi pure lui missionario (in Romagna non fu accettato dai ‘Signori della Missione di san Vincenzo de’Paoli” per interferenza della madre che non gradiva la scelta), poi decise studiare e prendere i voti sacerdotali, sempre contro il parere della madre che vedeva così estinguere il casato.

Fu ordinato sacerdote (secolare), a Roma, per mano del card. Guadagni. Per un pò rimase nella capitale, approfondendo temi di teologia scolastica, morale e catechesi. Infine nel 1736, rientrato a Genova andò prima ad abitare in via Fassolo presso la Casa della Missione e poi nel palazzo avito. In virtù delle sue doti umane, fu eletto rettore dell’‘Ospedaletto’ degli Incurabili, vicino a Pammatone e quindi, di conseguenza assistente sia dei giovani studenti di medicina, chirurgia (detti popolarmente ‘barberotti’), sia degli infermieri curando venisse praticata anche una più intensa assistenza religiosa (predicazione, confessione, s.Messa, ecc.). Di carattere energico, deciso ed inflessibile, affrontò serenamente tutte le difficoltà, finché lo zelo superò le forze fisiche, cosicché fu obbligato dai medici a lasciare l’incarico. Forse concomita una condanna all’ esilio per quattro anni, per aver agito contrario alle direttive del Governo in un caso politico.

Per poco, sufficiente a riprendersi e maturare nuove idee per giovani  (un circolo filologico per insegnare le lingue estere; una scuola di matematica; un principio di ateneo) e -1740- per ecclesiastici ( chiamati dapprima evangelizzatori dei poveri. Assieme a sei giovani, iniziarono con i portuali, facchini, barcaioli, garzoni, postiglioni invitandoli ad esercizi di preghiere, partecipazione ed istruzione religiosa e... donazione economica). Vista l’ampia partecipazione di popolo,  decise il 5.2.1751 la fondazione del “Collegio –o congregazione- degli operai evangelici (persone dedite all’assistenza materiale ed istruzione religiosa dei lavoratori e dei poveri. Segiuendo le tracce di s.Francesco di Sales, per testamento divennero gli eredi della biblioteca purché la tenessero aperta con gli orari da lui fissati. Nel 1809 la Congregazione fu soppressa dal governo francese, reintegrandosi nel 1815 alla Restaurazione. Nel 2007 sono una quarantina di preti facenti parte della congragazione, presieduta da don Giuseepe Cavalli).

   Divenne così poliedrico iniziatore di filantropiche attività sociali ed innumerevoli iniziative, tutte fonti di immensi travagli e di infinite spese, che il sacerdote onorò sempre attingendo alle sue proprietà. Per distribuire meglio gli impegni, istituì varie ‘Accademie’ sempre mirate ad incrementare la cultura non solo religiosa ma anche letteraria e culturale in genere. Così, come particolarmente interessanti e durature, vengono ricordate: fondatore ed assistente spirituale della congregazione di N.S.Addolorata per gli studenti di medicina; quella dei SS cuori di Gesà e Maria (fatta di artigiani con lo scopo di aiutarlo in particolare con i bambini); fondazione della “puer Jesus” (dedita alla raccolta, assistenza morale e materiale di bambini figli di carcerati e poveri in genere); apertura della “biblioteca” detta Franzoniana (nata nel 1757, seconda in città e poco prima di quella dell’abate Berio; dapprima come privata nel primo piano del palazzo Verde in Strada Nuova già dei  Lomellini; poi aperta nella villa avita a beneficio di tutti gli studiosi, ancor oggi in servizio, bellissima, apprezzata dai concittadini e forestieri; per lui era vanto non possedere pochi ‘pezzi rari o sontuosi’ quanto libri che potessero essere utili e leggibili da molti in ogni campo della scienza ma in particolare quella medica. Dopo la morte del fondatore, fu trasferita in s.Ambrogio lasciata vuota dai Gesuiti i quali però nel 1816, ritornando, la fecero sgomberare dal loro palazzo. Andarono nel palazzo di via Giustiniani, quando già si contavano 22mila volumi. Allo scopo essa doveva essere aperta per molte ore al giorno, sempre a disposizione per studiare anche per chi lavorava, tipo dalle quattro del mattino a mezzanotte, di domenica e festivi compreso Natale. Fu lasciata in eredità -accompagnata da pingue lascito per rinnovamento e ristoro- alla Congregazione degli Operai la quale per una ventina d’anni riuscì a mantenerne gli impegni addobbandola anche di una statua del fondatore scolpita dal carrarese Carlo Cacciatori. Negli anni 1990 fu riattivata nelle sale del palazzo del Seminario in via Fieschi da don Claudio Paolocci, ove rimase per una decade d’anni fino ad un ultimo trasferimento in via Madre di Dio, nella sconsacrata chiesa seicentesca che aveva dato il nome alla strada, e dove risiede ora, dopo essere stata chiusa fino al completo riordino ed inaugurazione il 10 dicembre 2008). 

   Caratteristico il generoso aiuto finanziario silenzioso ed anonimo dato per la conversione degli infedeli; per i condannati a morte; per tante iniziative di cultura;  ma soprattutto al sacerdote Paolo Garaventa, da Uscio per le scuole popolari (definito sacerdote di scienza ma povero, a cui diede i fondi per aprire la sua opera ‘Scuola di Carità’ ed a cui lasciò l’onore di tutti gli alti riconoscimenti sociali).

A metà febbraio 1778 una malattia debilitante lo costrinse a dolorosa ed irrecuperabile degenza; fu operato tre volte agli arti (probabile cangrena).      L’abate Franzoni morì il 26  giugno 1778, nella sua casa avita, e la salma fu ospitata nella chiesa dei Rimedio in via Giulia e poi tumulata nella cappella familiare in Santa Maria di Castello; la tomba, spostata per ristrutturazioni, fu maldestramente  perduta assieme ai sarcofagi dei familiari ed ai marmi: solo la lapide, ornata dello stemma e dallao scritta (“hic jacet – Paulus Hieronimus Franciscus Franzoni – natus 3 dicembris 1708 – obiit 26 junii 1778”), ritrovata accatastata assieme ad altre, fu posta nel pavimento della chiesa di santa Marta.

 

   Alle tre suore promotrici, si erano poi aggiunte altre volenterose e cooperatrici, divenendo -appunto come nuove mamme- la “ Congregazione delle Madri Pie”; vestivano un abito religioso e seguivano le regole dettate da san Francesco di Sales, vescovo di Ginevra; e furono dette per il fondatore  le “Franzoniane“. 

   Il loro operato e regolamento fu ufficialmente approvato dall’arcivescovo mons. Giuseppe Saporiti il 26 nov.1764; ed il 22 giu.1767 anche  dal doge genovese Marcello Durazzo, appena eletto; fu infine confermato dall’arcivescovo mons. Lercari e dal papa Benedetto XIV il 5 apr.1768.

   Nel 1771 morì suor Nicoletta Gatti, quando vi già erano 9 suore, sette converse e 24 fanciulle mentre le altre due suore mancarono rispettivamente nel 1812 e nel 1790, lasciando l’opera in condizioni assai fiorenti. Cosicché fu logico cercare di ampliarsi e migliorare.   

     Nel 1799, il 19 giugno, il ministro dell’Interno Baratta, scrisse al municipio di San Pier d’Arena,  affinché provvedesse a rifornire di grano e cibarie le 60 religiose presenti, comprese le figlie del generale Rusca  presenti in educandato. Dopo poco iniziò l’assedio a Massena, e le cose non andarono certo migliorando.

 Nel 1822, consacrata dall’arciv. Luigi Lambruschini, venne completata la chiesa, disegnata da A.Scaniglia. Il 23 gennaio di quest’anno era stata ordinata suora franzoniana MariaRosa, sorella di Giuseppe Mazzini, dopo un periodo di prova di 3-4 mesi. Ma un male inesorabile, l’anno dopo le troncò la vita; nella cripta della chiesa è conservato il corpo; una piccola ed umile lapide ricorda «soror in via matris – Maria Rosa Mazzini – obiit Die 31 Decembris A.N.S. 1832 – Aetatis suae 26 – Vocationis 2».  Nel 1829 entrò nel pio istituto anche AnnaMaria Mazzini, fu Francesco, cugina di Giuseppe, nata a Lavagna ma vissuta nel nostro borgo; vestito l’abito nel settembre, fu eletta superiora nel 1868.

Il Direttore, don Giacomo Bovone, con lettera del 25 agosto precisò al sindaco Canale Vincenzo che le suore non rappresentano un monastero religioso, ma una vera scuola (con allieve interne ed esterne, nobili e poverissime) e casa di educazione (come voluta dal fondatore); ove si seguono le regole di san Francesco di Sales; ed è rappresentata da 16 Madri, 8 aspiranti, 4 associate, per 30 educande; più 12 faccendieri e 6 aiutanti.

   Dal 1826, l’Ordine delle Franzoniane si estese anche con istituti in Piemonte (ad Ovada andarono a dar vita ad una colonia, tre madri di SPd’Arena) ed a La Spezia.

   Nel 1884, direttore don Domenico Olcese, scrittore di un opuscoletto narrante la storia della fondazione, vi erano 22 suore ed 8 converse.

   Nel 1935 venne costruito il lungo corpo prospiciente via A.Cantore; questo essendo unito alla villa, forma in tutto  un volume ad L  racchiudente quello che rimane del giardino. Posta su un terreno inclinato, ha una struttura alla base tendenzialmente irregolare, tale da aver lasciato pensare alla costruzione su un edificio preesistente.

   Nel bombardamento del 4 giu.1944, subì varie lesioni interne ed esterne, con parziale rovina del tetto.

   Dal 1955 il complesso è vincolato e tutelato dalla Soprintendenza per i beni architettonici.


 

 

La facciata che dà su via Daste, ha al 17r una nicchia con Madonna votiva.   Sembra la Madonna di Savona in quanto ai piedi ha, alla base una pecora ma manca il pastore; e sarebbe in sintonia con i Pavese.

 

 

Al piano nobile si vedono i segni della loggia, tamponate, che prendeva tutto il piano (probabilmente con vista a mare)


Le altre due facciate, vedi alle rispettive strade

 L’interno  ha alcune sale decorate (con episodi biblici, e paesaggi racchiusi nelle lunette e circondati da grottesche,  affrescate nel 500 dalla bottega del Calvi (la famiglia ebbe inizio nel 1400, da Marciano, immigrato lombardo; pittori illustri furono i due suoi figli Lazzaro morto a 105 anni nel 1607, e Pantaleo morto 99enne, ambedue allievi di Perin del Vaga; il secondo oltre a produrre molto di suo, aveva preso a lavorare con i figli Marco Antonio, Aurelio, Benedetto, Felice,  autori di affreschi giudicati mediocri, non certo della qualità del padre e dello zio; Aurelio o Felice decorarono nel 1584-5 ad affresco il palazzo Doria oggi sede della Prefettura);  nel refettorio si può ammirare una tela del genovese Bernardo Castello (1557-1629), raffigurante la Madonna con il Bambino,  san Giovanni e santa Caterina da Genova . Molto usata è l’ardesia, sia nei dettagli che nelle decorazioni più importanti.

    

dal giardino: ingresso affrescato e portale finemente intarsiato 

sotto - affresci nei soffitti:

 

 

 

 

 

e quadri:

                                    

La torre      è senz’altro la più bella e ben tenuta della città. Presumibilmente già preesistente alla villa; vi è unita alla base tramite un breve corpo fatto ad archivolto, con vicino sia una cisterna per l’acqua che un bagno a forma ottagonale, alle cui pareti si aprono pregevoli nicchie a conchiglia. Nell’interno una bella scala a due rampe e con le volte a crociera, porta alla parte alta terminale, caratterizzata da un massiccio sbalzo.

Una seconda piccola torre è posizionata sulla sommità del palazzo, a levante di un muretto con campane; sarà di poco più di un metroq. con merlature ghibelline a nido di rondine.

    

                                                    

Il giardino è rimasto, ma gli orti sono stati “divorato” da via A.Cantore e dalla lottizzazione a monte di essa, così da prospettare l’insieme della villa direttamente sulla strada. Il giatrdino era costruito  con aiole e siepi disposte con regolarità all’italiana, pavimentato a ciottoli e con uccelliera; gli orti, a verdure e frutteto con prevalenti aranci e limoni, si estendeva assai ampio verso monte, ove si concludeva con  un boschetto selvatico al limite della abbazia di san Giovanni Borbonoso.

 

 

  

 

  

 

Il ninfeo, detto grotta Pavese, si apre nel giardino; anche se in parte ridimensionato e quasi nascosto: è uno dei più belli e pregevoli esempi di tale fattura, presumibilmente ispirati a quelli genovesi dell’Alessi; da Furttenbach (1627) fu definita “la grotta più nobile ed elegante che si possa vedere in tutta Italia”, completamente arredata con strutture ricche di messaggi simbolici, celebrativi ed augurali per le prossime nozze  la grotta fu un elemento fondamentale e caratteristico dei principali giardini genovesi nel periodo tra il XV e XVI secolo; per gli aristocratici era rappresentativo di ambiente archeologico naturale, immerso nell’ambiente riposante del giardino; doveva esprimere in lettura simbolica la ricchezza, il potere economico, l’ esibizione di materiali preziosi e raffinati.

   All’archivio di Stato, un manoscritto descrive il dialogo tra due aristocratici dell’epoca, che definiscono la grotta come  l’apice e completamento di tutte le comodità  e  contentezze dell’individuo: per il bel mondo di allora, la grotta in giardino, con le fontane ed i giochi d’acqua rappresentavano il sommo piacere della vita (e Genova, come Roma ed in Francia Fontainebleau, erano i centri di diffusione della moda, sino alla fine del XVI secolo).

   Concepito da Cesare Pavese in occasione delle sue nozze con Maria Doria fu costruito nel lato a monte del giardino prospicente alla casa,  nel 1594 circa in struttura interamente fantasiosa (dietro al quale proseguiva la propietà coltivata a orto. Oggi rimane sotto la terrazza posta sul lato nord del giardino, sul cui retro scorre via A.Cantore) in maniera da far dimenticare che si tratti di ambiente artificiale, ed inserito in una struttura costituita da un loggiato ornato di statue,  che sbarrava in modo magico l’accesso al vasto giardino orti e boschi soprastanti sulla collina e creava il contrasto tra la natura governata dall’uomo e quella spontanea selvatica.   Si suddivide in: il prospetto esterno, appare con tre fornici attorniati da grappoli di stalattiti e di finta roccia, che contornano l’entrata, con cariatidi femminili in pietra, ornato di protomi leonine e femminili in marmo: vuol dare l’idea iniziale dell’entrata in un mondo ove la natura è fantasia, magicamente e sorprendentemente bella (è stata definita “una Disneyland del 1500”!).

 

                   

fornice dell’ingresso principale, con due laterali a terrazzo

   È seguito da un atrio  tripartito, interamente rivestito di decorazioni a mosaico composto da più vario materiale: sulla volta delle due laterali, iscritte in cartigli si vedono le figure allegoriche dei quattro elementi fondamentali: aria e fuoco a sinistra, acqua e terra a destra  (allegoricamente i materiali per generare naturalmente nuove vite, in previsione del matrimonio); e sulla volta a crociera della campata centrale si vedono  quattro figure femminili abbigliate con vesti policrome ed in atteggiamento di suonare viole, chitarre e liuti (sono state riconosciute come simbolo del ruotare e

      

pianta – da Furttenbach, 1627

 

 

 

 

  

trascorrere delle stagioni, raffigurandole come le “Horai” cioè  le 4 stagioni, volutamente poste all’ingresso quasi a saluto e custodia del visitatore,  e nell’atto festante di invito -con il loro fare dolce e soave- ad accedere ai misteri della fonte interna circondata  ed inclusa nel variopinto microcosmo della grotta; altra interpretazione le vede rappresentative delle Grazie, con chiaro riferimento alle prossime nozze della giovane Doria,  in atto allora di buon augurio di amore perenne e di felice corredo della vita futura). 

   Otto pilastri - con erme d’ambo i sessi circondati da ninfe e satiri (interpretabili come  elementi fantastici e vitali della natura)- sorreggono una cupola (raffigurante soggetti delle “metamorfosi di Ovidio”: sono facilmente riconoscibili Atteone (trasformato in cervo da Diana, perché osservata mentre si bagna), Salmacide ed Ermafrodito nella fonte miracolosa; a significato simbolico del rispetto della religiosità e della natura): nell’alto tamburo campeggiano riquadri e paesaggi che ripropongono il panorama di Genova e Savona,  luoghi di origine delle due famiglie (in una veduta si può scorgere la fortezza Priamar,  a ricordo di una operazione economica di Camillo, che doveva dare avvio alla erezione della cittadella sul molo), ed immettono oltre le loro arcate nella stanza ottagonale centrale, con sei nicchie attorno, ricche di concrezioni calcaree e stalattiti, tutte ornate da conchiglie e rifugio di fantastiche creature delle grotte; e -nella centrale più profonda, la statua di Nettuno; attorno alla parte centrale, sfavillante per le decorazioni policrome, corre un anello d’acqua come a specchio dell’immagine del soffitto; le pareti sono rivestite da mosaico composto da coloratissimi ciottoli, conchiglie, ceramiche, tali da formare delle grottesche molto decorative, tipiche dell’epoca manieristica (a simbolo della natura, che è selvaggia, non umanizzata,come un eden, animata fantasticamente, però bella, colorata, vivibile e ricca di virtù generative, seppur soggetti alle trasformazioni delle stagioni, del tempo in senso lato, ed in un clima di soggezione, di  rispetto e di forti stimoli). Fajella scrive che “nel fondo, distrutte le prime statue rappresentanti divinità pagane, sorge ora, fra stalattiti e stalagmiti, la statua della Madonna di  Lourdes con la Santa Bernadetta”.

  

L’intera struttura appare quindi come una grande meravigliosa rappresentazione simbolica, di natura selvaggia, magia, e stupore; ma anche una esibizione di oggetti rari e preziosi, una ostentazione di ricchezza e di potere in genere. La pianta ottagonale della grotta è giudicata quale messaggi: da un lato, l’architettonico, perché è il lavorato più vicino  alla perfezione del cerchio, dall’altro al significato di un committente intellettuale,  esteta, raffinato  colto ed aggiornato.

 

Via delle Franzoniane – via Gioberti.


===civ 17r: una lapide ricorda che “É VIETATO IL TRANSITO /

DEI VEICOLI E QUADRUPEDI  / IN DIREZIONE DI GENOVA”.


=== civ.11.13.15 la lunga fila di piccole case poste a monte (che iniziano con il 19r e finiscono con il 41r), di fronte a villa Crosa, sono state restaurate nel 1998-9 con la facciata amabilmente dipinta a balconcini, posti  a decoro di ogni finestra.

Nelle vicinanze del civ. 19r,  dove ora è un bar, viene ricordato che negli anni 1920 c’era l’osteria detta “del Meneghin”, con l’orto dietro, raggiungibile con leggera scalinata posta a fianco di salita san Barborino che appunto lì nasceva; vi era  a lato un gioco bocce e giardino con bersò. Forse qui era un teatro estivo -perché in posizione non precisata ed inaugurato il 13 ago.1905- all’aperto, posto nel giardino della sede del Circolo Socialista, chiamato TEATRO ARTE MODERNA. A fine di quell’ anno, si provvide a chiudere  il giardino con una vetrata –ciò però non combacerebbe col ricordo del bersò- creando un vasto salone con palcoscenico su cui compagnie filodrammatiche, gestite dai circoli socialisti potevano esprimere la loro arte, anche se   pubblicizzate però quasi solamente dalla stampa di partito.  Di esse, più assidua nelle presenze fu quella gestita da Emmanuel Gatti: il nome della cui compagnia ed il nome stesso del teatro, sono identici a quelli  realizzati in Milano nel 1894 e anche là popolarmente chiamati “ del Meneghin”, come l’osteria. Nel 1913 subì un incendio; ma l’attività continuò sino alla soppressione delle organizzazione operaie e quindi anche delle loro sedi ad opera del P.N.Fascista,

===civ. 41Ar Alla fine della strettoia, a monte della strada, subito dopo uno degli ultimi paracarri rimasti (di fronte ad ove ora è la lapide a Pieragostini, terreno corrispondente quindi o al Palazzo Centurione  o a villa Ronco), è un cancello che dà adito ad un’aia recintata che ha molta storia:  prima conosciuta, corrisponde alla zona ove nella carta vinzoniana del 1757 alla lettera D era la chiesa con oratorio di s.Antonio, degli Agostiniani (che dava nome a quel tratto stradale e che si descrive in via  sant’Antonio. Non appare citato dal Remondini); per seconda, pare sia stata qui (o un pò più a ponente, di fronte a villa Bagnara) la prima sede del Partito Fascista (dove erano delle ‘stalle’; vedi sotto, al civ. 87r; prima di trasferirsi in via Mameli all’Universale); terza permangono delle baracche in legno (potrebbero essere le stalle) le quali, a detta di un abitante, erano deposito e spogliatoio dei muratori che hanno eretto il palazzo che si apre in via Cantore il quale è rimasto incompiuto nel suo lato a sud, perché era previsto farlo arrivare a via Daste demolendo le casupole; esse non furono demolite ed il palazzo è rimasto come incompleto.

 

via Agostino Castelli

===civv. 19 e 23. furono soppressi per demolizione, rispettivamente nel 1970 e 1958. 

Praticamente, dall’intersecazione di via A.Castelli, la parte a monte non ha più civici neri sino in fondo alla strada.

===civ.43r inizia in angolo il palazzo (che finisce col 51r), è dal 1970 circa è occupata da un negozio di giocattoli Gigagiò ‘inventato’ – e per lunghi anni gestito - dalla signora Vera Ballerino in Frugone (figlia del Ballerino Giuseppe autore di numerosi libri di briosi versi in genovese e moglie di Frugone, erede del proprietario del cinema Splendor).

Segue il retro del palazzotto ex Banca d’Italia, oggi Banca popolare di Novara che in via Daste non ha civici di nessun tipo. Questo palazzo, fu costruito nell’angolo a mare e di ponente del giardino della villa Serra-Doria-Masnata (vedi via A.Cantore) che arrivava sino alla nostra strada; quindi prima di esso (dove è lo stacco che lo separa dal palazzo precedente) corrisponde a dove erano i cancelli della villa su detta.  


E probabilmente, alla fine ovest del palazzo, anche quelli della villa DeMari-Ronco descritta in via Nino Ronco.


 

 

 

 

 

Supportati dal fatto che, ancora oggi, lo spazio di questo stacco è diviso a

metà: a est un cancello, dietro il quale inizia una strada che porta a dei box  posti sotto il palazzo; a ponente un altro cancello chiude uno spazio di competenza del palazzo ex Banca d’Italia.

 


===civ. 59r Lo stacco di strada che si apre in via Cantore e rimane interposto con l’edificio dopo la Banca, appartiene a via Daste. In questo successivo palazzo, il primo negozio (in angolo con la grande via) porta questo numero; ad esso seguono le sottocifre A, B, ecc. sino alla G di un negozio di scarpe, ultimo di via Daste ed in angolo con

 

Via Giacomo Giovanetti

civ. 61r  Nel palazzo successivo, d’angolo c’è Chiurchi, vecchio negozio di macchine fotografiche (un primo negozio ricordo fu in via S.Canzio, poi in via CRolando presso il tunnel, ed infine qui), cannocchiali ed articoli similari.

Al 67r c’era un armaiolo (nel 2007 è vuoto; 2010 profumi); finisce col 75r.

Segue uno stacco senza titolazione propria, con piccolissimo corridoio slivellato che porta in via A.Cantore; e due inizi di una strada, sfruttati dal fioraio di via Cantore.

Il palazzo successivo ha civici che vanno dal 79r all’85r.

===nel rientro corrispondente al civ. 87r, raccontano che anticamente c’era una stalla –probabilmente di una villa.  Forse allora è in quei locali che nacque nel 1922 la prima sede del Partito Nazionale Fascista (vedi sopra, al civ. 41Ar), creata da soci dell’Universale che avevano abbracciato da subito la via politica dettata da Mussolini.

Segue un cancello per un rientro privato, che separa il palazzo (36 di via Cantore) successsivo, che ha civici dal 95r di un tabacchino, al 101r di TipToe scarpe.

 

Via della Cella

Segue, sino alla fine della strada, il retro dei civv. 42 e 44 di via A.Cantore, che ha solo quattro civici rossi, dal 103r al 109r. Via Daste finisce sbucando in

 

Via Antonio Cantore

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2)  CASEGGIATI POSTI A MARE DELLA STRADA= civici pari

Via Palazzo della Fortezza – dove scorre la separazione tra UU 26 e UU 28

===I civv. 2Ar (assegnato nel 1953 a nuova apertura), 4r e 6r: furono soppressi nel 1982 per ristrutturazione dell’edificio.

===sulla facciata laterale del giardino, a parte le colonnine spaccate o mancanti, è ancora nel 2007 visibile la targa in cemento di dedica del tratto stradale a “ via Generale Cantore”.   Sulla facciata nord del palazzo invece,

(descritto in quella via), c’è da anni una abusiva lapide di tipo cimiteriale del ventenne Luca Nalbone, milite volontario della Croce d’Oro, deceduto il 21 lug.1991 nelle vicinanze, per tragico incidente;  e così ricordato dagli amici (cronologicamente è stata la seconda, dopo quella similare di via Buranello; nel 2004 è la quarta e altre; sono sempre state “tollerate” o ignorate dalle autorità competenti (via P.Reti, via Campi, piazzale cimitero, via Buranello,...). Mi appaiono discutibili per gusto e scelta; sono dell’idea che un “amico”  - ne ho avuto anch’io - si porta nel cuore e nella mente, non su una targhetta; tutta la città è fatta di singoli casi, a volte drammatici e sconfortanti; ma se in luogo adatto ha lo scopo di stimolare una memorizzazione (di stampo foscoliano, di  stimolo a valutare il poco che siamo),


e per chi crede, una preghiera; ma per la strada è solo ostentazione di un dolore personale a fronte di una risposta indifferente dei passanti perché non conoscono il fatto nonché deposito di fiori di plastica sporchi di smog. Questa targa fu oggetto di discussione sul Gazzettino ed anche in Consiglio di Circoscrizione nel 1991 con pareri altrettanto contrari ma inutili).


 

=== civ.2   è un palazzo di 6 piani del 1928, progettato dall’ing. L.Solari, eretto in cemento armato su un’area di 364 mq ( 24x15 m) dall’impresa ing.L.Botto per conto dello ICP di Genova con classificazione ‘economica’;   contiene 22 alloggi per un totale di 87 vani.

I civici rossi di questo edificio vanno dal 10r al 14r (manca quindi l’8r)

===civ 12 nel 1933 vi aveva sede il gruppo locale della ‘Società Superstiti Garibaldini’, aggregato alla Associazione garibaldina di MS di Genova. Negli stessi locali, forse, c’era anche la ‘Società reduci patrie battaglie’.

===civ. 16r e 18r. Lex civ. 4 (oggi tutte le porte della villa, poste sulla strada portano numeri civici rossi: il 16 con ABCD sul lato a levante della rientranza; e 18ABCD sul lato via Daste.

Per la Soprintendenza la sede delle società ospitate nel palazzo si aprono “in piazza Treponti al civ. 2 –ex via Daste civv.4 e 6”).

   Questo ex 4, posto a sinistra della strada procedendo verso ponente, corrisponde alla terza villa Grimaldi (-Rebora) (ricordando la prima in via Dottesio e la seconda nel Palazzo della Fortezza; una quarta al civ.24, dei Grimaldi Gerace; una quinta dei Grimaldi-Carabinieri; demolite, la sesta  dei Salesiani e settima in via Rolando ex Cristofoli;  più altre  forse delle ben oltre 50 ville scomparse nei secoli).

        

                                                                                           1976

  Nata e progettata non si sa da chi, né quando; e neppure si sa, su ordinazione di chi della famiglia. Appare probabile sia stata eretta, sfruttando dei ruderi di una abbazia quattrocentesca  (di cui pure non si ha nessun accenno documentato, ma affermato, avendo gli esperti riscontrato la facciata a sud e relativa balconata in stile e modo più antichi del  rimanente, ed avendo una struttura tendenzialmente quadrata e massiccia in pietra, quando invece le nuove costruzioni già erano rettangolari e più snelle: nella pratica del vincolo originale, una nota sottolinea “Abbazia dei Grimaldi”  escludendo la Fortezza per concomitante attribuzione ad altri Grimaldi.

   Nel 1757, sulla carta del Vinzoni, appartenne al “magnifico Nicolò”; su essa si rileva sempre la forma quadrangolare con due ali laterali disposte verso  sud e la cui asimmetria avvalorerebbe l’ipotesi di una preesistente costruzione su cui fu giocoforza doversi adattare.

   Successive modifiche fecero costruire parti aggiunte laterali che ne appesantirono non poco la snella struttura di base.

   Nel 1800 pare vi abbia abitato capitan G.Bavastro (vedi).

   Sempre dagli anni della prima metà dell’800, divenne proprietà di Andrea Rebora e figli (pastai divenuti famosi conduttori di un grosso opificio (vedi via Bricchetti), i quali fecero ospitare la Madonna della Guardia (ma è un errore: probabilmente quanti hanno scritto così, han fatto frettoloso riferimento al pastore ai piedi per noi tipico del nostro santuario; in realtà è una Madonna senza il Bambino, con le braccia aperte, e con ai piedi il beato Bosso, venerata a Savona)  nella nicchia sovrastante il portone quale ex-voto per una grazia ricevuta (la miracolosa guarigione di un nipotino) apponendo sulla base della statua posta nella nicchia sopra il portone la scritta “protexisti et protegeris”. Se invece la nota storica è giusta, non so quando sia stata cambiata né da chi. I Rebora fecero erigere il loro grosso stabilimento distruggendo il bel giardino retrostante. Nel 1911-33 li ritroviamo sul Pagano (con l’allora titolazione di via sant’Antonio, poi via generale Cantore, 4) come pastificio, ed esercenti di un molino a vapore).

   Dal Pagano 1902 leggiamo che in questo edificio, che affiancava ‘via Goito’, gli succede tal Giordano Costatinoancora attivo nel 1912 fornitore di apparecchiature per molini (nel 1920 appare ancora presente, ma  scritto come costruttore edile,  tel 4204).

   Nel 1934, rinnovato nel 1955, l’edificio fu vincolato e tutelato dalla Sopraintendenza per i beni architettonici,  come monumento nazionale.

   Sulla facciata principale, rivolta su via Daste, la costruzione  appare a tre piani, mentre solo sui fianchi e sul retro sono visibili i finestrini degli ammezzati intermedi, nonché l’ampia loggia a 5 fornici con balaustra a pilastrini: questa è stato riconosciuto essere dell’ottocento, secondaria ad una ristrutturazione che cambiò l’uso dell’immobile da una conduzione unifamiliare, all’uso “produttivo” al piano terra e residenziale ai piani superiori.

  All’interno vengono ricordati affreschi alle volte del piano nobile e dell’atrio; e -nel salone principale- un inusuale divano seicentesco che ornava tutto il muro perimetrale.

   Nel 1976, il proprietario (la soc. Edilizia Palazzo Grimaldi) ottenuto l’annullamento del  vincolo monumentale causa i gravi danni subiti all’interno, fu autorizzata dalla Ripartizione edilizia comunale (pareva senza sottoporre il progetto al Consiglio di Circoscrizione ed alla Commissione urbanistica) a provvedere alla ristrutturazione della casa e ricostruirne l’interno ad appartamenti, (in conformità al progetto dell’arch. Francesco Elia e dell’ing. Elio Montaldo, lavori eseguiti dall’impresa Molfino di Camogli guidata dal capocantiere Aldo Siri), vincolando solo l’esterno a come era la villa originale nobiliare;  però ai lati, su due appendici già aggiunte molto tempo prima, per aumentare i vani abitativi furono apportate modifiche in larghezza da una parte ed in altezza dall’altra, modificando  l’estetica di base). (vedi sotto un commento, alla villa Lercari detta la “Semplicità”).

     

facciata a mare

 L’operazione fu oggetto di inutili ma vivaci critiche, interpellanze al sindaco, ed addirittura di sospettata speculazione edilizia. La risposta ufficiale fu che il parere favorevole ai lavori fu rilasciata dal Sindaco e dalla Soprintendenza ai monumenti della Liguria.

Il giardino, che verso sud era anche orto di prima qualità,  come appare nelle carte, era stretto e lungo ed arrivava fino al mare; dapprima fu la ferrovia -con la via G.Buranello affiancata (1850-4)- che ne tagliò trasversalmente il tratto distale; poi la ammassata edificazione,  completarono l’opera della totale scomparsa del verde e del senso di respiro, spogliando ed isolando la villa da farla apparire un normale palazzo.

 

Via Albini

===civ. 22 ABC r. D’angolo con la strada c’è un terrazzo all’altezza del piano nobile della villa seguente, sotto cui ci sono dei negozi.

Nel corpo della villa, iniziano i negozi con il 24r e terminano con 26C;

===civ. 8 (già civ.24 di via del Mercato):  sempre sul lato mare, subito dopo appare la  villa Lercari (-Sauli)    detta comunemente  “ la Semplicità “.

  

dal giardino delle Franzoniane                  facciata a mare                     da Largo Gozzano

La paternità è divisa tra due personaggi della vasta famiglia Lercari:

---la d.ssa P.Falzone, in “Le ville del Genovesato”,  scrive che “la villa è costruita per Giovanni Battista Lercari fu Stefano (1506-1592; doge 1563; e quindi, il suddetto GB Lercari fu Stefano, fu il nonno del GB Spinola→Lercari, che erediterà).

 

                                                                Stefano Lercari+Maria Giustiniani

                                                                                          |

              Luca Spinola di sLuca                               G.B. Lercari+Maria Imperiale

                                                           |                                        1506-1592-doge 1563    |            .            

                                                           |                                                         |                               |

                               GioMaria Spinola     +             Pellina                       G.Stefano                                                                                  

                                +1601                          |                                           +decapitato

                                                GB Spinola (di sPietro→ Lercari)+Maria Spinola

 

---Invece, A.Dagnino in “Genova e l’Europa Mediterranea”, e Santamaria in “Luca Cambiaso” scrivono che la villa costruita invece pochi anni prima da Franco Lercari (1523-1583; doge 1574):

                                                                                   Nicolò Lercari                                              

Non trovati  ambedue                                                    |                                                                        

sul  Battilana                                                             Franco          +Antonia De Marini                       

                                                                                                                          1523-1583-doge1574

                                                                                                      |

                                                                                                                                                                 non eredi

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Famiglia Lercari=   A conferma della presenza di questi ricchi mercanti anche nel nostro borgo da antica data, emerge un atto notarile datato 16 dicembre 1288, su cui si legge che

--Costantino Lercari comperò a Sestri  “15 moggi di calcina per la sua casa di Sampierdarena”. 

--Nel  maggio 1396 Luciano Lercari era conduttore ed amministratore della chiesa di S.M. della Cella.

--Un altro atto notarile stilato nel borgo, dice che in SPd’Arena fa testamento il 24 luglio 1424 tal Selvagia qm Gottifredo Vivaldi e vedova di qm Paolo Lercaro.

---Giambattista Lercari, nato nell’anno 1506 circa da Stefano e da Maria Giustiniani di Giovanni, fu educato con severi studi divenendo uomo d’alto ingegno, al punto che la Repubblica appena 22enne lo inviò a cariche importanti, e poi come ambasciatore a Bologna all’incoronazione di Carlo V (qui dovette usare la forza prendendo a schiaffi un senese per mantenere – come gli toccava - il posto vicino al trono: Genova da secoli stava per prima a fianco del regnante,  poi stavano i fiorentini, e dopo ancora i senesi);  ed in Francia. Poi procuratore della Repubblica interessandosi di gravi problemi di stato e dell’applicazione della legge del Garibetto voluta da A.Doria dopo la congiura dei Fieschi. Andò sposo a Maria Imperiale da cui ebbe GianStefano e Pellina (che maritandosi con GioMaria Spinola diede inizio alla casata dei duchi di s.Pietro. Fu in quest’ultimo e in questi anni che ordinò la villa in San Pier d’Arena. Infatti il 7 ottobre 1563 fu eletto Doge. Dopo la sua nomina, maturarono alcuni problemi: di fronte alla sua integrità, caritatevolezza e benevolenza, nacquero le accuse di eccesso di potere, decisionalità ed alterigia al punto di renderlo odioso a molti nobili cosicché quando finì l’incarico di doge, non fu ascritto tra i Procuratori Perpetui, come era uso. Si ritirò nella sua casa di campagna, ma solo per pochi giorni perché ribellandosi alla decisione del Sindacato dei Supremi, si fece appoggiare dalla monarchia straniera peggiorando la sua situazione in un clima di voluta totale libertà della Repubblica a decidere. Tale fu il suo sdegno e smania, che il figlio 27enne GianStefano decise di vendicarlo attentando all’ex doge Luca Spinola entrato in carica prima del padre e che, con severità, aveva concluso le decisioni avverse al genitore. L’attentato commesso da un sicario, non colpì la persona giusta, ma portò a morte un accompagnatore dell’ex doge. Risaliti al colpevole, fu condannato alla forca, e nulla poterono gli strazianti tentativi del padre se non a trasformare la condanna ignominiosa in una morte per decapitazione da eseguirsi non in pubblico. Dopo un viaggio in Tunisia (prima del 1570 quando la Tunisia fu conquistata agli spagnoli dai turchi; la battaglia di Lepanto avvenne nel 1571) ove rifiutò importanti cariche, preferì tornare nella casa di campagna. Ma i tempi mutarono: i nobili di casate antiche che detenevano le redini del potere in virtù della legge del Garibetto voluta da A.Doria, perdeva potere sotto la pressione dei nobili di estrazione popolare e quindi favorevoli al popolo, ed il Senato ritenne opportuno  richiamarlo alla sua direzione per riportare equilibrio, nuove leggi e rappacificazione. Gli fu proposta la revisione della sua bocciatura a Procuratore e di riconoscere i propri torti, ma lui rifiutò, apprestandosi a servire la Repubblica nella veste di magistrato. Nel contempo nel 1584 scrisse un libro con lo pseudonimo di DeBenedetti Stefano, dato alle stampe in Milano, con cui offrì fiele al Senato che nulla poté se non cercare di accaparrare il maggior numero di copie per distruggerle. Di cuore generoso, ebbe a distribuire molti beni, in grano e soldi a strutture benefiche ottenendo per riconoscenza una grossa statua posta a lato della porta alla sala del Gran Consiglio nel Banco. Morì nel 1592, a 85 anni lasciando in testamento cospicue somme in elemosine. Fu sepolto nella chiesa di san Nicolò al Boschetto).

-Il mag.co Franco Lercari q. Nicolò e Lucietta Imperiale, nacque il 16.3.1523 e morì sessantenne a fine febbraio del 1583; rimasto precocemente orfano, fu affidato allo zio Andrea Imperiale che lo crebbe assieme a suo figlio Davide.

Crebbe seguendo tutta la trafila degli impegni e responsabilità civili tipiche: esponente di spicco della vecchia nobiltà locale, ricco finanziere con notevoli solvibilità nei più svariati traffici con la Spagna; proprietario di saline, di terreni nel napoletano nell’ovadese. Era comunemente conosciuto come “il ricco”.

Fu un politicamente impegnato, già Deputato alla Fabbrica del Ducale; a 42 anni (1565) Membro dei Padri del Comune, senatore (1574 e 1577); protagonista della guerra civile  (1575-6) guidando il rientro in città dei nobili fuggiaschi e dopo la pace di Casale prendendo in mano le redini della città; conservatore dei regi sigilli del regno di Napoli (carica che amministrava da Genova, per incarico del re di Spagna) ; esponente dei nobili ‘vecchi’.

Sposò Antonia DeMarini Castagna (mentre il cugino Davide Imperiale sposò la sorella di Antonia, Aurelia; ambedue imparentate con Urbano VII GBCastagna, papa per 13 gg,). dalla quale non ebbe eredi diretti.  

Come collezionista   raccolse libri; argenti (famosi quelli commissionati al portoghese Antonio DeCastro –un bacile ed una stagnara- con imprese di Megollo Lercari; oggi in collez.Cini a Venezia. Nel bacile sono evidenziate le allegorie della Prudenza, con specchio; Fortezza, appoggiata a colonna-; Giustizia con spada e bilancia; Temperanza che travasa da un’anfora all’altra; Fede con mani giunte; Speranza con suardo al cielo); quadri del Cambiaso (molti), Semino, Andrea del Sarto, Tintoretto, Passano, Anguisola (già attribuito al Cambiaso)); arazzi

Tra i possibili eredi, scelse –in primis- un cugino GioGiacomo Imperiale q. David (che non erediterà); ed in secundis di un lungo elenco di possibilità successive, Gio.Carlo, figlio del cugino Davide Imperiale (alla cui famiglia si sentiva molto riconoscente). E Santamaria scrive che fu lui ad avere il doppio cognome Imperiale-Lercari, suffragando la tesi con i nomi degli eredi dei vari fedecommessi lasciati da Franco GiannAgostino I-L; e FrancescoMaria I-L (doge; quello del ‘mi chi’ a Versailles).

Da altri invece si scrive diverso (basandosi anche sulle decorazioni interne):  non Imperiale-Lercari, ma Spinola-Lercari): era in nota anche il lontano parente figlio di Pellina Lercari (vedi schema sopra): G.B. Spinola = quello che diverrà Lercari e che poi decorerà la vicina villa Spinola sampierdarenese; figlio di GioMaria Spinola q. Luca (+ 1601) di s.Luca e di Pellina Lercari figlia del doge GBatta Lercari q. Stefano (costruttore del palazzo di via Orefici 7 ).

Comunque il ricco testamento, stilato il 27.2.1583 (in assenza di eredi diretti, presso il  notaio Leonardo Chiavari  stilò un testamento comprendente la volontà che la villa di SPd’A detta la Semplicità’; ed istituì un  fidecommesso (vincolo che –come istituzione- verrà soppresso il 26 marzo 1799 dal Consiglio dei Seniors della Re.Ligure)  mirato a salvaguardare la continuità della sua casata,  obbligando l’erede ad assumere anche il cognome di Lercari. Lasciava una somma di 200mila lire da far fruttare (con il multiplico) fino ad arrivare a 2milioni; una volta raggiunta la cifra, sarebbe stata ripartita in parte in reinvestimenti ed in parte in elargizioni benefiche.

Franco fu –come tanti altri- affetto dal male dell’epoca detto ‘della pietra’ ovvero spesa di ingenti somme per opere pubbliche  (tappezzamento pareti delle due più importanti saloni del Ducale (sala del Maggior Consiglio e del Senato); noché ville padronali (la nostra “Semplicità” extra moenia, che poi verrà acquistata dai Grimaldi e da loro ristrutturata nel 1559-60;  e dopo, 1571,  anche la dimora in Strada Nuova che appartiene ai Rolli).  

Fu anche uno dei maggiori committenti d’arte del Cinquecento: ebbe a contratto i migliori artisti locali del tempo (GB Castello detto il Bergamasco; Luca Cambiaso (protagonista); Ottavio ed Andrea Semino; la famiglia Calvi; Taddeo Carlone; Rocco Orsolino. Ricuperò la storia di un suo avo Megollo (ne fece incidere undici scene su un piatto d’argento (l’argentiere richiese 14 mesi di tempo per inciderlo), altre quattro dipingerle su una brocca, ed altre nel suo palazzo in strada Nuova (via Garibaldi;  da Luca Cambiaso) e sulle erme del portale (da Taddeo Carlone);

Con i suoi beni contribuì a abbellire delle chiese: comprò una cappelladella Vergine, nel duomo di s.Lorenzo (lato sin., della quale tenne il patronato) e l’abside maggiore col coro della chiesa della Maddalena; fece erigere la sala del capitolo di s.Francesco di Castelletto, 2 ospedali, parte del molo, dell’arsenale, dell’acquedotto e delle mura.

 

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Il commissionario, nel 1559-60 fece aprire il cantiere di palazzo a SPdA che, nel 1565 sarà già abitato

 

Villa=   I due ricercatori su detti, convengono che la villa fu costruita nel periodo tra il 1558-1563.  Sorse su disegni dell’architetto Bernardino  Cantone da Cabio (sicuramente attivo nel 1560) e da Bernardo Spazio  (presente nel 1561-2),  ambedue seguaci dei dettami architettonici dell’ Alessi (all’Alessi  stesso fu inizialmente attribuita da Gauthier e dall’Alizeri).

   Nel 1598 venne qui ospitata Margherita d’Austria. Quattordicenne, passò per Genova con ampio seguito, da dove imbarcarsi per la Spagna a sposarsi (1599).

La storia ha origine nel programma dei monarchi di favorire con i matrimoni le relazioni tra Spagna ed Impero austro-germanico degli Asburgo; e Genova era la cerniera in questi rapporti anche se finiti i tempi aurei di A.Doria, ora era succube e vessata dalla prepotenza spagnola.

Il re spagnolo Filippo II  accettò imparentare i suoi due figli (IsabellaClara e Filippo) con la casa dell’imperatore d’Austria, concedendo la figlia infanta al cugino l’arciduca Alberto fratello di Margherita d’Austria ed acquisendo quest’ultima per il futuro Filippo III .

 

  Carlo (V d’Alemagna e I di Spagna;1500-1558) + Isabella di Portogallo__________________

                    |                                                                         |                                        |                   |

            linea d’Austria (impero)                                  linea Spagnola (regno)         altri 3 figli naturali

                    |                                                                         |

 Maria d’Austria+MassimilianoII (1527-1576)        Filippo II+Isabella di Valois +Anna d’Austria

  |                    |                   |                        |                                              |                            |

 Ferdinando  RodolfoII  Margherita  Alberto                                        Clara                FilippoIII

                    Imperatore                       1559-1621                                                                                  1578-1621

 

 

Quindi sia Margherita e FilippoIII che Alberto e Clara, erano rispettivamente cugini primi.

Filippo II re di Spagna (1527-1598-figlio di Carlo V  e di Isabella di Portogallo. Ebbe 4 mogli = dalla prima Maria di Portogallo morta di parto, ebbe Carlo che però, ritardato mentale, morì giovane. Poi Maria Tudor, sterile,  morta dopo 15 mesi. Terza fu Isabella di Valois con la quale il re ebbe nel 1566 Isabella Clara. Infine Anna d’Austria -figlia di MassimilianoII e sorella di RodolfoII- dalla quale ebbe l’erede maschio che assumerà il nome Filippo III)

Alberto d’Asburgo, nato a Neustadt nel 1559 e morto – seppellito nella chiesa di s.Gudula - a Bruxelless nel 1621, arciduca, principe dei Paesi Bassi, nominato cardinale da papa Gregorio XIII nel 1577, arcivescovo di Toledo ed inquisitore in Spagna. Divenne prima governatore del Portogallo e dal 1596 dei Paesi Bassi cattolici (allora in guerra con la Francia). Fu obbligato da Filippo II a sposare sua figlia IsabellaClara portando in dote il governatorato dei Paesi Bassi (che – a seguito della pace di Vervins del 1598 con la Francia - si erano separati dalla Spagna. Dimostrò così essere abile militare, ottimo governatore, protettore delle arti e scienza, guardiano della fede cattolica contro gli eretici.

Isabella Clara. Pizzagalli conferma che la figlia di Filippo II aveva acconsentito di sposarsi 35enne solo dopo la morte del padre avvenuta nel  settembre dell’anno delle nozze (1598). Arrivò a Genova il 18 giugno 1599 con il suo seguito, diretta verso Bruxelles ove col marito l’arciduca Alberto avrebbe governato i Paesi Bassi; ci furono sontuosi banchetti e “gli arciduchi restarono in città circa dieci giorni installandosi a due leghe da Genova, nella principesca villa dei Doria a Perdese” (?; pag.214 del libro su Anguissola; o Pavese=Doria-Franzoniane) ed aggiunge che qui ebbe modo di riincontrare Sofonisba Anguissola pittrice che era stata dama di compagnia della madre.

Nel libro sulla vita della Anguissola, così viene chiamata dalla pittrice, mentre altri Eugenia Clara ed altri ancora solamente Clara. Forse è giusto il primo, essendo nata da Isabella di Valois. Arrivata il 18 giugno 1599, anche lei  accompagnata da numerose galee,  si fermò 10 giorni pernottando –e qui si ripete il Pizzagalli-  “a due leghe da Genova  nella principesca villa dei Doria a Perdese” e dove la pittrice eseguì un ritratto dell’infanta (che poi fu inviato al fratellastro FilippoIII)   

FilippoIII  1578-1621. Divenne re dal 1598. Ebbe ai suoi ordini Ambrogio Spinola; ma compromise le condizioni economiche del regno iniziando nel 1618 la guerra dei Trentanni.  Dalle sue nozze con Margherita d’Austria, nacquero sia Anna d’Austria II (che poi divenne regina di Francia sposando Luigi XIII; dai quali nacquero Luigi XIV e Filippo il capostipite della famiglia degli Orleans) e Filippo IV re dal 1621 il quale non riuscì a risollevare le sorti economiche del paese protraendo le guerra dei Trentanni ed altre perdute.

Margherita d’Austria-Stiria  non ha lasciato particolarità storiche di rilievo. Sappiamo che nacque a Graz  nel 1584, divenne moglie di Filippo nel 1599; fu donna molto pia, fondò numerosi monasteri;  morì a Madrid nel 1611. Era nipote dell’imperatore Rodolfo.

Annunciate le nozze, dall’Austria verso la Spagna si mosse uno stuolo di nobili–ciascuno dei quali con il proprio seguito (in totale 1200 persone, più cavalli, muli, carri e bagagli). Oltre i due diretti interessati, anche la madre della futura regina (principessa Maria di Baviera) ed il conestabile di Castiglia governatore di Milano. Molti i nobili tedeschi, spagnoli ed italiani che partiti dall’Austria e Veneto si unirono congiungendosi a Bologna ove i delegati del papa Clemente VIII benedissero due -delle due coppie- prima delle nozze ufficiali; per poi passare per Milano e scendere a Genova ove si fermarono dieci giorni a spese della Repubblica prima di imbarcarsi sulle 40 galee reali predisposte da GiovanniAndrea Doria.

La città aveva dovuto addobbarsi ed organizzarsi già prima, mentre quattro nobili senatori precedevano la carovana a Cremona per porre accoglienza nelle terre  liguri,  alloggiare tutti gli ospiti nelle varie ville disponibili sia a Novi, Voltaggio, Campomorone ed infine San Pier d’Arena: la futura regina  nel palazzo Lercari. Il quarto giorno, il Doge Lazzaro Grimaldi (vedilo in via Daste) accompagnato dalle guardie svizzere e da 350 tra senatori e  nobili, a cavallo  venne nel borgo per colloquiare con Margherita tramite interprete considerato che parlava solo tedesco, e per invitarla ad un pranzo in Fassolo: le dame in lettiga, gli uomini a cavallo raggiunsero la villa dei Doria. Qui il cerimoniale voleva che l’Arciduca prendesse per mano la nipote Margherita, mentre al doge toccava offrire il braccio alla madre, ma il conestabile anticipò il Grimaldi porgendo il braccio all’imperatrice dando così fuoco a velenose accuse contro il Doge, di aver lasciato offendere la Repubblica e quindi essere inetto a reggere le sorti dello stato. Queste perfide parole causarono tale mortificazione nel nostro duce che si sentì male, e dopo pochi giorni furono causa del suo prematuro decesso (16.2.1599) proprio nel giorno in cui gli ospiti iniziarono a veleggiare per la Spagna

 

Così, nel biennio 1598-99,  a Genova avvennero due scali incrociati: il primo, da Vienna a Madrid (di Margherita e di Alberto, andati in Spagna a sposarsi con i  reali locali)  e l’anno dopo,  provenienti da Madrid, di Clara e del marito arciduca Alberto d’Asburgo, in viaggio per  ritornare a Bruxelles e governare i Paesi Bassi.

 

In parte la narrazione di questi fatti viene ingarbugliata da confusioni degli stessi Storici: così narrano permanenza di 10 giorni del gruppo all’andata uguale a quello del ritorno; la presenza in porto di 40 galee atte a trasportare il vasto seguito dei reali d’Austria nel 1598 che vengono parimenti contate per il ritorno di Clara ed Alberto nell’anno 1599; qualcuno che fa tornare Clara a Genova, altri che la fa sbarcare a Savona (forse dopo Genova; ma non avrebbe senso questa tappa in più. Infatti  Verzellino  scrive (ponendo il fatto nell’ anno 1581; da Vienna, l’8 novembre): “giunse in Savona con 43 galere del principe Doria l’imperatrice  Maria d’Austria col seguito (figliuola di Carlo V, vedova di Massimiliano e madre di Rodolfo Imperatori, sorella di FilippoII re di Spagna (1527-1598) che la chiamò al governo del regno di Portogallo. Assieme con Margherita sua figliuola minore, accompagnata da Ferdinando suo figliolo e Carlo suo cognato arciduchi d’Austria, ed assaissimi signori e cavalieri titolati di Austria, Boemia, Ongaria, Alemagna e Italia; e  Lodovico Taberna vescovo di Lodi, noncio apostolico; e compagnia dei cantori”).

 

   Nel 1757, sulla carta vinzoniana, appartiene sempre alla famiglia Lercari, essendo intestata a Cristoforo Imperiale Lercari.


   Nel tardo 1700, divenne proprietà della famiglia Sauli (ed in quegli anni, anche questo palazzo fu requisito dai francesi per dare alloggio agli ufficiali dell’Armata).

arma dei Sauli, corona ducale


  Negli archivi della famiglia Sauli si leggono sette fascicoli, alcuni a stampa, relativi ad una lite con i Grimaldi, per due imprecisati palazzi e ville situati in San Pier d’Arena “alla marina”, iniziata nel 1660 e conclusa nel 1718.

I Sauli, chi li fa esuli da Lucca (negli anni 1329), chi originari di Sori (SauriàSauli). Dal 1393 i primi sono descritti già fiorentemente attivi  sia con i ‘luoghi del Banco di s.Giorgio’, sia in investimenti commerciali in città ed in oriente (Chio), con un Bendinelli senior che andrà sposo ad una Usodimare. Seguaci degli Adorno, furono ambasciatori (anni 1495-1515)  molto attenti alle arti (Bendinelli I diede il via alla basilica di Carignano) ed alla cultura. Nel 1530 furono tra le otto famiglie più ricche della città assieme ai Grimaldi, DiNegro, Pallavicini, Doria; sette sono i loro palazzi facenti parte dei rolli. Il 22.2.1599 Lorenzo (1535-1601; pugnalato) venne eletto doge, ma coronato venti giorni dopo perché in città non c’erano stoffe per le livree né la seta per l’abito del duce.  Numerosi gli ambasciatori, cardinali, vescovi di levatura internazionale (Bendinelli III  partecipò alla battaglia di Lepanto a proprie spese con una galea )

Alla fine del 1800 divenne di Nasturzio Silvestro (questi, nato il 10 ott. 1847 sfruttò il giardino per costruire la sede dello stabilimento di conserve, creato come ‘società collettiva’. La fabbrica era già molto attiva  dal 1904.  Nel 1908 Silvestro risulta essere il più grosso a livello regionale con capitale genovese costituitosi allora con 1,5 milioni.  Entrato in crisi negli anni 1909-10, andò sull’orlo del fallimento sia per aumento dei costi di produzione, sia per un crollo dei prezzi (svendita da parte di altri fabbricanti), fu offerto all’asta per 430mila lire  (creando uno scandalo sia per sopravalutazione degli impianti, sia per aver presentato irregolarità amministrative) e rivalutato 125mila lire. Aveva annesso anche il settore cromolitografico capace di realizzare immagini su banda stagnata, destinate a decorare le latte. Nel giu.1910 si trasformò in ‘Società ligure per la lavorazione della latta e la fabbricazione di conserve’ con nuovo capitale di 450mila lire in buona parte versato dai Raggio. Ma già l’anno dopo 1911 era costretto ad una produzione ridotta al 50% rispetto le sue potenzialità al punto da dover produrre recipienti per altri scopi (benzina, petrolio). Il  cav. Nasturzio era sia proprietario di terreni in via Daste e vicinanze (e li usò per costruire caseggiati); e sia anche proprietario di una fabbrica di ghiaccio –forse quella al Campasso in via Spaventa-   e rifornì l’ospedale del prezioso materiale in forma gratuita per anni, fino alla chiusura dell’attività nel 1921 (per questo l’ospedale  lo iscriverà nel libro d’oro dei benefattori e gli dedicherà un busto, da  sistemarsi nel padiglione maternità: fu una classica figura del borghese divenuto ricco, subentrato all’aristocratico,  capace di grossi interessi, con benevola attenzione al sociale come era d’uso a quel tempo). Nel 1927 leggiamo che il cavaliere, ottantenne, festeggiò con i soci del Circolo Unione, offrendo un pranzo. Nel 1951 la società era col semplice nome «Nasturzio ‘Ligure Latta’» una delle 12 società del settore ancora esistenti nel nostro territorio, con sede in via G.Buranello civ.1.  Il non rinnovo degli impianti divenuti quindi obsoleti, ed anche il metodo di lavoro non adeguato ai tempi ed alla tecnologia più avanzata, portarono ad un dissesto economico insanabile nell’ anno 1976 quando lo stabilimento chiuse per fallimento, ma rimanendo per mesi occupato dalle maestranze licenziate; l’idea di vendere a privati l’area fu impedita dal piano regolatore che prevedeva un vincolo per uso dell’area a scopo istruzione pubblica e per l’impossibilità del Comune di onorare la spesa; i vari progetti tra cui anche destinare l’area a parcheggio interrato in concessione gratuita al Comune, fallirono.

   Nell’ultima guerra, il 9 sett.1944 una incursione aerea distrusse la loggia a ponente e recò gravi danni generali; nell’impossibilità di poterla riparare e proposta come irrimediabilmente compromessa, i proprietari la cedettero alla cooperativa privata ‘Settima Società Cooperativa’ (costituita tra cittadini sampierdarenesi, tra cui Carlo Argeri, e con direttore dei lavori l’ing. Mario Caiti di Sampierdarena).

 

prima dei restauri                                   lo stabilimento Nasturzo

   Come ‘palazzo Sauli’ solo nel 1957 fu vincolato e tutelato dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

   Ciò malgrado negli anni 1960 si provvide a sventrarla completamente e -salvaguardando solamente l’esterno e la struttura del tetto secondo i vincoli stabiliti dal Ministero della P.I.Antichità e Belle Arti (con la formula ‘dove era come era’)- fu ristrutturata totalmente ad appartamenti, eliminando qualsiasi traccia interna della vecchia struttura. Infatti, alla toponomastica appare che il cv. 8 fu soppresso nel 1961 per demolizione e riassegnato a ‘nuova costruzione’ nel 1964.

Di fronte alle severe normative CEE – su impianti elettrici, prevenzione incendi, barriere tagliafuoco, ecc.- dovremo fidarci di chi, a quei tempi diede l’autorizzazione a questo tipo di intervento (applicato anche in altre dimore, non per fortuna alla villa Serra-Monticelli, restaurata negli anni 1997-99), però il dubbio di una certa leggerezza rimane e merita comunque una denuncia morale a chi permise questo scempio senza un più approfondito progetto di salvaguardia delle antiche strutture.

   La facciata principale, non si apre sulla strada principale, ma a levante  (diversa come struttura architettonica, ma volutamente posizionando l’ingresso a ponente, simmetrico ed opposto al palazzo della Fortezza, che ha l’ingresso a levante del palazzo, da creare con essa e la villa Imperiale uno spazio prospettico ben definito, quale ‘di borgo nel borgo’).

   La soffocante edificazione attorno, impedisce quasi di accorgersi di questa particolarità, forse così ideata nel desiderio di sfruttare  l’esiguo giardino che possedeva  esteso a ponente ed a sud della proprietà. La carenza di spazi privati, fu compensata da una apertura della soluzione planimetrica: le due logge contrapposte ai fianchi del salone centrale riescono a dare  una perfetta soluzione del rapporto spazi interni-esterni.

   Il giardino, stretto e lungo, arrivava sino al mare: dal piazzale posto davanti all’ingresso, era racchiuso da un alto muro a secco che sulla via principale aveva un grosso portale, proprio dove ora si apre l’avvio verso il Centro Civico. Il giardino fece la fine degli altri, tagliato dalla ferrovia e poi  totalmente lottizzato per case  da abitazione.

   De Landolina - sbagliando col palazzo Doria, posto di fronte - scrive che «v’àn sede, le suore Franzoniane che vi tengon convitto...»,.

 

===civ. 8A: l’edificio ristrutturato appare assegnato nel 1984 a scuola succursale ed a Centro Civico, della Circoscrizione CentroOvest - su progetto dell’ing. Guido Veneziani - inaugurata ufficialmente il 19 magg.1984 alla presenza del sindaco Cerofolini, dedicato a G.Buranello.

                                        

il prof. Gallino; di Airaldi                                                                  album della Biblioteca

Esternamente appare in vistoso, stridente e soffocante contrasto con la villa precedente, non tanto e solo  per il cemento grezzo, quanto per la plastica vivacemente colorata ed in contrasto con il grigio dei palazzi sampierdarenesi; ovviamente fu fonte di vivaci contrasti ideologici: penso che questo impatto sia stato voluto, proprio per distinguere l’edificio e dire che esso è moderno e con la voglia di vivere dentro, anche se metaforicamente ricorda il film disneiano  “la bella e la bestia”.

Con la spesa di 10 miliardi circa (di cui uno usato per gli arredi: questa spesa fu giudicata eccessiva essendo stato il materiale acquistato  presso  aziende le più ‘in’ del momento, determinò una arroventata seduta in consiglio comunale), fu eretto utilizzando l’area (e riuso di alcune strutture) occupata -dalla seconda metà del 1800- dallo stabilimento  di Silvestro Nasturzio.

  Su una superficie complessiva di 4270 mq, si alza a forma di L per tre piani, privo di barriere architettoniche sia orizzontali che verticali; è gestito da un Comitato polivalente (funzionari del Comune, politici e forze politico-sociali locali; vuole essere “spazio pubblico, aperto al contributo della partecipazione diretta, all’incontro ed al confronto dei cittadini, delle istituzioni, delle associazioni siano esse ‘cittadine’ o localizzate nel quartiere”).

   Contiene un centro sociale (due sale poliuso (capaci di 100 persone sedute con eventuale spazio espositivo); un auditorium con 300 posti a sedere,  per cultura, concerti, spettacoli, animazione, dibattiti e convegni; un refettorio per la mensa. La prima mostra apparve il 2 feb.1984 sul tema “photo america ’84 – obiettivi sull’america latina” realizzata dal Comune, e seguita da “Mondo sommerso”); due palestre (di cui una molto grande, contornata da gradinata capace di ospitare su seggiolini 285 persone, ed omologata per incontri nazionali di volley; attrezzata per gli sport da palestra: arti marziali, pallacanestro, pallavolo, ginnastica, calcetto, ecc.; uno spazio collegato, permette corsi di ginnastica di piccoli gruppi (ginnastica correttiva, o altro). Vi fa perno il Centro Polisportivo Buranello, servizio per bambini e ragazzi accreditato dal Comune a carattere socio educativo e ludico); una scuola media, succursale della Barabino, sita in palazzo Masnata di via A.Cantore; la bella e ben tenuta biblioteca Gallino (La biblioteca, iniziò il 10 dicembre 1851 (data della delibera comunale), con due fondi librari consecutivi (109 libri vincolati dal donatore Emanuele Nicolò Pratolongo, ispettore delle imposte dirette e morto nel 1929,  “per uso della Biblioteca pubblica” allegata alla scuola comunale) donati -quel giorno stesso e poi ancora altri il 30 successivo- al sindaco GB.Tubino (che di suo ne aggiunse altri). L’anno dopo anche l’arciprete parroco della Cella don Stefano Parodi (poi Canonico della Metropolitana di s. Lorenzo) fece una donazione di libri, permettendo arrivare ad averne 407 in totale. Due fonti diverse, danno  quantitativi diversi dai tre donatori, e rispettivamente 109-98-200 e 106-139-162).

   La scuola trovò sistemazione nel palazzo Centurione del Monastero ad iniziare dal 1852; ma la biblioteca dovette aspettare 20 anni prima di poter essere aperta al pubblico (dal 20 marzo 1870 con orario dalle ore 18 alle 22, dopo averne annunciato l’apertura con manifesti murali), non esistendo ancora la mentalità  organizzativa adatta ed i fondi: pur offrendosi al Governo per aprire una pubblica biblioteca, e ricevendo pertanto un certo numero di volumi (dal Ministero Industria-Agricoltura-Commercio circa 2193 libri, provenienti da conventi soppressi dei Cappuccini di S.Margherita, di Bagnara in comune di Quarto al Mare, e dei Minori Osservanti di Moneglia; non si sa perché rifiutò  300 volumi dei Cappuccini di Campi-Cornigliano) si creò una non indifferente confusione  non tanto mescolando i libri di varia provenienza, ma non tenendone conto con una catalogazione opportuna (eventuali libri rari o codici: infatti risultavano esserci otto incunaboli e manoscritti vari della fine del 1400, ma che nel 1929 erano già ‘perduti’).  Altro munifico donatore, divenne padre agostiniano Giuseppe Bistolfi, già direttore della scuola che aggiunse 544 volumi e 53 opuscoli.

   Alla fine del 1877 il numero dei libri obbligò cercare una nuova sede: fu trasferita nel palazzo Imperiale-Scassi di via A.Cantore.

   Solo nel 1905 quando si aprirono le scuole dedicate a Mazzini ed a sua madre, la biblioteca poté tornare nel palazzo Centurione del Monastero, in restauro (fino al 1911) da parte dell’ing.A.Cuneo; in quell’anno i libri censiti erano 6398, divenuti 6593 nel 1911.

Nel 1915, allo scoppio della guerra, la sala fu chiusa al pubblico ed adibita a laboratorio di indumenti militari; tale chiusura rimase in atto fino al 1921 quando –affidata per la gestione ad una commissione scientifica- fu riaperta  con orario 15,30-18 e 19,30-22.

   Nel 1935, il Comune, da 9 anni ormai della Grande Genova, decise un nuovo trasferimento nel piano nobile del palazzo Doria-Masnata di via Cantore: in questa occasione fu munita di scaffali metallici (la prima ad usarli in Italia) e si riscontrò che il catalogo –per autori e materia- era incompleto ed antiquato.

   Ma quattro anni dopo, nel 1939,  per conclamate esigenze del liceo classico insediato nella stessa struttura, si ordinò un ennesimo quinto trasferimento al civ.4 di via A.Saffi (da poco divenuta via E.Mazzucco, oggi via C.Rolando), preso in affitto dal Comune ed ove rimase aperta in due soli vani anche durante il periodo bellico perché l’austero palazzotto, già degli Spinola, era purtroppo però già occupato da altre  attività: si riuscì a spostare i VVUU –e ricuperare altre due stanze- ma non per esempio gli uffici di un sindacato lavoratori. Nel 1947 incorporò 475 volumi della biblioteca Guerrazzi di Cornigliano. Mentre erano in corso trattative per l’acquisto dell’immobile, esse fallirono e fu gioco forza dover reperire altrove lo spazio necessario.

In questo periodo, bibliotecario fu il prof. Fausto Micheli insegnante di lettere. Era amico ed ammiratore di Francesco GALLINO


 il quale per trent’anni era stato insegnante di scienze matematiche nelle scuole secondarie di Sampierdarena. Nato qui in città il 6 novembre 1878,  morì prematuramente a soli 50 anni il 28 novembre 1929; alla sua salma fu concesso a titolo d’onore una tomba perpetua nel cimitero della Castagna.

Si era distinto anche nel campo della pubblica assistenza divenendo presidente della Congregazione di Carità, e dell’ammi- nistrazione dell’Ospedale (nel periodo di nascita del ‘Villa Scassi’, nel trasloco da villa Masnata a, in alto, a quota40) in seno al quale era stato attivo fautore del trasferimento. Fu il Micheli che promosse e riuscì – per ‘volere popolare’ espresso verbalmente dal podestà - e non per delibera comunale, a far  titolare nel 1938 la biblioteca  al Gallino.

 


   Nel 1952 le attenzioni si concentrarono su un appezzamento di terreno in via A.Cantore, affidato all’associazione Combattenti perché dal piano regolatore valutato inedificabile. Otto anni occorsero per modificare la legislazione.

   Nel lug.1954 i registri segnalavano la presenza di 13.703 volumi; nel dic.1967  erano 18.892 (numericamente sesti nell’ambito delle biblioteche comunali ed undicesimi in città) contro i 347.457 della biblioteca dell’Università ed i 115.664 della Berio. 

   Finché nel 1960 su progetto dell’ing. Giorgio Olcese, (allora vice capo alla Ripartizione Edilizia) su quel terreno a ponente della scuola e lievemente sopraelevato rispetto il piano stradale fu eretta la palazzina destinata ad ospitare specificatamente la Biblioteca (in realtà l’apertura di via Cantore determinò un abbassamento del piano viabile tanto che alla villa affiancata dovettero aggiungere i due scaloni in origine non esistenti).

   Nel 1961 la biblioteca venne privata delle opere stampate prima del XIX secolo, accentrate alla Berio con scopo conservativo. Nel 1964 fu inaugurata con l’applicazione su un muro vicino l’ingresso  di una lapide  che iniziava con “ dall’angustia di antichi palazzi, alla studiata capienza di questo edificio, nel nome di Francesco Gallino nel 94° di fondazione...”***.

Le sale offrivano in lettura 40mila volumi e si aprivano anche a dibattiti, concerti, convegni, mostre e lezioni sia di musica che giornalismo.

   Nel novembre 1988 avvenne il settimo trasloco, con  collocazione -speriamo definitiva- nel Centro civico; nel passaggio avvenne anche il trapasso delle consegne dalla ex direttrice dr MTeresa Morano, alla neo nominata dr Cassinasco Maura.

   Nel 2002 ancora una generosa donazione di 500 libri da parte di due signore, di cui una di Pegli permisero avvicinarsi sensibilmente ai 50mila volumi; e la palazzina in via Cantore -che nel 2002 viene ancora popolarmente conosciuta col nome del Gallino- rimane un magazzino,  deposito cartaceo e di libri da tenere anche se non aggiornati e/o da utilizzare correntemente.

Responsabile divenne il sampierdarenese dr. Francesco Remedi. Si scrive che come importanza e numero di volumi ora è la terza delle comunali, contando oltre circa 50mila libri, servizio periodici correnti e passati, varie sale lettura, ed una di gioco-lettura per i piccini; e può permettersi di donare vari volumi a tema (cucina, ricamo, cucito) per la scuola delle vespertine nei giardini Pavanello. Quando per motivio di salute ha dovutro lasciare l’incarico, è stato sostituito dalla dr.ssa Langella

   L’insieme viene eufemisticamente chiamato il ‘Beaubourg del ponente’ (chissà perché questa mania di assomigliare agli altri).

   Nel marzo 2004 fece scalpore la scoperta di un tossicodipendente trovato nell’atto del buco, nascosto in un angolo del cortile, confuso nel degrado causato dalle attrezzature necessarie per apportare la posa di cavi della corrente per alimentare il progettato (ma nel 2008 ancora non realizato) prolungamento dei filobus da san Benigno. Dopo 20 anni d’uso l’edificio già accusa il peso degli anni necessitando di grandi spese di manutenzione straordinaria (190mila euro) ed ammodernamento (30mila euro; da essi anche l’insonorizzazione da parte dei rumori della ferrovia e della palestra sottostante).

===civ. 10 è l’ultimo dell’isolato; l’ultima vetrina appartiene ad una della farmacia dell’Ospedale, o Gioberti.

   Portone molto semplice, col minimo architettonico dell’epoca

 

Via Gioberti

Inizia un tratto di percorso assai ristretto, probabile della stessa dimensione dell’originale; pedonalizzato negli anni 80, ma ordine disatteso dai motorini (nel quale si apre la villa Crosa e di fronte una lunga serie di case basse a due piani – apparentemente antiche – anche se nel 2005 opportunamente ridipinte nella facciata con finti poggioli ed altre decorazioni). Nel 2008 ai due estremi furono posizionati dei dissuasori; nel 2009 persiste a levante; è stato divelto a ponente.

visto verso levante

   

foto Gazzettino Sampierdarenese  verso est-paracarro nell’angolo                           foto Patrone

In fondo alla strettoia

Nell’angolo:

===civ 36r  inizia come vetrina laterale di un bar, il quale si apre in via Gioberti.

===civ. 14:  Nel centro del tratto a caruggetto, percorribile solo pedonalmente, c’è la villa CROSA (-DIANA).

La famiglia Crosa fu l’ordinatrice di questa villa e di un’altra vicina in salita Belvedere, nel tardo 1500. La carta del Vinzoni del 1757 già la attribuisce genericamente ai “magnifici Crosa”; ed ancor oggi scarse sono le notizie della famiglia (il Dizionario biografico degli italiani non ne cita alcuno di Genova) e della villa stessa, usata soprattutto come residenza balneare e vacanziera della ricca famiglia mercantile.
Sappiamo solo che erano originari di San Pier d’Arena ed avevano iniziato l’ascesa economica raggiungendola nella seconda metà del 1600 con Pietro
Crosa che raccolse un pingue patrimonio adottando una nuova strategia finanziaria basata su prestiti anche esteri, a medio termine. Questo tipo di esercizio, fu adottato su vasta scala di operazioni finanziarie dai Crosa ma poi anche e di più dai Cambiaso e di meno dai Marana. Comunque, attecchì ed acquisì interesse internazionale, imponendosi ai precedenti sistemi adottati dai patrizi di più antica nobiltà come Doria, Pallavicini, Grimaldi e Durazzo.

Al punto che i suoi figli Gio Antonio e Gio Ambrogio poterono presentarsi a palazzo Ducale, anche se non nobili, con pretese di privilegi tipici dei patrizi aristocratici  (come mantenere il capo coperto di fronte ai pubblici amministratori, ed il titolo di “magnifico”).

L’ 11 giu.1727, con vantaggio reciproco avendo essi dovuto pagare 125 mila lire alle casse della Repubblica,  ottennero il titolo nobiliare con l’iscrizione al libro d’oro e la possibilità di partecipare alla gestione delle cose pubbliche, pur mantenendo proficue attività commerciali interne (come una grossa fornitura di legname agli arsenali francesi e spagnoli) alimentate da vasti possedimenti in ville,  edifici, palazzi (alla fine del XVI secolo, la Repubblica contava 500 famiglie nobili, ridotte a meno di duecento dopo poco più di un secolo, e 140 alla sua caduta.

Periodicamente venivano ascritti nuovi cognomi, e di essi aveva importanza oltre la loro attività ed economia, anche il peso numerico. Dei componenti più numerosi erano, nell’ordine, gli Spinola, Giustiniani, Doria, DeFranchi, Pallavicini con oltre 50 ascritti; tra 50 e 5 erano i Cattaneo, Centurione, Gentile, DiNegro. I Crosa entrarono tra i nobili prima del 1750  assieme ai Cambiaso ed i Pareto, con meno di 25 componenti)

   Ricoprirono così per successive generazioni,  cariche importanti di governatore, senatore, promotori dell’Accademia Ligustica di Belle Arti e si imparentarono con le più facoltose e nobili famiglie genovesi.

Avendo acquistato da Stefano Doria il feudo e castello di Vergagni (pagato 150mila600 lire), nell’ alta val Borbera, ebbero conferma dall’imperatore Giuseppe II  della signoria  del luogo, divenendo Crosa di Vergagni.

Nel 1780 la villa era proprietà di Ambrogio Crosa.

Nelle varie successioni, vantano sempre titolari di spicco storico ed umanitario tra cui viene ricordata Nicoletta Crosa, monaca cappuccina vissuta nel secolo XVII in concetto di santità;  sino ai più recenti, distintisi nella guerra di liberazione.

Nella guida Costa/1922  nell’elenco dei nobili e titolati genovesi, esiste un Crosa Nicolò di Agostino di Nicolò, marchese, signore di Vergagni; egli aveva due figli Agostino e Giuseppe; ed un fratello G.Batta il quale aveva tre figli: Giovanni, Agostino, Pietro.

Dal 1934 il palazzo è vincolato e tutelato dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

Nei primi anni del 1900 la casa  venne acquistata da Manlio Diana per abitazione (divenuto cavaliere ufficiale, regio commissario del Comune, sindaco, e


                  

 

 

grande benefattore dell’ospedale civile a cui donò, negli anni 1928, mezzo milione di lire; ed a cui fu intestato il padiglione Casa di Salute; era  proprietario di uno stabilimento attiguo, in via Castelli per la lavorazione della latta, conserve e/o olearia. Adibì la villa ad uffici, magazzino, laboratorio ed abitazione ed a piano terra anche a deposito rivendita e spaccio per i, consumatori al minuto.


Nel 1942 la soc. “fratelli Diana” comprendeva: una fabbrica di latta, in via Buranello; ed una di lavorazione del tonno (cotto a vapore ed inscatolato sott’olio nelle lame, in via Castelli).


  

 

Nel dopo guerra, subentrò lo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), che comprò il tutto all’asta pubblica fallimentare, e con l’ipotesi di un utilizzo pluriabitativo: con la promessa della salvaguardia delle originali strutture architettoniche (specie dei pavimenti in marmo e cotto), si prevedeva l’utilizzo “consono alle nuove esigenze abitative” tra cui un ascensore, otto appartamenti, uffici, ed a piano terra 5 negozi e nell’atrio una ‘galleria espositiva’).

  

lattine di tonno in scatola e lavoranti – sopra e sotto: foto Biblioteca Gallino

  

Però nel genn.1999 la famiglia originaria (il cui titolare è amministratore delegato della Fondazione Fieschi, istituzione che gestisce un ricco lascito patrimoniale col fine di opere benefiche e case per anziani)  ha provveduto a rientrarne in possesso, ricomprando da ARTE (attuale nome dello ex-IACP)  l’intero stabile da restaurare, compiendo i lavori negli anni 2002. A metà 2003 la facciata è completata e rimossi i tubi delle impalcature (belle le finte finestre, disegnate agli estremi delle 5 vere centrali); a fine febbraio 2007 mancano le rifiniture: riapposizione della statua della Madonna protettiva nella sua nicchia sopra il portone, il n° civico, gli scalini il cui marmo è vistosamente scavato, la porta -anche delle botteghe laterali in una delle quali era l’edicolante ora posizionato di fronte. In quest’ultimo anno, di tutti i civici rossi di villa Crosa al 48Ar esiste ancora una logora targa in alto su cui è scritto tutto arrugginita: ”Gempesca”.  

                                                                                                          

                                                                                                              2010 - In restauro? o...

La casa si estende in forma tradizionalmente rettangolare, lungo l’asse di via Daste, allora l’unica strada del borgo:  su essa si apre con un portone in marmo molto semplice, arricchito solo da una edicola soprastante. Viene giudicata “gioiello architettonico cittadino; e seppur minore dimora gentilizia, resta tuttavia dignitosa“. Si avverte la scuola postalessiana  per la forma allungata del prospetto (sull’asse viario) e per la distribuzione delle sale.

  

da via Castelli                                               retro                            la facciata in via Daste

L’interno ha un atrio a colonne doriche di marmo ed un pavimento ancora originale di marmo scuro; un bello scalone a due rampe divergenti -parallele alla facciata- che portano al piano nobile, decorato sui soffitti e pareti. Anche alcune stanze dell’ammezzato, sono decorate con affreschi a burlesca. Un bel loggiato (poi tamponato) prospettante dal salone principale, posto su due piani nella facciata a sud, così costruita per poter ammirare il mare  prima che la ferrovia interrompesse la visuale.

 

 

Il giardino è ormai estremamente ridotto: largo all’incirca come il palazzo, arrivava verso il mare a confinare con quello della villa Cambiaso (in via San Pier d’Arena, detto palazzo della Pretura); in seguito tagliato dalla ferrovia, dalla strada e lottizzato, fu occupato da edilizia abitativa e soprattutto industriale (la soc. Massardo Diana & C., produttrice di scatolame in latta per alimenti, attiva dalla fine del 1800).

        

interni di villa Crosa – dopo il restauro finito nel 2010, i mobili saranno ovviamente cambiati 

 

   

 


 caseggiato in angolo con via Castelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

==Il basso caseggiato che segue e che si apre in via A.Castelli, finisce con il civ. 54r e porta una grossa lapide dedicata a R. Pieragostini «da famiglia di lavoratori / il 3 maggio 1899 / in questa casa nacque / Raffaele Pieragostini / operaio tra gli operai / lottò tutta la vita e la vita diede / per la redenzione della classe lavoratrice / subì arrtesi persecuzioni condanne esilio /  e continuò a lottare / membro del triunvirato insurrezionale ligure del P.C.I. / comandante delle gloriose Brigate Garibaldi / operanti in Liguria /organizzò e diresse la lotta contro il naifascismo / arrestato il 26 dicembre 1944 subì quattro mesi di torture / alla Casa dello Studente / e mentre la Patria rinasceva alla libertà /con le mani ancora incatenate il 24 aprile 1945 / veniva trucidato dai tedeschi / a perenne ricordo / i compagni di lotta posero»  

 


A monte, c’è nell’angolo un grosso antico paracarro di pietra; dopo il quale un cancello fa vedere una piazzetta con un grosso ippocastano che è stato malamente potato nel 2008 e di conseguenza morto nel 2010 (rimane il tronco) e con delle casette a tettoia che assomigliano ad antiche stalle. 

===civv. 20 e 22 furono soppressi nel 1973, per sistemazione della numerazione.

 

Via Agostino Castelli

===civ. 24 (già 18-20 dell’ex via (del) Mercato; poi 20 prima del 1973). All’incrocio con via A.Castelli, dal lato a ponente, appare la villa GRIMALDI DI GERACE (Gerace è una cittadina in provincia di Reggio Calabria, estesa su una rupe, dominata da un castello normanno e  dalla più grande cattedrale della regione. Occupata dai saraceni nell’anno 986, passò a Roberto il Guiscardo (1059), ai Caracciolo (1430) agli aragonesi (1479), ed infine ai Grimaldi dal 1574; Girolamo Grimaldi ricevette nel 1609 dal re di Spagna Filippo III l’alto titolo di principe di Gerace. Questo ramo nobile si estinse nel 1783 quando l’ultima principessa Maria Teresa Grimaldi morì sepolta sotto le macerie del terremoto che sconvolse la Calabria:  l’unica figlia di essa, sposatasi con un Serra trasmise a questa famiglia il feudo di Gerace ed il titolo. Nel 1672 la famiglia –in particolare Geronimo Grimaldo, principe di Jeraci-, aveva il palazzo principale alla Meridiana: all’inizio ponente di strada Nuovissima a Genova, ai Quattro Canti di san Francesco; fu uno dei descritti dal Rubens).

 

 il retro della casa, rifatta                                                       facciata a levante

     Non si conosce l’ordinatore iniziale, né la data di costruzione che si fa ascendere alla fine del cinquecento (Cosa frequente, quella di non sapere pressoché nulla degli architetti e maestri d’opera, autori nel secolo dopo il 1530, di meravigliosi palazzi signorili: Poleggi stima essere il 90% dei 3-400 che lavoravano in città nei loro cantieri).

    Dalle carte, appare anch’essa rettangolare, con due ali rivolte verso il mare (di cui quella a levante sembrava incorporare una torre, un poco sporgente; oggi non più evidenziabile).

Nella carta vinzoniana del  1757 era del “magnifico Francesco, della  stessa famiglia di Palazzo Fortezza, della Semplicità e di altre dislocate a mare ed a Belvedere (era uso tra le nobili famiglie genovesi, Doria, Spinola, Serra, Grimaldi, Pallavicino, una politica matrimoniale basata sulla salvaguardia degli interessi economici, commerciali e terrieri, da tutelare vicendevolmente: così assai spesso unioni  matrimoniali tra loro, onde evitare dispersioni e divisioni al di fuori del gruppo sociale di appartenenza).

   Dal 1934 l’edificio venne vincolato e tutelato dalle Belle Arti (che lo segnalano in “via D’Aste (sic) civ. 20 già del Mercato (sic; era via generale Cantore) 18-20” e lo chiamano ‘palazzo ex Grimaldi poi Delle Piane’). Anche nel 1946 viene citato come “palazzo Grimaldi di Gerace-Spinola, ora Dellepiane”(vedi anche via A Castelli).

 Nel 1972 il proprietario, ottenuto l’annullamento del vincolo monumentale causa i gravi danni subìti all’interno dall’usura del tempo e mai ristrutturati, provvide a svuotarla e ricostruire l’interno ad appartamenti mantenendo solo l’esterno come era della villa originale nobiliare.

Intitolando un articolo sul giornale “speculazione edilizia e depauperamento artistico”, si scrisse senza precisare, che vi fossero affreschi: “soffitti di puro stile” e scaloni.

    Il giardino, che era esteso vero sud a forma di J, arrivava nel 1850 circa a confinare con le proprietà di un sig. Castelli e della chiesa della Cella;  fu appena sfiorato dalla ferrovia ma fu lo stesso “divorato” dalla lottizzazione per costruzioni ad uso industriale dapprima (l’opificio dei Galoppini) ed abitativo poi; aveva pure un tratto a nord al di là della strada, formato a cuneo (tra salita S.Rosa ed una villa Centurione ora distrutta), ma anch’esso scomparve per edificazione e l’apertura di via A.Cantore .

Il palazzo Geraci ora inizia con il civ. 56r di un centro sociale, e finisce con il 62r, a cui segue l’entrata attuale nella villa tramite un cancello che, attraverso un tunnel (con 2 portoni, uno a levante e l’atro a ponente), porta a dei posti macchina nel retro.

===Il palazzo seguente, inizia con il 66r, finisce col 70r (nel 1976 questo civico era il  26Ar e fu variato in 70r dopo ristrutturazione); ospita un picolo supermercato chiamato META.


 

 

 

 

Ad esso segue il grande palazzo (che si apre in via Giovanetti ed è famoso per i supporti del cornicione, protetti dalle Belle Arti), che sulla nostra strada porta solo civici rossi da 70Ar a 70Cr; per finire col terrazzo sotto cui è ospitata ai civv. 72r e 74r la Farmacia Italiani.


Via Giacomo Giovanetti

L’isolato inizia con il civ. 76r del pastaio Bovio

===civ. 28. A lato mare, nell’angolo di ponente con via G.Giovanetti, si estende un’altra villa CENTURIONE (-D’ORIA-BAGNARA)  inizialmente (quindi inizio 1600, ovvero XVII sec.; gli affreschi dell’Ansaldo –probabilmente del 1625- fanno testo sull’età minima) dei Centurione (a fine 1700 non specificato il  nome ma solo generico principe Centurione; la  stessa famiglia della villa del Monastero; di piazza Montano (marchese Filippo); dei terreni attorno a salita san Barborino (mag.co Giulio)).

   Non è chiaro se trattasi di questa casa (potrebbe anche essere la villa di pza Montano in presunzione del confinante a sud): morendo il marito Doria Ugo qCristoforo signore di Mornese, la vedova Peretta Doria qAntonio qGerolamo, per gestire se stessa ed i suoi 6 figli (ma, i due unici maschi moriranno precocemente; due femmine, una andò sposa ad un Doria Stefano ed una non si sa) dovette farle suore – probabilmente per carenza di dote adeguata- dovette vendere delle proprietà (compreso  il feudo di Mornese, ceduto a Filippo da Passano). Il 21 aprile 1597 Peretta vendette una proprietà ereditata dal padre a don Cosmo Centurione q.Marco -con atto del notaio Stefano Carderina,  per la somma di £ 15mila più una gemma valutata 4mila-. “La proprietà confinava sul davanti con la via pubblica; da un lato con la casa di Urbano Rela, dall’altra con gli eredi GioAntonio Marcenaro, e sul retro con la Crosa, ovverossia Vallo, del magnifico Barnaba Centurione” (del Monastero).  

   È segnata ben visibile nella carta del Vinzoni del 1757, quando era ancora di proprietà della famiglia Centurione, ed era caratterizzata da una ampia terrazza rivolta verso sud (la cui balaustra è ancora visibile dal lato di via Giovanetti), anche se con pochissimo giardino esteso verso il mare: poche decine di metri solamente (confinante con le terre della vicina a ponente villa Serra, i cui giardini allargantesi sotto la nostra -sino all’attuale via G.Giovanetti- a sud arrivavano sino alla proprietà dei ‘RR.PP della Cella’). In altra carta sempre di fine 1700, si desume che vicino alla villa passasse il torrente proveniente da Belvedere e sfociante in mare alla Cella).

   Desta perplessità che per anni è stata misconosciuta: molti autori – e tra essi lo stesso Alizeri - pur avendo gli affreschi in contunua visione nei negozi, mai l’hanno descritta, forse appunto per la forma architettonica modesta. Unico accenno è del 1934 quando venne vincolata come monumento ma solo semplicemente per le opere pittoriche, genericamente espresse con uno strano “tutto ciò che è di Bernardo Castello o Giovanni Carlone ed altri”. Qualcuno attribuì gli affreschi a Orazio Gentileschi perché aveva dipinto altrove gli stessi soggetti (forse nel casino dei D’Oria non molto lontano)

   Divenne poi proprietà di un D’Oria (da fine 1700, a fine 1800; forse della stessa famiglia dei vicini, della villa Serra-Monticelli, a fine secolo chiamati ‘eredi di Cesare’).

   Poi dell’ imprenditore Copello CarloMaria  (questi, deceduto negli ultimi anni del 1800, quando in un censimento di proprietà appare che possedeva varie case tra cui questa –che in quella data è segnata al civ.26 di via s.Antonio, con invece al 28 ‘eredi Monticelli’).

   Infine dal  1904, di Bagnara Ersillo (o Ermillo) questi, non citato sul Dizionario dei Liguri, divenne un imprenditore locale aprendo una fabbrica di cappelli, appoggiato da fondi varesini. Acquistò la villa da Copello con i giardini ed orti. Nella parte a mare del terreno -giardini di pertinenza fino a nord della ferrovia-, edificò la sua fabbrica di cappelli, facendo scomparire qualsiasi traccia di verde od orto (vedi via G.Giovanetti). Ebbe due figli, di cui uno chiamato Lucifero (divenuto al tempo noto giornalista e critico d’arte (vedi GB Derchi); frequentatore assiduo della libreria Roncallo –allora considerata un vero centro culturale locale-; morto più precocemente del fratello); e l’altro Esdra (che fu più vicino al padre nel lavoro; ma che -compromessosi col fascismo- alla caduta del regime ebbe la casa devastata, saccheggiata e mobili defenestrati; era ancor vivo nel 1978. Si scrive sul Gazzettino che oltre la fabbrica Esdra aprì e gestì anche i due negozi di cappelli, in piazza Vittorio Veneto (ma non viene confermato dal Pagano che dal 1908 al 1950 pone in piazza il “cappellificio Alessandrino” ma di proprietà di Pieragostini, poi Tortarolo –vedi-) ed in via G.Buranello (circa all’incrocio con via della Cella)).

   Nel 1934 lo stabile fu posto sotto tutela della Soprintendenza alle Belle Arti.–Poco prima di quegli anni- viene segnalata nel palazzo la presenza della Pretura locale (diretta dal dr. Dino Col, prima che fosse trasferita in via San Pier d’Arena) e una scuola religiosa (così scrive Ciliento, ma forse è quella sottostante che non è privata); poi una sezione di un partito.

   Il Bagnara nel subito dopoguerra -1946 circa-, cedette in affitto il piano nobile alla scuola privata Pareto. Alla sua morte, ereditò la casa una nipote argentina che, essendo lontana, diede l’incarico nel periodo 1975-85 alla società  ACER di intermediare la vendita a privati compratori.  In quegli anni la società occupò tutto il primo piano;    La parte ad ovest della villa, fu occupata in anni non precisati –pur sempre postbellici- da suore vespertine (che forse e  probabilmente coprirono la volta di alcune stanze con disegni affrescati alquanto banali –non si sa per ripristino del decoro o perché forse dipinte con nudi-); dal Circolo Cacciatori Diana; dalla sede della sezione locale del partito politico della Democrazia Cristiana; da una sala danze.

   Ma infine tutto fu ristrutturato in appartamenti privati.

   Di forma rettangolare regolare, ha un avancorpo rivolto a sud fino al limite della proprietà. L’aspetto generale ed un poco irregolare  della facciata sulla via Daste (sembrano due case vicine, poi accorpate), ad un primo approccio appare mediocre nella regolarità delle sue nove finestre del piano nobile, ed altrettanti negozi, al piano terra e al mezzanino; e –considerato il volume- non si accompagna alla  normale dignità architettonica di villa la quale viene richiamata solo da recente ritintura negli intervalli delle finestre.

Nel retro si evidenziano le innumerevoli ristrutturazioni e vari accorpamenti, avvenuti nei tempi.

 ===l’ingresso=== è oggi relativamente umile e stretto, e non dà l’impressione di una villa quanto piuttosto di semplice palazzotto; entrando, dopo pochi metri si apre ad est la scala per salire al piano nobile ma un cancello limita la possibilità di accedervi liberamente; procedendo oltre –in fondo al  corridoio verso ovest- si apre una seconda scala che dà accesso ad uffici, studi professionali ed abitazioni private (una delle quali possiede il vano della ex cappella, riconoscibile da una maggiore altezza della volta (oltre gli otto metri) che però ha perduto gli affreschi).

All’interno, difficilmente visitabile essendo tutto privato:

===al piano terreno===,

===civv.88-92r esiste un negozio di tessuti, chiamato “La Tessile”, sui cui soffitti esistono affreschi prodotti attorno al 1622 da 

Gian Andrea Ansaldo (Voltri, 1584-Genova, 1638. Andrea Ansaldo fu uno affrescatore tra i

               più ricercati nella sua epoca sia in città che nelle ville di campagna.  Ovvero non solo nella

               città vissuta allora dai ricchi esponenti della nobiltà (come  in piazza della Nunziata)  ma

               anche in via Daste, commissionato dai Centurione e dai Lomellini. 

GianAndrea Ansaldo fu pittore nei primi anni del 1600.  Discepolo del Cambiaso, è preceduto in età da B.Strozzi,  B. Castello e L.Tavarone; e  contemporaneo di G. Carlone. Attivo sia su tela che con affreschi,  fu primo dell’epoca sia ad esprimersi con particolare vivezza e splendore di colori, e sia ad introdurre la prospettiva nei suoi affreschi  (tra questi, quelli visti generalmente dal basso, sono mirabilmente rappresentati nella villa Spinola di San Pietro: il confronto -con gli affreschi di Bernardo Castello in Posta Vecchia-  ravvede, sia eguale espressione di sensibilità pittorica tardomanieristica delle composizioni; e sia il tipo di impaginazione delle immagini in modo ordinato nelle inquadrature).

L’attribuzione ha avuto una evoluzione che comprende Pesenti, il quale sottolineò che questi affreschi di ‘storie bibliche’ sono di difficile datazione proprio a causa dei ritocchi eseguiti da altri nei tempi dopo. Il Sopranis, dei lavori in questa villa, proprio non ne parla. La successiva analisi critica, da parte di esperti, vide dei riferimenti –in particolare nei soggetti degli affreschi- con quelli del vicino casino di Marco Antonio Doria (parente dei proprietari?) affrescati da Gentileschi ma perduti. Alla fine, i prof. Ciliento e Boggero nel lontano 1983 -e quest’ultimo con un libro specifico edito nel 1985 sul pittore- hanno riconosciuto che nella villa Centurione-poi Doria- poi Bagnara gli affreschi sono del pittore, databili 1625 circa.

    

 

 

   Rappresentano fatti biblici (Genesi): l’”incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo(vedi foto sotto - Giacobbe, patriarca, dopo aver strappato la primogenitura a Esaù, dovette fuggire; sposò Rachele e Lia ed ebbero 12 figli tra i quali Giuseppe e Beniamino) e nel locale retrostante “il sogno di Giacobbe(vedi foto sotto - Giacobbe, tornato in Palestina, dopo aver avuto visione di Dio, cambiò nome in Israele prima di fuggire in Egitto), purtroppo ampiamente ritoccati da altri negli anni posteriori; mentre più integri sono, in locali affiancati ad ovest,  “Giona e la balena(affresco completamente rovinato, pressoché illeggibile - Profeta minore della Bibbia, inviato da Dio a Ninive per convertirli, preferì imbarcarsi per l’occidente in fuga; gettato in mare dai marinai finì inghiottito da una balena da cui ne uscì vivo dopo tre giorni; a significato che Dio perdona. Soggetto rarissimo nella pittura genovese, dove è in genere collocato marginalmente mentre qui è al centro della stanza.; era già stato trattato da Gentilreschi dai D’Oria), e “Tobiolo con l’angelo sulle rive del Tigri(vedi foto sotto - figlio di Tobia -che era prigioniero a ninive e divenuto cieco- sposò Sara dopo averla liberata dal demone Asmodeo -che le aveva ucciso ben sette mariti- con l’aiuto dell’angelo Gabriele che anche guarisce il padre dalla cecità), con vari paesaggi nelle lunette e grottesche negli intervalli.

  

 

Tobia e l’angelo sulle rive del Tigri   Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo

                

paesaggi liguri

 

il sogno di Giacobbe

 

  Tutti gli altri negozi hanno la volta imbiancata o contraffatta, e quindi priva di decorazioni. Quando l’ala estrema del piano nobile di ponente divenne proprietà Mariotti (mobilieri a SestriP); nei lavori di riordino (1990 circa) la ditta commise un errore idraulico, allagando i pavimenti e deteriorando in maniera gravissima l’intonaco e gli affreschi sottostanti (si era completamente gonfiato e staccato, ed il resto del dipinto appare  come ammuffito ed con l’impressione dell’irrimediabilmente perduto). Nella causa coinvolgente il proprietario, ditta dei lavori, Belle Arti e proprietari del negozio sottostante, il giudice concluse dando colpa e ordine di restauro alla ditta dei lavori che però nel frattempo, dichiarata fallita, è scomparsa non esistendo più e nel 2004 lasciando tutto come sta nell’ignavia di a chi compete la responsabilità del danno cittadino. Nel 2006 non certo all’improvviso ma dopo lamentele varie tra le quali anche va voce del Gazzettino Sampierdarenese, ci fu una indagine approfondita conoscitiva della situazione degli affreschi alla quale seguì il totale insperato ricupero. Dopo esso, nel 2007, nel negozio è seguita una ristrutturazione che ha coperto con infrastrutture i vari dipinti: decisione di utilità unilaterale ma – a mio avviso - riprovevole.

===Al piano nobile=== Solo qui, esteriormente individuabile dagli ampi finestroni distribuiti: uno centrale sopra il portone, e quattro laterali nelle due direzioni (corrispondenti ai due distinti appartamenti collegati a due rampe di un unico scalone che i restauri hanno alterato -qualcosa è rimasta di antico nell’ala est- e nel retro, dal terrazzo affacciato verso il mare ma –come già detto- sugli orti della casa vicina ed oggi sul fianco nord del lungo caseggiato Bagnara di via G.Giovanetti) dona la consapevolezza della villa tradizionale locale, tardo cinquecentesca. Gli appartamenti si strutturano con un salone –con finestre nord-sud e salotti laterali.

--Salotti: in due stanze del primo piano,  tra grottesche e figure simboliche, due volte raffigurano “Agar con l’Angelo” nel salotto a sud; ed il “sacrificio di Isacco”nel salotto a nord, su via Daste.

   

primo piano-Sacrificio di Isacco             primo piano: Agar e l’Angelo

 

 

primo piano – camera                                            primo piano - camera

--Nel salone dell’appartamento ad est -oggi di abitazione privata- si conosce che sono ancora conservati degli affreschi.

Sono dipinti di un fatto narrato nella Bibbia (Deuteronimo?) appositamente richiesti dal committente mirati ad alludere ad un preciso messaggio, in polemica politica (la scelta della storia di Ester è spiegata perché oltre esaltare l’immagine della Repubblica politicamente autonoma e  contraria agli eccessivi tentativi di ingerenza spagnola,  ella anche prefigura la Vergine: nel 1637 la Madonna fu incoronata Regina di Genova, e quindi assunse aspetto particolare di culto, di simbolo e di identificazione genovese)

   In questo salone la volta è coperta da un complesso di riquadri: uno  centrale (deteriorato e illeggibile) contornato da sei riquadri più piccoli (intervallati da finte statue bronzee e negli angoli da figure allegoriche).

 

salone-panoramica               salone ‘preghiera di Ester’ e ‘la Gloria’

  

salone- trionfo di Mardocheo; ai lati,            salone-Assuero consegna l’anello a Mardocheo

Moderaziobne e Verità

   L’insieme fa parte di un ciclo relativo a Ester (Ella, divenuta regina sposando Assuero –o Serse I- convinse lo sposo a sventare una congiura del ministro Aman mirata a deportare Mardocheo –padre adottivo di lei-  e sterminare la comunità ebraica. Mardocheo riceverà l’incarico di Primo Ministro. L’evento è ricordato ogni anno nella liturgia ebraica. La storia biblica fu romanzata,  e pubblicata in Genova nel 1615 da Ansaldo Cebà, nel poemetto ‘la reina Ester’. L’opera fu sospesa dall’ Indice nel 1621: quindi la scelta pittorica degli eventi descritti è antecedente a quest’ultima data e fu commissionata da chi aveva le stesse idee indipendentiste. La ritroviamo a Genova nel palazzo Lomellini-Patrone dipinta da Donenico Fiasella; e in villa Soprani da Giovanni Carlone)  e come narrato nella Bibbia: inizia sul lato minore della volta  con «Mardocheo supplice, alle porte della reggia» (anch’esso mal conservato, a stento si legge lo sdegno di Aman). Questa incerta lettura del disegno è giustificata dal successivo riquadro che rappresenta «la preghiera di Ester», alla quale seguono «Ester confortata da Assuero» e –sul lato minore- «il trionfo di Mardocheo» a sua volta seguito da «Ester denuncia Aman ad Assuero» e «Assuero consegna l’anello a Mardocheo».

Nel centrale -ha la scena centrale però  perduta- si chiude in apoteosi la storia: Aman punito con l’impiccagione (ma descritto in forma appena intravisibile sullo sfondo);  con “Assuero che dona ad Ester l’anello

   Le grandi statue dipinte in nicchia, esprimono i sentimenti delle scene vicine: a fianco di Ester che prega, la statua raffigura l’Angor, mentre quando Ester è confortata, la statua esprime Humiltas; mentre vicino alla rabbia di Aman c’è l’Iracundia, e col trionfo c’è l’Honor

Nei cartigli angolari sono rappresentate quattro virtù morali, che si innestano a loro volta a interpretare i sentimenti dei riquadri delle scene di Ester: Moderazione o prudenza (vicino alla preghiera di Ester); Verità o fortezza (Ester che denuncia); Temperanza (confortata); Giustizia (Aman denunciato).

   Le statue dorate in nicchia posta al centro del dei lati lunghi,  sono Gloria (esaltazione della mitezza) ed Animadversio (retta cognizione del comportamento secondo la fede); 

===civ. 30  è posto alla base della torre della villa Serra (civ.34): probabilmente è un ingresso autonomo ai vani aperti nella torre, da dopo il  restauro del complesso. La torre ha un civico rosso: 94Ar

===civ. 32  è posto ad una porta che serve la parte più a est della villa che si distingue da essa anche architettonicamente, e che non ha civici rossi.

===civ. 100r è l’ultimo dell’isolato da questo lato, ed è nel corpo della villa.

===civ. 34  nell’angolo a levante con via della Cella, al limite finale dell’antica via sant’Antonio (così, prima di chiamarsi via N.Daste) troviamo l’ingresso della:

villa IMPERIALE (-SERRA–DORIA–MONTICELLI-BASELICA),  usata nell’antica toponomastica per dare –procedendo verso ponente- limite d’inizio della zona e via Mercato (oggi sempre via N.Daste).

   

prima dell’ultimo restauro           la torre, resa vani di appartamenti

  

anno  2009

 

   Si è prospettata l’ipotesi che sia tra le più antiche di tutte le ville locali, risalente addirittura al tardo quattrocento o inizi del cinquecento;  ha corroborato questa ipotesi la collocazione nel punto prima di tutti e più intensamente vissuto del borgo, ed anche per alcune caratteristiche architettoniche come la forma della loggia e della torre. Nei vari successivi restauri, si nota la chiusura della loggia, avvenuta non si sa quando.

==Le notizie certe dicono che già nel finire del 1500 apparteneva alla famiglia Imperiale: infatti fu acquistata dal m.co Ottavio Imperiale a nome degli eredi fideicommissari del fu Gio.Battista Imperiale.

Giulio Pallavicino, nella sua “Inventione di scriver...”, narra una storia per l’anno 1585 che alla fine interessa il nostro Ottavio. Inizia «Matesdi a 16 (luglio)  E’ stato dopodisnare frisato in viso un certo birro delle Pompe molto vegliaco nometo il Guercio perché gli manca un ochio, ha rinonciato la spada e non si sà altro»---«Venardì a 26   In fine l’insolenza di questi birri di Pompe havendo oltrepassato l’ordine per il comportarsi, furno questo giorno di mattina assaltati appresso al fossato di Santo Bartolomeo da doi travestiti e dattogli parecchie coltelate chi nelle gambe e chi in testa et a quel Longo Guercio non si dice ancor cosa alcuna»---«Matesdì a 30 E’ a parte del Serenissimo Senato fatto grida che sapendo alcuno cùi sia stato abbi fatto dare alli birri, che gli danno scuti 500 d’oro e doi banditi, pur che non sia il principale» ---«Venardi a 9 (agosto)  E’ stato mandato a pigliar per ordine della Rotta Battista Genochio, dicesi per essere incolpato di haver fatto dare alli birri delle Pompe, per ordine di Ottavio Imperiale e medesimamente mandorno in casa di Marchese Imperiale a santo Pietro d’Arena a cercar di un stafiero, il quale presero e condusero in prigione»---«Lunedì a 12  Si è questa mattina sparso voce che Ottavio Imperiale era quello che havea fatto dare alli birri per havergli fatto molte forfanterie»»---«Venardì 16 (agosto)  Si è detto per vero che quel birro delle Pompe, il Longo, sia morto, et è tutto vero ---«Sabato  a 17 (agosto)   E’ stato liberato Battista Ginochio per non havergli trovato cosa alcuna».

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il ramo dei Serra sampierdarenese, inizia nel 1342 con Manfredo→Antonio→Antonio→Paolo→Antonio(3ft)→Paolo(1ft)

Girolamo→GB(1ft)→Filippo→Veronica→2femmine________________

 


Musso-Manoscr.XVIIsec                                   

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I Serra sono una famiglia nobile genovese, che trae origine precedente degli anni medievali del 1130 quando ai 4 Consoli –con affiancati tre consoli dei Placiti-  :venne dato l’incarico ad alcune famiglie viscontili di amministrare (giustizia, tasse, ecc). Esse discendevano da Ido, figlio di Adolfo conte della Bassa Germania incaricato da Ottone I. Come ai DeMari ed agli Spinola, ai ‘deSerra’ venne dato l’impegno di essere vicari dell’imperatore col titolo di vice-conte, per amministrare la Valpocevera quale terra di origine nella ‘pieve della Serra’ (Serra Riccò).


La Scorza propone una discendenza nata da Serra, figlio di Otto Visconti e fratello di Bonifacio Usodimare. Scrive altresì che nel 1528 furono ascritti nei Lercaro; e che la famiglia ebbe 1 doge (Gerolamo-1814, ultimo della Repubblica); 2 cardinali (Giacomo-1600; e Nicola -1766); 25 senatori dei quali, 22 della Repubblica (Pietro di Antonio-1551; Geronimo d Paolo-1593; Nicolò di Paolo-1604;  Gio.Pietro di Francesco-1617; Francesco di Antonio-1619; Paolo di Antonio-1629; GB di Antonio-1638; Gio.Tomaso di Gio.Pietro-1650; Nicolò di Gio.Pietro 1653; Gio.Agostino di Gio.Pietro-1657; Gio.Carlo di Gio.Pietro-1664; Geronimo di Francesco-1681; Gio.Pietro di Gio.Agstino-1696; Francesco Maria di Geronimo-1725; Gio.Agostino d Gio.Pietro-1727; Gio.Carlo di Francesco-1735; Francesco Maria di Gio.Pietro-1739;  Marcello Maria di Giuliano-1745; Gerlamo di Francesco Maria-1746; Giacomo di io.Carlo-1770; Gio.Pietro di Gio.Agostino-1775; Gio.Francesco di Carlo-1784); 1 senatore del Regno Sardo (1848-Domenico); 2 senatori del Regno d’Italia (1860-Orso; 1861-Francesco).

In particolare vengono ricordati:

-Giovanni  1397-1471 ambasciatore a Londra ed a Milano (Genova, dopo aver fatto dedizione alla signoria di Milano retta dall’arciv. Giovanni Visconti già nel 1353; e l’aveva ripetuta con i Visconti,  nel 1421 al 1435 quando era duca di Milano  Filippo Maria Visconti). La dedizione a Milano -come governo di sudditanza- fu ripetuta una terza volta da Giovanni, filomilanase, col duca FrancescoI Sforza dal 13 V 1464 al 15 III 1477).   ---   Battista sec.XIV ambasciatore a Milano e Madrid (per la questione di Finale)   ---   Girolamo ambasciatore a Milano e Torino   ---   -Giacomo 1570-1623, cardin.   ---   GianFrancesco di Girolamo generale di Spagna; si traferisce a Napoli ove crea  un ramo familiare ---  .

-Alla fine del Settecento, come detto sopra, da GioPietro si dividono in due rami

--dei  Serra di via Serra, detto ‘dei ricchi’  Domenico, morto 1813 che aprì la strada   ---  GianCarlo, suo figlio, 1766-1844, conte dell’Impero

--dei Serra di Porta dei Vacca, detto ‘dei dotti’ GianFrancesco 1776-1854 scienziato e scrittore --- Vincenzo 1778.1846 sindaco e rettore Univ.   ---   GB 1768-1855 prima giacobino poi napoleonista   ---GCarlo ambasciatore per Napoleone. Iscritto alla nobiltà  ---   Girolamo 1761-1837 rapprentante di Napoleone (con M.Cambiaso e L.Carbonara) firmò la convenzione di Mombello; all’annessione all’impero fr. presiede Università e lavora con Accademia di scienze e lettere;  con Bentick fu a capo del Governo Provvisorio; con annessione regno, da Carlo Alberto fu chiamato a far parte della deputaz di Storia Patria; scrisse Storia dell’antica Liguria e di Genova fino al 1834, in quattro volumi  ---

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                      Emilia

Girolamo      GioFrancesco+GiovannaDoria qCarlo principe di Tursi) morì in scontro navale salvando il figlio del

                                                       re Filippo IV di  Spagna

qPaolo qAntonio →  Bianca                                                                -AnnaTeresa  suora

+Veronica Spinola    Maddalena                |Girolamo                           - GioBatta  (s.p.)                                      

                      Artemisia                 |Domenico                         -Giovanna            

                                          Maria                       |Anna Maria                           +Fr.sco Spinola         |   →Maria Caterina +GiulioGregorioOrsini

                                         Giovanna          |Filippo        → -Lavinia      |Giovanna DeMarini

                     GioBatta+Eleonora Spinola q Niccolò  +GB DeMarini Castagna    + GBCenturione  

                                        +Lavinia DeMarini

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Con Giovanna DeMarini si estinse il ramo dei Serra Paolo q.Antonio

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==Il 7 nov. 1607 Geronimo (o Gerolamo) Serra (1557-1618; figlio di Paolo, con 7 fratelli tra i quali Antonio che inizierà la discendenza della villa Serra di via Cantore (vedi a Cantore la cartina genealogica); avrà due figli GioFrancesco e GioBattista; in ascendenza è del ramo che alterna Paolo con Antonio (per due volte; per salire ad un terzo Antonio qManfredo, quest’ultimo vissuto nel 1350→M-A-A-P.A-P-G); divenuto senatore nel 1593; marchese di Strevi e di Amendralecho (Spagna); sposò in prime nozze Emilia Spinola ed alla sua morte (1593), Veronica Spinola di S.Pietro. Ebbe 11 figli; sul libro “i Serra” ne cita 2, Battilana pag.6 ne cita 8 quelli sopra nello schema) si avvalse di un parente acquisito (Gio Pietro II Serra, poi divenuto 1608-9 governatore di Corsica; e senatore 1611-18 e da cui discenderanno i due rami: dei Serra di Porta dei Vacca e di via Serra), per comperare al prezzo di lire 61.502 il palazzo con torre e terre sito in San Pier d’Arena, messo all’asta pubblica il 7 nov. 1607, con  la clausola del mantenimento abitativo, nelle parte superiore, di Francesca, madre degli Imperiale.

 

Nelle sue disposizioni testamentarie legò alla moglie Veronica l’abitazione della casa e della villa di San Pier d’Arena (testamento stilato quando i primi figli erano ancora minorenni; per evitare sperequazioni nella prassi successoria, seguì l’istituto del fidecommesso e maggiorascato per linea maschile in base al quale per assicurare l’integrità del patrimonio, offriva il diritto di proprietà ai suoi diretti discendenti in modo di stabilire una linea familiare favorita, rispetto ad altri che avrebbero potuto entrare in diritto.  Nel caso che il primogenito a sua volta non avesse eredi, i beni si trasferivano agli eredi del secondo figlio;  questa intercambiabilità interessava quindi solo i primi due nati: :il primogenito Gio Francesco marchese di Strevi ed Amendralecho e signore di Cassano, ed il secondogenito GB, che in quella data aveva appena un anno).___________________________________________________

 

==alla morte della donna (1629), per disposizione testamentale (1613) del padre nella distribuzione dei beni, subentrò il figlio secondogenito (il primogenito era Gio.Francesco che morì in uno scontro navale contro i turchi, salvando la vita a Giovanni d’Austria figlio di Filippo IV di Spagna; del quale, dopo altre 3 generazioni, essendo ultima una femmina, finì il ramo), poi divenuto marchese,  GB Serra era nato l’8  agosto 1612 nella villa sampierdarenese (nella parte superiore della casa era ancora viva la madre degli Imperiale)-; divenne -1628- marchese diMornese comprando il feudo dal cognato Antonio Pallavicino q.Nicolò (quello famoso del Gonzaga-Rubens; sposò  Lavinia DeMarini qFilippo marchese di CastelnuovoScrivia; assieme ebbero tre figli. Banchiere con prestiti agli spagnoli, diplomatico all’estero (Oltregiogo per il sale e Madrid ove morì nel 1684), antibriganti,  aveva investito in manifatture, cartiera sul Gorzente, sfruttamento dei boschi (carbone), fornaci. Morì 22.2.1750 lasciando alla porimogenita Giovanna

 

 

==il primogenito dei tre, fu Filippo (+ altri sei nomi, secondo la moda spagnola) 1645-1715, marchese di Mornese; andò sposo di Eleonora Spinola q.Nicolò di 18 anni più giovane; ebbero quattro figli: Giuseppe (unico maschio secondogenito morì a sette anni nel 1705) e Giovanna, Lavinia, Veronica (quest’ultima si ritirò a vita religiosa facendosi suora col nome AnnaTeresa).  Di lui si sa che nel 1705 affittò a terzi l’appartamento nuovo a piano terra, posto  “manu dextera ingressus ostii palatii situato in loco S.ti Petri Arene in vicinia Logiae eiusdem loci seu burghi ” (notaio Massone).  Di carattere prepotente (incline a abusi, illegalità e reati di minaccia armata tramite ‘bravi’; arresto di persone con lo scopo finale di farne condannati al remo delle sue navi (assolto da Genova, dallo Stato del Monferrato è condannato al bando con pena di morte)=non può entrare in quel territorio nel quale è compreso Mornese; spostamento dei segni di confine; nonché di abigeato per autogiustizia) e testardo (non giurerà fedeltà a VittorioAmedeo duca di Savoia e Monferrato).

E’ nel suo periodo di vita e in località vicina, l’episodio speculare che coinvolge il BottaAdorno padre, feudatario di Castelletto e di Silvano, il quale non vuole pagare Genova (gli sequestrano i buoi; lui va a riprenderseli; condanna a morte e distruzione della casa genovese)

delle due figlie di Filippo ed Eleonora:

==Giovanna Serra ricca nobildonna. Sposata con Spinola Francesco Maria, primogenito q.Federico, meno ricco della moglie e non completamente ‘avveduto e capace’ dovendo, i suoi scarsi beni farli gestire dalla madre e poi dal fratello GB abate;  trasferitasi dal luglio 1747 in Toscana poi definitivamente a Roma (1751) dove curò la causa di separazione dal marito iniziata cinque anni prima (1743) quando il primogenito, GB Spinola era andato sposo con MariaTeresa Fieschi q.Ugo ed il secondogenoto –ancora minorenne- Giulio aveva 17 anni; visse caparbiamente cercando dimostrare i diritti delle sue vaste proprietà, con continue ripicche economiche verso la sorella Lavinia; ma nel suo ultimo testamento non c’è alcun accenno alla villa sampierdarenese pare non fosse direttamente interessata ai beni sampierdarenesi  (e mornesi) anche se verrà testimoniato che ‘in tempo della villeggiatura’ aveva abitato la nostra villa e che ‘pagava di proprio’.

== Lavinia Serra marchesa (1685-1755) in GB DeMarini, deceduto poi a Castelnuovo Scrivia il

12.2.1750;  abitava normalmrnte, prima in Campetto (fino al 1750) poi in strada Nuova; ebbe due figlie Giovanna e MariaCaterna. Alla morte lascia metà feudo di Mornese e vuol essere sepolta in s.Siro.

  Il 27 marzo 1740 fece eseguire importanti lavori di manutenzione nella villa (un mese prima della morte della madre Eleonora in quegli anni già vedova  e prima quindi della divisione dell’eredità con la sorella Giovanna; Lavinia,  non essendo in perfetta armonia con la sorella, si premunì ordinando apposita perizia che venne depositata negli atti del notaio A.Roccatagliata e per questo stesso motivo, la madre nel testamento impose alle figlie di entrare in accordo nel giro massimo di trenta giorni).   

Il 29 aprile 1741 sempre Lavinia, evidentemente maggiore interessata ai beni sampierdarenesi, affittò a terzi  l’appartamento al piano nobile (‘nel palazzo che possiede in San Pier d’Arena, in vicinanza della piazza del Mercato (sulla quale porgono alcune finestre)’. In atto, di poco seguente, era precisato che ‘il palazzo era contiguo a quello di Carlo Doria q. Ambrogio’ ...forse il Carlo del palazzo dei Serra-Masnata).

Possedeva anche Mornese -nell’Oltregiogo; e nel 1715 per conservare queste proprietà, dovette giurare fedeltà ai Savoia (subentrati ai Serra e, a scendere nel tempo, ai Pallavicino, Passano, Doria).

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==Il 24 giugno 1755 Giovanna deMarini in Centurione, figlia di Lavinia (morta in quell’anno), quale erede e primogenita (ella non compare nella discendenza, sia sul libro del Battilana che su quello del Buonarroti), chiese ed ottenne a) cede alla sorella MCaterina la sua quota del feudo di Mornese – l’altra parte è in mano a Giovanna Serra in Spinola; b) tramite sempre il notaio A.Roccatagliata, di essere immessa nel possesso del fideicommisso istituito sopra la villa (palatium situm in Burgo S.ti Petri de Arena cum rhedario et receptaculo sub eo (…‘con ricovero per le carrozze e vestibolo sotto di esso…’) et alia domuncola eidem palatio annexa cum altero situ contiguo…que bona sunt in vicinia Logie eiusdem loci S.ti Petri Arenae et contigua alteri palatio Fideicommissij instituti a dicto nunc q. Marchionem Hieronimo Serra ad favorem nunc Marchionis Ioanni Francisci Serra ducis Cassani).

Nota: il palazzo ‘della loggia’ assai probabilmente è quello di fronte, successivo procedendo verso Cornigliano, chiamato ‘villa Gavotti’ -vedi)

 

==Ultimo dei Serra, rilevabile dalla carta vinzoniana del 1757 proprietario appare il ‘magnifico marchese Giuseppe (Maria) Serra(probabilmente è il Giuseppe nato a Genova il 20 maggio 1714, da Francesco Maria Serra q.Geronimo e Laura Negroni; quando andrà sposo (1738) alla quindicenne Laura Serra portatrice del titolo di duchessa di Cassano e lui diverrà terzo duca di Cassano (+5° marchese di Strevi e 1° barone di Civita); andranno a vivere a napoli ed avranno figlio Luigi+altri 7. Da Giovanna a lui, si arriverebbe per successione feudale regolata da disposizioni normanne di primogenitura dell’anno 1137: in assenza di essa, eredita il maschio della prima femmina; in mancanza ancora, i titoli passano ai collaterali sino al quarto grado purché discendenti del primo investito)

Più d’uno sono i Giuseppe; tutti cugini dell’albero genealogico di Paolo Serra, ma alcuni morti prima del 1756; unici  possibili, per combaciare con la data della mappa, appaiono quello nato a Strevi il 7/1/1706, figlio di GioFrancesco (e quest’ultimo nipote dell’omonimo GioFrancesco del fidecommesso. non è dato conoscere come da lui la villa passa ai Doria

 

 

Estinto il ramo Serra, negli anni a cavallo del 1800 divenne proprietà della famiglia Doria

Su una carta, probabilmente del Porro e del 1780, è scritto: “M.co Giuseppe Serra ora dei Doria eredi di Cesare”

==Ad essa successe Monticelli Bartolomeo, e la sua famiglia; curatori di un pastificio e di un mulino al Campasso. Si ritrovano in attività per alcune generazioni, pare fino oltre il 1950. Nei Pagano non appaiono.

==Per la Soprintendenza, l’edificio compare da lei vincolato e tutelato fin dal 1934 con assegnazione di possesso da parte di non meglio specificato sig. Gancia; (unico Gancia conosciuto che occupava una posizione di un certo prestigio negli anni 1888, era Gancia geom. Mario, segretario comunale divenuto ‘storico’ per aver mantenuto l’incarico per molti anni ed aver acquisito i più sperticati riconoscimenti anche del Commissario straordinario; nel 1901 fece parte del comitato pro lapide per il prete Daste in via Mameli).


==Solo nel 1960 pervenne ai due fratelli Baselica, Rino e Gianni, mobilieri cittadini, che la adibirono a negozio e deposito del loro lavoro. Cessarono la loro attività negli anni 1993. Dei due, particolarmente attivo ed impegnato socialmente fu Rino, creatore tra le mille idee socialmente utili da lui prodotte, la Radio S 1 e poi la Radio Lanterna City, la Croce d’Oro, nonché il campo sportivo Morgavi. Rino Baselica morì il 20 ott/1994

.

 


 

L’edificio rimase molti anni vuoto finché fu occupato dal –per ora penultimo- acquirente:

==Il recente (pare dal 1991-3 circa, avendo Baselica finito l’attivà, prima del decesso) proprietario, è stata una Finanziaria (ing. Ins.Int. spa), operò una ultima radicale ristrutturazione interna con la spesa di 10miliardi di vecchie lire: dal 1997, affidandola a valenti esperti (arch.ing. Penco, Zucca, Visconti, Elia) e con l’approvazione del Consiglio di circoscrizione,  proseguì fino all’anno 2002.  Si disse che sarebbe stato demolito un corpo aggiunto che era stato usato a fabbrica; che furono obbligati  a conservare il loggiato e mettere a disposizione il salone (anche ad uso congressi) mettendo in risalto gli affreschi interni della scuola dei Calvi (vedi ‘palazzo Doria’ nelle pag. precedenti) raffiguranti in 5 medaglioni le “fatiche di Ercole” ed il “consesso degli dei”;   

furono aperti studi professionali ed  un terrazzo a roof-garden con piscina; alcune abitazioni, nei piani alti occupanti anche la torre; ed al piano terra  negozi e garage su due piani per venti auto; nel rispetto ovviamente delle antiche forme architettoniche esterne.

 

==Dal 2008 è in cessione alla «Chiesa Evangelica Internacional ‘Luz del Mondo’»; nel 2010 non c’è più ed appare vuota.

   Disegnata a trapezio, aveva tre ingressi (il principale a nord su via Daste); dal 500 e quando fu riadattata da villa padronale a fabbrica, ben poche ristrutturazioni furono fatte fortunatamente, da mantenere intatte le strutture (fu chiuso il loggiato a sud, lasciandolo però visibile; modificate le scale, ed al posto del giardino hanno costruito un nuovo corpo di fabbrica  che unisce la torre alla villa.  Al piano terra un grande atrio con la volta a padiglione, era affrescata; sul lato mare una apertura ad arco dava accesso al giardino tramite un retro a volta  più bassa ed a crociera.

  

tre immagini, del piano terra

 

La torre è stata rifatta anche all’interno, ed adattata ad uso abitativo conservando le componenti esterne (finestre, mensoloni sporgenti per appoggiare il cornicione). Nelle sue sale nacque Radio Lanterna City. Ora è un vano dei vari appartamenti privati.

  

                      

Nella carta vinzoniana, il giardino si estendeva verso sud, sino a confinare con le proprietà della chiesa della Cella (quindi sino all’attuale viadotto ferroviario). Evidentemente prima la ferrovia dal 1843 e gli altri proprietari seguenti, in probabile affanno economico e stimolati dalle lottizzazioni successive alla immigrazione di massa al richiamo industriale, hanno permesso di distruggere tutto.

   DeLandolina nel suo libretto del 1922 (da prendere con le molle, visto gli innumerevoli errori), scrive che i primi proprietari furono i Lomellini, e da essi i Doria prima dei Monticelli i quali “già dalli avi l’ereditarono come pastificio, e lo continuano ancor oggi in tale industria”.

=== si apriva in via Daste, quando non esisteva via A.Cantore, poco prima della crosa della Cella, una antica villa Lomellini (-Boccardo),  posta dove ora è il civ.39 di via A.Cantore (vedi).

 

via della Cella

===civ.36  palazzo GAVOTTI, l’ ultima dell’attuale via Daste.


   La prima testimonianza, tardiva rispetto la costruzione, è del Vinzoni che nel 1757 descrive la proprietà del “magnifico Agostino Gavotto”(o “i”)   

Esiste, nella genealogia, ricca di personaggi, un solo AgostinoMaria, vivente nel 1714 (figlio di Giulio q. GioAngelo e di Cecilia Feo di Tomaso; fu nobile savonese e patrizio genovese che  il 6 febbriao 1673 aveva sposato


Giovanna Pavese di GiulioDionisio barone di Gevise e Casalinovo nel Regno di Napoli e di Aurelia Gavotti. Pare abbia vissuto prevalentemente a Savona, ove nel 1666 figura tra i m.ci Maestri Razionali; nel 1677 è tra i m.ci Anziani; nel 1702  ospitò FilippoV di Spagna e -l’anno dopo- la duchessa di Savoia col principino; e nel 1714 Elisabetta Farnese che andava sposa a FilippoV.

La famiglia: ricca, dinamica e potente famiglia di origine varazzina (ma con ancora primaria origine da Sassello, anteriore al 1400) trasferita poi nel XV secolo a Savona.

Lo Spotorno scrive che il nome deriva dal francese “savot” ovvero zoccolo di legno, calzatura dei


‘villani, della povera gente’.                           .       .                  

Avran fatto fortuna, se dal 1521 furono ascritti alla nobiltà savonese in virtù delle capacità strategiche economiche: infatti, già discretamente ricchi  nel Cinquecento, accrebbero il capitale con l’edilizia di lusso (loro -ad AlbissolaSuperiore- una maestosa e sfarzosa villa) ed allacciando –alla pari di altre famiglie savonesi in contatto diretto con le genovesi- rapporti con le più potenti


famiglie di  Roma e del Vaticano. La discendenza, ricca di rami e di intrecci con altre famiglie, formò tre rami principali: uno a Savona –città d’origine-, una a Genova ed una –dall’inizio del 1600- a Roma (i nobili Raimondo e Carlo, sulla scia delle principali famiglie nobili genovesi, appaiono i capofila dei savonesi a Roma, attivi in operazioni bancarie legate alla Spagna). Ma contano anche in Puglia (a fianco della famiglia genovese dei DeMari).

Dal 1613 li sappiamo con solide basi di banchieri in Genova (nonché a Napoli e Roma) malgrado le secolari tensioni tra le due città. Qui possedevano un palazzo in una piazza, vicino alle dimore dei Pallavicino, Torre, Piuma e D’Oria .

Nel 1794 nella fase discendente di potere di tutte le famiglie savonesi, quella Gavotti  appare essere l’unica savonese ancora presente nel patriziato genovese

Ma i loro soldi non furono investiti solamente in operazioni bancarie quanto piuttosto -ed in forma ingente- rendendosi intermediari di opere d’arte di alto livello culturale, acquistate e reivendute per i maggiori collezionisti genovesi e romani.

--Vincenzo; morto 1544, commissario di campo e delle munizioini, di CarloV

--Nicolò III- alla sua morte nel 1650 fu stilato il possesso di tele di Raffaello, Rusticucci, Guercino ecc.

--Lorenzo; fu dal 1653 vescovo di Ventimiglia; incaricato Nunzio Apostolico in Svizzera da Urbano VIII nel 1646

--Maria Aurelia q. Camillo (che andò sposa a Francesco Maria Doria  q. Brancaleone, e che ereditò nell’agosto 1679 i mobili ed una ampia -e di valore- quadreria, con oltre cento quadri tra cui forse un Rubens), ed intrecci con la famiglia savonese Pavese (di cui un Camillo sposò nel 1594 Maria Doria q. GB (vedi chiesa della Cella e palazzo delle Franzoniane)).

--Antonio Gavotti (Genova, 1783-1833) era uomo d’austeri costumi morali e gestiva come maestro d’armi una sala di scherma nel Centro storico genovese, mentre con la moglie e figli abitava in salita degli Angeli al 66. Iscrittosi  alla Giovine Italia ospitò nella propria sala  gli affiliati della società segreta.  Scoperto, fu  processato come sovversivo e proselitista delle idee mazziniane nell’ambito dell’esercito, e condannato a morte ‘con ignominia’ ovvero alla schiena. Così all’alba del 15 giugno 1833 presso la batteria della Cava a Genova, fu fucilato assieme al sergente Giuseppe Biglia (di Mondovì) ed al sergente dei zappatori Francesco Miglio (di Rivalta Torinese) ambedue facenti parte del reggimento Granatieri Guardie delle dell’esercito sardo e quindi condannati come traditori, avendo letto e dffuso gli scritti mazziniani e non avendo denunciato ‘la cospirazione’ ed i congiurati.   I tre patrioti furono sepolti dapprima nella cripta della vicina chiesa di San Giacomo di Carignano e, all’epoca della demolizione di questa dovuta all’apertura di corso Maurizio Quadrio, traslati a Staglieno, accanto alla tomba di Giuseppe Mazzini. Del gruppo facevano parte Iacopo Ruffini e Lorenzo Boggiano, poi  morti suicidi per non tradire. Tutti, prime figure di martiri del movimento mazziniano e dell’ideale di libertà. Nella zona di Carignano, Genova lo ricorda con una strada; mentre una lapide è posta in via Chiabrera dove aveva la palestra “IN QUESTE MURA / NELLA SALA  D'ARMI / DI ANTONIO GAVOTTI / UNITI NEL PENSIERO DELLA REDENZIONE ITALICA / CONVENNERO DAL 1830 AL 1832/ MAZZINI, RUFFINI, BIGLIA, MIGLIO, ORSINI / E ALTRI PATRIOTI / CHE LA GLORIA DELLA FONDATA / GIOVINE ITALIA / FECONDARONO COL CARCERE COLL'ESIGLIO COLLA MORTE / IL CIRCOLO LIBERO PENSIERO 5 MAGGIO 1894”.

--Gerolamo Gavotti, marchese, fu sindaco di Genova nel periodo 1860-3; nel 1898 donò un quadro -già di GioCarlo Doria-, all’Accademia Ligustica di BA. (l’Età di Rubens.pag.219).

--Ludovico Gavotti.  Visse negli anni a cavallo tra 1800-1900; genovese, marchese, canonico  assistente ecclesiastico, molto attivo a fianco dei salesiani (1868-1918), poi divenuto vescovo di Casale Monferrato, e (dopo tre anni di vacanza dell’incarico a Genova, poiché mons. Caron non ottenne l’exequatur dal re) -dal 7 marzo 1915 al 23 dicembre 1918- nostro arcivescovo; morì 50enne di influenza spagnola (fu succeduto da altri tre arcivescovi, anche loro caratterizzati dalla breve gestione della nomina per morte prematura o dimissione: Boggiani 1919-21, Signori 1921-3, Sidoli tre mesi 1924).   

A noi interessa Agostino, in quanto citato da Vinzoni come possessore della casa nel  1757.

Nessun accenno alla nostra villa, neanche nel dettagliato libro di Leonardi, ove essa viene solamente citata nelle note, ma non per reperti d’archivio, quanto appunto solo rilevandola scritta nella carta del Vinzoni, senza ovvio sbilanciamento sul proprietario

Con tale nome, da Leonardi vengono citati

---Agostino, ma solo in quanto padre di GioAngelo (quest’ultimo, chiamato anche Angeletto, visse nella prima metà del 1600 e probabilmente fu il primo ad essere ascritto alla nobiltà savonese. A sua volta padre di Giulio, ma anche di Raimondo e (Gio)Carlo trapiantati a Roma.).

---AgostinoMaria I q.Giulio q.GioAngelo. Alla sua morte, nel 1715 abitava vicino alla chiesa di SM delle Vigne dove teneva ampia fornitura di tessuti preziosi (damaschi, velluti, ecc.) molto in voga nel seicente per rifinire sedie da uomo o da donna, sgabelli, separé, ecc.) e ben 73 quadri. Nei suoi possedimenti (citati solo di Genova, di Savona (a Fossavara, con 50 quadri) e di Legino) aveva ospitato il re di Spagna FilippoV (1702) ed Elisabetta Farnese (1714, futura moglie di FilippoV). Fu nominato coerede con altri, da Michele Imperiale (nipote di Vincenzo).

---Agostino Maria II Melchiorre (1702-1760), figlio di Giulio Deodato Maria Gavotti e di Geronima Cattaneo; andato sposo a Maria Valeria DeMari q. Stefano; nipote del precedente. Viveva in Genova nei pressi della chiesa conventuale di s.Agnese; ma aveva anche possesso -da parte della moglie- a Sestri della villa DeMari Spinola, descritta dal Gauthier.

Vedere inventario dei suoi beni a pag. 330 del Leonardi: ma non c’è la villa sampierdarenese, forse perché venduta prima della morte.

---Giulio, 1882-1939, ingegnere,  fu un ardito pioniere dell’aeronautica, poi colonnello del genio aeronautico ed organizzatore dell’arma. Fu aviatore militare nella guerra italotuca, ed ha il guinnes di essere stato il primo aviatore bombardiere del mondo, lanciando nella guerra libica ordigni su Tripoli estraendoli da una borsa posata ai piedi 

---Ludovico 1868-1918 vescovo di Casale e, nel 1915 arcivescovo di Genova quando con l’exequatur del ministro Salandra si risolse la questione di mons. Caron.

In base alla data vinzoniana, la scelta appare limitata ad Agostino Maria II Melchiorre, su descritto. 

La villa -La posizione angolare rispetto alle due crose, le più vecchie della città, e la sua vetustà senz’altro influirono sulla forma tendenzialmente irregolare del perimetro.

   Appare dalle carte, nel 1825 essere divenuta proprietà di Samengo Giuseppe: per vari anni ci fu un conflitto con il Comune, proprietario di un vano a piano terra definito ‘di pubblica spettanza’, dal quale appare desiderio realizzarne due negozi da affittarsi; l’opposizione del proprietario paralizzò il progetto che venne ripreso nel 1832: fu allora inviato l’arch. Angelo Scaniglia per la programmazione (perizia del 23 nov.1832); gli eredi Samengo -che abitavano nei piani superiori- nuovamente si opposero chiedendo amichevole prelazione per l’acquisto dei vani e rispetto di diritti di servitù.  Dalle carte della piccola vertenza legale si evince in quella data il non uso di nomi delle vie né numerazione: dallo Scaniglia la casa viene definita “loggia posta in capo alla crosa  Cella in S.Pierdarena sotto la casa dei sigg. Samengo eredi” ... altrove si legge “perizia dei lavori à farsi a questa cosiddetta Loggia Comunale ad uso di due botteghe “.

      La costruzione fu arricchita da una cappella. Nel 1897 si descrive: “nella via della Cella come ora si dice, colla facciata verso la Loggia, vedesi la Cappella Samengo, intitolata agli Angeli Custodi: ha graziosa cupoletta e sull’ingresso, per un ristoro ivi praticato nel 1793, vi si scorge lapide relativa. Non è però più pubblicamente ufficiata”.

Nel palazzo di fronte a villa Serra, lungo via Daste c’era una ‘cappella Samengo’ privata, intitolata agli ‘Angeli custodi’: la volta era a cupoletta e, sull’ingresso - dal 1793 quando fu restaurata - fu posta una lapide a ricordo. 

 

Altrettanto di antica data –forse dopo i Samengo- è la sua ristrutturazione per essere adibita a convento, come si può rilevare dai cartigli con un trigramma posti a fianco dei due portoni (uno in via della Cella, che dando adito ad una scala, con volte a crociera,  porta al piano nobile laddove alla loggia oggi murata portava lo scalone originale, ed ancora al piano sottotetto con originari soffitti a grosse travi lignee, è quello che ha conservato più dell’atrio le caratteristiche antiche della villa) e quello principale in via Daste, quest’ultimo di aspetto sette-ottocentesco barocco, sormontato da una edicola con


Madonna e puttini, nel centro di una facciata senza decorazioni se non una fascia marcapiano posta sopra il piano nobile. Il tetto in ardesia, è a padiglione.

 


Infatti nel 1937 viene scritto che “nell’Opera Pia L. Gavotti (tornata ai primitivi proprietari o le suore adottarono il loro nome?) sono ospitate in ricovero 13 femmine tra operaie ed impiegate”.

   Dopo quella data venne completamente ristrutturata all’interno, per abitazioni e negozi (al primo piano trovò la prima sede la neonata ’Associazione Combattenti’ negli anni subito dopo la prima grande guerra), con manomissione delle originali fattezze interne, pur mantenendo esternamente le caratteristiche dell’antica villa. Il frontale appare senza nessuna decorazione se non una fascia bianca sopra il piano nobile, quale segnapiano; nella facciata a sud, si vedono due finestroni a loggia, ormai chiusi, muniti di balaustra a colonnine.

 

 

  Così ora finisce via Daste, con l’angolo smusso del palazzo che si apre in via Carzino, e che fu a lungo la casa madre dell’opera di don Daste. In     quell’angolo di casa, a buona altezza è inserita una edicola della Madonna       


                                                         

che è messa così in alto e “protetta da vetro con grata” da impedire la netta visione dentro della sacra immagine; e per molti che transitano, è come se fosse vuota. Potrebbe essere quella statua che il prete acquistò dallo scultore Canepa quando se la vide rifiutata da un paese del Monferrato perché giudicata brutta; o quella ricuperata sempre dal sacerdote Daste,  alla chiusura di una Società Cattolica  dapprima chiamata di san Giuseppe, poi della Vittoria.


   Prima del 1935 e della apertura di via A.Cantore, la strada (che prima si chiamava via Mercato e, dopo, già rinominata via Daste) proseguiva passando davanti all’attuale portone 46 di via A.Cantore che appare sottolivellato (mentre invece è la grande arteria, che è sopralivellata; per raggiungere pedonalmente via Carzino, sia a levante che a ponente di essa occorre scendere degli scalini),  ed in diagonale  si allacciava con  via A.Saffi (via C.Rolando) passando dietro la villa di piazza Montano.    Nel tratto che manca, proseguendo la strada verso ponente, a sinistra dopo via U.Rela, c’erano vaste stalle che davano il nome alla zona: “le stalle”. I carri erano  mezzi di locomozione ancora assai usati in città per i trasporti di ampio materiale specie dal porto e nell’interno cittadino; parcheggiavano nell’aia di casupole con scalinata esterna per salire al secondo ed ultimo piano. Erano ancora esistenti nel dopoguerra 45 e furono distrutte in seguito per costruire il civ. 50 di via A.Cantore. Da Lamponi, vengono ricordati alcuni carrettieri di quell’epoca (dal 1920 al 1950 circa) come i busallini Salvarezza, Settimio Rossi ed un certo Rebora a cui morirono sei cavalli in un incendio ed i colleghi si autotassarono in colletta per aiutarlo.

   Sulla destra di questo tratto, dove ora è la via A.Cantore, in piena “zona Mercato”,  c’era dapprima il bugnato ingresso della Villa Doria ora sede della suore di don Daste (vedi salita Belvedere e via A.Cantore); e subito dopo  l’ORATORIO DELLA MORTE ED ORAZIONE, ora demolito.

   Sappiamo che una confraternita, chiamata  “N.Signora della Cintura” era nata nel 1665 (altri dice 1669) presso la chiesa della Cella, ed ivi  ospitata ancora nel 1749 in una  propria sede presso il chiostro posto dentro il convento degli Agostiniani. Lì rimase fino al 1759 quando i vari confratelli desiderando dividersi dai sacerdoti che volevano trasformare il loro oratorio in teatrino parrocchiale, si allontanarono dal convento cercando sempre nella zona Mercato una casa ove fosse annessa una cappella: trovata, la comperarono dall’abate Nicolò Spinola dopo averla sfittata dai fratelli Marchelli; vi stabilirono la nuova sede mutando anche nome societario, con autorizzazione romana, in quello su scritto in titolo, dedicando il proprio compito ufficiale all’assistenza ai moribondi specie quelli poveri,  e procurare loro le onoranze funebri con i minimi riti necessari.

 a destra della palma, la facciata

foto Pasteris 1936

   Nel 1772, quando era Superiore della Confraternita tal Lorenzo Mongiardino, su disegno dell’arch. Giuseppe Scaniglia di Francesco, trasformarono la casa in Oratorio, con nuova facciata di stile corinzio. Finito l’edificio cinque anni dopo, il 6 febbraio 1777  fu benedetto da mons. Carlo Orazio Marchelli, uno dei fratelli suddetti?, arciprete di San Pier d’Arena, e dedicato al ‘SS. nome di Maria, “Urbis Patrona”’. A novembre dello steso anno furono benedetti i due altari laterali.

   Nel 1846, ad opera dell’arch. Angelo Scaniglia fu ampliato, costruendovi un coro posteriore a forma semicircolare, e  un presbiterio in stile con la chiesa.

L’interno era con tre altari, e sopra il maggiore di essi era una statua in marmo dell’Immacolata,  dapprima attribuita allo scultore francese Pietro Puget e poi riconosciuta opera di Filippo Parodi, conte; ricuperata dalla cappella Rolla appena distrutta; attualmente nel museo della Cella;  gli altri due altari  laterali (benedetti il 1 nov.1777), erano dedicati uno al Crocefisso (Passione di S.N.Gesù Cristo), e l’altro alle Anime purganti  (questo fu eretto a spese personali di Francesco Scassaro, mentre un altro confratello, tale GB.Rapallino, lo fece abbellire con stucchi ed un  quadro del santo Francesco da Paola).

Fu sempre custodito da un sacerdote, obbligato alla missione sacerdotale di evangelizzazione, ed a due messe nei giorni festivi .

Nel 1890 esauritasi la comunità e cambiate le celebrazioni funebri, la chiesuola


 

ebbe una diecina d’anni di inutilizzazione; finché, subentrato

padre Giordano Nicola (o Nicolò), già cappellano della famiglia Rolla (che aveva una cappella nella zona dell'Ansaldo ed andata distrutta per erigervi lo stabilimento), fu aperta al culto popolare attirando


ben presto i favori della cittadinanza sia per la comodità dell’ubicazione sia per l’idilliaca carica umana e semplicità che il sacerdote emanava (nato a SPdArena il 21 ottobre 1852, battezzato il 24 alla Cella. Dopo il Seminario, celebrò la prima messa nel 1875 e dopo breve diaconato, fu inviato prima come diacono a s.Biagio, paesino alle pendici della Guardia, poi parroco a Marsiglia in val Bisagno. Tornato a SPdA fu incaricato essere cappellano titolare sia della famiglia Rolla-Rosazza nella cappella omonima vicino al Polcevera §(sino alla demolizione fatta da parte dell’Ansaldo), e sia dell’Oratorio Morte e Adorazione di via Mercato, inserita nel territorio della Cella e dove poco alla volta acquista la fama del sacerdote dei poveri, degli ammalati e moribondi e dei mangiapreti. Con questa veste, già dal 7 gen.1909 era anche sacerdote dell’ospedale civile (in villa Masnata) in forma gratuita e continuando volontariamente per oltre trent’anni, anche quando l’Amministrazione soppresse l’incarico ufficiale.  Nel 1928  fu riconfermato  direttore spirituale onorario  all’ospedale di  villa Scassi.

Nella maturità, lo sconvolgimento territoriale e la guerra arrivarono a distruggere il suo habitat: prima la cappella Rolla (per allargare via Degola), poi la Cappella Morte e Orazione (per fare via Cantore - vedi poco sopra); poi ancora l’espulsione definitiva dei sacerdoti abitanti nell’ospedale locale;  e non vide per poco la distruzione dell’Oratorio di s.Martino – da lui gestito – disintegrato da una bomba  nel 1942; per un trempo andò a vivere opite di don Minetti in san teodoro, vico dello Sparviero.

Oltre alla sua fondamentale missione sacerdotale, due appaiono prevalenti gli indirizzi del suo operato: uno, quale ‘operaio della chiesa’, si trovò coinvolto non sottraendosi,  per salvaguardare il lavoro della povera gente, in quegli anni di travolgente trasformazione in città industriale ma con troppo spesso licenziamenti o arrivi da tutta Italia di poveretti senza casa o ammalarsi senza assistenza, in un clima generale poco favorevole agli uomini di chiesa (anzi genericamente malvisti ed avversati da anarchici ed estremisti anticlericali più o meno associati, in un periodo in cui anche la Chiesa romana faticava a riprendere il passo vicino alla trasformazione sociale (don Sturzo e padre Gemelli –come esempi). L’altro fu, come don Daste per le bambine, anche “Praê Giordan” era  conosciuto, per l’assistenza che forniva ai giovani maschi rimasti orfani o comunque soli: sovvenzionato da alcune facoltose famiglie locali, aveva istituito una specie di collegio per gli orfani, con lo scopo di avviarli al lavoro.

Guadagnandosi lo spazio poco alla volta, alla fine tutta la cittadinanza sampierdarenese circondava il sacerdote di unanime rispetto e  venerazione.

Da una relazione del presidente dell’ospedale Gais,  del 1925, si legge:non esiste una persona che non conosca le opere di zelo e di assistenza e la carità veramente evangelica del simpatico sacerdote di Cristo. Tutti, anche i miscredenti s’inchinano all’esemplare vita del vecchio nostro concittadino che... profonde i tesori del suo cuore nobilissimo in opere benefiche che vanno dall’Assistenza spirituale...a quella materiale specie a favore dei poveri ragazzi senza tetto e senza guida....tutta San Pier d’Arena lo  ammira e venera...con qualsiasi tempo ed in qualsiasi ora del giorno e della notte don Giordano  nonostante i suoi 75 anni suonati, ascende questo colle e reca il conforto della parola cristiana a chi si accinge al grave passo! Il suo nome è benedetto da tutti i tribolati ...”

Morì all’ ospedale,  il 23 gennaio1941.  Le esequie, dalla Cella, non furono seguite da molti, perché volle scomparire in silenzio, come era vissuto; quindi molti ancora lo ricordano ma poco sanno nei particolari della sua vita. Solo don Raffetto –parroco della Cella- narrò che quando fu ricoverato ebbe parole di semplice meraviglia nel constatare che, da quando aveva detto la prima messa ‘la superiora gli aveva fatto indossare una camicia da letto nuova, senza rammendi e pulita’.

Don Giordano dovette superare non banali difficoltà burocratiche: l’edificio era proprietà della confraternita e non della Curia come pressoché tutti gli edifici religiosi, per cui il prete dovette sobbarcarsi il pagamento delle tasse arretrate (in virtù della legge dell’uso capione*** l’aver pagato per 25 anni l’affitto o le tasse avrebbe potuto far vantare diritti di proprietà, ma il sacerdote non ne fece mai uso, e lasciò alla Curia i diritti sull’immobile); e poi delle successive rette.

L’ Oratorio fu acquistato dal Comune negli anni 1930, previo accordo con la santa Sede in base al Concordato: il sacerdote venne ‘pensionato’ con una modestissima rendita che gli permise il ricovero in un istituto religioso; la cifra di mezzo milione di allora fu consegnata alla Curia nelle mani del suo incaricato mons. Marchesani; gli arredi (organo, quadri, drappi) trasferiti nell’istituto don Minetti (a Genova, in largo san Francesco da Paola; escluso la statua dell’Immacolata trasferita alla Cella); l’edificio   subito distrutto per consentire il prolungamento di via A.Cantore ormai già completamente strutturata ma non ancora aperta al traffico  per via dell’ultimo ostacolo frapposto, quando direttore sino alla demolizione, rimase   padre Giordano

 

DEDICATA al sacerdote sampierdarenese, nato il 02 mar.1820, da Giovanni Battista e da Giulia Parodi, in una casa di via san Cristoforo, ora scomparsa.

Il cognome D’Aste ha origini antichissime rapalline; e ritroviamo documenti genovesi che risalgono al 1180. Negli anni successivi, abbiamo dei D’Aste calzolai; teologi nel Concilio di Trento; nobili negli anni del 1567 ascritti ai Cicala; cardinali; senatori.

Nell’escursus del tempo, con documenti scritti a mano, D’Aste spesso diventa Daste. 

Non credo sia stato trovato l’atto di nascita. Però lui si firmava Daste.

Di famiglia operaia benestante, il giovane crebbe con la sorella primogenta Maria Isabella (1814-1889) ed il fratello Giacomo, e poi  con gli insegnamenti della madre dapprima, e di sacerdoti dopo  (all’Oratorio di san Martino, con don Galliano, imparò il latino; all’Oratorio della Morte con don Bartolomeo Ansaldo, ricevette altre nozioni culturali, matematica ed italiano in particolare, e di pietà; era così bravo discepolo che fu avviato alla Prima Comunione a 10 anni –cosa non comune a quei tempi);  nel tempo libero aiutava il padre (questi -falegname di alta qualità- riceveva ordinazioni per lavori importanti ed era quindi sufficientemente remunerato da avere una casetta propria, cosa peraltro abbastanza rara a quei tempi tra il ceto popolare. Tra i tanti impegni viene ricordata la sua attività di artigiano benemerto nel Santuario di Belvedere e nella costruzione del teatro Modena, ottenendo come risarcimento dell’ onorario dovuto, due palchi. Morì quando il ragazzo aveva solo 15 anni, bloccando ogni iniziativa che potesse allontanarlo dal dover mantenere la madre ed i fratelli);



   

 

 lavorò pure in una fabbrica locale di tessuti stampati (specie i famosi mezzari, e forse nella fabbrica Testori). Perduto il padre, proseguì sotto la direzione di uno zio –definito alquanto burbero e dispotico- il suo inserimento nel lavoro artigianale, prendendosi cura di un fratello minore e di una sorella maggiore. La madre morì nel 1842 quando Nicolò aveva 22 anni.

   Ma il lavoro manuale, seppur affrontato con il massimo impegno per altri 18 anni, non era all’apice dei suoi interessi: lo vediamo sempre più spesso essere presente nel tempo libero come chierico,


fabbriciere o segretario nella chiesa cittadina della Cella ove frequentava le congregazioni del S.Rosario, del SS Nome di Gesù, o alla Dottrina; nonché in Confraternita nell’oratorio di san Martino ed in quella ‘delle Anime’.  

                                  

 

Fu allora, probabilmente, che maturò l’idea della prevalente devozione alla “Divina Provvidenza” quale appiglio a cui aggrapparsi e da insegnare, invocare, pregare, quale collante nella catena Dio-offerta-uomini: “Dio per dare agli uomini i serve degli uomini,  tramite la DP; così alla fine gli uomini danno; ma è la DP che ha fatto sì che loro diano”

   Così, seppur  tardivamente, solo a 40 anni fece esplodere una travagliata vocazione, desiderata ma sempre oppressa per altre scelte di più immediata apparente importanza. Decise quindi nell’agosto del 1860 la via del sacerdozio, abbandonando il lavoro presso lo zio ed il fratello che continuavano l’opera paterna.

    Risultando tardi per entrare in seminario, per la formazione teologica provò a rivolgersi all’insegnamento del sac. Vincenzo Carlini allora parroco di Masone e custode della cappella gentilizia nella villa Rostan a Multedo: come suo discepolo trascorse solo 4 mesi, quando sentì il bisogno di avere basi più solide: preferì trasferirsi alla Certosa di Rivarolo ospitato in due stanze dal medico Garello sperando apprendere dal parroco –un suo omonimo- di più, della lingua latina e filosofia; ma anche qui, fu subito ‘sfruttato‘ quale fabbriciere e soprintendente ai lavori per cui preferì cercare –accettando un periodo di prova- presso la chiesa di san Pancrazio assumendo l’incarico di inserviente. Ma alla fine ritornò da don Carlini per affrontare i temi della teologia, ospite nella villa Rostan: qui, rientrato in sintonia, riuscì a concentrarsi nello studio e rafforzare la chiamata, fino a che tutto si completò a 46 anni, nel 1866: dopo un ritiro a Campi dai frati Cappuccini, subì la cerimonia dell’abito talare, la tonsura e gli Ordini Minori (da mons.Filippo Gentili, vescovo di Novara in quel tempo alloggiato a Genova nel suo palazzo patrizio). A questo, seguì la promozione a suddiacono (da mons. A.Charvaz), e poi  a diacono (a san Michele di Pagana da mons Pallavicino).

   Infine  fu ordinato sacerdote a 47 anni, il 24 giu.1867, (festa di san Giovanni Battista);  e la prima messa fu da lui celebrata il 29 giugno  (festa di san Pietro) alla Cella, dove rimase  ad esercitare il suo ministero, irradiando quel fascino e carisma che lo accompagnerà per tutta la vita sacerdotale: un potere irresistibile che accomunò nel giudizio ed ammirazione poveri e ricchi, credenti e non (SPdA era ‘roccaforte del socialismo, con forti matrici anarchiche e quindi anticlericali; ma non era il credo politico che faceva fare differenze nell’essere disponibile sempre ed a tutti. La gente ‘sentiva’ che lui era al di sopra della politica).

   L’anno dopo, madre Angela Massa delle Franzoniane (era Madre superiora del convento, ove già da più di cent’anni (dal 1751) era prioritario l’interesse del problema specificatamente coinvolgente la classe sociale degli operai; e della loro famiglia, sopratutto le orfanelle, divenute prive di qualsiasi sostentamento sociale, affettivo ed educativo): non avendo consorelle a numero sufficiente per gestire l’istituto, si affidava a pie coadiutrici esterne come la concittadina Apollonia Dellepiane animata di carità ed ispiratrice dell’iniziativa di occuparsi in casa sua di nove fanciulle rimaste orfane di operai concittadini deceduti). Dovendosi trasferire a La Spezia, cercò come affidare l’organizzazione delle 12 orfanelle che teneva riunite. Si rivolse dapprima al direttore don PietroPaolo Gallo –e questi rigirò il problema a don Daste.

   Possiamo immaginare  la personale sensazione di incapacità ed impreparazione: un incarico impari alle sue modeste capacità. Ma impossibile dire no. La Divina Provvidenza lo avrebbe aiutato.

 

   Così, don Daste, caricato dell’onere totale del mantenimento di questo impegno, coadiuvato dalla stessa Dellepiane -divenuta suora- e da altre animatrici come suor Caterina Cipollina e suor Ghio Giulia, dapprima le portò in angusti locali di via san Bartolomeo, poi in via Bombrini, via Goito, piazza Capitan Bove (in palazzo Boccardo) ed ultimo, quando le ragazzine erano diventate 30 o 40, in via Mameli (cioè via Carzino, nella casa di proprietà del principe Centurione; questi volle venderla al sacerdote per una minima cifra (25mila lire), che fu raggranellata con la vendita dei palchetti del teatro Modena e l’aiuto di benefattori).

   Al sacerdote -in base alla regola dettata per prima “al bambino è dovuto il massimo rispetto”- toccò questuare, educare, alimentare, vestire.

Ma per lui non era problema il proporsi quotidianamente agli altri nella maniera più umile, facendosi riconoscere ovunque come il “poverello di San Pier d’Arena” ed accumulando aneddoti della sua bonaria, disarmante semplicità  e visione ottimistica della vita (oltre il colera nel 1886 ed il  terremoto del 1887 -nel ponente ligure, con Bussana distrutta-, si dovette affrontare la miseria quotidiana di tanta gente in una città in piena trasformazione sociale: sono anche gli anni di San Pier d’Arena appena riconosciuta città, di don Bosco attivo a san Gaetano; ma anche gli anni in cui i ricchi borghesi che gestiscono il potere al posto degli aristocratici, decidono per l’industrializzazione, e si scontrano con le masse degli operai sfruttate e anelanti a nuovi migliori diritti, primo tra tutti la protezione dei più deboli). Schierandosi apertamente dalla parte dei disperati, ne assunse tutti gli oneri, anche se apparentemente preziosi solo allo spirito; ma -riuscendo a creare nei facoltosi il bisogno alla carità- ottenne così il contemporaneo plauso di ambedue le classi sociali. I suoi fagotti raccoglievano tutto il possibile, ed in tutto il circondario genovese (arrivava a Ronco, a Gavi, in riviera; quando tornava, per concessione amministrativa locale passava liberamente senza pagare il dazio; anzi a volta gli veniva aggiunta altra merce sequestrata) per migliorare la sua casa ove mancava tutto, dalle seggiole ai letti, dal fuoco per l’inverno al cibo quotidiano. Gli aiuti più vicini, nel limite, arrivavano dal parroco della Cella don Francesco Olcese, dal vescovo (prima mons.Andrea Charvaz, poi Salvatore Magnasco ed infine Tommaso Reggio), dal Comune (il sindaco Federico Malfettani e l’assessore -il pittore Orgero- promossero ed ottennero dal Consiglio una retta fissa  tratta dal bilancio comunale, idonea ad aiutare l’istituto), dalle varie  Società Cooperative (che seppur di idee differenti, non facevano mancare generi alimentari), dalla stessa UITE che lo faceva viaggiare gratis. Era divenuto un prete speciale, un prete che applicava il concetto di povertà  andandola a cercare nella strada e portandosela a casa; non faceva questua ma offriva umilmente se stesso per ottenere la carità: questo suscitava rispetto non solo nei benestanti quanto soprattutto in tutti coloro che come lui dovevano lottare per sopravvivere e che -malgrado ciò- lo eleggevano non concorrente ma nobile alleato da rispettare.

   Gradatamente realizzò nuove regole di vita per sé e per i propri collaboratori, dando inizio ad una nuova Opera ed alle Figlie della Divina Provvidenza, con regole nel 1873 (e poi riscritte aggiornate nel 1916, 1950, 1982); devozione particolare alla Madonna onorata sotto il titolo di N.S. della Divina Provvidenza la cui festa solenne cade la seconda domenica dopo l’Epifania. Patroni dell’opera sono san Gaetano da Thiene (1480-1547, il santo della Provvidenza), san Girolamo Emiliani (1486-1537, detto padre degli orfani); sant’Angela Merici (1470 ca-1540 una delle prime a raccogliere le orfanelle) e sant’Orsola martire; gli abiti debbono essere i più semplici e modesti; requisiti fondamentali l’umiltà, l’affetto da donare ed un’instancabile operosità.

Dal 1887 compaiono delibere della Giunta comunale mirate ad esentare del pagamento del dazio per l’Istituto, da pagarsi all’’inroduzione di generi alimentari diversi’.

   Nel 1891 il sacerdote presentò domanda poter murare, sotto la nicchia esistente nell’angolo nord del palazzo, “una tavola sostenuta da mensolette di ferro e ornata all’intorno con una mantovana metallica”: sulla quale poter apporre fiori, candelieri o  paramenti. Il tutto corredato di progetto dell’ing. Salvatore Bruno. Il parere della Giunta fu positivo. Ma nulla si rivela circa la statua contenuta nella nicchia.

   Il 6 dic.1892 aprì una casa anche in Sestri Ponente, cittadina dallo sviluppo tumultuoso dei cantieri e dell’industria, e per i giovani precaria come San Pier d’Arena, affidata alla direzione di suor Agnese Morasso. Pochi mesi prima, il re UmbertoI, in visita a S.P.d’Arena, o aveva lodato e gli aveva fatto pervenire una offerta in denaro.

   Dopo un intervento agli occhi per cataratta, nell’inverno si pose a letto e morì settantanovenne poco prima della mezzanotte del 7 febb.1899.

La giunta comunale nelle figure del sindaco F. Malfettani e dell’assessore Orgero (che tante volte l’avevano aiutato anche con donazioni  personali),  riunita d’urgenza deliberò all’unanimità lutto cittadino con la bandiera a mezz’asta, le spese per il rito funebre e un posto distinto al cimitero della Castagna. Infatti, la mattina seguente, in Comune avvenne una seduta straordinaria, per commemorare la contemporanea dipartita del prete e dell’ing. Nicolò Bruno. Per il prete, la relazione scrive che il sindaco Federico Malfettani “alzatosi in piedi, pronuncia le seguenti parole: signori Consiglieri, la vostra Giunta...commossa da tanta sventura, che rapiva persona sì eletta, da tutta San Pier d’Arena rimpianta, che sol visse di carità, per il bene dei sofferenti; il sacerdozio esercitando evbangelicamente, affatto mondo da terrene intenzioni; tutte le sue sostanze, tutte le sue cure e fatiche erogando per il sostentamento dell’Opera pietosa da Lui fondata; dalla quale da anni traggon pane e vita morale tante povere fanciulle derelitte; la vostra Giunta, onde render solenne tributo di stima e di amore a cotal angelo di bontà; a chi serenamente moriva in aureo vivido cerchio da tutti benedetto, interpretando i vodstri sentimenti, qui decise radunarvi per sottoporre alla vostra approvazione le proposte alle disposizioni pei funerali cui è caso: Vi propone quindi oltre all’aver già provveduto che la bandiera di tutti gli stabilimenti  comunali sventoli per quattro giorni abbrunata, di assegnare una tomba d’onore nella cappella del cimitero civico alle spoglie venerate”. Presero parola vari consiglieri tra i quali il geom. Pietro Giacomardo che espresse il parere dare titolazione al prete per tratto di strada sino ad allora detta ‘via Mercato’; altri che promossero non lasciar morire l’opera del prete, sussidiandola; lo stesso Pietro Chiesa socialista, propose “ascrive a mio dovere l’affermare che le proposte della Giunta onorano ogni partito che simboleggi la carità, il sacrificio, il lavoro. Quando un uomo come don Daste muore povero, mentre povero non era quando intraprese il suo apostolato, è debito civile onorarne la memoria”.

    Non fa stupore quindi che ai solenni funerali, partecipò tutta la cittadinanza, con tutta la municipalità ed autorità genovesi e delle delegazioni limitrofe. La messa fu celebrata dal parroco delle Grazie, don Costantino Zenega; il carro – di prima classe - fu offerto dalla ditta Robba. Continuò così la gara ad ancora ‘dargli qualcosa’ che potesse soddisfare l’esigenza interna di tutti di essere stati vicini all’ “Uomo più grande di SanPierd’Arena”.

Tutta l’opera del piccolo prete, con la sua morte ebbe un ‘rialzo di quotazione’: lo stesso Consiglio comunale nel marzo successivo convenne sulla “utilità che ne deriva alla città dell’esistenza dell’Istituto della Piccola Provvidenza (sic)”, e prospetta “convenienza del Comune al concorrere al miglioramento di detto istituto nell’interesse generale della Cittadinanza...”. Cosicché altre case furono aperte in Prà (1932), in alcuni asili parrocchiali (1946) ed in India (1979). Assunse le redini della casa quale direttrice suor Clotilde Pavan (probabile già colaboratrice e facnte arte del comitato pro-lapide),  mentre fu sostituito come direttore dell’opera  da don Anacleto Cotta.

 

   Datato 20 genn. 1901, un comitato composto da una ventina di cittadini si propose - davanti a notaio - sobbarcarsi l’onere di porre una lapide nella facciata del palazzo dell’Istituto in via Mameli (vedi anche via Carzino).

   La cosa si realizzò nel 1905. In occasione dell’inaugurazione della lapide (il marmo era stato disegnato dall’ing. Sirtori e donato dal cav. Mazzino - vedi descrizione a ‘via G.Mameli’ e ‘S.Carzino’), fu a lui intestata anche la strada adiacente. 

L’ing. Pietro Sirtori, faceva parte del comitato per l’applicazione della lapide del prete don Daste in via Mameli (Carzino);  era esponente politico nella Giunta, rappresentante il Partito Popolare fondato da don Sturzo; in quanto assessore ai Lavori pubblici, era stato progettatore del Piano Regolatore  che prevedeva – tra l’altro - una grossa strada centrale (v.Cantore) ed una a mare (Lungomare Canepa) le quali, allora, non furono realizzate per l’assorbimento nella Grande Genova; dopo la devastazione fascista -1924- sia del Circolo della Gioventù Cattolica intitolato a Giosuè Borsi (vedi via Carzino) che della Cooperativa di Consumo intitolata a Giuseppe Toniolo, diede – assieme a suoi quattro colleghi di partito  (Bono, Ferrea, Penna, Platone) - le dimissioni (ottobre) dalla civica amministrazione, malgrado le formali scuse de Direttorio fascista locale.

Il 13 genn.1905 il sindaco N.Ronco fece assegnare definitivamente la tomba del sacerdote; il feretro, dopo le dovute riparazioni (effettuandosi la cerimonia in forma solenne) il 7 aprile fu traslato dal Pronao (ove era nel posto n° 22) al ‘suolo della Chiesa’... ‘più vicino all’altare della Cappella’, sulla quale  fu collocato un cippo molto semplice, dello scultore Giuseppe Frondoni, recante la scritta “sac. Nicolò Daste - benemerito fondatore del Pio Istituto della Provvidenza - 1820 - 1899 “ e soprastante, un tondo con olio raffigurante il sacerdote, curato dal pittore Angelo Vernazza.

   Il 6 luglio 1924, dopo 25 anni dalla morte, a cura di don Davide Lupi e con autorizzazione e origanizzazione del sindaco Manlio Diana, la salma fu  novamente traslata con grande cerimonia (comprendente corteo, sosta e messa alle Cella, commemorazione al Politeama Sampierdarenese, trattenimento delle 150 orfanelle ospitate. Pubblicazione di una biografia) in una cappella della casa madre, ovvero nell’istituto ora a lui dedicato nella villa di salita Belvedere 2.  La tomba in marmo, fu disegnata e scolpita dal prof. Daniele Danusso, torinese.

   Il 20 magg.1965 le spoglie mortali del prete vennero nuovamente e definitivamente traslate in una nuova cappella (sempre interna nell’istituto ed aperta col generoso contributo di un imprevisto donatore, il prof. Marino Cortese zoologo: aveva suggerito ad una cliente di fare una donazione ad un istituto, questa scelse il don Daste ed dal successivo ringraziamento nacque la conoscenza e la donazione; nel 1962, durante i lavori di fondamenta, fu fortunosamente ritrovata una grossa bomba inesplosa. La cappella fu consacrata dal card. mons.G. Siri) ponendo  la grossa lapide sul lato sinistro del presbiterio (con la scritta : “ SACERDOTE  -  NICOLAUS DASTE   -  1820-…1899…..?”***) , di lato all’immagine della Madonna venerata dalle suore, dipinta dal francese Pierre Mignard e da lui chiamata “Vierge au grappe” (o drappe?)

   Interessanti voci, dicono -già dal 1992- di una proposta di beatificazione: si stanno ricercando testimonianze, informazioni narrazioni di eventi che possano portare alla valutazione dell’apposita Commissione vaticana; è comunque un iter lungo e minuzioso alla cui base occorre che la pratica sia corredata da precise testimonianze di un evento miracoloso accaduto a qualcuno dopo una sua invocazione; sarebbe un grande onore per San Pier d’Arena.

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Gli autori in verde=già trasferita la bibliogr. a Largo Gozzano (x villa imperiale).

In rosso restano qui a Daste.I  bianchi, da controllare.

 

 

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-Gazzettino S-: 2/72.7 +  2/73.3  + 3/73.7 +  4/73.5foto  +  8/73.8  +  7/74.8  +  10/76.3  +  1/77.10  +  5/78.3.6  +  7/78.18  +  9/78.13  +  10/78.3  +  4/79.9  +  8/79.1   +  7/80.3  +  1/81.3  +  1/83.4  +  8/83.2  +  2/84.13  +  3/84.7  +  5/84.12   +  8/84.11  +  9/84.11  +  6/85.8  +  9/85.5  +  1/87.9  +  9/87.3  +  9/88.2  +  6/89.3  +  8/89.12  +  2/91.3  +  4/91.3.5  +  9/91.5  +  9/92.5  +  10/92.5  +  5/93.5  +  9/93.7  +  2/94.7 + 8/94.9 + 8/95.1 + 1/96.5 + 4/96.9 + 4/97.6 + 5/98.7 + 8/98.4 + 03.02.4 + 10/02.9 + 03/03.7 + 04.03.3 + 08/04.7

-Genova Rivista municipale :   6/34.474  +  12/37.XXVI  +  2/38.50  +  1/39.6  +  2/41.79  +  7/67.20  + 12/67.50pag.verdi  +

-Gregori M.-Pittura murale in Liguria -SanPaolo IMI.1998- vol.IV-pag.79

-Guida di architettura-Allemande-pag.221

-Il Cittadino del 21.12.08 + 23.11.08-pag.13

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-Il Secolo XIX  del 15.1.99 + 24.03.02 + 2e14/3/04 + 

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DASTE                                      vicolo Daste

 

 

viene citato dal regio Commissario straordinario, nel proporre alla giunta comunale il 31 dic.1900  un elenco di vecchie strade, da rinominare o modificare, ed a cui aggiungere quelle nuove.  Nel descrivere questo vicolo, lo si pone “ a notte di via Polcevera” (quindi “a nord di via G.Tavani”).

    Fu poi scelto diversamente; titolato, ufficialmente divenne ‘via Calatafimi’ (via C.Orgiero); così la proposta iniziale cadde definitivamente.

   Si presume che il nome Daste non sia attinente alla casa di nascita del famoso prete, anche se il vicolo al suo finire verso la marina  poteva affiancarla quando, allora tutto i mezzo a prati, finiva incrociando via san Cristoforo. Piuttosto sia legata all’abitazione di altri Daste,  omonimi sufficientemente ricchi da avere nel vicolo ben  tre case: i civici 4b, 4d e 4e di via Polcevera , case poi vendute separatamente ad un  Somano ed un  Bianchi).

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale


DATTILO                                                  via Cesare Dattilo

 

                                                 

TARGA:

San Pier d’Arena – via – Cesare Dattilo – caduto per la libertà –1921 – 23·3·1945

Via – Cesare Dattilo – Oscar – caduto per la Libertà – 1921-23.3.1945

                                              

 

angolo con via C.Rolando

 

angolo con via  M.Malfettani

 

angolo con via P.Cristofoli

QUARTIERE ANTICO: San Martino

dalla carta del Vinzoni 1757. In giallo via C.Rolando; celeste, via A.Scaniglia; rosso, ex-via N.Daste; fucsia ex crosa dei Buoi; in verde vico dei Disperati e blu la ex-villa Lomellini di via GBMonti 20.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2765

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   21440

UNITÀ URBANISTICA: 25 - SAN GAETANO

 da Google Earth 2007. Fucsia, via GBMonti; giallo, via LFarini; celeste, via PCristofoli; verde inizio e fine dalla nostra via.

CAP:   16151

PARROCCHIA:  san Gaetano e san Giovanni Bosco

STORIA della strada:  è una strada nata agli inizi del secolo quando iniziò la lottizzazione dei giardini ed orti delle varie ville locali (vedi via C.Rolando), vicino alla zona detta delle ‘fornaci’.

La cronologia dei nomi della strada, è un po' difficoltosa: nacque agli inizi secolo 1900 ufficialmente intestata dalla giunta municipale come via Pastrengo, ovviamente nell’onda enfatica del Risorgimento, da via A. Saffi (via C.Rolando) a via GB.Monti.

Il 19 ago.1935 fu trasformata in via E.Rayper.

Negli anni  dell’ultimo conflitto, per decreto del podestà del 20 dic.1943 fu cambiata in via Manlio Oddone.

Dopo il 1945, per delibera della giunta comunale del 19 lug.1945, fu  dedicata al  partigiano C.Dattilo. 

Con delibera del consiglio comunale del 26 mag.1947 venne ‘distratto’ il tratto da via P.Cristofoli a via GB Monti, che fu restituito al pittore E.Rayper.

   Per anni, all’angolo di via C.Rolando (come per via GB Monti) le targhe sono state due,  contemporaneamente poste una vicino all’altra: una era in stile marmoreo antico (probabilmente raffazzonata lì per lì  subito dopo la  dedica al partigiano,  parzialmente coperta  da vernice e si leggeva solo “via...Cesare”);  nella seconda, tutto chiaro eccetto - perché non si leggeva - il nome della titolazione precedente; si intravvedeva un ‘già...’ (‘già via Pastrengo’). Una terza, al posto delle due, apposta nel 2001, plastificata, ha risolto ogni problema di lettura.

 

STRUTTURA:   senso unico viario da via C.Rolando a via  P.Cristofoli;

è servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera

CIVICI

2007*= NERI =  da 3    a 5  (manca 1)                          da 2 a 10

             ROSSI=   “  1r   23r (compresi 1C, 13A, 15A)    2r     6r (compreso 6B)

La strada finisce col civ. 21r; iI civ. 23r è in via Rayper.   Vi è un box-auto presso il 15r, che non ha civico rosso.

===civ. 2, 4, 6 neri, sono stati costruiti in un corpo unico basale (fino al primo piano), sovrastato con tre torri separate corrispondenti a ciascuna scala; così fatto, risultano speculari ai civv. 1,3,5 di via Anzani.

===civ. 2r-4r-6r rossi  nel 1950 ospitavano il bar di Ceccarelli Giuseppe

===civ.3 e 5  corrispondono ad un  palazzo della Telecom

===civ 7 palazzina (un piano, più un ammezzato) del patronato sindacale della CGIL.  

Da un opuscolo del 1894 si intitola: «Cosa sono ed a che servono le Camere del Lavoro? / Edito per cura delle società promotrici della Camera del Lavoro in Sampierdarena / prezzo c.10 / tip. e cart. G.Palmieri e Figli - Sampierdarena via Vittorio Emanuele, n.15 / 1894. si comprende che

A)—nacquero con lo scopo di organizzazione sindacale,  che raggruppasse i lavoratori aderenti alle diverse categorie. Erano state costituite per prime -1891-  a Milano, Torino, Piacenza, e  divennero il motore propulsore del sindacalismo di classe schierandosi con le posizioni massimaliste del movimento.

Dopo la formazione della CGIL -1906- alla quale fu attribuita la rappresentanza nazionale dei lavoratori, le CdL mantennero la funzione  organizzativa, assistenziale e mutualistica locale. Nel 1926, dichiarate centri di resistenza al fascismo, vennero chiuse. Furono ricostituite nel 1944 col Patto di Roma che prevedeva una autonomia e singolarità provinciale. Nel 1948 le CdL si identificarono con la CGIL.

 

B)— a San Pier d’Arena la Camera del Lavoro si costituì ufficialmente il 24 marzo 1895, su iniziativa della soc. Istruzione e MS, della soc. Universale di MS, della Cooperativa di Consumo e Produzione.   Nel 1904, i dati statistici sui metallurgici organizzati sono molto incerti, anche perché solo una parte di essi era iscritta contemporaneamente alla Camera del Lavoro e alla Federazione metallurgica, mentre gli altri aderivano o all’una o all’altra. Dal “Bollettino del Lavoro”, vol. 3° (1° sem. 1905) risulta che alla fine del 1904 erano iscritti alla C.d.L. di SPdA 208 operai metallurgici mentre gli iscritti alla Federazione metallurgica erano 250.   C)—una carta intestata riporta il telefono=14-44 e la la sede in via Vittorio Emanuele, 34  questo civico nel 1902 era vicino all’ opificio dei f.lli Sasso fabbrica di pallini, che a loro volta erano al civ.34L. D)-- Già dall’anno 1900 esisteva -voluta da soci appassionati di musica- una società corale filolirica con rappresentazioni pubbliche di brani ed operette. Il gruppo era organizzato dal partito socialista sampierdarenese. Nel 1904 il gruppo trasferì la sede qui, ove  trovarono spazio assieme a gruppi appassionati di filodrammatica, commedie e musica moderna, tutti volenterosi dilettanti non certo competitivi con i più grossi teatri aperti allora in città, ma seguiti entusiasticamente dal pubblico meno abbiente. E)--  Fu creato nell’interno un vasto salone adibito a teatro con palco e superiormente un loggione semicircolare, capace di alcune centinaia di posti, aperta anche ad iniziative popolari come veglioni, feste da ballo e  cenoni. F)--  Fu titolato “teatro sociale G.Donizetti”. L’inaugurazione fatta nel maggio 1904 vide P.Chiesa quale propugnatore del teatro stesso e relatore della  figura del musicista. Inizialmente le rappresentazioni erano solamente musicali e  canore essendo la Società – nata in seno ai socialisti – prettamente corale; con l’erezione della più ampia struttura, si allargò il programma ad altre rappresentazioni.    G)--Negli anni del fascismo la sede fu sequestrata  per uso del partito, H)--finché nel dopoguerra divenne proprietà del Ministero del Lavoro; I)-- da questi, per legge varata riguardante i possedimenti fascisti  e destinati a divenire proprietà di una confederazione sindacale, dal 1979 fu destinata alla  CGIL.   L)-- Nel 1989, con i fondi della GCIL nazionale, dello Spi e con le sottoscrizioni di molti lavoratori, l’edificio trovandosi in condizioni assai deprecabili, fu ristrutturato e trasformato in centro servizi polivalente al servizio dei cittadini (disoccupati, sfrattati, pensionati, terzomondo, comprese consulenze fiscali e problemi della famiglia) del ponente e della Valpolcevera.

===civ. 7r nel 2011 ha sede il “Centro Sociale interaziendale Ansaldoche – quando nacque nel 1927 aveva titolo di ‘dopolavoro Ansaldo’-. Per tanti anni ha avuto sede in via U.Rela al civ. 1 ed a piano terra (vedi). Nato in epoca fascista, fin dagli inizi ha come scopo cercare di organizzare per i numerosi dipendenti il tempo libero sia con servizi ludici (turismo di gruppo, attività sportive, mostre, ecc.) che sociali. Un lungo persorso, durato ottant’anni, da loro definito ‘travagliato, con testimonianze di vita vissuta da parte dei lavoratori...con un egame profondo e costante con l’associazione e il territorio di Sampierdarena’. Nel 1977 il Comune localizza il Centro in via Cantore civico senza numero e via N.Daste, 3 (campo da tennis?) ed aumenta loro il canone di affitto dei locali, da 12mila/annue del 1976 a 240mila nel ’77.

===Il  civ. 10, evidentemente legato ad un unico costruttore con unico progetto; perché costruito in grosso corpo unico, è totalmente speculare al civ 7 di via C.Rota con 4 scale (identica prima rampa di scala dopo il portone, sino al primo piano, ove si continua con una scala A del caseggiato, e contemporaneamente si apre pure a un cortile interno,  che a sua volta da adito a tre scale  B, C, D).

===al 13r Calderoni Primo aveva nel 1950 i macchinari per riprodurre disegni (vedi via A.Cantore).

===sul fianco offerto alla via, del civ. 1 di via Malfettani,  c’è una edicola all’altezza del primo piano, con raffigurata l’immagine del Cristo con la Croce (del SS.Salvatore) .

===civ.30r da oltre 50 anni, una Chiesa cristiana  Evangelica  Battista

===al civ. 62 nel 1950 c’era la ‘soc. Elettromeccanica Ligure’ di costruzioni elettromeccaniche.

    Nella strada si aprono nel 2003 numerosi negozi che naturalmente nel tempo hanno cambiato proprietari e destinazione d’uso.

 

DEDICATA:   al partigiano, col nome di battaglia “Oscar”, nato a Cogoleto l’ 11 set.1921, meccanico dello stabilimento san Giorgio di Sestri Ponente, militante del P.C.I.

   Sfuggì ad un rastrellamento compiuto dai nazifascisti tra le maestranze dell’officina il 16 lug.1944, e rifugiò in montagna dove dimostrò subito la sua capacità di essere deciso e volenteroso, vigilando attentamente e compiendo azioni in grande stile (sul monte Zucchero, smantellò una postazione nemica, riuscendo a convincere molti nemici ad arruolarsi nei partigiani e lasciando gli altri di tornarsene a casa).

Gli venne affidato il comando di un distaccamento (chiamato divisione Doria, dal nome del comandante), di stanza ad Acquabianca, nei pressi di Sassello. Nel sett. dello stesso anno, divenne comandante della brigata d’assalto “G.Buranello” della divisione ligure-alessandrina Mingo, con la quale partecipò a  numerose azioni belliche, nell’appennino ed in riviera,  compreso la cattura di due compagnie di alpini delle divisione Monterosa; comunque sempre con notevoli bottini di armi ed equipaggiamenti; ma soprattutto generando sorpresa e scompiglio nel nemico.

Con questo grado ed  incarico, ai primi di dicembre del 1944, fu catturato a Tiglieto (Pastine scrive a s.Pietro d’Olba) in un rastrellamento compiuto nella zona dagli alpini delle brigate nere della divisione San Marco, e tradotto in vari carceri: Forte del Giovo di Sassello,  sant’Agostino di Savona, poi alla Casa dello Studente di Genova, luogo sinistro di torture, ed infine a Marassi nella IV sezione.

I partigiani della stessa brigata riuscirono a catturare tre militari fascisti del presidio locale, e la moglie del colonnello italiano Cesare Romanelli che aveva condotto il rastrellamento da cui era derivata la cattura del Dattilo:

L’immediata reazione fascista fu un nuovo rastrellamento a Rossiglione (arresto di 2 disertori, 9 renitenti, alcune famiglie in ostaggio). Con ostaggi da ambedue le parti, furono aperte trattative anche con le autorità germaniche per sospendere la condanna di Dattilo in cambio della liberazione degli ostaggi, cosa che avvenne reciprocamente, escluso il partigiano.

Per lui, il destino decideva diversamente: Il 22 mar.1945 un gruppo di partigiani  della brigata volante Balilla comandati da Angelo Scala detto Battista (anziano militante comunista di Bolzaneto), tende imboscata, attacca e dopo conflitto a fuoco,  distrugge a Cravasco una pattuglia di nove soldati delle SS tedesche, compresi due graduati, finendo sul posto i feriti e ripiegando verso Molini di Voltaggio. Il Comando tedesco decide una rappresaglia, voluta da alcuni di loro proprio per il colpo di grazia inferto ai feriti (la titubanza derivava dalla ormai prossima fine della guerra, perduta, e la minaccia di accuse di essere stati criminali di guerra: occupando il paese con reparti delle SS e brigate nere, fece ostaggi tra la popolazione, compreso il parroco; saccheggiarono ed incendiarono molte abitazioni; e decisero la fucilazione sul posto di venti prigionieri  da prelevarsi dal carcere di Marassi scelti tra i membri dei quadri militari partigiani). (vedi a G.Malinverni)

Assieme a Giuseppe Malinverni, Renato Quartini ed altri 17 partigiani, il 23 mar.1945 Dattilo fu prelevato da Marassi e, portato a Cravasco,  fu fucilato.

Altrettanto dura fu la reazione del comando partigiano della VI zona, convinti di doversi opporre con immediate ritorsioni, definite “ammonimento”. Battista decise la fucilazione di 39 militi ed ufficiali, delle SS, brigate nere e “mongoli” della Turkestan tenuti nei campi di prigionia di Rovegno e Cabella Ligure: da Rovegno, a marce forzate li condusse attraverso la sella di Monte Carlo dominante Cravasco, di fronte al paesino di Pietralavezzara sulla strada per il passo della Bocchetta, e lì li fece fucilare il 4 aprile abbandonando i corpi sul posto ladsciato avvertire il parroco. Per fortuna, la spirale si fermò non avvenendo nessuna reazione dei tedeschi che si limitarono a ricuperare i corpi dei loro caduti solo costringendo alcune donne del paese ad aiutarli nell’opera.

   Molto bella una poesia di Edoardo Firpo : « Quello strazetto da crave – tra stecchi nû e spinoin – che verso a çimma o s’asbria, - a stradda a l’é ch’an battûo – in quella tetra mattin.---Cianzèivan finn-a i rissêu; -  cianzeiva l’ægua in to scûo –a-o fondo di canaloìn --- Me pâ sentì i so passi – luveghi comme un tambuo – lenti, che scûggian indietro - cö mutilòu insce-e spalle; -  i veddo cazze, stâ sciù: - perché stan sciù se fra poco – cazzian poi tutti lasciù? --- Han ciammòu Dio in aggiûtto – con ogni colpo do chêu – pe lô, pe-a so moæ, - pe-i figgêu, - ma o fî o se faeto ciù cûrto – e a raffega a-a fin a l’à streppòu. – Perché in te grandi ingiustizie Dio o l’è sempre lontan? --- E çerco in gio ai mæ passi – se un segno o fosse restòu; - no gh’è che pochi fioretti – che in sce-o senté n’han lasciòu, - poi un strassetto de feuggia – secca ch’a sbatte a unna ramma. --- Ma in ta gran paxe di monti – se sento l’eco da l’ægua – lontan ch’ai ciamma, ch’ai ciamma.»

   Anche a Sciarborasca gli è stata intitolata una strada principale; però sulla targa il nome e la motivazione sono più complete.

 

 

 

 29 ottobre 1944. Manlio Oddone. Ricordo dei familiari

 

 

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D’ AZEGLIO                                        via Massimo D’Azeglio

 

Ci adeguiamo all’inserimento del nome alla lettera D, come appare in tutti gli stradari compresi quelli comunali, quando però dovrebbe far parte della lettera A di Azeglio.

 

 

TARGHE: via Massimo d’Azeglio

 

da via D.Chiesa 

  

     

da via G.Malinverni

                                       

 

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia

Da Vinzoni 1757. ipotetico tracciato della via, nei terreni del principe di Francavici. In blu villa Spinola; rosso villa Grimaldi della Fortezza; giallo villa Scassi e vico Imperiale; celeste ipotetico tracciati di via Malinverni e fucsia, via Pirlone.

 

 

 

 

 

N°IMMATRICOLAZIONE:  2766,    CATEGORIA 2

 da Pagano/1961

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   21460

UNITÀ URBANISTICA:  28 – s.BARTOLOMEO

   da Google Earth, 2007. In fucsia via palazzo della Fortezza; celeste, via DChiesa; giallo, via Malinverni.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:  s.Maria delle Grazie

STRUTTURA: strada comunale carrabile,  senso unico veicolare da via D.Chiesa a via G.Malinverni.

Lunga metri 62,57, è larga m. 5,52 .

STORIA: nel primi anni del 1900 fu proposta questa intestazione, per il “vico trasversale che da via E.DeAmicis (via G.Malinverni + via G.Balbi Piovera) tende a quello Imperiale” (via D.Chiesa).

   Con le stesse delimitazioni stradali, e sempre ‘vico’,  era ancora nel 1910 (da “via E De Amicis al vico Imperiale”), con civici sino al 5.

      Per il Novella (descrizione del 1900-1930 circa), si dipartiva come “vico, da via N.D’Aste”: questa descrizione, o è un errore, o al suo tempo comprendeva  il tratto, attualmente intestato a via Palazzo della Fortezza, che da via Daste si innesta nella strada trasversale.

   Nel 1927 è inclusa nelle vie cittadine dello stradario firmato dal podestà, e classificata di 3a categoria.

   Nel 1933 ancora congiungeva le strade con gli stessi nomi: “da  via Imperiale a via E.De Amicis”; ed era sempre di 3.a categoria.

    Dopo l’ultima guerra il tratto perpendicolare centrale proveniente da via Daste –il che confermerebbe che si considerava facente parte di questa strada-  cambiò nome, venendo considerato prolungamento dell’antica strada Larga, verso il  mare, e quindi la titolazione a D’Azeglio divenne definitiva limitatamente alla trasversale che unisce le due strade principali parallele.

   Nel Pagano/40  appare limitata da via G.Balbi Piovera e da via D.Chiesa; e nei 4 civv.rossi sono descritti una latteria (14r), una osteria (9r), un carbonaio (1r) ed un fruttivendolo (16r)

   Nel Pagano 1950 è descritto un solo esercizio commerciale: l’osteria al 9r di Obelisco G.

CIVICI

2007=NERI   =  da 1 a 5

          ROSSI = da 1r  a 23r       e da 2r a 20r  

   Il Costa/1928 cita questi esercizi: 13r=Vernier Francesco, modellista-- 21r=Perfetti Giuseppina, fruttivendola-- 23r=Sanguatti Antonio, conserve alimentari--

DEDICATA  al pittore, letterato, politico torinese (nato il 24 ottobre 1798 -1866) terzogenito (dopo Roberto e Prospero; prima di Luigi ed Enrico) di Cesare (uno dei migliori ufficiali piemontesi) e Cristina Morozzo di Bianzé. Il loro cognome reale era Taparelli, marchese d’Azeglio (comune in provincia di Torino).

   Durante l’occupazione francese del Piemonte visse l’infanzia esule a Firenze, poi a Napoli; venendo severamente educato dal padre sia fisicamente che nel controllare le emozioni e ad erudirsi.

Caduto Napoleone, poté tornare a Torino ove poi frequentò l’ università.

   Seguendo l’indole paterna nella carriera militare si arruolò come ufficiale sottotenente di cavalleria nel reggimento “Piemonte Reale”, dimettendosi nella prima maturità.  Riprese poi la divisa, all’età di 50enne.

1820- andò a studiare a Roma, sopratutto –inizialmente- come pittore ma dove frequentò, e ne divenne seguace l’Alfieri, dal quale apprese l’amor patrio infuocato.

   Dalla Città eterna tornò per esporre (a Torino-1831; Brera di Milaneo-1833; Parigi-1836), producendo fino all’età di 50 anni tele di  paesaggi, e scene di avvenimenti storici, molti ora conservati a Torino e Milano.

   A Milano, inseritosi nel gruppo romantico che faceva capo al Manzoni  conobbe e sposò nel 1831, Giulia, sua primogenita, che però morì giovanissima: iniziò allora a scrivere temi ad indirizzo legale, lontani dai moti rivoluzionari ma permeati dell’amor patrio acquisito; dal suocero ottenne incoraggiamenti a pubblicare nel 1833 il romanzo ambientato nel 1503, intitolato “Ettore Fieramosca, la disfida di Barletta”, a cui seguì dieci anni dopo “Niccolò de’ Lapi” ambientato nell’assedio di Firenze del 1530, e “La lega Lombarda”; tutti e tre con chiari propositi di libertà e di sentimenti patriottici.

   Maturò contemporaneamente una attività politica, anch’essa tesa alla causa del Risorgimento e favorevole all’ideale di unità a cui collaborò, sia scrivendo e pubblicando opere atte ad incendiare i cuori di amor patrio, seppur sempre contrario a raggiungere lo scopo con congiure segrete o sovversive, cospirazioni e rivoluzioni. Iniziò girando l’Italia per conoscere le società carbonare e mazziniane.

    Nel 1846 scrisse una forte critica al malgoverno pontificio con il libro “Degli ultimi casi di Romagna”: denunciato per questo, fu obbligato ad abbandonare la Toscana e rifugiarsi a Genova.

   A Genova propose le parole per la lapide da porre in Portoria al monumento del Balilla (sempre con la mira di stuzzicare gli animi contro l’austriaco); e si adoperò affinché la città - in segno di amicizia tra italiani - restituisse a Pisa le catene che difendevano il porto e che nel lontano 1290 furono prelevate quale trofeo di vittoria, da Corrado Doria. 

   Nel 1848 a Roma stampò “I lutti di Lombardia” riferiti alla repressione in Milano e ricercando la giustificazione storica dell’imminente guerra contro l’Austria.

    Cinquantenne, seppur mirato alla pace, coerente con gli ideali politici e di azione, rivestì la divisa militare e partì per la guerra (1848-9) come aiutante di campo di Durando; rimase ferito il 10 giugno a Vicenza prima dei fatti di Custoza. In convalescenza frequentò così amici che diverranno grandi economisti o politici o narratori, come Marco Minghetti, il sac. Raffaello Lambruschini, Cesare Cantù.

   Nel 1849, subito dopo Novara, Vittorio Emanuele II lo incaricò di formare un governo: fu così dal 7 maggio, il primo Presidente del Consiglio dei Ministri; resse l’incarico sino al 1852, quando si dimise per divergenze di idee col Cavour, che però lo suggerì come suo successore avendo ben agito nella pace con l’Austria, Francia ed Inghilterra e con la Chiesa (con la quale stilò un trattato giudicato di “ridimensionamento rivoluzionario”: abolizione dei privilegi, dell’immunità, dei tribunali;  ed apertura di asili).

    Nominato senatore l’anno dopo, scrisse il libro”il Governo di Piemonte e la Corte di Roma” per evidenziare il comportamento equivoco e di doppiezza di molti prelati vicini al Papa.

    Inviato come diplomatico, ministro plenipotenziario all’estero (Parigi e poi Londra), svolse il ruolo di regio commissario in Romagna e governatore di Milano.

   Tendenzialmente chiuso, divenne sempre più isolato, incompreso nonché trascurato; preferì ritirarsi a vita privata sul lago Maggiore, dandosi a scrivere“ I miei ricordi”, rimasti però incompiuti per la morte sopravvenuta a Torino il 15 gennaio 1866 (pubblicati postumi nel 1867 dalla figlia Alessandrina marchesa Ricci, rappresentano una delle opere autobiografiche migliori dell’ 800, sia letteraria che storica).

 

vista verso ponente (da satellite, 2010)

 

veduta verso levante  (da satellite, 2010)

 

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archivio St. Comunale  Toponomastica - scheda1534

-AA.VV.Annuario-guida archidiocesi –ed./94-pag.400---ed./02-pag.438

-Costa, guida di Genova 1928-pagg. da 967

-DeLandolina CG- Sampierdarena -Rinascenza.1922-pag.39

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno  

-Enciclopedia Treccani ed.1933

-Lamponi M.- Sampierdarena- LibroPiù.2002. pag. 63

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio-1900-pag.17.18

-Pagano 1940- pagg. 270

-Poleggi E. &C.-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.35

 

 

 


 

 

 

DE AMICIS                                                via Edmondo De Amicis

 

 

Non più a Sampierdarena, attualmente in Portoria (era in san Vincenzo; sull’elenco delle strade-toponomastica del Comune- gli hanno cambiato il nome in Edoardo).

Corrispondeva  a tutto il percorso che da via De Marini (poi ‘generale Cantore’, ora ‘via N.Daste’ ),  saliva alla “proprietà Piccardo” (vedi via GB.Botteri) e –più su- sino al progettando ospedale; quindi le attuali via Malinverni e via Balbi Piovera, allora unite in unico nome, prima del “taglio” di via A.Cantore.

   Nel 1757 il territorio posto a ponente della casa Spinola, apparteneva al marchese di Francavici (meglio Francavilla).

   Nel 1910, in uno dei primi elenchi stampati dal Comune con censite le strade cittadine, era ancora “da via DeMarini verso la collina”; itinerario precisato negli anni subito dopo, con la soprascritta a penna: “fino all’incontro della  via Promontorio e della  salita Galileo Galilei”.  Quindi coinvolgeva anche l’attuale via M.Fanti e via G.B.Derchi.  Essendo una via lunga in questa data, ovviamente già aveva i numeri civici che arrivavano al n° 78 e 73.

   Nel Pagano 1912 hanno recapito nella via gli appaltatori di costruzioni Zaccheo Giacomo¨¤ e Puppo-Lavagetti; ed i f.lli Tubino demolitori di bastimenti.

Nel Pagano 1925 compaiono al 2-3 lo scultore Onorato Toso; al  4-4 la levatrice Musso Maria ed al 5-8 Rossi Amelia;--- al 12-12 il negozio del grossista di vetri Canepa Angelo;---

    Nel 1927, l’elenco delle strade genovesi pubblicato dal Comune, registra due vie omonime; una anche a Sestri. La nostra, di 3a categoria,

    Negli anni 1930, al civ.73 c’era l’osteria Texetto  ove in quell’anno fu tenuto una prima gara-convegno di canti popolari, quando il dialetto era ‘cosa del popolo’..

   E così era ancora nel  1933¤, di 4a. categoria. Pagano/33  segnala il recapito dell’appaltatore edile Zaccheo Giacomo; al civ.4 del floricoltore Bonzi Domenico; al 12.11 il negozio di vetri di Canepa Angelo & C.; ed al 37r l’unica gelateria cittadina di Almone Domenico (già presente nel 1925).

   Solo il 19 ago.1935 il podestà decise dedicare un tratto di strada  a GB.Derchi ed il resto a G.Balbi Piovera; solo in un terzo  tempo, nel mezzo, subentrò via M.Fanti.

DEDICATA  al poeta ligure (solo per nascita, avvenuta ad Oneglia il 21 agosto (il Diz.Biog. e Zanichelli scrivono ottobre)) 1846, da Francesco (regio banchiere dei sali) e Busseti Teresa. Infatti visse quasi totalmente fuori regione.

E vi tornò solo per morire di ictus, a Bordighera  l’ 11 mar.1908).

 

   Quattordicenne, scappò di casa per arruolarsi nei Mille: fu ripreso prima di imbarcarsi e riportato in famiglia. 

   Inizialmente si orientò verso una carriera militare; in tale veste, partecipò col grado di sottotenente  alla terza guerra di indipendenza, da Custoza (1866) fino alla presa di Roma (1870).  Di quel periodo rimangono un libro, intitolato ‘Vita Militare’(1868, poi più volte rimaneggiata fno al 1880), e vari altri scritti sul tema, di cui i più famosi sono i ‘bozzetti’, ipotesi di un libro che avrebbe potuto chiamarsi ‘Patria’ e per il quale aveva steso le pagine di giovani eroi come ‘la piccola vedetta lombarda’ ed il ‘tamburino sardo’.

   Congedato e maturato, preferì dedicarsi al giornalismo, iniziando come corrispondente dall’estero (Spagna, Marocco, Olanda, Turchia) del Corriere della Sera; confermò così le sue doti di scrittore brillante di esperienze di viaggi, e di facile comunicabilità (famoso il libro “Costantinopoli” del 1887 del quale il premio Nobel turco Pamuk Orhan ha scritto “il miglior libro per ragazzi su Istambul”; ma altrettanto “Spagna”, “Olanda”, “Ricordi di Londra”, “Marocco”, “Ricordi di Parigi”).

   Così si scoprì essere, più che giornalista, uno scrittore di libri con alto  impegno civile. La scuola in primis.

Erano i tempi in cui don Bosco, don Daste ed altri filantropi cercavano modelli da dare ai giovani che lottavano, nell’analfabetismo, contro la povertà esasperata, la fame, l’emarginazione sociale. Produsse opere che sottilineavano, marcando a fuoco, le caratteristiche cercate nella gioventù: comportamenti e scelte di vita improntate di semplicità ed alti ideali (della Mamma e della Patria, con la grande avventura del giovane genovese Marco descritta con il suo capolavoro per gli adulti “sull’Oceano” (1889); in esso espone questi due ideale  come meta fissa, e che raggiunge al di là dell’oceano dopo mille peripezie), ispirate alla amicizia, lealtà e bontà, facendo primeggiare sentimenti di altruismo e fratellanza (indimenticabile è il capolavoro per ragazzi intitolato “Cuore” (1866), diario di uno scolaro, con cui commosse intere generazioni, per l’educazione dei sentimenti da trasmettersi in tutti i vari episodi;  tanti valori che ai tempi d’oggi sono stati stravolti assumendo all’opposto un indirizzo più individualista, meccanicista ma almeno non così ipocrita. Ad ognuno i suoi tempi.

Aveva creato il buonismo deamicissiano, alquanto irrazionale alla luce di oggi che al predominio del cuore-sentimento preferisce credersi raziocinante-cerebraloide. Ma, allora, divenne uno degli strumenti più potenti nel creaure una unificazione culturale nazionale sul metro della media borghesia umbertina del nord. Al punto che qualche studioso definì questa commozione dell’io italico - divenuto un noi con molte ipocrisie - una solenne truffa psicologica; scivolando però nell’io isolato ed elefantiasico: io, solo io che soffro per colpa degli altri, io che indiscutibilmente amo-odio, rido-piango, ho solo ragione io, io che anelo mettermi in mostra nella vetrina di Facebook o dei reality).  Con questa qualità dei testi, a lungo il narratore è rimasto della memoria collettiva quale “il Padre letterario della Patria”.

Ma l’impegno civile si legge anche nel “Romanzo di un maestro” (1890 - nel quale l’insegnante non è il solito espositore delle glorie nazionali, ma è un uomo con famiglia, impegnato da solo in quanto non aiutato dallo Stato nella sua battaglia contro l’analfabetismo, contro le famiglie contrarie alla scuola e bisognose di braccia nei campi. Questo romanzo fu censurato dal fascismo e, dal 1927, proibito alla lettura), negli scritti relativi ai drammi della miseria, dell’emigrazione, dei disperati, dei malati mentali (“Il giardino della follia” -1902), del bisogno di maggiore giustizia sociale e di maggiore interesse verso il popolo delle periferie.

Nel 1884 da Genova si imbarcò per Buonos Ayres invitato per delle conferenze dal giornale locale “Nacional”.

   Così lentamente emerse anche l’impegno politico, in modo  altrettanto vivo, intelligente e coinvolgente. Quest’ultimo ideale, maturato con una sempre maggiore convinzione, politicamente fu orientata a sinistra verso il nascente socialismo quando il movimento era ancora visto sia dallo Stato che dalla Chiesa come un nemico o il diavolo (divenne amico e seguace di F.Turati anche nei momenti in cui il socialismo fu bandito come pericoloso e  l’amico incarcerato). Non solo lo propone quale voce  delle idee socialiste, più esplicita ne “Lotte civili” del 1899 e “Primo maggio” pubblicato postumo (1980 - di ispirazione marxista); ma  perfino  lo farà separare dalla moglie (che detestava queste idee).

   L’improvvisa morte di un figlio (suicida), determinerà un finale di vita più riflessivo, meno pubblico ma sempre impegnato politicamente. Suoi, articoli sulla società in fase di sconvolgente sviluppo industriale: sul calcio, sull’alcoolismo, sulla pace e contro il militarismo; e tanti appunti per altrettante conferenze nelle sezioni del partito e poi pubblicati sulla stampa socialista a diffusione nazionale.

   Alla sua morte, avvenuta a Bordighera il 11.3. 1908, per suo volere, la salma fu traslata a Torino. Il treno che trasportò il feretro, fu segno di popolare riconoscimento e di affetto e commozione lungo tutto il tragitto: numerose presenze di estremo saluto e fiori.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archivio St.Comunale Toponomastica

-AA.VV.-Dizionario biografico degli Italiani

-AA.VV.-Enciclopedia Zanichelli

-Balma M-Nel cerchio del canto-DeFerrari.2001-pag.252

-DeLandolina GC- Sampierdarena -Rinascenza .1922-pag.39

-Il Secolo XIX  quotidiano,  10.03.08-pag.8; 31.03.11pasg.55

-Novella P:-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio-1900-pag.17

-Pagano/1933-pag.246

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova-Forni.1986-pag.123

-Piastra W &C-Dizionario biografico dei Liguri-Brigati.1992-pag.272

-Tuvo T.-SPd’Arena come eravamo-Mondani.1983-pag.63
DEGOLA                                                         via Eustachio Degola

 

 

 

TARGHE:

San Pier d’Arena – via - Eustachio Degola – teologo scrittore politico - 1761-1826

 

 

presso il sottopasso ferroviario

 

sulla facciata del Palazzo dei Tabacchi

 

QUARTIERE ANTICO: Mercato Ponte

Da Vinzoni, 1757. In blu via NDaste; rosso, via CRolando.In celeste ipotetica lunghezza di via RPieragostini; ed in giallo di via AScaniglia

N° IMMATRICOLAZIONE:  2767

  da Pagano/1961

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°: 21680

UNITÀ URBANISTICA: 25 – SAN GAETANO

                                           26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth, 2007

CAP:  16151

PARROCCHIA:  s.G.Bosco

 

STORIA: Nella carta vinzoniana del 1757 la strada appare tracciata, ma ovviamente senza nome, circondata da proprietà private: a nord di proprietà Domenico Spinola (i quali  estesi est-ovest lievemente arcuati, arrivavano sino all’attuale via C.Rolando ove era la villa –attuale civ.8); ed a sud degli eredi Nicolò Pittaluga e del rev.do Stefano Ferrari.

   Anche nella carta –presumo del Porro- di poco antecedente il 1781, la nostra strada corrisponde al tratto che era delimitato verso nord dai terreni delle stesse persone sopra.

   Nel 1846 è chiamata “Strada Provinciale di Ponente”; 

   Nel 1857, un regio decreto  deliberando i nomi delle strade della città, la definisce via san Cristoforo: con questo nome, era però iniziante da via san Martino (via C.Rolando) e  comprendeva tutta l’attuale via AScaniglia, via E.Degola e -proseguendo  verso ponente- anche  l’attuale via Pieragostini, sino al ponte.

    Nel dic.1869 l’ingegnere capo dell’ufficio tecnico della Provincia, scrisse al Sindaco segnalando che nei giorni piovosi,  ”trovasi talmente ingombra di fanghiglia da rendersi alquanto disagevole il transito che senza interruzione vi si esercita per la riviera occidentale …le speciali condizioni di giacitura ed altimetria di quel tratto di strada, esigono cure speciali… ”;  nel gen.1870, ancora in attesa di una risposta, si andò a precisare che la strada non è di competenza del governo né della provincia (ma del Comune di SPd’Arena, perché veniva considerata “strada provinciale di ponente” solo da oltre la sponda destra del torrente).

foto risalente alla prima decade del 1900. Riproduce l’”orto floro botanico”

di Carlo Camerano, con negozio anche in via A.Saffi (via C.Rolando)

   Dopo la guerra del 1915-18, divenne  via Cesare Battisti, di 4.a categoria, sempre uguali i due limiti:  da via A.Saffi (via C.Rolando) al ponte; e tale era ancora nel 1933.

   Con delibera del podestà del 19 agosto 1935, via Cesare Battisti fu ‘spezzettata’ e quindi non più con un nome globale  ma via A. Scaniglia il primo tratto, via E. Degola per il tratto che ora trattiamo; dalla Crociera al ponte, divenne via Monte  Corno (poi dopo ancora, via Pieragostini, dal 1953).

   Di questa frammentazione per lungo tempo rimane unita la progressione numerica dei civici: e lo stesso vale dopo le varie demolizioni, infatti gli unici civici di via E.Degola, posti a mare della strada in una rientranza, sono ancora il 10 e 12 dirimpettai.    Curiosa nella rientranza per accedere a questi civici, l’esistenza all’inizio di essa di grosse pietre di pavimentazione stradale, orientate in curva per far entrare i carri nel capannone posto a ponente - ora occupato da un artigiano che si interessa di sospensioni di auto e camion - e che evidentemente aveva l’ingresso –ora murato - in questa rientranza e non sulla via principale che, a quei tempi, essendo la strada più stretta, era di conseguenza più lontana.

       Subito prima della seconda grande guerra, dal Pagano 1940 si rileva “da via M.Fascisti a via Pacinotti”; con civici neri= al civ. 2 i Carabinieri reali; al 3, Deposito generi di Monopolio e la r. Guardia di Finanza; al 14 Perinotto sorelle, fiori artificiali; al 16 s.a. f.lli Feltrinelli legna; 20, dopolavoro ferroviario.  E civici rossi= 4r Dopolavoro Ferrov. bar ristorante; con commercianti uno per tipo: mercerie, foraggi, formaggi, metalli, elettricista, calzolaio, bottiglier., friggitoria, parrucchiere e osteria.

Nel piano regolatore generale approvato nel marzo 1956, fu previsto e poi attuato l’allargamento a 20 m del sottopassaggio ferroviario di via Degola, in due fornici paralleli ed ambedue a senso unico ovviamente verso il ponente. Il traffico, proveniente da via Cantore, all’incrocio prima del sottopasso (appartiene a via P.Reti) è fonte di accentuato intralcio alla snellezza della circolazione stradale.

      Sino al 1960 circa, era decisamente più stretta rispetto oggi, fiancheggiata sul lato mare da case operaie (rettangolari, che offrivano sulla strada il lato più stretto) e da baracche di officine e forse orti di proprietà private. Di esse, alcune case andarono parzialmente distrutte dai bombardamenti che miravano alla ferrovia, favorendo il posteriore allargamento dell’asse viario.

   Nel 1963-4 avvenne il raddoppio della carreggiata sotto il tunnel iniziale,  corrispondendo il Comune anche una certa somma alle Ferrovie. Seguì da parte del Comune l’acquisto di un magazzino con cortile e di alcuni immobili (tutti della sig.ra Clorinda Mascardi) col fine dell’allargamento della via E.Degola alla dimensione odierna.

   Nel 1969 viene segnalato un transito di 2250 veicoli (nelle ore tra le 7 e le 21)

   Nel gennaio 1989 si parlò dell’insediamento del progetto di un centro commerciale (non supermercato) di 9mila mq con ristrutturazione del dopolavoro, dei servizi, della ferrovia e suoi passaggi pedonali (solo questi ultimi realizzati). Invece è subentrato un supermercato Basko privato.

   Nel gen.1991 si dava ‘quasi certo’ la costruzione di un grosso parcheggio anche interrato da 950 posti auto nella strada così vicina alla stazione; con l’o.k. anche da Roma. Ma dopo oltre dieci anni tutto tace.

 

STRUTTURA: senso unico verso ponente, da via P.Reti a via Pieragostini-largo Jursè, iniziante col sottopasso ferroviario.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera

Inizia con il sottopassaggio rispetto la ferrovia che sino al 1960 aveva un solo fornice ad angolazione che, si disse, fosse stata progettata nel pensiero di creare una strada diritta con via A.Cantore (1935) demolendo le costruzioni  che prospettano nella linea; appare più probabile sia legata alle più antiche strutture che fanno da fondamenta alla stazione ferroviaria (qualcuno ha accennato alla possibilità che la massicciata ferroviaria abbia coperto una antica abbazia, considerati i vuoti esistenti alla base di essa; il che è assai improbabile, anzi decisamente improponibile).  

L’inizio del sottopasso  è zona che quando alluviona, essendo a conchetta, è la prima a riempirsi d’acqua bloccando tutto il traffico stradale. Anche a settembre/05, intense piogge hanno creato allagamenti della sede stradale. Non infrequente (una nel 2003; tre nel 2004) l’incastro di tir sotto la volta (che non supera i m.3,80), con non poche difficoltà a disincastrare il mezzo

 

CIVICI  

2007=  UU25=NERI  = da 1 a 5

                        ROSSI = da 1r a 3r (compresi 3DE)

            UU26= NERI = da 2 a 20 (mancano 6, 8, 14→18)

                         ROSSI = da 2r a 58r (mancano 6, 8, 12→24, 48→52) 

      Nel Pagano 1950 sono segnalate una osteria al 72r (di Giacobbe G.), il bar del Circolo Ricr.Ferrov al 20r; nessuna trattoria

In particolare, prima ancora del 1960  da dopo il voltino i civv. pari andavano dal 2 al 22:  

===civv. 1, 3, 5 sono nel lungo e massiccio edificio dei tabacchi: in custodia della Guardia di Finanza come deposito dei generi del Monopolio. In particolare, i civv.3D e 3E furono assegnati nel 1998.

Al civ.5  il magazzino tabacchi greggi.     Nel complesso la strada a destra andando verso ponente è tutta fiancheggiata dall’ unico e  lungo manufatto detto “Palazzo dei Tabacchioppure ‘deposito tabacchi del Monopolio di stato’, ristrutturato negli anni 1990. Di struttura massiccia, con pietre a muraglione e  base allargata -come un fortilizio-, vi vengono depositati tutti i valori del monopolio, soprattutto i tabacchi  che  arrivano  direttamente per ferrovia con binari sino all’interno; sorvegliato da agenti  della Guardia di Finanza  e televisioni a circuito interno.

Appare antichissimo, ma fu invece finito di essere costruito nel 1854 (infatti in una carta del 1846 non c’è ancora.   Favretto scrive che “nel 1860 (nb=contrasta la data con quella sopra)  Luigi Balleydier sottolineò in Consiglio Comunale quale grande occasione per lo sviluppo della città potrebbe divenire la fabbrica, sia per l’opportunità di lavoro per almeno mille addetti, sia per la presenza dei funzionari statali che l’avrebbero diretta. Davanti a tali prospettive, l’amministrazione decise di provvedere ad un proprio progetto edilizio, individuando l’area sottostante la stazione ferroviaria, che in seguito sarà sostituita dall’area situata più a nord”.

In occasione, il regio erario provvide anche ad allargare la strada definita ‘un vico tortuoso tra alti muri di cinta agli orti laterali, facendola arrivare a 8,5 metri; a fornirla sul lato a tramontana di apposito ‘capievole acquidotto coperto da vôlto in mattoni …e in rilievo un marciapiede della larghezza di metri 1,1 formato in ciotoli contenuti esternamente da una continua fascia in petra da taglio della Spezia ..come da offrire due difesi sentieri selciati ai pedoni …per il lato di riscontro è praticata una cunetta selciata…e apposti n° 16 robusti paracarri di forma cilindrica obliqua in pietra della Spezia tanto da impedire ai carri il passo sul vôlto dell’acquedotto…’ . Altrove  viene citato che  nel 1864 i velieri liguri avevano scaricato sulla spiaggia cittadina-ancora allora totalmente indipendente dal movimento dentro il porto di Genova- oltre 7500 tonnellate di tabacco greggio, da essere lavorato nella regia fabbrica).

Nel 1933 (quando la strada era ancora via C.Battisti), al civ. 9 di allora  c’era una brigata stanziale della tenenza sampierdarenese della GdFinanza; all’ 11  il deposito generi del Monopolio (tabacchi); ed al 13 il deposito tabacchi greggi e tè.

Nel Pagano 1950 al civ. 5 è la sede del ‘Magazzino Tabacchi Greggi’

Nel 1998 la struttura divenne degradata e precaria: caduta di calcinacci, deposito ‘vuoto’ o pressoché inutilizzato(lasciando abbandonati 800 mq di superficie coperta e circa 9mila in totale).

Da anni coloro che ivi lavoravano erano stati trasferiti a quello di Sestri; era rimasto in funzione un po’ di spazio per la distribuzione in loco, poi anche quella cessò. Praticamente è da anni lasciato al suo destino, come un barattolo vuoto da buttare’. Infatti erano già trent’anni che le lavoratrici erano state trasferite (le famose sigaraie, la cui professionalità si trasmetteva di generazione in generazione ma ora ormai sostituite da macchinari; a quei tempi erano capaci di lavorare a mano le foglie,  producendo fino a 800 sigari al giorno), e da dieci inutilizzato (ovvio il confronto con il palazzo del sale, pure lui demaniale). Questo venne ristrutturato e rimesso a nuovo, con una spesa preventivata di 10  miliardi, dalla impresa toscana Pontello; furono iniziati i lavori di ripristino dopo il 1990. Entrato nelle mire della Regione negli anni 2000, per farne la sede della ASL3 Genovese o addirittura dell’ospedale ‘di vallata’ valido per tutte le delegazioni della val Polcevera, compreso quelle di ponente (Sestri e Voltri); i tempi politici sono enormi (e le spese previste si alzano esponenzialmente). Nel lug.2011, con un investimento previsto di 17,2 milioni di euro (più 2 di notaio) si riprospetta farlo diventare il ‘quartiere generale’ della Asl: si apprende che l’attuale proprietaria dell’immobile è la “Quadrifoglio Genova” società del gruppo Fintecna (assieme al cotonificio De Ferrari). Si prevedono posteggi per cento auto a piano terra, più ambulatori di medicina legale, uffici vari per 320 dipendenti, un asilo nido aziendale per trenta bimbi; oltre l’utilizzo dell’area esterna ora occupata da binari. 

===civ.2: Vedi la foto sopra, degli anni 1910, relativa ad un “orto floro botanico” di Carlo Camerano, non descritto sui Pagano.

Nel 1940 c’erano i Carabinieri reali; nel 1957 fu assegnato a costruzione più interna, di proprietà delle FFSS. Provvisoriamente sulla porta di un residuato del vecchio edificio fu applicato 2A nel 1957, ma il tutto fu soppresso nel 1961.

===civ.4:  assieme al 4A fu demolito nel 1962.

Il numero civico fu riassegnato nel 1963 a porta che era senza numero (anche se il Pagano/50 scrive che era il 20r: poco probabile essendo all’inizio della via e non alla fine), e che corrisponde al Circolo ricreativo ferroviario  o altrimenti detto ‘dopolavoro ferroviario’ (nato nel 1938, in cemento armato, ovviamente di proprietà delle FF.SS. collegato tramite un sottopasso ferroviario,  con via  S.Dondero. Aveva annesso un bar-ristorante).

Negli anni postbellici fu trasformato in sala cinematografica, chiamato brevemente ‘Ferroviario’, di oltre 300 posti a sedere e proiezione di film “normali”.

Rimodernato, negli anni ‘87 divenne ‘ABC’ per cine-forum gestito dall’impresa Razzetta Palmieri. Classificato di IV categoria, aveva un palcoscenico (senza pedana ma con boccascena, buca per suggeritore, quinte, attrezzatura per impianto di scene e locali annessi per attori). Aveva 309 posti dei quali 269 in platea e gli altri in galleria. Piastrellato per terra; munito di un impianto acustico monofonico, illuminazione al neon, aspiratori d’aria essendo ancora consentito fumare in sala, e poltroncine in legno con imbottitura.

(anche la palestra di via Porro, fa parte del circolo delle FF.SS.)

Dagli anni ’90 iniziarono le proiezioni di film “a luci rosse”; con l’espansione della TV nelle singole abitazioni, questi  film furono gli unici ad attirare quel poco pubblico nei locali cinematografici

Finché dal 1998 ridivenne ‘DLF’ (DopoLavoroFerroviario), sempe rimanendo di proprietà delle FF.SS., anche se, con la spesa -circa 1 miliardo di vecchie lire- sostenuta da privati capitanati dalla società genovese Admiral, e su disegni di Beppe Riboli, è stato trasformato in sala polifunzionale di intrattenimento, in particolare sala da ballo o discoteca, con un bar anche nell’ex galleria; pur conservando lo schermo, palcoscenico e proiettore. Negli anni vicino al 2000 gli impresari del DLF diedero avvio a concerti rock (63, in 18 mesi) cercando di portare la città nel circuito di questo tipo di musica con complessi che attirano soprattutto i giovani, anche dalle regioni limitrofe: furono bloccati dal Comune per inquinamento acustico (avvenivano di notte, dalle ore 22 alle 06).

Non conosciamo i passaggi ma è dagli anni 2000 è occupato dal Crazy Bull, locale per concerti dal vivo

==civ.6: era un lungo unico edificio rettangolare. Fu demolito nel 1961-2

==civ. 7 : nel 1959 fu trasferito al neonato largo E.Jursè

===civ.8-10 : un unico palazzo, rettangolare come il 6, diviso in due scale. La metà palazzo verso la strada, corrispondente al civ.8 fu distrutta da una bomba: rimase per 15 anni il fianco sventrato finché fu restaurato salvando il civ. 10 che esiste tutt’ora.

==civ. 12r  vi era un negozio di commestibili della coop.ferrovieri

Ancora nel 2005,  da questo civico a ponente, si riscontrava solo civv. rossi: in due grossi capannoni affiancati col tetto spiovente ad un unico piano: ex civ.50r=officina balestre; ex-52r=officina per auto e camion; poi ex-54r-56r=Coop.Basko; e dal 58r al 62r vuoti

==civ. 14 era a forma di palazzina. Fu demolita totalmente nel ’61-2

Si descrive in punto non precisato della strada esserci stato un edificio abitativo, e presumo sia stato questo,   di proprietà Remorino, eretto nel 1907 dall’arch. A.Petrozzani, con sulla facciata un grazioso arredamento liberty. Vi lavoravano le sorelle Perinotto nella produzione di fiori artificiali; il cui nome compare ancora nel 1950.

===civv. 16: ancora nel 1950 vi aveva una sede la filiale della spa f.lli Feltrinelli, industria e commercio dei  legnami, che fu soppressa nel 1996. Allora  il civico fu trasformato in civ.rosso

==civ 18, penultimo edificio della strada, messo prima di vico A di Bozzolo, fu demolito negli stessi anni degli altri.

== Viene descritto, di fronte ai tabacchi, esserci stati i magazzini della ‘soc. Solej Hebert & C. Dal febbraio 1888 questa ‘vecchia ditta genovese’ produceva specchi non solo su scala regionale ma con sedi succursali sparse nella nazione (Mi, To, Fi, Ba, Pa, Na, Lecce) ed una a B.Ayres. Nel 1890 con un intervento multiplo finanziario (raggiunse 200mila lire di capitale) divenne ‘Società vetraria di Sarzana’ con l’intento di trasferire lo stabilimento in quella sede. Nel 1912 fallì, nel marasma imprenditoriale del quinquennio anteguerra che  coinvolse soprattutto le piccole industrie locali a vantaggio dei grandi trust e dei ‘fornitori’ dello stato. Nel 1940 subentrò Massone Giuseppe, rivenditiore di foraggi

===civv. 20r, 22r erano nell’ultimo palazzo della via, dopo l’incrocio con vico A.di Bozzolo e collocato dove ora sono dei giardinetti.

Ai primi del 2007 è stata fatta domanda al Consiglio di Circoscrizione di occupazione del civ.20 quale sala di culto.

 

visti dalla ferrovia, il retro a mare,

delle due ultime costruzioni di v.Degola

Un grosso  riquadro di lato all’ingresso segnala «Chiesa cristiana evangelica “delle Assemblee di Dio” in Italia»; un altro appeso, porta uno stemma con punta in alto e, nella parte superiore la scritta ADI, nel centro un libro aperto con la scritta 2tutto l’evangelo”.

Questa aggregazione religiosa si chiama ‘Pentecostale’ perché, pur appartenendo alla riforma protestante anglosassone, ha come varietà una maggiore osservanza -ispirata dal Vangelo laddove è citato –ed a cui vuole rifarsi- il battesimo degli Apostoli per immersione praticato nei giorni di pentecoste.  Proviene dal sud Italia dal 1946, ed iniziò a meglio organizzarsi nel ’49 aprendo una sede in san Benigno gestiti da Francesco Testa (1899-1988).  Nel 1951 succedette Eugenio Palma, originario degli USA, al quale seguì nel 1955 il romano Paolo Arcangeli che trasferì la sede nel palazzo del Sailor’s Rest di proprietà della chiesa scozzese. Nel 1975 ca la chiesa si trasferì in via Cassini 5r, occupando una ex-officina; e là restorono per trent’anni finché dal 2005 sono inseriti in via Degola.

   Numerosi erano i negozi e le officine aperti sul lato mare, oggi -i primi- tutti scomparsi. Si ricordano una solita osteria, parrucchiere, friggitoria, latteria, cartoleria, fruttivendolo, falegname, calzolaio e parrucchiere; al 60r c’era un ‘Consorzio Industrie Fiammiferi’ (gestito dalla regia GdFinanza; l’ufficio vendite era in esercizio ancora nel 1950); al 30 l’OEMA riparazioni ascensori.

 

DEDICATA al sacerdote sampierdarenese nato il 29 (il Massobrio dice il 20) sett.1761 da Giovanni Pietro qualificato ‘borghese mercantile’. Con i nomi di Eustachio, Antonio, Emanuele, Giuseppe, Maria (Massobrio dice nobile, di origine spagnola; che comunque si estinse nei primi del 1900,  essendo gli eredi senza prole). Ebbe due fratelli che si dedicarono al commercio.

Compì gli studi con facilità, essendo di spiccata intelligenza e critica

1784 Divenne diacono a 23 anni; ed ottenne dalla s.Sede la licenza a leggere libri proibiti, o comunque contrari ai dogmi della fede.

1785;  a 24 anni, divenne sacerdote. (si laurerà anche in teologia a Pisa a 35 anni).

1787 -26enne- Accettò l’ideologia giansenista seguendo le lezioni dello scolopo GB Molinelli, maestro di tale dottrina religiosa anticurialista ed antigesuitica (dottrina nata da studi di Giansenio Cornelio (Jansen Cornelis, 1585-1638, teologo olandese, vescovo di Ypres nel 1635 nella abbazia di Port Royal; per primo teorizzò una dottrina radicale, antigesuitica e di estremo rigore dell’insegnamento di s.Agostino sulla Grazia e sulla vita morale.

Fugacemente iniziata nel seicento con la pubblicazione postuma dei suoi scritti (Augustinus,1640), questa teoria fece molto scalpore del XVII secolo, ma prontamente condannata dalla Chiesa. Secondo Giansenio, la Grazia doveva portare la Chiesa alla purezza evangelica, slegandola sia dai beni terreni –ricchezze, possedimenti terrieri, armigeri- e sia dalla ferrea gerarchia in atto. Tutta la tradizione plurisecolare che aveva creato attorno ai vangeli una venerabile e complessa struttura (infallibilità del papa e suo primato sui vescovi), doveva tornare azzerata alla povertà e semplicità iniziale.

Con la rivoluzione francese, la teoria giansenista riaffiorò pubblicamente, e dai suoi principi fu che poi il Governo Democratico francese passasse al sequestro e spoliazione di tutte le chiese di tutti i loro beni, non fu che l’applicazione distorta ed interessata del pensiero; gli ori e gli argenti divennero patrimonio della nazione (furono restituiti da Napoleone nel 1804 all’ arcivescovo mons Giuseppe Spina, lo stesso che l’anno dopo a Milano offrì l’annessione della Liguria all’Impero; il catino del santo Graal conservato in san Lorenzo fu reso dai soldati russi subentrati ai francesi, molto dopo e rotto). L’idea influenzò e catturò grandi pensatori come Pascal e lo stesso Manzoni: quest’ultimo scelse il Nostro come confessore, però poi decise riconvertirsi totalmente e ferventemente al cattolicesimo tradizionale.     

A Pistoia il vescovo Scipione DeRicci (iniziò a porre in atto nel 1786 tali riforme con l’aiuto del suo Stato, che in un sinodo cercò di dar vita ad una chiesa giansenista nazionale); e parimenti a Noli il vescovo Benedetto Solari (divenne il migliore amico del Degola e lo instrado alla cultura della chiesa francese); ed a Pisa Marcello del Mare (lo introdusse all’Università ed alla laurea); non ultimo all’estero la chiesa di Utrecht e l’abbé Henry Grégoire (con lui nel 1801 partecipò al 2° concilio della Chiesa di Francia, divenendo personaggio di spicco colmato di onori; e con lui viaggiò percorrendo la Germania, Belgio, Olanda)  tutti si trovarono in perfetto accordo su questa corrente teologico-spirituale, favoriti dalla rivoluzione francese e dalla ventata di ‘liberi tutti’ che -abbattuta la antica repubblica aristocratica-, aprì lentamente la strada alla nuova repubblica borghese.

Quindi, la tesi giansenista francese, alla quale aderirono fior fiore dei filosofi di allora, perdurava sottotono -come la brace del fuoco- e richiese alla fine la drastica posizione della Chiesa che portò il Degola alla sconfitta; infatti fu troncata dalla bolla papale di Clemente XI (‘Unigenitus’; – è il nome di un’altra bolla papale, già emanata da Clemente VI nel 1343, però per indire un giubileo di sette anni dopo,) datata 8 settembre 1713 e di poco seguente la distruzione -1709- della abbazia francese ad opera di Luigi XIV.

 

Il Nostro acquisì -per le sue capacità- il riconoscimento di capo guida religioso in Liguria.

Il suo apostolato riuscì a influenzare l’arte sacra con tendenze che se prma erano sopite, ora diventano palesi nell’interpretazione della Via Crucis  e del culto del Sacro Cuore.

   Il 1792, dopo aver tanto ed a lungo lavorato dietro le quinte fu l’anno in cui si giunse ad un primo scontro aperto con il clero tradizionale  legato all’arcivescovo Giovanni Lercari, ai gesuiti, a Roma in genere. Avversario diretto, oltre l’arcivescovo era GB Lambruschini, acceso antigiansenista, filogesuita, professore di teologia nel seminario: sotto pressione del Degola, fu allontanato e sostituito con Stefano deGregori; ma l’arciv. Lercari, capita la manovra, allontanò anche questi e riportò la bilancia a suo favore nominando Bartolomeo Rivara

 

   Nel 1793, in un tentativo di riportare il Degola sulla strada tradizionale, gli fu offerta la guida della  parrocchia di Voltri, ma lui rifiutò l’incarico. Pur rimanendo genericamente inglobato nel sistema, si trovò pericolosamente ai margini dell’eresia; infatti in numerosi scritti, dimostrandosi  interessato alla cultura e riformismo francese, propose modifiche nell’organizzazione della Chiesa: ostilità al potere temporale,  una maggiore indipendenza da Roma specie sulle dispense matrimoniali e sui conferimenti di benefici od ordini sacri, quali elezione popolare dei parroci e dei vescovi locali; il pensiero di reintrodurre nelle cerimonie l’antica liturgia dell’ordine dei penitenti; nonché una costituzione ‘più civile’ per il clero,  dimostrandosi ostile al potere temporale del papa tacciato di antidemocratico: idee -pressoché tutte- che furono poste subito all’indice dall’autorità ecclesiastica.

   Il 28 ago.1794 papa Pio VI pubblicò –contro il sinodo di Pistoia e contro le sue teorie- la  bolla ‘Auctorem Fidei’. Essa riunì nello sdegno tutti i fedeli giansenisti sparsi nello ‘stivale’ ed inizialmente slegati l’uno con l’altro, contro quello che veniva definito un atto dispotico ed odiosissimo del papa ed a difesa della loro ‘verità crocifissa’; il Solari rifiutò la pubblicazione della bolla nel suo territorio. Comportò per il Nostro intensi contatti con ‘l’estero’ (come la chiesa giansenista di Utrecht ed olandese in genere, divenendone estremo difensore e propagandista al punto da essere scelto quale amministratore dei beni), che gli permisero poi di conseguire anche  il dottorato in teologia all’università di Pisa (1796).

Determinante, in tutto queasto avvicendarsi, fu l’insediamento di un governo filo francese aveva portato distruzione delle antiche istituzioni (da oligarchici a democratici);  possibilità di scrivere e pubblicare con discreta libertà anche su temi religiosi; nelle case delle persone più colte –assieme alla Repubblica Ligure- un nuovo fermento ed una novella fede politica più o meno totalmente svincolata dalla soggezione religiosa: rimanendo fondamentalmente repubblicani (e questo ancora dopo il 1815 alla restaurazione ed asservimento al regno sabaudo) proliferarono le varie deviazioni o sette: dei giansenisti, dei massoni, dei carbonari, della Giovine Italia; numerosi erano quelli che dall’ “albero della libertà” speravano potesse sorgere innanzi tutto un’Italia libera, e poi possibilmente unita. Il giansenismo del Degola si inserisce in questa ventata di rimodernamento, mostrando la possibile assimilazione e convivenza delle nuove istituzioni democratiche nel contesto  della religione cristiana ponendosi al centro delle idee giacobino-illuministe da un lato e gesuitiche dall’altro,  coniugando il vangelo con i principi repubblicani ed alleandolo con i concetti della ‘libertà’ e dell’’eguaglianza’.

Iniziando a scrivere con lo scopo di istruire sui diritti e sui doveri in un rapporto basato su eguaglianza e democrazia (a quei tempi concetti assolutamente inconcepibili), scrisse praticamente da solo -dal 17 giu 1797- degli “Annali politico-ecclesiastici”, limitandoli dal 5 genn.1798 al 7 dic. 1799 ad “Annali ecclesiastici”; genericamente rivolti alla popolazione -che però a quei tempi era generalmente analfabeta-, e partecipò alla ricca produzione giornalistica del tempo (in Genova, c’erano fin trenta testate;  molte di esse gettarono  le basi della attuale “libertà di stampa”).

   Il 21 maggio Felice Morando ed il nobile Filippo Doria, accesi da idee giacobine e con coccarda tricolore, aprirono le ostilità ed il carcere imponendo  cinque componenti nella Commissione straordinaria deputata a tutelare l’ordine; pronta una controrivoluzione che al posto della coccarda si pose un santino, si impadronì dell’Arsenale e in nome della pace commise stragi e violenze uccidendo anche il Doria; il 27 maggio Napoleone inviò un ultimatum al Senato, il quale cedette su tutti i punti: il 6 giugno successivo, la vecchia repubblica aristocratica ebbe così fine, aprendo l’era della ‘repubblica democratica’ (erezione degli alberi della libertà, abbattimento delle statue di Andrea e GioAndrea Doria; successivo tardivo aspro rimprovero di Napoleone), alle fiamme il ‘libro d’oro’ della nobiltà e la portantina dogale, liberazione degli schiavi barbareschi, festa sacra con grande processione.   Il 4 settembre 1797, contro questi rivoluzionari le cui riforme apparvero sostanzialmente contrarie alle idee religiose, scoppiò in valpolcevera una più corposa controrivolta del clero delle parrocchie di campagna e dei contadini,  che al grido di “viva Maria” si schierarono contro i filo-francesi (il grido, era stato già usato contro gli austriaci, cacciati dal Balilla);  dapprima i popolani furono affrontati pacificamente dall’arcivescovo, ma insistendo, il 6 sett  ebbero di fronte i soldati del  gen.Duphot chiamato dal governo locale (che partendo dal colle di  san Benigno fece una carneficina: vinse,  sbaragliò e braccò gli insorti controrivoluzionari causando cento vittime tra morti e feriti).

   Il Degola, favorito da questi eventi,  insistette adoperandosi attivamente anche in politica esprimendo -negli annali su descritti- pareri, critiche e progetti sulla neonata Repubblica Ligure (1797-8), sperando essere favorito dai novelli giacobini con l’etichetta di democratico, nell’idea di una riforma ecclesiastica -a scapito soprattutto dei gesuiti-, nella fioritura di una chiesa giansenista nazionale, e nella  presenza -nell’elenco dei commissari destinati a redigere la nuova Costituzione- di persone favorevoli alle sue idee.

Nel contempo, tramite le prediche, acculturava alla sua idea ed ai suoi principi democratici il popolo.

   Ottenne infatti all’inizio del 1798 che il Consiglio dei Sessanta concedesse al Direttorio la  autorizzazione ad allontanare dall’esercizio delle loro funzioni, o dalla residenza finanche con detenzione, tutti gli ecclesiastici che si rendessero sospetti, anche di sola indolenza; ed alla fine dello stesso anno  che l’arcivescovo Lercari fosse trasferito a Novi,  trovando così la strada spianata e lui  pronto e libero di mettere in pratica la sua dottrina col favore del governo. Genova sarebbe divenuta la prima diocesi scismatica giansenista d’ Italia. Ma l’avvenimento non maturò, proprio nella fase culminante, nel momento in cui si doveva eleggere un giansenista al soglio arcivescovile cittadino; il clero genovese, malgrado la numerosa presenza giansenista, non si era fatto assorbire globalmente. Il candidato ad occupare l’incarico di futuro arcivescovo, il vicario Moscino, entrò in crisi e rinunciò proprio all’atto dell’insediamento. 

Questo fallimento gettò in dissesto il programma del Degola   (la prima bolla pontificia con la quale il papa Clemente XI promulgò l'avversità al giansenismo francese, è molto anteriore ai tempi del Degola essendo datata 8 settembre 1713 ed ha il nome 'Unigenitus' (eguale nome, di altra bolla che fu già emanata nel 1343 da Clemente VI per indire un giubileo per sette anni dopo). Essa diede adito a due contrapposti concetti religiosi, che perdurarono sopiti -come la brace del fuoco- per tutto un secolo; richiedendo alla fine la drastica posizione della Chiesa che portò il Degola alla sconfitta)

Il definitivo scrollone lo diede Napoleone che, insediatosi al potere ed esautorando il Direttorio, non trovò politicamente utile inimicarsi il Vaticano, anzi trovò necessario disfarsi degli ingombranti alleati: fece sospendere un Concilio dei giansenisti in cui avrebbero potuto ricuperare le forze internazionali e dettò una convenzione per cui nulla doveva essere fatto ”che fosse contrario alla cattolica religione”.

   Così, dopo la caduta di Genova del 4 giu.1800, l’arcivescovo  Giovanni Lercari riuscì a riottenere il sopravvento ed a cacciare il Degola  deluso anche dai francesi che non avevano accolto le sue idee: malgrado il rientro delle truppe francesi in Genova, il giansenismo fu frustrato dall’accordo diplomatico tra Napoeone ed il Pontefice.

   Nel 1801 andò (assieme a GiovanniA Bergancini, unici italiani a Parigi per un secondo congresso internazionale del clero costituzionale non francese), dove però venne di nuovo sopraffatto sia da un concomitante concordato tra Roma e Parigi (che decapità la mahggior parte delle autorità chiamate a dirigere il consesso), e sia dal rientro nel gregge papale dell’amico Scipione de’ Ricci che interruppe il ricco  epistolario con il Nostro. Rimase nella capitale francese per 5 lunghi anni, alternando viaggi (in Inghilterra, Belgio, Olanda e Germania ove ebbe contatti con Goethe) per cercare di arginare la scissione e dispersione dei seguaci: collaborando a giornali, scrivendo intensamente, coltivando amicizie e stimolando alla conversione.

   Un fugace ritorno a Genova avvenne in ottobre 1805, ma il card. G.Spina gli interdì la facoltà di  celebrare e confessare (tale interdizione fu poi revocata); mentre il Governo si mostrò seccato dalla sua posizione contraria alla annessione della Liguria alla Francia.

   Pertanto -1809- rientrò a Parigi con la scusa della partecipazione al centenario della distruzione della abbazia di Port Royal des Champs. Qui rimase otto mesi riprendendo contatti allentati e continuando l’opera missionaria ‘conquistando’ nuovi proseliti (tra essi, più famosi risultano la dama Adele de Sellon, futura madre del Cavour; la famiglia Mazzini, soprattutto la madre Maria, dibattuta tra la convinzione giansenista, la fede cattolica tradizionale, le nuove idee del figlio perseguitato ed esule e la figlia andata suora dalle Franzoniane. Ed anche Enrichetta Blondel (già calvinista: nel magg.1810 ella abiurò nella chiesa di St Séverin ricevendo dal Degola un memoriale di vita spirituale mirato a guidarne la vita), sua madre Giulia Beccaria (recuperandola da una avviata vita dissipata; fu poi seguita dal parroco canonico Luigi Tosi), ed infine il Manzoni stesso (sposo nel 1808 della Blondel. Conobbe il prete nel 1810 scegliendolo quale direttore spirituale attraverso visite ed anche  fitta corrispondenza nella quale il Degola approvò la pubblicazione di «Osservazioni sulla morale cattolica». Ambedue i coniugi poi si riconvertirono al cattolicesimo, come descritto nel libro di Francesco Ruffini intitolato “La vita religiosa di A.Manzoni”).

   Tornato a Genova, andò a risiedere nella sua casa a Sestri Ponente; seguì  attivamente Ottavio Assarotti scolopo dedito a favorire del famoso Istituto dei Sordomuti (primo in Italia a protezione ed occupazione dei minorati. In questo Istituto collaborò, interessandosi ai nuovi metodi dell’educazione dei giovani e pbblicando un testo nel 1820), e nello scrivere il suo libro più importante: il “Catechismo dei Gesuiti” col quale si illudeva di stimolare il mondo cattolico e che invece passò pressoché inosservato.   Il colpo finale avvenne nel 1814 quando l’ordine dei gesuiti, i suoi più acerrimi nemici, venne ripristinato.

 Morì a Genova il 17 gennaio 1826, a 65 anni, nella piena e continua convinzione delle sue idee, senza riconciliazione con la Chiesa romana.

Numerose furono le sue traduzioni (pubblicate con lo pseudonimo Ireneo Filarete).

   Di lui possiamo dire che anche se sconfitto nella sua  missione fondamentale antipapale ed antigesuitica, fu promotore di un  pensiero vincitore se si considera  l’importanza non indifferente e decisiva del seme cattolico laico-liberale, per la nascita della Nazione riversato negli scritti del Manzoni, nell’educazione del Cavour e del Mazzini, nell’ideologia di tutti i personaggi che furono primi attori degli eventi dell’epoca.

Che il comune locale non abbia mai avuto affinità affettive con la Chiesa  è riscontrabile nel costante comportamento strettamente e prettamente laico della sua amministrazione, cointeressandosi del sociale religioso solo in convivenza, ma rispettosamente a distanza.  La scelta del cambio di titolazione alle strade deicate a dei santi, e della titolazione di altre ad un prete cattolico come don Daste e don Bosco potrebbe far pensare il contrario; invece aggrava il distacco e freddezza, anzi sembra una sfida, se si considera la qualità della fede professata dal Degola in netto contrasto con la chiesa di Roma.

 

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 DELEGAZIONE                         piazzetta della Delegazione di Porto

 

 

Evidente che questa terminologia appartiene a quella non ufficiale del Comune, ma a quella in uso popolare pratico  mirante ad  indicare una zona o strada in rapporto alla principale fonte di interesse che vi fosse posta.

Negli ultimi anni del 1800, ci si propose una più precisa definizione delle strade; cosicché individuata nell’anno 1900 a lato mare della via C.Colombo una piazzetta ove lavorava questa autorità portuale, nell’anno 1901 fu proposto cambiare questa generica  titolazione, con una nuova precisazione funzionale:  “piazza della Sanità” .

 

Il nome lascia pensare che - nell’epoca in cui ancora il porto non c’era a San Pier d’arena, esisteva un punto di riferimento per il controllo di tutte le operazioni di imbarco e sbarco dai velieri, per il guardianaggio, per il coordinamento delle varie categorie di lavoratori e, non ultima anzi la più importante, per i controlli sanitari.

BIBLIOGRAFIA

Archivio Storico Comunale


DE MARINI                                            via De Marini

 

 

 

TARGHE

San Pier d’Arena – via – De Marini

     

sul WTC,  angolo via Scarsellini

          

angolo via Scappini    

    

angolo via P.Chiesa                                               

 

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia

Da Vinzoni, 1757. In celeste, la strada alla Lanterna; giallo via sAntonio (via NDaste); rosso, via Larga (Palazzo della Fortezza).

N° IMMATRICOLAZIONE:  2768     CATEGORIA 2

 da Pagano/1961

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   22020

UNITÀ URBANISTICA: 26- SAMPIERDARENA

 da google Earth 2007.

CAP:   16149

PARROCCHIA: NS sM delle Grazie

STORIA

PRIMO TRAGITTO: ANTICO 1. normalmente si descrive questa strada, partendo dalla Lanterna e proseguendo verso il borgo. E così era in antico: il primo tratto della prima -e più importante- strada costruita nel centro del borgo, dalla sua nascita fino a metà secolo del 1600. Per mille e più anni, essa costituì l’unico transito d’obbligo, nell’interno del borgo

    Ultramillenario quindi il tracciato che dall’angolo del primo agglomerato di case, detto Coscia (o anche “primo quartiere” o “quartieretto” (termine di origine della seconda metà del settecento, quando Genova era divisa in 5 quartieri, ed il nostro, per i genovesi, primo ‘fuori porta’)), andando un po' a rientrare - per evitare la spiaggia e le mareggiate e procedere sulla terra dura - portava in senso longitudinale parallelo al mare, sino “alla Polcevera”.

È una strada con un grande passato, di grande importanza, con una grande storia; grande signora … purtroppo poi spezzettata, dal dopoguerra decaduta, ignorata, isolata e dimenticata  anche nelle strutture andate in disuso, di cui poco se ne è parlato se non in negativo a causa dei poveri immigrati tra i quali sono si mescolati i peggiori delinquenti della società di oggi.

SECONDO TRAGITTO: ANTICO 2 Tornando lontano, la sua seconda storia inizia quando fu aperta la strada dalla Lanterna, con le mura del 1630. Da allora, sino alla fine del 1800 non aveva nome: era genericamente la strada principale, quella interna (o superiore, o comunale)  di collegamento con Genova per mercanti, viaggiatori, militari e per i proprietari delle ville di tutto il ponente.

 

   É del 5 ottobre 1758 la legge che prevedeva il lastricamento di questa strada, dalla Coscia a Mercato (e poi oltre, prolungata sino a san Martino ed al  ponte): il  tratto fu misurato in 935 cannelle (misura che serviva per i terreni; il Casaccia dice che una cannella “contiene 12 palmi in quadrato ossia 144 palmi genovesi” che calcolando corrisponderebbero  a 297,7 cm: quindi un totale di 2,783 km = anche sino a san Martino, mi appare troppo ed impossibile!),  contemplava una spesa di 4116,10 lire a cui dovranno concorrere 35 persone .

    Nel giugno 1805 fu percorsa da Napoleone, entrando in Genova; l’attendeva alla porta della Lanterna il ‘maire’ di Genova  Michelangelo Cambiaso che gli offrì le chiavi della città (a simbolo di sudditanza alla Francia; ma Napoleone le rifiutò, ad altrettanto  simbolo di lasciar conservata e libera la Repubblica).

   Prima del 1850 ancora non aveva un nome definito, e veniva genericamente chiamata “strada comunale interna”.

   Dopo quella data subì  il primo taglio, dalla ferrovia che la incrociò a x , e la spezzò in due parti. Ciononostante conservò ancora una certa unità, infatti quando col regio decreto del 1857, si vennero a stabilire per la prima volta i nomi delle vie cittadine, al pezzo di strada dalla Lanterna sino alla crosa Larga (al palazzo Grimaldi della Fortezza), fu dato il nome di “primo tratto della lunga ‘strada superiore’ (i successivi pezzi erano -in continuità verso ponente-: via sant’Antonio, via (del) Mercato, via san Martino ). Quindi ancora anonima.

   Non esiste alcun documento che in forma ufficiale decreti la titolazione ai DeMarini; si è liberi quindi di supporre possibile che il cardinale (che abitava nel nostro borgo e per le alte benemerenze che aveva acquisito nel nostro territorio),  alla sua morte, nel 1747, abbia lasciato così profonda emozione (e donazioni) da far sì che la gente o gli incaricati comunali la dedicassero a lui che per i suoi alti uffizi doveva giornalmente percorrerla per andare all’Arcivescovado o a Palazzo. Perché quando agli inizi del 1900 arrivò dallo stato regio di Torino l’obbligo di dare i primi nomi stradali, questo fu uno dei primi –se non il primo assoluto- ad essere imposto ad una strada, più o meno assieme a via Vittorio Emanuele II;  prima di eventuali tanti altri personaggi possibili.

   In contemporanea, arrivò il ‘progresso’: alle ferrovie seguirono il porto, il taglio di san Benigno, le nuove strade laterali e parallele, la camionale, i nomi nuovi inglesizzati (già d’antico ci facevano vantare di essere la ‘Manchester italiana’: poveri noi, che bubboli! Nessuno – e forse neanche noi, oggi - conosceva le immagini obbrobriose della città inglese avvolta nello smog prodotto da centinaia di ciminiere, fitte come le croci nei cimiteri; ed così altrettanto, ci riempivano di fumi, rumori, sovrapopolamento. Non vita ma sopravvivenza, e lasciarono rompere e distruggere  tutto quello che nelle altre parti del mondo è usato per menarsene vero vanto:  l’antico, la bellezza e la natura. Ci sono stati anche i lati positivi, del lavoro, della socialità maturata nelle strutture che oggi godiamo – pensione, sanità, libertà. Ma con una conduzione più oculata, si potevano avere tutte e due assieme).

Foto del 1910 circa - A destra negozio di parrucchiere (l’insegna dice “sala toeletta”),

poi la chiesetta, poi la villa De Franchi

 

Nel 1940 andava da via di Francia, e finiva chiusa.

Oggi, superato il sottopasso, via DeMarini non prosegue più diritta (dopo un lieve Z) verso mare fino allo spiazzo chiamato Largo Lanterna (ora, questo tratto è anonimo e, a ponente, dove c’erano delle case -che sono state abbattute- ora è bosco incolto chiuso dai muri esterni dei palazzi stessi, troncati a due metri di altezza; sino al Largo, che ormai ha perso tale dignità, conservando però ancora –nell’era incolta- l’inizio di via Vittorio Emanuele II con la ringhiera. A levante, all’inizio c’è ancora (nel 2007) il palazzo d’angolo, ovviamente vuoto ed in stato predemolitivo (se non precipiterà da solo), seguito sino al Largo da un muro fatto di antiche pietre sovrapposte, sopra il quale troneggia la Nuova Darsena, seguita dalla strada che va a finire in un vasto piazzale di posteggio tir e camions).

La Targa apposta sulla strada prima dell’ultima rivoluzione era «S. Pier d’Arena – 2768 - via – De Marini»

TERZO TRAGITTO; MODERNO 3 Per descriverlo mi occorre invertire il senso, procedendo all’inverso: la strada oggi è come una T: inizia l’asta orizzontale inizia davanti al WTC e prosegue verso il mare diritta come in antico: dopo l’elicoidale infatti continua verso la Lanterna anche se momentaneamente anonima. Prima di sottopassare l’elicoidale si innesta l’asta verticale della T e nuovo percorso: infatti, proveniente dal WTC gira a destra scorrendo a ponente del muro dell’elicoidale, e sbuca in via Pietro Chiesa.

CIVICI

2007 = da 1 a 61 (compresi 17AC; mancano 23→ 33,43→49,  57, 59)

              da 2 a 62  (mancano 24→48, 58)

Un documento del 29 maggio 1878, segnala che “al civ. 25  di via De Marini, il sig. Carlo DeFranchi dove abita, ha impiantato una attività privata industriale”:  sicuramente non il primo ad incominciare! 

   Un elenco della fine ottocento,  dei proprietari  delle case della strada,  vede:

civ.1,1b,1c,4 Bianchetti Sebastiano;--- 1a Tramway elettrico;--- 2 e 5 Rebora Andrea;--- 6 e 7 Scarsi e C.;--- 8 Carpaneto GB;--- 10,13,14, 15,17,18 Canepa Francesco;---  11,12,13a eredi Balleydier («costruttori meccanici  e fonderia in ghisa);--- 15b Gattorno;--- 16 Canonica della chiesa Grazie;--- 19a casa cantoniera delle Ferrovie dello Stato;--- 19 e 22a Balbi;--- 20 e 21 Pissardi A.te;--- 22 Carlevaro Giuseppe;---  23 eredi Bodda (insieme al seguente,  hanno « al 23 una fabbrica di cemento);--- 24 Frassinetti;--- 25 Piccardo vedova Rovereto;--- 26 e 27 marchese Pallavicini (viene descritta una cappella (vedi Cibeo) di proprietà della marchesa Vittoria che si potrebbe chiamare privata e pubblica avendo l’accesso in via Demarini, “alta, spaziosa, ben architettata e decorata di buoni affreschi, capace di tre altari quantunque uno solo ne esistesse. In questa cappella si ufficiava pubblicamente nei passati tempi massime dell'anno 1849 e 1850 quando si stava costruendo la chiesa di N.S.delle Grazie. Certamente che allora non si prevedeva lo stato deplorevole in cui venne indi ridotta e come presentemente si trova”) ;--- 28 e 29 Piccardo Giovanni (nel palazzo del cavaliere Piccardo Giovanni, sito in Montegalletto, viene descritta l’esistenza di una cappella ove talora si celebra la s. Messa con speciali privilegi dell’oratorio privato);--- 30 Oneto Francesco (con « officina di costruttore meccanico e fonderia in ghisa);--- 31 32 e 32abc conservatorio delle figlie della Carità ; ---33 e 35a eredi Lombardo (f.lli , fu Raffaele, con « fabbrica di saponi e sego);--- 33abd Bulgarello;--- 33c Carbone e C.;--- 34 Sanguineti Lodovico (con & C. « fabbrica di conserve alimentari»);--- 35,36,37,38 Piccardo Giovanni ;---  35b eredi Alvigini .

   Nel Pagano 1902, oltre quelli sopra, si leggono:--- 8 Tosetti P.’ fabbrica casse in legno e litografo;--- al civ.11 i costruttori meccanici e fonderia in ghisa rispettivamente Balleydier Frères’ con telef.n.593;--- 13 f.lli Rossi negozio e  mediatori bestiame

(singolare la storia verificatasi a metà del 1300 riguardante il  macellaio Ruby ovvero Rossi, e dei due suoi figli Antonio e Bartolomeo divenuti speziali: in quegli anni la corporazione dei macellai fu assai potente inserendosi  per due secoli e più,  nella vita politica genovese,  come nuovo ceto mercantile o artigiano, comunque ‘popolano’ (populares, distinto dai nobiles) avendo avuto notevole partecipazione nell’elezione a doge di Simone Boccanegra: riuscì ,1359, a far eleggere Ruby quale ‘anziano della Repubblica' facendogli ricoprire in Genova la carica di viceduce.  Tra i 18 Sapienti, tre erano macellaiuno dei primi atti del nuovo governo fu il condono –ai macellai- dei fitti arretrati dei loro banchi, in quanto “multum profuerunt ad faciendum statum presentem”. Anche il figlio Bartolomeo alla fine di quel secolo divenne ‘anziano della Repubblica’. Tutti e tre vennero sepolti nelle chiesa di NS delle Vigne nel cui chiostro ancor ora si può leggere la lapide munita di scudi araldici: “+ S(epulcrum) Q(uondam) D(omi)NI ANTH(oni) RUBY – MACELLAR(ii) D(e) S(ancto) PET(ro) – ARE(n)A  ---continua conqui obiit MCCCLX die X  Januarii et Antonii et Bartholomei speciariorom fratrum et filiorum dicti q.Antonii et heredum filiorum dicti q.Antonii et heredum suorum, quorom anime requiescant in pace amen, et qui autem eius filii decesserunt MCCCLXXII die XX Augusti”). Ci sono dei Rossi, ascritti con i Grimaldi nel 1528, ma hanno una arma diversa da Ruby);

--- 21 la Fabbrica Nazionale di Accumulatori Elettrici brev. Tudor (ancora attiva nel 1912);--- e negozio vetrami di Rothpletz e Frey (fino al 1908);--- 25 Moro Tomaso e Figli (ancora nel 1912) hanno fabbrica di conserve alimentari e sono commissionari e rappresentanti (in genere) nel ° rimane tel 8 per conserve alim; e 822 come rappresentanti;--- 30  Oneto Franc’ costruttore meccanico;--- 33 Lombardo f.lli fu Raffaello fabbrica di candele di sego;---e Cavalca V. e C. hanno negozio di biacca, vernici e colori;--- NON segnato il civico: albergo ‘del Toro’ di Rossi Giuseppe fu Em. (nel 1919 di Guano Ettore; dal 1921 ed ancora nel 25, di Rossi Umberto);--- angolo via Marina, la farmacia Bassano GB Diovuole-- 

Nel Pagano/1908’ vengono citati 34 fabbrica conserve alimentari di Sanguineti Lodovico;--- civ.33  fabbrica di saponi e di  candele di sego dei fr.lli Lombardo fu Raffaele--  69r negoziante di legnami con segheria a vapore Rastelli e Bagnasco telef.n.304--

   Nell’elenco stradale comunale del 1910, si legge che “via Demarini, dal largo Lanterna fino a via Iacopo Ruffini” aveva civv. sino a 30 e 59 (quest’ultimo cancellato con un tratto a penna, ma non corretto).

    Nel Pagano 1912  (§ nel 1919; ¨1925) nella strada compaiono: all’8 Tosetti P. fa litografie su latta (non + nel 1925);- -- al 9-11r commestibili di Brasoni (o Biasoni) GB.§¨;--- al civ. 11 i costruttori meccanici  e fonderia in ghisa Balleydier fréres, tel 593 (nel Pagano/19 ci sono, nel/20 non cè più);--- 12-14  la farmacia Bassano GB Diovuole angolo con via Marina (mai esistita, quest’ultima via e corrisponde a via Cassini -allora via Manin- dove, dal 1925 compare );---  al 13 i fratelli Rossi mediatori di animali con negozio di bestiame presenti anche nel 1919;--- 16r commestibili di Cerinto Carlo ancora attivo nel 1925;--- 20 la levatrice  Mortara Teresa; e poi il pizzicagnolo Olivieri Angelo aperto ancora nel 1925;--- 21 la ‘Fabbrica Nazionale di Accumulatori Elettrici’ brevettati Tudor ed il negozio-gross. di vetrami  Rothpletz e Frey;---  30-D il costruttore meccanico e fonderia in ghisa Oneto Franc.;--- civ.33 i fratelli Lombardo fu Raffaele (nel 1919 e 25, anche al civ.24) fabbricano candele di sego e saponi;---  34 fabbrica e negozio di conserve alimentari di  Sanguineti Lodovico e C. (nel 1919 è al civ. 30, tel. 12-90, poi nel 1925 ha 41-353);--- 36r un forno per la produzione del pane di Pozzuolo G. attivo ancora nel ‘25¨;---  49-51r commestibili di Dagnino Oreste presente fno al 1919;--- 59 ‘Cappellificio Ligure’ (§ tel.30-93) negozio  e fabbrica;--- 69r Rastelli e Bagnasco negoziano in legnami, lavorano con una sega a vapore e col telef. n. 304 (nel 1919-25 sono diventati Bagnasco e Masnata, importazione diretta dall’America, Svizzera Rumenia-tel. 41056);--- 76r la Wax Walser e C. acciaieria, tel. 46-61; 81-83r commestibili di Mossi Emma  che lavora ancora nel 1919;

   Non specificato il civico: E.Roggero e C. gestisce lo stabilimento ‘Standards’ dei scaldabagni Roggero;--- la residenza del pittore scultore Bassano Luigi di nuovo è segnalato nel 1919 (e forse anche dello scultore Roncallo Pietro).---

   Il Pagano 1925¨ aggiunge : al civ. 27 Moro Tomaso e figli, tel.41282 sono rappresentanti e commissionari “in genere” e compaiono non ancora impegnati nell’olio;---al 43 Bagnasco Antonio ha docks (magazzini per deposito) marittimi;--- al 44r Bacigalupo e C. sono costruttori meccanici generici (mentre Bacigalupo Salvatore è costruttore navale); ---al 155r Bosio Costantino ha un laboratorio di marmi (anche in via JRuffini);---non specificato il civico: Moizo Attilio fa il droghiere;-     

   Nello stesso elenco comunale, pubblicato nel 1927 quando tutte le strade erano incluse nella Grande Genova, vi viene segnalato un omonimo ‘vico’ in Centro; e la nostra di 4a categoria.

   Nel Pagano 1940 si segnalano: civv. neri= civ. 8-Oli combustibili; 14A raffineria e olii di G.Costa; al 9 levatrice; al 43 un chimico. Civici rossi=  tre osterie; due commestibili; autotrasportatore, latteria, tabacchino, parrucchiere, calzature, trattoria. (A Genova esistevano anche un vico ed una piazza omonimi ma con cognome tutto attaccato)

   A ponente della strada ferrata, il tracciato è rimasto intatto fino ad oggi.      Al contrario, sostanziali modifiche ha subito il tratto a levante: incroci e sovrappassi; tagli ed accorciamenti; costruzioni e demolizioni; gloria ed abbandono.   In particolare il secondo taglio fu effettuato dall’apertura di via di Francia (che non trovò ostacoli architettonici o storici degni di mantenimento); il terzo, anche lui è un soprapassaggio, dell’elicoidale; quarto la completa demolizione del quartiere e cambiamento dell’itinerario.

STRUTTURA: procedendo dal mare, inizia da via Pietro Chiesa per oltre 100 metri costeggiando a ponente l’elicoidale; indi curva a 90° sovrapponendosi finalmente per 200 metri ancora, l’identico antico tracciato, fino a sbucare in via di Francia

   In sostanza l’antica strada è ora divisibile in quattro tratti, da levante: il primo da via P.Chiesa a Passo di via di Francia è nuovo, in quanto ancora nel 1961 era chiuso ed impraticabile. Il secondo è sovrapposto alla primitiva ‘via De Marini’, ed arriva sino al WTC; il terzo è spianato da via di Francia; il quarto è divenuto nel 1935 ‘via L.Dottesio’.

Era doppio senso veicolare; nel 2009 è senso unico

Viene descritta essere completamente in territorio di proprietà del CAP

CIVICI

la numerazione in antico andava dalla Lanterna al centro; oggi invece è invertita e va dal WTC a via P.Chiesa. Seguiamo quella antica

¶¶1) da largo Lanterna al sottopasso dell’elicoidale:

===civv. 2,4,6,8 ; erano i civici posti più a levante del quartiere della Coscia e quindi del borgo; per chi arrivava da Genova,  la strada iniziava subito dopo Largo Lanterna, indirizzata verso nord, fiancheggiata a ponente per cento metri  da questo lungo caseggiato popolare a 5 piani, senza terrazzi, la cui unica caratteristica era un terrazzino d’angolo in largo Lanterna che fu costruito come prua di nave (similare esiste solo nell’angolo tra via P.Reti e S.Bertelli). Al civico 6, sino al 1961 c’era una Associazione Italo-scandinava.  Ultimi  proprietari del caseggiato, appaiono le soc. SVIM ed ARMID e la SCI costruttrice ma già nel 1999 in liquidazione.

La storia dei primi abitanti del caseggiato, è la storia della Coscia e di SPd’Arena.

Drammatica è invece la storia agonizzante degli ultimi vent’anni.

Già abbandonate le case a metà degli anni 80, il palazzo rimasto abbandonato fu presto occupato dai gatti e marocchini, altrettanto presto sostituiti da rumeni ed albanesi, via via cresciuti in famiglie e divenuti più di 200:  disperati extracomunitari (appunto da chiamarla popolarmente ‘la casa degli albanesi’) pressoché tutti arrivati a Genova clandestinamente e purtroppo dediti ad attività troppo spesso e genericamente  illegali.

Pochi anni dopo si era tentata la muratura di tutte le entrate e finestre, ma le attese di demolizione favorirono il clandestino rientro, e con loro ovviamente una impennata della criminalità tra loro e della microcriminalità con la popolazione. E’ sul Secolo XIX del lontano marzo 1998 che nelle case pericolanti e murate furono ritrovati 150 infiltrati  clandestini, tra cui 10 bambini, viventi in miserande condizioni senza servizi –luce ed acqua in particolare- ma anche toilettes per le quali venivano adibiti i piani alti, senza ovviamente ripulirli. I vigili vennero costretti ad operare continuamente controlli e ‘censimento’ di questi disperati, finché il Comune addivenne alla necessità di eliminare il problema alla radice, visto che recidivava con immediata sequela. Ovviamente si innescò la sterile diatriba su quella povera gente sfrattata e con rischio del rimpatrio; nonché sul “centro storico distrutto e non restaurato o quantomeno  non riutilizzato in modo opportuno”.  La demagogia di chi ci governa, lenta come sor Tentenna, indecisa nel prendere drastiche ma vitali soluzioni, era riuscita in pochi anni a trasformare un quartiere da ambiente di rudi  pescatori, minolli, e marinai ma onesti, nello squallido e fatiscente covo di delinquenti; rendendo alla memoria del nome della Coscia la peggiore insegna  di gogna e ghetto. Non era certo mantenendo pietosamente questa situazione che si aiutava un immigrato ad inserirsi. Dei 200, 80 se ne andarono spontaneamente prima dell’arrivo delle ruspe; 16 donne ed 11 bambini in albergo; gli altri quasi tutti senza lavoro né documenti.

Gli animalisti di ‘Zampatesa’ minacciarono di far sospendere i lavori, per salvare i 25 gatti inselvatichiti e randagi, ospiti anche loro dei ruderi: sui giornali “i gatti stoppano le ruspe in marcia sui ruderi della Coscia”.

Il 21 mar.1999 la soc DemolScavi di Rapallo (la stessa che già aveva sbancato la vicina zona di san Benigno: otto operai, tre scavatori, due pale ed una pompa capace di spruzzare 700 litri d’acqua a/ minuto), sotto i reiterati colpi di una ruspa scavatrice, munita di un braccio d’acciaio lungo 22m,  ha abbattuto, azzerandolo il palazzo. Come scrisse il cronista del Secolo, “il passato di Sampierdarena scompare di buon mattino nelle fauci di una ruspa”. In una settimana tutto il triangolo di 11mila mq tra via DeMarini-via Balleydier-ex via Chiusa, furono abbattuti,  lasciando le macerie per impedire una baraccopoli. E già allora, fu prospettato in zona il futuro Mercato del pesce.

Da queste case e quelle attorno, questa povera gente di extracomunitari si era riversata nel vicino piazzale san Benigno: al posto del parcheggio della cooperativa AldoNegri, si era creato un campeggio-accampamento  abusivo. Camioncini fatiscenti, roulottes,  tinozze di plastica e panni stesi, bambini a giocare, i vicoli intorno intesi come latrina pubblica: era diventato il nuovo ‘luogo della vergogna’.  Nel luglio 1999 la polizia dovette intervenire anche lì, sgomberando pure questa zona, disperdendo i nuclei familiari, cercando di evitare il loro assembramento fautore di lordure e risse, nonché ricetto di sbandati, balordi ed irregolari.

         

1999  v. De Marini a destra;           via De Marini è diagonale in alto  (con sopra la Nuova Darsena)

quello alto è il palazzo in                Il getto d’acqua, schizzato da Largo Lanterna serve per abbattere  

demolizione nella foto a fianco      la polvere del palazzo in demolizione

.

 

                                                      

Nel 2003 tutta SPd’Arena è divisa in ‘proprietà della mala’; la zona della Coscia-san Benigno,  appare sempre in mano ai rumeni, a confrontarsi con gli albanesi di piazza Barabino e gli ecuadoregni di Prè.

Li vicino c’è un albergo a quattro stelle, una strada di gente normale ed una Coop di lusso.

Da dopo l’anno 2002, largo Lanterna praticamente non esiste più; quindi la strada è continuativa perché non ha più un punto preciso di inizio;  è contornato da ponente dalle macerie dei palazzi rasi al suolo, e da levante dal muro di cinta de ‘la nuova Darsena’.

Dopo questo centinaio di metri, la strada prima incrociava via Balleydier, poi  passava sotto un alto fornice del raccordo anulare necessario per salire dalla strada a mare all’autostrada (che appare alquanto decentrato rispetto l’asse viario); dopo il tunnel a destra inizia verso monte il ‘passo alla via di Francia’.

 

¶¶2) dall’elicoidale alla ferrovia

dopo il tunnel dell’elicoidale la strada diveniva per 300 metri circa, una stretta viuzza rettilinea (una fila di auto in sosta dal lato ponente, e lo strettissimo passaggio per la viabilità a levante) che arrivava sino  a via di Francia.

Nel Pagano/1933 risultano aperti sulla strada questi esercizi: al civ.24 fabbrica di sego,candele e saponi dei fr.lli Lombardo fu Raffaele;  al 27 Tomaso Moro e figli hanno fabbrica di conserve alimentari; Moizo Attilio esercita come droghiere non si dice dove ma appare anche come confettiere in via Manin; al 30 Sanguineti Lodovico ha fabbrica e negozio di conserve alimentari; al 32r Costa Giacomo fu A. ha una raffineria di olio d’oliva che sarà ancora attiva nel 1950;  al 43 Bagnasco Antonio ha dei docks marittimi; al 69r Bagnasco e C, sono negozianti in legname (importatori diretti dall’America,Svizzera e Rumenia (sic), con segheria). Non è citata la trattoria del Toro.

   Nel Pagano/1950  a significato della perdita di importanza come traffico, vengono segnalati una sola osteria (16r di Bonfiglio Italia. Una sola in quest’anno, ma nell’ antico erano i locali dove si rifugiavano gli uomini finito il lavoro; dove erano tipici i “quartini” bevuti direttamente dal pirone (pirrun) –il cui effetto era direttamente proporzionale a quanti ne erano stati ordinati-, si giocava a briscola, a tressette o a braccio di ferro, si discuteva di lavoro, politica o mutuo soccorso; per molti era un luogo di progresivo abbrutimento) ed una sola trattoria al 49r di Filippini C. (vedi sotto).

Il Pagano/61 pone al 6 l’assoc. Italo-scandinava; al 12 la scuola di avviam N.Barabino; e ai civv. rossi 1r Bartolini&C off.mecc: 9-11r Losi P. oggetti usati; 16r osteria Bonfiglio I;    18r Anelli M. commestibili; 28r Bonfiglio I. latteria;  31r Riccardi G demolizioni navali; 32r Costa G. raffineria; 33r Bonardi E.pennelli;  37r Pastore O. comm.li; 39r Polverini M. parrucch.; 41r Crosa f.lli trasporti; 43r Simoni G.calzolaio; 49r Filippini M. ristor. del Toro; 49r Aretusi G. autotrr; 51r Benassi B. rottami metall.

===civv.8a,10,12,16 demoliti nel 1985;--- i 5,7,9,11,13,15 nel 1987;---- 

il 58 nel 1994;---- 81, 83 nel 1995;--- 75, 77, 79 nel 1999)

A lato levante c’era :

===civ. 49 r: l’antica trattoria del Toro: caratteristica e notissima, perché una delle più vecchie di tutta Genova, e che  -in città-  non aveva uguali in fama (se non ‘la Gina del Campasso’, finché fu attiva): trattamento rustico da amici, in maniche di camicia, sempre allegria, battute vivaci, genuinità e semplicità.

Nel 1908 era gestita da un Rossi Giuseppe fu Em. discendente di una famiglia di armaioli o archibugieri (chiamati bûxè); si scrive che, essendo un buono, usava la forza per contrastare i prepotenti e raddrizzare i torti; e quindi facilmente protagonista di situazioni enfiate a leggenda, tipo che avesse abbattuto un minaccioso toro ( da qui il nome) con un pugno e  con le dita piegasse in due le monete di rame (le famose “palanche”, con il profilo di re UmbertoI); di carattere mite, se però c’era ‘da darsi’ non si tirava indietro e vinceva sia a pugni che a testate, e quindi spesso soggetto a sfide di primato con i camalli ed altri dal mestiere da forzuti, tipo “mi, me vorrieva dâme con vöscià”. Da lui aveva tratto il nome di ‘locanda del Toro’, dove il viandante poteva dormire, mangiare e cambiare cavallo; anche le diligenze facevano tappa ristoro e stallaggio; il punto era diventato  famoso perfino ai ‘foresti’.

Rilevata pochi anni dopo da Ettore Guano, classificato ‘il più forte di SanPier d’Arena’, ma la cui più nota qualità era solo tra i fornelli.

All’interno, dopo aver superato la cucina visibile da tutti e separata da un bancone di marmo,  si accedeva ad un ampio locale con unico tavolone centrale; da lì due altre lunghe stanzette anch’esse corredate non da tavolini ma da lunghe tavolate che obbligavano –salvo rare possibilità- a mangiare tutti assieme, ricchi e poveri, in comitiva o in coppia, serviti in forma molto semplice e familiare; alle pareti, tra i mobili della nonna, centinaia di quadretti testimoniavano gli avvenimenti più svariati con foto o  gagliardetti, o ritratti firmati di tutti i personaggi famosi divenuti clienti,  attori, musicisti, politici, scrittori, sportivi (era in genere un covo di sampdoriani (la squadra vi si riuniva ed organizzava annualmente una festa per i bambini orfani), e la famiglia Guano era blucerchiata in ogni componente compreso il genero, terzino della squadra, e che chiamandosi Podestà –per evitare ricordi politici irritanti, lo chiamavano Sindaco;  i genoani venivano regolarmente bistrattati, ma era loro convenienza accettare le verdine per poter mangiare come si deve- o meglio anche della ‘Sampierdarenese 1946’, visto che di ambedue  aveva la foto di gruppo di pressoché tutti gli anni di attività, essendone –il figlio Checco un socio fondatore e fautore del Morgavi).  Tutti questi ricordi non si sa dove siano (alla forzata pensione conseguente lo sfratto e distruzione del caseggiato, il Checco, che aveva proseguito con altrettanta bravura la traccia paterna, fu costretto ad un pensionato-albergo a Manesseno, fino al decesso, secondario a banale caduta avvenuta nel luglio del 1995; tutti quei ricordi saranno speriamo in casa degli eredi,  in attesa di qualche ricercatore di memorie). 

Piatti tipici erano il classico minestrone ( quello che tiene diritto il cucchiaio immesso verticalmente come un palo); lo stocca; la buridda di seppie calamari e piselli;  il berodo coi pinoli; le trippe e la sbïra; il bianco e nero (budellini di agnello con fegatelli, rognoni e ciccioli); le frittate fatte con la semplicità di un rito (dallo sbattere le uova con una forchetta di stagno, al fermare lo sbattimento all’istante giusto, al rilevamento del primo ”scuttuzzu”, che ne sanciva la differenza). Remo Borzini nel suo libro (‘Osterie genovesi’) ricorda quei piatti dove il sentire anche un vago senso di inappetenza, era il massimo dell’offesa per il cuoco. Il palazzo fu demolito nel 1987.

===civ. 26 r nel 1933 viene segnalato esserci stato un club ricreativo “Manovratori a cavallo”.

    Di fronte a ponente,

===civ. 32r  negli anni 1930-80 sulla strada si apriva -ed era fiancheggiata- lo stabilimento Oleificio Costa di Giacomo,  fu Andrea; famiglia originaria di SantaMargherita Ligure di antica tradizione mercantile.  Giacomo Costa nella seconda metà del 1800 aprì in Genova l’attività per il commercio dell’olio d’oliva (specie esportazione negli USA ed America del sud, Argentina in particolare) e tessuti; e –non so quando- il grosso oleificio in SPdA.

Nel 1925 l’impresa iniziò ad investire anche nel settore armatoriale e quindi con stessa titolazione e stesso indirizzo –per gli uffici-. Attività marittima che ebbe grande sviluppo e divenne autonoma rispetto l’oliaria nel 1936.

La presidenza di questa seconda attività fu assunto nel 1940 da Angelo Costa, nato a Genova il 18 aprile 1901; terzogenito –di sette- di Federico –uno dei figli di Giacomo-; laureatosi nel 1924 a Genova con lode, in Scienze economiche e commerciali con una tesi sull’olivocultura. Tenutosi fuori dalla politica attiva, si dedicò interamente alla produzione di olio  allargando l’azienda del nonno da piccola e a conduzione familiare al colosso industriale con raffinerie e lavorazione delle sanse. L’allargamento dell’impresa lo obbligò sia nel 1927 all’iniziale acquisto di due navi –perdute nel conflitto mondiale-, per il trasporto dell’olio acquistato da altri paesi mediterranei e poi esportato dopo la raffinazione-; e sia nel 1940 a non disdegnare l’interesse verso l’alcol e la produzione del vino.

Ma fu nel periodo postbellico, dopo il 1947, che ebbe l’intuizione felice di finanziare l’acquisto di navi Liberty (usate dagli Alleati nel conflitto e poi giacenti inutilizzate) utilizzabili anche per il trasporto passeggeri; e, poco alla volta divenire figura portante della “Linea C” e della industria italiana (Confindustria, Confederazione italiana armatori).

Famiglia, onestà e carità erano la triade di base del suo impero; ma la formazione religiosa non lo distoglieva dai dettami prioritari dell’economia: produttività, non dispersione, equa distribuzione (e non assistenzialismo cieco),   

Qui c’era solo il vasto impianto di raffineria, che per tanto tempo ha  contribuito ad ammorbare l’aria con l’acre e nauseabondo odore tipico di olio, da loro raccolto in recipienti di latta lavorata, e stampata  nello stesso stabilimento. Negli anni iniziali aveva telefono n° 41.154. Nel Pagano/61 è compreso ne: esportatori-importatori;  fabbr. saponi;  negoz. gross. di olio d’oliva; latta e litografie su latta.

La ruspa abbatté gli edifici, iniziando simbolicamente il 4 maggio 1984 con la torre metallica, vecchia ed arrugginita (che resistette più del pensato e fu abbattuta con gran fatica) quale prima parte dei totali 100mila mq. di terreno (ancora i Docks Liguri erano in attività sul fianco a mare), iniziando la rivoluzione prevista per realizzare il complesso di san Benigno.

Dei Costa si ricorda anche un Armando, grosso  commerciante -la cui attività iniziata agli inizi del 1900 è passata al figlio- in quanto aveva l’hobbi della poesia, dell’improvvisazione di rime solleticato da banchetti, riunioni, avvenimenti, per i quali creava improvvisi acrosticiraccolti poi in un libro titolato “O giardinetto”.

===civ. 12 il palazzo della villa De Franchi:

Famiglia patrizia genovese che dal 28 gen.1393 (data di fondazione dell’ Albergo De Franchi con capostipite Giovanni Sacco, i cui tre figli per giochi araldici e di potere, si fecero chiamare definitivamente De Franchi),  troviamo negli annali ricchissima di beni e  di illustri personaggi (ben sei dogi della Serenissima Repubblica, mercanti, uomini d’arme, diplomatici, e sacerdoti: della famiglia è il famoso “Padre Santo” domenicano ).

   Mons.Francesco Bossio (vescovo di Novara, eletto delegato pontificio di Gregorio XIII per tutte le chiese della diocesi, col fine di constatare l’applicazione delle disposizioni del Concilio di Trento), nel 1582, in una sua relazione, ricorda in San Pier d’Arena l’esistenza di questa casa; nel momento di un Gerolamo q. Cristoforo De Franchi-Toso divenuto doge (dal 21 ott.1581 al 20 ott.1583; ed a sua volta padre e nonno di altri dogi).

   Nella carta vinzoniana del 1757, appartiene ancora al “magnifico Giuseppe De Franchi” imparentato presumo con quelli che possedevano in salita Belvedere la villa Crosa-De Franchi-oggi Istituto Antoniano.

   Nelle campagne militari tra francesi ed austriaci, senz’altro fu occupata da ufficiali, accasermati nei locali, così ben vicini alla città.

   La proprietà DeFranchi Giuseppe viene segnalata nel 1813 per il possesso nella villa (erroneamente localizzata in vico della Coscia, inesistente)  di una cappella privata, sinonimo di ricchezza e distinzione.

   L’edificio era a parallelepipedo, a tre piani, con tetto in ardesia a padiglione; in parallelo con le tre ville poste più a ponente, fu chiamato “la semplicità”.  La facciata si apriva a sud, ed offriva  in via De Marini il lato posteriore, caratterizzata da ben otto finestroni (sei centrali e due lateralizzati); il primo piano era sottolineato da un bugnato che era esteso a tutto il fianco del palazzo. Il giardino arrivava ovviamente sino al mare e rimase inalterato finché non fu deciso nel 1852 l’apertura di via Vittorio Emanuele II, da Largo Lanterna alla piazza Bovio (piazza N.Barabino),  che lo tagliò trasversalmente.

Possedeva anche una torre (non più riscontrabile però nelle carte ottocentesche), posta originariamente più a ovest della villa e che faceva parte del sistema di vigilanza della marina.

   Nel settecento la famiglia dei De Franchi (come poi anche i Doria e Spinola) era da catalogarsi tra ‘i meno fortunati’  o patrizi poveri (forse addirittura tra i poveri ex nobili, beneficiari di un sussidio dall’amministrazione napoleonica; comunque al punto che  della famiglia nel 1809 la prefettura francese annoverava tra i giusdicenti,  solo Carlo Nicolò  q.Gerolamo (nella cui ulteriore ascendenza –di origine corsa- non risulta il nostro Giuseppe), ormai ottuagenario ma sempre bisognoso di lavorare (nato 1725, nel 1762 viene segnalato ai dati fiscali ‘di condizione non disprezzabile’; come giusdicente aveva peregrinato nel territorio comandando Pieve, Diano, Voltri, Ovada, Levanto, Savona, ultimo a 72 anni, podestà di SestriLevante)).

   Sempre nel 1813 appariva esserci una ‘cappella DeFranchi Giuseppe alla Coscia’, forse nell’interno della villa, meno probabile la Cappelletta  vicina..

Il Gazzettino dice vi fossero andati ad abitare i Balleydier (lo conferma l’elenco dei proprietari sopra esposto), quando il retro (rispetto la strada; ma il davanti rispetto la villa) dava ancora sul giardino (per alcuni ‘il giardino Balleydier’ ) e sugli orti, distesi sino al piano ed a piazza della Coscia.

   Dagli anni dopo l’ultimo conflitto, ed ancora nel 1950,  fu adibita a scuola second. femminile  di “avviamento professionale industriale”, intestata a  N.Barabino. 

  L’oleificio Costa si sviluppò tutto attorno senza distruggerla, occupandone solo l’ampio terreno: così inglobata nel complesso divenne un magazzino di loro proprietà finché abbandonata a se stessa fu deciso demolirla nel 1985 per far posto al complesso centro direzionale di san Benigno. 

 

   Subito dopo (dalle foto pubblicate, appare collocata nel tratto a ponente della via subito seguente la villa DeFranchi, quasi di fronte alla trattoria del Toro), sulla strada si apriva una chiesuola o cappelletta che fu scelta quale 

secondo  tempio parrocchiale dedicato a di NS delle Grazie

(della  prima chiesa in ordine cronologico vedi sotto, a pag. 84-85; della terza in via L.Dottesio)

Più bello, alto, austero ma ‘allegro’. Fu costruita ristrutturata (si legge infatti una nota spese (di lire 394) datata 9 maggio 1817 relativa a perizia eseguita “per il ristoro da farsi alla Cappelletta diroccata sopra delli primi rastelli della Lanterna per portarsi in città”; ovvero andando verso il mare, a destra prima della villa) utilizzando i proventi derivati dall’esproprio effettuato dalle ferrovie per l’apertura della galleria di san Benigno, e dalle offerte dei fedeli (specie i famosi minolli), e su gratuiti disegno  ed assistenza dell’arch.A. Scaniglia (lo stesso della chiesa della Sapienza, del palazzo del Municipio e del teatro Modena) con iniziale forma rotondeggiante, fu munita di  tre altari  (non certo in marmo ma sicuramente di terracotta).

Fu aperta ai fedeli il 20 mag.1849 dal sac. Francesco Lanzetta (già prevosto di san Biagio, e che lasciò scritte delle memorie utilissime alla ricostruzione storica dei fatti), in sostituzione del primo tempio da pochi anni sfrattato dalla soc. ferroviaria (in quell’anno in fase risolutiva, vicina a funzionare), quando era non ancora autonoma (ma inizialmente succursale della parrocchiale della Cella in cui era arciprete don Stefano Parodi, poi divenuto canonico della Metropolitana di san Lorenzo), col nome popolarmente usato (ufficialmente non concesso) e continuativo di “santa Maria” ma in più “delle Grazie (in virtù della presenza del quadro omonimo, che lentamente aveva acquisito nel popolo una particolare e vasta venerazione: il ritratto della Madonna, col Bambino seduto sul ginocchio destro, e sul cui fondo è scritto “s.Maria de primo quarterio Sancti Petri Arenarii”era stato dapprima posto dal sac. Giuseppe Ardito nella precedente chiesuola nel 1824, e poi trasferito in questo secondo tempio all’atto del passaggio delle consegne sacerdotali; questo prete  poi nel 1831 venne trasferito a Ventimiglia quale segretario del vescovo locale GB D’Albertis).

   Nel 1851 successe, per quattro anni col titolo di rettore custode, don Terrile, già curato alla Cella e da alcuni anni assistente, gestore del catechismo domenicale e di una scuola privata per i ragazzi. Gestire una scuola era ancora un retaggio dei sacerdoti precettori, per procurarsi un minimo di sovvenzione ecomomica specie se la chiesa era in zona di povera gente, e lo Stato assente.

   Nel 1855  arrivò don Angelo Ricchini da Voltaggio, già parroco a Certosa. Egli portò  al culto dei suoi nuovi fedeli il beato Giovanni Battista de Rossi,  un proprio conterraneo poi divenuto santo, la cui immagine era stata presa dalla sua casa paterna dei nipoti, a Voltaggio. Decretò inoltre titolare, l’effigie di N.S. delle Grazie, la cui festa solenne veniva celebrata la seconda domenica dopo Pasqua, con grande affluenza di popolo da tutto il borgo; molto si adoperò sia affinché il titolo ufficiale della chiesa   cambiasse da «santissimo nomen Virginis Mariae» in «sancta Maria Gratiarum», e sia per ottenere la titolazione parrocchiale (occorreva dimostrare avere entrate o possedimenti che garantissero l’autonomia).  L’arcivescovo Charvaz, seppur favorevole, trovò non poche difficoltà a riconoscergliela, avendo contro il consiglio Comunale e –non certo favorevole- il parroco della Cella. Così di quest’ultimo progetto se ne fece nulla.

Per ventitre anni, questo zelante sacerdote compì con serietà la sua missione nella chiesuola, battendosi perché diventasse parrocchia.

Fu per opera sua che nel 1864 nacquero le Figlie di Maria, la fabbriceria (quest’ultima fu successiva,mente trasformata nel 1881 in Confraternita si s.Vinvenzo de’ Paoli e nominata a beato GB Rossi).

 Però si ammalò e dopo due anni di penosa infermità morì il 25 sett. 1878 a 58 anni.    Fin dai primi tempi della loro venuta a San Pier d’Arena, e per otto anni  (due durante la malattia del prete, e sei anni dopo la sua morte, sino al 1884), i salesiani di don Bosco (incaricati furono don Michelangelo Braga; poi don Luigi Bussi -prefetto del collegio di san Vincenzo de Paoli, e poi parroco di san Gaetano-; ed ultimo il prof. don Giovanni Galfrè  che gestì gli uffizi spirituali ed economici anche per quei quattro mesi intercorsi tra la nomina a parrocchia e la nomina ufficiale del primo parroco), non potendo il parroco della Cella,  aiutarono  questo sacerdote incaricato, quasi quale fosse diventata  una succursale di san Gaetano; l’ambiente era già frequentato anche da tanti fanciulli d’ambo i sessi, in un Oratorio di stile salesiano ( tanto che morto il sacerdote il 25 set.1878, all’età di 58 anni, dopo  due anni di penosa infermità (il dattiloscritto salesiano dice nel 1884), e avendo questi lasciato eredi i salesiani, nacque uno strascico legale aperto dai parenti (specie il fratello prete don Angelo) arrabbiati ed  ingelositi: il processo che seguì  le accuse, diede ampia ragione ai sacerdoti di don Bosco e fece punire per calunnia e ricatto i parenti ed alcuni giornalisti che l’avevano sostenuti) .

   Nello stesso anno 1884,  l’arciv.  Salvatore Magnasco invitò i salesiani a proseguire nella cura della chiesa: essi rifiutarono pur mantenendovi  per oltre 10 anni un sacerdote qualche chierico e collaborante a compiervi lavori: esteriormente vennero eseguite tante modifiche, senza una precisa struttura architettonica del tetto e delle pareti (mutò l’aspetto, da rotonda ad un rettangolo irregolare -a destra le cappelle erano strette ed anguste, a sinistra decisamente più larghe-  avendola allungata di un terzo fino alla strada ed allargata ai due lati); quindi in definitiva ridultò ingrandita ed allargata per necessità via via contingenti. Interiormente fu arricchita da due nuovi altari –alla Madonna del Rosario ed alle Anime del Purgatorio-, da decorazioni ed ornali vari tra cui soprattutto un affresco sulla volta pare con la collaborazione diretta del Barabino, con l’immagine dell’Adorazione dei Magi, opera di Luigi Gainotti PRESEPIO–bozzetto dell’Adorazione dei Re Magi. (nato a Parma il 28ott.1859, ancora bambino si trasferì col padre –pure lui pittore-, a vivere a  San Pier d’Arena, collocato come apprendista-discepolo del Barabino ( assieme col Vernazza e GBTorriglia) che lo invogliò a frequentare l’Acc.Ligustica di B.Arti (dove poi, nel 1893 verrà proclamato Accademico di merito nell’insegnamento della scuola del nudo).E’ considerato l’ultimo conservatore dell’arte ligure dell’ottocento –giudicata parente poverissimo rispetto l’Italia- rifiutando l’avventura innovativa e rivoluzionaria del novecento.  Morì ottantunenne nel 1940 lasciando una figlia, pure lei pittrice.Da giovane fu attivo nell’affrescare tempi sacri (fu chiamato “pittore delle cento chiese”; in una di esse vide precipitare il cognato-collaboratore DeLorenzi. Il pittore aveva decorato nel 1892 anche il soffitto del CarloFelice  -dipingendo dei putti volanti, sopra l’affresco del Barabino rovinato dai ceri e fumi-, poi andato distrutto pure lui col bombardamento-. Vedi anche a Pro.115 )

.

   L’arcivescovo Magnasco, e sempre nello stesso anno 1884, il 16 giugno (il decreto, confermato dalla s.Sede Apostolica, fu definito dall’ordinario Diocesano il 25 seguente),  deliberò  per erigere la chiesuola a parrocchia autonoma (chiamandola ‘detta del Quartiereto, succursale della Cappelletta e Chiesa della Coscia’), con limiti territoriali da san Benigno sino a via Larga-via Imperiale, e con circa 5 mila abitanti  in contemporanea fu nominata anche quella di san Giovanni Battista vulgo san Gaetano (anch’essa con 5 mila anime. Delle 24 mila anime, 14mila facevano parte del territorio della Cella). Ma nel 1885 il sindaco di San Pier d’Arena spronato da 20 consiglieri su 21 -tra cui il cav Romairone- (malgrado una certa opposizione del solo consigliere Giovanni Lombardo, assessore anziano che non vide approvato il progetto morendo l’11 sett.1880),  fece ricorso al regio sub-economo del distretto di Genova contro la decisione, non riconoscendo opportuno né conveniente l’erezione di due nuove parrocchie giudicando quella unica di san Martino-Cella sufficiente alle necessità di tutta la città (40mila anime) e giudicando ancora che le due nuove parrocchie con le loro fabbricerie non solo avrebbero recato discordia e turbamento (che si sarebbe riversato a spese del Comune) ma che non avrebbero avuto i fondi per provvedere alle proprie spese (a parte appunto la chiesa di NS delle Grazie che allora godeva di una rendita dello Stato di lire 800 quale eredità della signora Nicoletta Casabuona, cifra appena sufficiente a provvedere all’onesto e decoroso sostentamento del sacerdote; e che avrebbe potuto arrivare ad altre 1000 lire con gli ‘incerti di stola’); e che la popolazione era indifferente a questa scelta. 

La protesta comunale, evidentemente non fu ascoltata in Curia (non indifferente era il peso di una giunta comunale prevalentemente di repubblicani mazziniani, ma anche garibaldini), anarchici, libertari, che vedevano nella scissione un potenziamento dell’influenza della Chiesa nel tessuto urbano mirato a divenire laico). L’arcivescovo, dopo aver invano scelto tre sacerdoti che ne rifiutarono l’incarico, nominò come primo parroco, il prevosto Costantino Zerega, proveniente dalla parrocchia di san Martino di Zerega, a Cicagna nella Fontanabuona ma genovese di nascita del 1850 (era stato ordinato sacerdote nel maggio 1875; prese possesso dell’incarico il 9 ottobre 1884; sul Bollettino Parrocchiale viene riferito l’episodio della sua presentazione al sindaco il comm. Torre Giuseppe il quale ben chiaro gli espose che ‘deplorava la sua nomina’; al ché il sacerdote, con umiltà ma fermezza gli rispose che lui obbediva a decisioni superiori e di conseguenza non commentava i giudizi ma che -ben tosto- era intenzionato a fare il suo dovere. Una epidemia di colera e vaiolo, e la conseguente necessità di persone volenterose e dedite all’assistenza, favorì il suo inserimento; ma per ulteriori lunghi anni il Comune ignorò ufficialmente l’esistenza della parrocchia nella sua autonomia funzionale. Ebbe l’aiuto di due curati: don Eligio Grosso e don Luigi Garbarino (economo); ed aveva collaboratori nel cappellano delle Suore di Carità don Rebora Luigi e nel proprio fratello don Giuseppe Zerega.  

Nel 1892, una violenta alluvione aveva inondato la chiesa: il torrente  del fossato san Bartolomeo, scorrendo in prossimità della chiesa, straripò scavando il sottosuolo,  tanto che  il pavimento dell’edificio  si abbassò di 20cm.; la balaustra dell’altare maggiore si spezzò in tre punti e l’altare si inclinò in avanti. Nell’elenco sopra scritto, delle proprietà, dice che a fine 1800 subito dopo la villa DeFranchi –allora divenuta Balleydier-, c’era la ‘canonica della chiesa delle Grazie’ .Rimase Parroco Prevosto per 19 anni e mezzo, sino alla morte avvenuta alle ore 11,55 del 14 aprile 1904. L’inventario degli arredi con resoconto al 31 dic. 1903 finanziario evidenziarono un debito della parrocchia verso il sacerdote di ben £.14.545,56). 

Nel vuoto occupazionale ufficiale, risultano spese nel 1907 ben £.5000 per l’acquisto di un altare in marmo che andò a sostituire il precedente fatto di pietre e terracotta.

 Successivi furono Nicolò Molfino (1910, Una relazione riporta che al suo arrivo, la chiesa aveva 5 altari -di cui solo il maggiore di marmo (e corredato di tappeti e poltrone)- con i propri addobbi e arredi (candelabri, icona, carteglorie, portafiori, ecc.); non c’era campanile ma solo una piccola elevazione sul tetto arredata di tre campane (di cui una rotta); un organo; quattro confessionali (dei quali uno imprestato dalle suore della Carità); panche e sedie; un fonte battesimale racchiuso da una cancellata di ferro, rappresentato da un marmo ai piedi di una tela rappresentante il battesimo di Gesù. Vicino c’erano una sacrestia con armadi idonei; e la Canonica posta al piano sopra la sacrestia ma in locali infelici. Chi stese il rendiconto, sottolineò che era in “grande decoro il SSSacramento”; che ci “si reca agli infermi con tutto quell’apparato che le circostanze esigono”; che tutto era “tenuto a dovere” (registri di battesimi, matrimoni, cresime; meno ordinato era il registro dei morti, non si sa perché). Il Parroco teneva due messe festive con spiegazione del Vangelo (ore 05,30 e 10,00); catechismo al pomeriggio ai bambini ed agli adulti. La Conferenza di s.Vincenzo (dedicata a GB Rossi) -composta da operai- assisteva 16 famiglie riunendosi in sacrestia. Nel 1914 risulta aiutato dall’appena ordinato, in qualità di vicario cooperatore, don Giovanni Dellepiane (che poi diverrà mons. e vescovo, prima in Turchia, poi in Africa ed Austria ove morì nel 1961)

   Il sacerdote acquistò per 27mila £. (in 3 anni), nel giu.1916 un appezzamento di terreno vicino, di 500mq, già di proprietà della “Società  Fonderia e Costruzioni Meccaniche Navali Balleydier”, su cui era eretta una piccola cappelletta,  con la previsione di una migliore e definitiva sede; ma alla fine tutto fu inutile perché i progetti di ulteriore allungamento furono classificati inattuabili ‘per scomodità e sfregio all’arte’.  Aveva come aiutanti don GB Gazzolo (il famoso prae Baciccia di SBdF) e d. Antonio Bertolotto. Nel 1912 aveva istituito il Circolo interno, chiamato di ‘NS delle Grazie’ che poi divenne l’Azione Cattolica. Nei primi giorni del 1920 don Molfino fu trasferito, con la carica di abate,  in Santo Stefano.

E così dopo di lui, rimase per pochi mesi affidata ad un economo, finché don Gio Bono Schiappacasse subentrò il 25 lug.1920, nominato dall’arciv. mons. Boggiani -o Baggiani) e che riuscì a vendere a buon prezzo l’area della chiesa da distruggere. Al suo arrivo, i parrocchiani –a mezzo di alcuni fanciulli vestiti da pescatori come voleva l’antica tradizione del luogo- gli regalarono una somma.di £. 281 a  simbolo del desiderio di un nuovo tempio): già  il 3 ottobre dopo, in Fabbriceria si registra il possibile acquisto di un trerreno idoneo, considerando la chiesa insufficiente ai bisogni della cresciuta popolazione, fuori centro del rione,circondata da magazzini perde di decoroed attrattiva.

Per poter costruire in altra sede ed in modo decoroso, divenne necessario vendere la chiesuola. Secondo disposizioni legali (risalenti al Legge 19.5.1831), occorreva chiedere autorizzazione al Procuratore del Re presso la Corte d’Appello allegando documentazioni, specie quello del reinvestimento del denaro.La pratica venne inoltrata nel febb.1922.

      Due anziani sampierdarenesi, il sig.Fravega e Viglienzone ricordano che negli anni 1920-30 frequentavano la chiesetta, sede del terzo riparto degli scouts, e, per loro quella ‘era la parrocchia delle Grazie’

   Così, aumentando la popolazione, approvato l’erezione di un terzo edificio ecclesiale (l’attuale) da parte dell’arcivescovo, -malgrado i plurimi inutili  “tapulli” -la chiesuola divenuta piccola (veniva chiamata “la cappelletta”), fu deciso abbandonarla.

 Si promosse così la vendita al miglior offerente, dapprima i DocKs Liguri malgrado un decreto di esproprio da parte del Consorzio Autonomo, poi alla fam. Costa per £. 50mila (originariamente era stata valutata 380mila.  Come la villa, anche la cappella divenne parte dell’oleificio Costa, che però le conservò integre essendo ambedue  al margine della struttura industriale; la villa proseguì la sua attività scolastica). 

 

   Quello che non fece Costa, lo fecero i progettisti  del complesso di san Benigno, per la cui erezione ne decretarono la distruzione. Maledetti! Forse sono anche laureati e si fregiano di un titolo di architetto: all’università si, ma nella professione...Non li accuso di peculato... no. Ma di insensibilità, si; ma evidentemente a loro foresti, gliene fregava niente.

 

   Nell’opuscolo prima e nel libro poi, pubblicati dalla attuale Chiesa, c’è ripetuta confusione iconografica e storica tra questa chiesuola e quella dei Cibo, vicine ma distinte; più volte viene nostalgicamente pubblicata la foto di questa chiesuola, detta anche ‘Cappelletta bruna’ (quindi l’immagine è di questa seconda chiesa) ma il sottotitolo e racconto inneggiante la cappella dei Cibo che fu la prima e della quale non esistono vestigia iconografiche ma –vedi l’elenco dei proprietari di fine 1800: dopo la villa e la canonica (civici pari, a mare), e poi la già trasformata cantoniera delle ferrovie (civico dispari, a monte della strada, descritta qui sotto di seguito).

 

Sulla strada, di fronte alla chiesa su descritta, si apriva il  cancello che con un viale -lungo oltre cento metri, orientato verso nord-est- portava ad una delle tante,  villa Lomellini, dal Vinzoni attribuita al mag.co Stefano q.Carlo (non è lo Stefano divenuto doge nel 1752, il quale era figlio di Gio.Francesco; sul Battilana, l’unico Stefano figlio di Carlo –e di Battina Lomellini q.Filippo- è il quarto di sette fratelli dei quali: 4 femmine monache, 1 sposata, uno maschio ma anche lui -come il Nostro- non sposato e quindi senza prole). Sulla stessa carta del Vinzoni, il mag.co Stefano Lomellini q. Carlo appare proprietario anche di terreni posti sul lato di ponente di via san Martino, proprio di fronte alla antica abbazia, con due case piccole (agricole). Interessante che essi prima di essere del Nostro, erano di Giacomo DiNegri, stessa famiglia dello sposo di sua sorella Dorotea (ella sposò Agostino di Negro q.GiulianoAndrea: evidemnti passaggi in famiglia di terreni ereditati e poi comprati).Vedi Pacinotti-129

 Considerata la posizione, l’edificio risulta a levante della villa Pallavicini, sottostante le nuove mura, sulla direttiva -e quindi sovrapposto all’attuale via di Francia-  poche decine di metri più ad est della attuale stazione ferroviaria di san Benigno.

Non è stata catalogata nel libro “Le ville del genovesato”.

 

   Poco distante verso il monte, si trovava una cappelletta della famiglia dei Cibo (vedere in vico Cibeo), giudicata dal Remondini quale prima chiesa di NS delle Grazie (però divenuta con questo nome solo dopo il 1800), perché inizialmente nata privata appunto della famiglia Cibo; corrisponde forse alle casupole ancora esistenti nella parte a monte della ferrovia subito dopo il sottopasso di vico Cibeo. Si potrebbe identificare nella sua parte absidale al muro ancora esistente nell’area di un demolitore di automobili, affiancato al retro del casello delle ferrovie.

   Un Guglielmo Cibo, figlio di Lanfranco (non citati in Dizion. biograf. Liguri - III. p.385; conte Palatino, banchiere, commerciante e benefattore. Nel 1250 era in Africa, quale ambasciatore del Comune genovese col fine di concludere un trattato commerciale; in quell’anno compare tra i proponenti la maestosa abbazia eretta ad Assisi  in onore di san Francesco; a Genova fu anziano consigliere, tra gli otto nobili del comune; possedeva un palazzo in via del Campo dove abitava con la moglie Giacomina e con i figli Cibino, Lanfranchino e Francesco. –vedi vico Cibeo) poco prima del 1300  aveva fatto erigere una chiesuola dedicata alla beata Vergine, e detta del Quartieretto (o quarteretto) dal nome della località suburbana (documentata dal 30 marzo 1289 in virtù di un attestato del papa Nicola IV che accordava alla ‘chiesa della preclarissima et mobilissima famiglia Cibo’  la facoltà di tenere un cappellano nella villa di Pedefaro, dove con la famiglia dimoravano molti mesi all’anno. Nuovamente citata nel 1360 quando il cardinale Albornoz Egidio, quale legato apostolico, concesse si facessero collette nella chiesa a testimonianza che già allora non era solo privata, ma usufruibile dal popolo, essendo assai lontana la chiesa parrocchiale di san Martino. Ed ancora del 1387 un altro documento –catalogato al n. 350-  che la cita perché soggetta a pagare la somma di un soldo, per ogni cento di redditi. Si scrive in un ritratto storico della chiesa delle Grazie che in questi tempi era proibito dalla Chiesa sia di ‘consacrare edifici pubblici’ (?), sia di dare il nome di Maria alle bambine, per conservare ad Ella il massimo del rispetto: solo tre secoli dopo un decreto del Senato genovese comandava una festa speciale in nome di Maria sbloccava questo limite). Nei quasi trecento anni di ulteriore vita sacra, seppur succursale svolgeva un ruolo importante per le poche centinaia di persone distribuite sul territorio, essendo l’unica parrocchia, di san Martino, tendenzialmente  lontana; ed in questi trecento anni, la storia martirizzò molte volte il borgo, con lotte fratricide, pestilenze, carestie e -riferito al mantenimento degli immobili- difficoltà economiche della nobiltà in genere divisa tra Spagna, ducato di Milano e Francia.

      Nel suo giro di ispezione fu visitata (?controllare) da mons. Bossio, 1582, senza ulteriori commenti (visto probabilmente i propositi di lavori di ripristino; il giro comprendeva alla pari delle altre chiese del borgo, da san Martino al Campasso, alla Cella, san Giovanni (vico san Barborino-demolita), del Sepolcro (piazza Monastero-demolita), sant’Antonio (via Demarini-demolita), san BdFossato (distrutta), ssCrocifisso? (forte Crocetta-demolita).

Nel 1585 Alberico Cybo (neanche lui citato nell’opera su detta. Principe di Massa e Carrara, nato a Genova il 28.2.1532 da Lorenzo e Riccarda Malaspina; divenuto cognato di Guidobaldo, duca di Urbino; nipote di papa Innocenzo VIII (pure lui un Cibo,G.B., regnante tra il 1484-92); dimorante per gran parte dell’anno a Genova; presente a tante manifestazioni pubbliche cittadine, da processioni, a nomina del doge, tornei, feste carnevalesche, rappresentazioni teatrali e musicali (amico dei letterati più illustri dell’epoca quali il Foglietta, Manuzio, Giustiniani, Oldoini), nella casa di via del Campo luogo definito dal Senato della Repubblica il più adatto ad ospitare regnanti o persone di riguardo di passaggio; morì 91 enne nel 1623)   trovandola ovviamente assai deteriorata la fece restaurare essendo chiesa gentilizia per la sua famiglia, e vi appose a memoria una lapide (che ora è murata nella sacrestia della attuale chiesa delle Grazie, con su scritto “ HAS AEDES DIVAE VIRGINI - DICATAS NIMIA VETVSTATE - FERE COLLAPSAS CLARISSIMAE ATQ ANTIQVISSIMAE  CYBO - FAMILIAE MONVMENTVM - ALBERICVS CYBO IMPERI I - ET MASSAE PRINCEPS PRIMUS - INSTAVRANDAS CVRAVIT - ANNO MDLXXXV = questo tempio dedicato alla beata Vergine, resosi ormai troppo vetusto e quasi cadente, dalla chiarissima e antichissima famiglia Cybo, fu da Alberico Cybo primo principe dell’Impero e di Massa, fatto restaurare e rinnovare nell’anno 1585“).Era da poco finita la peste che aveva falcidiato i tre quarti della popolazione.

  Alla sua morte, avendo il figlio Alderano sposato Marfisa d’Este, risiedendo stabilmente a Ferrara e rinunciando al titolo, ereditò la corona di Massa il nipote Carlo, che sposò Brigida Spinola, figlia di Giannettino,  e trasferì in quella città la residenza definitiva,  scomparendo anche lui dalla vita pubblica genovese; un loro figlio Alderano, divenne cardinale ed anche lui espatriò vivendo molto a Roma.

   Affidata da sempre al clero secolare, sappiamo che l’8 marzo 1608 da Emilio Cibo fu stilato testamento (ritrovato nell’inventario fatto nel 1622: lasciava la dovuta somma affinché si celebrasse messa tutti i giorni, si mantenesse una lampada perennemente accesa, si costruisse una balaustra all’altare maggiore, e si chiudesse la porta che dava accesso alla proprietà di  Tommaso Pallavicini).

Nel 1622 (dall’inventario risulta esserci stato un solo altare con balaustra ed appesa nel coro, una ancona della Madonna con san G.Battista e Giuseppe)  ne aveva cura il sac. Andrea Tealdi dei Chierici regolari di san Paolo. Ma questi, considerando fosse localizzata in zona ‘insalubre’, chiese ai proprietari (Alberico duca di Massa e Carlo Cibo duca di Aiello, tramite il notaio Giacomo Cuneo) di cedere la gestione.

Cosi, fu che i nobili Cybo nel marzo 1622 la concessero ai Barnabiti nella persona di  Antonio Benenato di san Salvatore, prevosto di san Paolo in Campetto. Si scrive che essi ressero questo impegno sino al 1644.  Ma qualcosa deve non aver funzionato in questo passaggio, poiché risulterebbe che i Barnabiti non sono subentrati,  e che i Chierici di san Paolo avessero proseguito l’impegno:

a) il Tealdi viene nominato come ancora gestore della chiesuola nel 1638 in un “Stato della Chiesa Archiepiscopale di Genova”  fatto redigere dal card. Durazzo quando prese possesso della diocesi proveniente da Ferrara. Non sarà un errore se -invece di essersene andato nel 1622- si fosse stilato un accordo tra il prete ed i Barnabiti visto che anche loro dopo pochi anni abbandonarono l’impegno)

b) è datata 1644  una lettera di esplicita domanda di disimpegno (indirizzata al principe di Massa,   dal preposto in Genova della Casa di san Paolo -don Paolo Andrea Ferrari):  «Ill.mo et Ecc.mo Signore, si compiacque S.E. più anni sono di gratiarci d’una sua chiesa o cappella in San Pietro d’Arena. Havendo noi visto che li nostri instituti non potevano sodisfare compiutamente a quello ch’altri havranno fasilità a maggior gloria di Dio, habbiamo pensato se così piacerà a V.E. rinuntiarla a’ PP di S.Francesco di Paola stimando che da V.E. non sii se non di gusto come la supplichiamo assicurandola che per questo non si disobbligheremo di raccomandare al Signore la sua casa».

   Comunque, ad essi,  subentrarono (notaio GB Badaracco) nel maggio 1644 i Minimi di s.Francesco da Paola, nella persona del p.provinciale Francesco Maria di Negro, che tentò introdurre la devozione al suo santo fondatore.

   Con bolla datata 15 ottobre 1652 papa Innocenzo X ordinò la chiusura dei piccoli conventi e monasteri nei quali risiedessero pochi monaci (“ne quali risiedono solo due o tre religiosi e ne quali per ciò non s’osserva clausura invece d’accrescere la devozione, la fanno talora totalmente cessare, per essere  in arbitrio delli stessi a viver a lor capriccio, introdurvi gente di ogni sesso di giorno e di notte”.   È probabile che i Minimi appartenessero a questi, inclusi nei ‘troppo pochi e nei poco impegnati’. Infatti il 24 sett.1653 (solo nove anni dopo l’incarico)Carlo Cibo scrisse che il frate p.Gervasio Pizzorno da Rossiglione  co-rettore del convento di s. Francesco di Paola, era stato allontanato.

Da un suo inventario, risulta che i frati avevano aggiunto una icona di s.Francesco da Paola per un nuovo altare,  eretto per lo scopo; ma poi ritolto.

   Così, il 4 nov.1653 il sig. Vincenzo Giannini, procuratore del principe, la assegnò al sac. DeFerrari Giacomo, del clero secolare, prevosto di san Donato che però morì di peste; cosicché il 15 apr.1658 lo successe p. Beluzio (o Belluzzi) Vincenzo.

L’Accinelli, in Liguria Sacra, vol.II pag. 443 scrive che il DeFerrari lasciò la chiesuola ai Barnabiti, e da essi poi passò ai pp.Minimi: sbaglia i tempi)

   Il 28 mag.1676 Carlo Noceto, vicario della curia arcivescovile, dopo il decesso del rettore V. Belluzzi, confermò l’elezione di don Antonio Pallenzona da Tortona, quale rettore di s.M.del Quartieretto, fatta dal patrono principe Alberico Cibo-Malaspina 

   Una relazione del Cancelliere dell’Arcivescovato, datata 1749,  dei vari frati sopra,  scrive «sed centum ab hinc annis amotis disctis RR.PP. relatum fuit erectum fuisse in beneficium ecclesiasticum da iure patronatus excellentissimae Familiae Cibo =da oltre cent’anni è noto ai RRPP che era statoistituito un beneficio di patronato dalla ecc.ma fam. Cibo)

   Un altro restauro ebbe negli anni 1756-58 (sulla lapide fu aggiunto solo “RESTAVRATA -  ANNO -  MDCCLVIII”) .

   Nelle carte vinzoniane del 1757, appare addossata al muro di cinta di levante della proprietà dei Pallavicino, ma con un viale di accesso proprio, iniziante in via DeMarini poco più a levante dell’attuale vico Cibeo.

   I Cibo, nel 1764 diedero la chiesuola in gestione a don GB Orecchioni, che però non aveva compiti parrocchiali: Fu accusato dai Cibo: “Certo apparirebbe che chi di dovere, poco curava le anime, a fatica toglieva il ss.Viatico agli infermi, raramente celebrava messa”. Ovvero di scarsa frequenza. Evidentemente la chiesuola rendeva poco, perché fosse assistita a dovere. Le messe avvenivano praticamente solo nel periodo di novena per il Nome di Maria (titolare) e per s.Francesco (introdotto dai Minimi).

   Il 2 maggio 1798 il segretario generale del Direttorio trasmette l’inventario degli ori e preziosi vari requisiti a tutte le 20 chiese-oratori della municipalità;  tra esse compare anche la chiesetta a cui erano stati sottratti beni per la somma più bassa di tutte: lire 15,  di fronte alle 18.018 dell’oratorio di san Martino e le 6.048 della Cella.

    All’inizio del 1800, divenne succursale della Cella; nel 1837 l’arciprete Antola  scrisse che tutte le Domeniche un sacerdote andava a predicare.   Tra essi, un rev. Ardito, che regolarmente officiava da 7 anni, divenne segretario di mons.DeAlbertis, vescovo di Ventimiglia: da lui la chiesa ebbe in dono un quadro della Madonna (ritratta col Bambino seduto sul ginocchio destro) alla cui base era scritto ‘S.Maria de primo quarterio Sancti Petri Arenarii’, che attrasse la pietà dei fedeli e nominata N.Signora delle Grazie.  Benché nata come privata, si può quindi considerare la prima perché è in essa che fu esposto il primo ritratto della Madonna, chiamato ‘delle Grazie’,  che diede il nome alle due successive.

   All’Ardito successe per 3 anni il sac. Stefano Ricci che alloggiava vicino in una casetta di due piani proprietà della chiesa;  a lui seguì il sac.Lanzetta che però due anni dopo, nel lug.1849 fu allontanato per esproprio dall’amministrazione della strada ferrata perché intralciava la prossima costruzione della ferrovia

(il Lanzetta, nel 1893 scrisse le sue memorie, riportando i fatti su descritti. Nel descrivere il quadro, precisa «la Mafdonna seduta su di un trono invisibile, tiene sul ginocchio destro il Bambino Gesù, seduto sulla mano di Lei, sembra che da tempo fosse presente, in attesa che si ritirasse la tenda che la ricopriva, per apparire in tutto il Suo splendore di Madre. In atteggiamento tranquillo appare di ritorno dall’Egitto, fiera del Divin Suo Figlio, certa che nessuna potenza umana potrà più strapparlo da Lei.  Un ricco manto copre la Veneranda persona, aperto sul davanti. Un paffuto, sorridente, roseo, biondo bambino, colla destra alzata in atto di benedire, stringente una piccola croce colla mano sinistra, è l’autore della Grazia, il divino Infante. E ai piedi di lei sta scritto “Sancta Maria del 1° Quarterio S.Petri Arenari”»

   Descritta anche dai Remondini, fu giudicata ‘miserabile cosa: assai piccola, con un solo altare di cotto, dipinta esternamente di rosso, con un’aria di soverchia meschinità’.  L’Alizeri nel 1875 ne descrive la  scomparsa e segnala l’esistenza di una lapide, riposta dentro le sale della Ferrovia su cui si faceva cenno ai restauri del 1585 (infatti alla sconsacrazione la lapide fu tolta e collocata nella sala d’attesa della terza classe nella stazione principale locale; nel 1922 mons.Schiappacasse la richiese alla Ferrovie che la restituirono da porre nella seconda chiesa; infine fu posta nella sacrestia della attuale terza chiesa). Però nell’elenco delle case scritto all’inizio della storia di questa via, appaiono a fine 1800 al civ. 16 ( di allora) esservi la canonica della chiesa delle Grazie, seguita dal civ. 19a della casa cantoniera delle Ferrovie; quindi potrebbe significare che la chiesuola non fu ‘distrutta’ ma trasformata in casello ferroviario. Infatti la costruzione fu tramutata in abitazione per due guardiani ferrovieri (e probabilmente qui nacque Antonio Cantore, combaciando alcune vaghe notizie sui suoi genitori)  e poi infine realmente o demolita o lasciata a sé.

 

   Furono i Minolli a prestare il massimo dell’opera di trasloco: in particolare l’immagine della Vergine (che predispose il nome della nuova parrocchia, di NS delle Grazie)   ed il quadro di san Francesco da Paola  loro protettore.

L’apparato religioso venne tutto trasferito in una vicino, piccola chiesa di via DeMarini, costruita (ma meglio dire ristrutturata) con i proventi dell’esproprio; ed aperta al culto il 20 maggio 1849 nei pressi, un po' più a ponente e chiamata anch’essa santa Maria -e per l’ effige miracolosa- , delle Grazie, succursale della pieve di san Martino-Cella. Nominata parrocchia da mons Salvatore Magnasco il 16 giu.1884. Ma anche questa, inadeguata,  venne sconsacrata nel 1928 ed abbandonata quando fu inaugurata del 1929 la terza chiesa dedicata alla Madonna:   quella attuale, sempre vicino, però ancora più a ponente .

 

   La numerazione fu risistemata nel 1992, con assegnazione a nuove costruzioni, dei numeri dal 2 al 22 (1992) , del 60-62 (‘94) , del 61(‘96).

   Questo il tracciato, -da Largo Lanterna a via di  Francia, ed escluso ovviamente la rampa per l’autostrada-, è stato totalmente demolito, e da dopo il sottopasso, sostituito col Centro San Benigno. Questo, posto in posizione strategica nel crocevia di direttive ferroviaria, stradali, autostradale, aerea e portuale, è stato realizzato da un consorzio di privati, con varie società. In particolare vi si apre il grattacielo  del WTC, davanti al cui ingresso praticamente oggi  inizia la strada. Questo nome dato dall’impresa al centro, per la gente indaffarata e sempre di corsa e per questo disattenta ed indifferente, rischia nel dare nome alla zona, e di scalzare quello più antico e da mai dimenticare della Coscia.

===civ. 1: assegnato il 23 ott.21987 al  WORLD TRADE CENTER, la prima torre del complesso ‘san Benigno’ (per San Pier d’Arena è il terzo grattacielo) costruito da Recchi e la soc. SCI (Società Costruzioni Immobiliari; presidente Emanuele Romanengo, con 50% del capitale); progettato(un primo progetto fu presentato al sindaco ed autorità varie  nel 1980, ed era firmato dal giapponese di fama mondiale Minoru Yamasaki, similare al WTC di New York. Al suo posto succedette nella progettazione l’arch. Raul DeArmas (prevedeva l’edificio a strisce e con un tetto a cappuccio a pagliuzze dorate) della soc. SOM, Skidmore, Owings & Merril. Fu offerto uno stage -quale borsa di studio, con primi tre mesi alla Skidmore di New York- a due universitari italiani di architettura con alte valutazioni negli esami) infine dallo studio Gambacciani-Piero-Garibaldi-Cruzzi (gli stessi della Corte Lambruschini) e dalla Seicom; ha 24 piani da terra (sul Gazzettino è scritto 23 da terra+1 sotto; oppure 24 di cui 5 a parcheggio e 15 ad uffici),  per una altezza di 110 m. (il più alto in città), con posti auto sotterranei, elegante ristorante ed aula congressi al 19° piano. Il primo ‘colpo di ruspa’ per abbattere le strutture dell’oleificio, iniziarono nel 1984.

  La struttura divenne ospitante - nei suoi 800mila mc., dal dicembre 1987 - le più prestigiose società, come la ERG Petroli (fondata nel 1938, attualmente amministrata dal cav. Riccardo Garrone, occupa quattro piani ed alcune decine di dipendenti), l’Italia navigazione; la Nokia; la Domecq; riso Gallo e la Ericsson; la camera di commercio italo-iraniana; la Marconi (occupava un piano; abbandonò il grattacielo nel 02 causa ridimensionamento della propria struttura); la H3G (colosso della telefonia che occupa 5 piani avendovi il quartier generale del nordovest d’ Italia, con 6oo dipendenti); la Ansaldo Automazione (vecchio nome di una parte dell’Ansaldo, poi venduta all’americana  Robicom); la Motorizzazione civile (proveniente da c.so Sardegna, occupa dal 2001 il 13° piano- già della soc. costruttrice SCI- pagando d’affitto per i 1450 mq, la modica cifra di 300milioni l’anno); ed altre numerose nel settore merceologico, come la Blu Trading e la Accent nelle progettazioni microelettroniche (leader italiana nel campo).  

Il nome deriva da ‘World Trade Center Genoa, spa’: centro di elettronica e telematica integrata, che occupa il 5° piano, fondato dalla Camera di Commercio e mirata a favorire la nascita di nuove imprese; sovrintendente a tutte le principali funzioni del grattacielo: impianti energetici, climatizzatori, antincendio, ascensori, collegamento con tutte le banche dati cittadine , nazionali ed internazionali, nonché all’affitto ‘chiavi in mano’ alle imprese che cercano uffici già arredati e collegati con tutti i servizi. Questo centro nasce da una associazione formatasi a New Orleans nel 1968, con sede principale a Manhattan di New York e altre diffuse in tutto il mondo tra cui la nostra, -seconda in Italia dopo Milanofiori -locata ai primi  piani del nostro grattacielo;  il nome inglese  vuol essere anche simbolo di una città che -piaccia o no- cambia, e guarda al futuro. Di struttura metallica e cemento, ottagonale, facciate in granito con pannelli di vetro, copertura a cuspide di rame. L’ultimo piano, a terrazza, doveva divenire di uso pubblico panoramico.   Promosso come operazione immobiliare,  è in collegamento con la sopraelevata, metropolitana ferroviaria, (che alla sua altezza dal 2004 sta aprendo una stazione in via di Francia), autostrade, AMT.

Il Consorzio del porto, permutò parte del suo terreno  in cambio di una costruenda torre del CAP costruita in zona più ‘litoranea’.

Per la sua erezione, furono sfrattate 121 aziende che lavoravano nei lotti del progetto, per le quali fu obbligo ricercare sistemazione alternativa.

Anche la villa De Franchi, seppur monumento storico-artistico e teoricamente inalienabile, nella quasi totale indifferenza (un articoletto sul Gazzettino, a cose avvenute) fu demolita, con l’approvazione (lug.1983) del Comune. Gli abitanti dei caseggiati, alcuni furono soddisfatti in liquido, altri con l’assegnazione di una casa comunale (si narra di un anziano morto di ‘crepacuore’ e di una novantenne che dall’ospedale passò ad un istituto per vecchi; altri subirono per ‘poca umanità’ disagi non indifferenti: lasciati nelle vicinanze dei canteri tra polvere, chiasso e saltuari sgombri per pericolo di crollo, dovettero aspettare alcuni anni per una sistemazione onorevole).

   Causa infiltrazioni d’acqua e pericolo di implosione determinate dalla eccessiva rigidità delle strutture metalliche rispetto quelle in cemento (oscillazioni e sbalzi termici; portando il grado di dilatazione da pochi millimetri attuali a 12), nel  2003 fu programmata la sostituzione  delle 5mila finestre (pari ad una superficie di 10mila mq.) per una spesa prevista di 4milioni di euro tramite uso di pontili ad ascensore esterni verticali per evitare impalcature. Nel 2004 risulta essere il più complesso e costoso intervento del genere in Europa.

===civ.16  si segnala la presenza della soc. ‘Frisia Italimpianti spa’ con alto fatturato, è addetta alla dissalazione, bonifica e smaltimento di rifiuti, fumi, tossici. Occupa da 200 a 400 dipendenti

¶¶3)dalla ferrovia alla via Larga (via Palazzo della Fortezza), oggi via Dottesio (vedi).

 L’antica via prima del 1850, andava con dolce curvatura a virgola attraverso l’attuale via di Francia ed arrivava sino all’incrocio con la via Larga ed il palazzo della Fortezza. In quella data la ferrovia la tagliò perpendicolarmente passandole sopra con un viadotto che in tempi successivi fu raddoppiato, lasciando a monte la villa Pallavicino (vedi vico Cibeo); lo  ‘stradone di san Bartolomeo’;  le varie ville compresa la Negroni-Carpaneto e la Spinola;  le chiesuole di santa Maria della Vista e di sant’Antonino (distrutte); le Officine Meccaniche Navali di Salvatore Pittaluga del 1898 (distrutto);  due edifici abitativi (innalzati nel 1906 e -d’angolo- nel 1907, disegnati dall’arch. A.Petrozzani, di proprietà rispettivamente Zaccheo e Porcile (non so se ci sono ancora? ***);  fu eretta la chiesa di santa Maria delle Grazie (tutte descritte in via L.Dottesio).  Il torrente cambiò tracciato e fu interrato con via Cantore.

   Al civ. 26 (vedi numerazione quadro 142) vi nacque il 28 lug.1883 Vittorio Giuseppe Valletta (figlio di Federico impiegato delle FFSS e di Quadrio Teresita); trasferitosi a Torino nel 1910 in età universitaria, dovendo lavorare per mantenersi; solo nel 1919 si laureò in economia e commercio, dedicandosi dapprima all’insegnamento ed al risanamento di società fallimentari, divenendo poi  grande ed inimitabile imprenditrore-manager. Assunto alla Fiat nel 1921,  fece rapida carriera:  direttore generale, amministratore delegato, ed alla morte del senatore Giovanni Agnelli, presidente ed infine presidente onorario a vita. Fu l’artefice della ricostruzione post bellica dell’azienda e dell’espansione in Russia (uno stabilimento a Togliattigrad); si ritirò a vita privata ad 83 anni.   Morì il 10 ago.1967 a Marina di Pietrasanta. Il Comune lo insignì nel 1962 dell’ “ulivo d’oro”, riconoscimento annuale concesso ai liguri che rendono onore alla loro terra ed alla loro gente.

 

Alla fine, che dire. Povera antica strada; è stata snaturata dal progresso! perché anche se è stato conservato il nome per metà dell’antico tracciato, c’è un distacco enorme: troppa indifferenza e freddo, troppa fretta e  chiasso: manca ad essa la poesia, l’odore di mare e della fatica, i volti  sereni di animi più puliti, l’ amore per la propria terra.

 Vengono ricordate in epoca 1800esca anche l’esistenza di una ‘stazione di posta’; le stalle del ‘Baciara’; la locanda ‘Tre Corone’; lo stabilimento di oli minerali Reinach. Nel 1921 l’impresa trasporti Bagnasco Emanuele; lo stabilimento lavorazione latta di Casanova Giacomo; le costruzioni navali Piaggio Alessandro; fabbrica conserve Sanguineti Lodovico;  la gestione legnami della soc.an. Gio Ansaldo; la soc.an. DeAndreis di lavorazione latta. Questa. Attività fu iniziata da Gottardo e seguita dal figlio Menotti –che recatosi a lungo in Inghilterra- introdusse per primo la stampa litografica su metallo: vinse così un concorso internazionale proposto dall’azienda Martell per il proprio cognac, il cui cartello fu proposto in tutto il mondo.

Nel settembre 2004 si annuncia l’approvazione alla costruzione sull’area demolita dell’ulytimo grattacielo mancante alla zona oggi chiamata “san Benigno”. L’81enne arch. Piero Gambacciani  ha progettato un edificio alto 103m a tetto, per 24 piani; due piani sotto terra; fuori, uno zoccolo formato da un corpo unico da cui si innalzerà il grattacielo a forma triangolare; nella parte sono collocati i servizi. Servirà al Comune per parcheggi; area custodia veicoli rimossi, mezzi dei VV.FF.; uffici per servizi comunali vari;

 

DEDICATA all’antica FAMIGLIA (scritta in vari modi: inizialmente ‘di Marino, poi De Marini, Demarini, de’ Marini) che appare  presente in Genova negli anni attorno al mille, e già allora molto ricca -possedendo case, ville e beni sparsi nel territorio-. Cappellini scrive che l’origine è germanica, con prime notizie del 1039. Bedocchi – riportando la genealogia descritta dalla Scorza- la pone come ipotesi: che «secondo antichi genealogisti, discendevano da Ido Visconti attraverso Guglielmo e il figlio Baldo che generò Marino detto Della Porta: questi fu più volte console nel Comune di Genova tra il 1130 e il 1148. Pare che i De Marini ricoprissero generalmente la carica di consoli dei Placiti, cioè addetti all’amministrazione della giustizia nella civitas e nel burgus».

   Nei primi anni del XV secolo, in particolare nel 1414, appare scritto nel ‘cartulario possessionum’ del Banco di san Giorgio, che –schierati con i guelfi- per sopravvivere nelle fierissime inimicizie private, alcune famiglie si unirono lasciando il proprio cognome per assumere quello dei più forti, e  per formare  così l’Albergo De’Marini furono: Castagna, Ganduccio, Pessagno, Triadano, Vegio (esse seppur derivate da antiche e celebri famiglie consolari, erano però piccole e deboli; abbandonarono il proprio stemma per aggregarsi in una più forte casata adottandone lo stemma costituito da tre cingoli trasversali). Di queste nessuna riprese il suo nome primitivo. L’ ‘albergo’ in quella data possedeva in S.Petro Arene ben quattro palazzi, quattro case e quattro casette; a Genova aveva il giuspatronato della chiesa di san Domenico.     

   Dal 1528, furono posti da Andrea Doria a capo dell’8° albergo, delle 28 casate principali, detto “Albergo dei nobili” istituiti nella neocostituita Repubblica aristocratica formata dalle famiglie Bozzoli; Carrega Benedetto (gli altri entrarono nei Sauli); Lavagna; DiEgra (da poco venuti dalla Germania); Ferrecchi; Gallo; Giamboni; DeMarchi; Malocelli; Montano; Paggi; Pansano; Pellerano; Raffo; Cassana; Rivarola; un ramo dei Torre. Dopo il Garibotto, e poi ancora con la ‘riforma di Casale’ del 1576,  gli ‘alberghi’istituzionali’ vennero aboliti, cosicché tutte le prerogative  -cognome, stemma, rendite- dal Senato furono cooptate in una persona  che fu iscritta nel ‘libro d’oro della nobiltà genovese’).

   A Genova l’abitazione principale della famiglia, catalogata come ‘seatieri, legati agi Usodimare’, aveva sede –dapprima in zona s.Lorenzo- poi, dopo le prime decadi del 1500, e dopo aver demolito casa e torre di un certo Bertoldo di s.Salvatore,  nel palazzo sito nell’omonima piazza vicino a san Pietro in Banchi, zona Molo  (piazza che popolarmente venne chiamata pure “marmorea” perché vicina a depositi della pietra pregiata, sbarcata in porto).

   Il Dizionario biografico conferma che la casa era nella parte bassa della contrada san Lorenzo, ai confini col  mercato di Banchi.

   Ebbe  in tempi successivi tanti  componenti, tutti  estremamente versatili e capaci  di coltivare contemporanei interessi economici, politici, diplomatici; e molti con voce decisiva nell’amministrare la città.

La Scorza riassume i titoli, descrivendo che nel 1236, erano conti di Gavi; anno 1400, Paolo di Ambrogio era arcivescovo di Genova; 1414, erano Albergo; 1528, erano l’8° Albergo; 1616, Domenico, arciv. Di Genova; 1641, Gio.Agostino di Gerolamo era doge; 1715, Carlo di Gioffredo cardinale. Aggiunge che l’arma era “d’argento a tre bande ondate nebulose di nero”

 

L’Alizeri e don Brizzolara presuppongono  che  la strada sia stata dedicata -quale “onesto tributo di gratitudine” – a:

===De Marini Carlo cardinale, munifico signore che «beneficò questo popolo, di parecchi legati, e che istituì discipline munifiche...».

 Il Dizionario ecclesiastico del Ceccaroni-Milano- scrive che  era stato un nobile  genovese, alla corte di Roma con papa Clemente XI da cui fu creato cardinale nel 1715 di santa Maria in Aquirio; e che resse anche le Legazioni di Ravenna ed Urbino; passato a miglior vita nel 1747. Anche il Novella cita ‘il cardinale Carlo DEMARINI quale fondatore di una pia opera per dotazione di fanciulle povere’ . Ma nel Dizionario biografico ligure su citato, non appare questo Carlo. Anche DeLandolina/1922 suggerisce la dedica a Carlo (forse copiandola dall’Alizeri considerate quasi uguali alcune frasi): «Cardinale di S.M. in Acquiro (sic, ma non esiste nelle enciclopedie), il quale beneficiò Sampierdarena di molti legati e istituì discipline proficue nel suo palazzo stesso che ancor’oggi sorge sul poggio di Montegalletto».  

   Più volte, al paragrafo VIII, XI e XIII del testamento del Cardinale, si fa riferimento ad un suo ‘palazzo’ senza precisare dove era: considerato che la collina di Montegalletto a SPd’A era posta a ponente del rio del Fossato, si può presumere che sia stato quello abitato dalle suore e poi distrutto (vedi via M.Vinzoni) oppure quello dei Francavilla prima che divenisse Piccardo.   Don Brizzolara precisa che essendo il Cardinale anche Abate di Promontorio, dal suo palazzo  «situato in cima a Monte Galletto prospettava l’abbazia del Fossato e tutta la spiaggia di San Pier d’Arena. Anche nei nostri giorni (1916) sull’architrave della porta d’un locale interno di detto palazzo-ospedale si legge questa iscrizione: «Jam non estis hospites et advenae; sed estis cives sanctorum et domestici Dei: superaedificati super fundamentum Apostolorum ed Prophetarum, ipso Summo Angulari lapide Christo Iesu. Eph.II v. 19,20». Questo prezioso documento fu abbattuto dai ‘discoli’ nell’estate 1916. Ai nostri giorni i sovversivi di San Pier d’Arena, a pochi metri di distanza dal palazzo-ospedale, indicato dal testamento del card. DeMarini vollero impiantare il vasto nuovo ospedale, dal quale vorrebbero che fosse estraneo lo spirito della Chiesa cattolica».

   Un altro ‘Memoramdum’ manoscritto dell’abate di Promontorio don Giovanni Brizzolara fu GB., copiato da eguale conservato nell’archivio parrocchiale della Cella, e con riferimento bibliografico di p.GB.Semeria (vol.1 intitolato ‘nei secoli cristiani della Liguria’), precisa che Carlo – patrizio genovese e Commendatario di s.Bartolomeo del Fossato di Promontorio (quando l’abbazia aveva tutte e copiose rendite da vasti possedimenti, anche  in Basaluzzo e Pastorana (AL) e nel Banco di san Giorgio (che pagava il curato vicario fisso)) -, morì nel 1747 a 80 anni dopo 32 anni di cardinalato. Nel testamento nominò papa Benedetto XIV  erede fiduciario di centomila scudi; Egli con fedeltà fece eseguire le volontà dell’estinto che comprendevano l’istituzione di 15 pie fondazioni da soddisfare con 15mila scudi, parte in Genova - amministrati dal Magistrato di Misericordia (istituito nel XVI secolo dall’avo Pileo, arcivescovo di Genova. Della cifra avuta, duemila lire annuali sono consegnate alla Congregazione di Carità che li eroga ai poveri del Comune di San Pier d’Arena) - parte in Roma. Le spoglie mortali del cardinale giacciono nella chiesa della ss. Nunziata. “Per 47 anni (1700-1747) fu abbate Commendatario di san Bartolomeo del Fossato di Promontorio; nel giorno avanti la sua morte, che avvenne il 15 gennaio 1747, fece suo testamento da lui chiamato: ‘memoria da farsi presente a sua Santità Benedetto XIV di quello che io ho desiderato testare’: in detto testamento il De Marini nomina il detto Pontefice suo erede fiduciario, con tutte le più ampie facoltà. Il Sommo Pontefice nel giorno 4 di febbraio del medesimo anno delegò Monsignor D’Angennillieres a raccogliere l’eredità, pagare i debitori, ecc.. Quindi il giorno 14 luglio 1749 con suo chirografo molto onorifico per l’arcivescovo di Genova (mons.Giuseppe Maria Saporiti 1746-1767) e per Magistrato di Misericordia, determinò quali, delle quindici fondazioni ordinate dal suddetto Cardinale in Genova e nel suo Dominio, dovessero eseguirsi, eguali essere riformate , ed eccone la distinzione:

 I. Premio di lire 50 ogni mese al giovane o alla giovane, che daranno prova di essere meglio istruiti nella Dottrina cristiana in San Pier d’Arena...         ...                           ...                  totale      £.   600

II. Cappellania per l’anima della q. Teodora Gentile ....                   ....                                          332

III. Altra cappellania perpetua ...                 ....               ...                    ...                                       332 

IV. Esercizi spirituali ogni anno nella Chiesa della Cella  ...                           ...                            150

V. Distribuzione denaro a poveri di s.P.d’A. il giorno anniversario della morte del Card.            600

VI. A detti poveri, Pagnotte N.50 ogni giorno      ...             ...           ...                                  ..    1800

VII. Aiuto di costo di Medico in S.P.d’Arena  per la cura dei poveri, annuale       ...                     600

Indirettamente conferma Tuvo quando segnala che nel 1765, nel Castello, fu nominato per la durata di tre anni medico per San Pier d’Arena, Antonio Capponi: “il medesimo si obbliga di servire tutti quelli della detta Comunità, da quali sarà chiamato senza poterne pretendere pagamento alcuno disponendo delle seicento lire lasciate dall’ecc.mo cardinale De Marini al medico attraverso il Magistrato della Misericordia”.

VIII. Per tre crociferi, due sacerdoti e un laico, che abiteranno nel palazzo del cardinale in S.Pier d’Arena affinchè assistano agli infermi ed ai moribondi  ...    ...  ...       ...                                    1500

IX. Messa perpetua ai RR.PP. della Cella, quando sussista che il testatore ne abbia debito ...                    ...                    ...                     ...                 ...                                       ....                                         240

X. Altra cappellania in Novi, quando così si debba ...         ...                                       ...               240

XI. Tre mute di esercizi in San Pier d’Arena in detto palazzo per otto persone persone  di ogni muta, a Paoli 7½ sottosopra per ogni persona compresi i servienti ed il Direttore  (sic)               1280

XII. Per tre Missioni con tre sacerdoti, che dovranno farle ovunque si sia ...              ...                 900

XIII . Premio da darsi a quel Prete che nell’esame da farsi ogni anno da PP.Gesuiti nel detto Palazzo in Teologia morale sarà trovato migliore tra i concorrenti in quell’anno       ...                 900

XIV . Per un computista                ...                    ...                                  ...                                    400

XV. Per un Direttore delle suddette opere pie, che dovrà nell’indicato Palazzo del Cardinale    600   

Tutti ricevuti direttamente dal Magistrato di Misericordia.

                                                                                                                            totale                10,174

    Il Papa apportò queste modifiche:  all’I = alternativa un mese ai maschi ed uno alle femmine secondo regolamento determinato dal Magistrato di Misericordia; al II e III = l’Arcivescovo è incaricato di nominare i cappellani; al IV, V, VI = decide il Magistrato e non altrimenti; VIII contrario alle Costituzioni pontificie per lo scarso numero dei Religiosi: dovrà l’Arcivescovo deputare 2 sacerdoti per 400 lire annue cadauno; al IX =ridotta a metà, e da eseguirsi conforme alla prima osservanza della sua fondazione; X = annullata; all’ XI e XII  =  annullati. Il capitale consegnato all’Arcivescovo per risanare le Chiese danneggiate dalla guerra del 1747;  al XIII = annullato. Da darsi a quel sacerdote che insegni Teologia morale nel seminario di Genova;  al XIV e XV = commutati. Giudice il Magistrato per sopperire le spese che potessero occorrere per difendere i capitali, con che l’avanzo sia dovuto ai poveri. Totale £. 5934

      Don Brizzolara scrive : I capitoli di questa dispensa erano scritti anche in Francia, Vienna, sanGiorgio e Londra. Ma dopo la rivoluzione francese la proprietà divenne ‘poco florida non superando le 3700 lire.  Per questo nel 1811 fu fatta un’altra deduzione di tutte le somme dovute, giudicando quali le più importanti: la I = ridotta a £.150 che ritira il parroco della Cella; II e III = invariati; IV= in favore dei Missionari; V e VI = invariati ma si eseguono colla distribuzione delle cartoline; VII = non eseguito benché confermato da papa Benedetto XIV; VIII = ridotto a £.200 che ritira il Parroco della Cella; IX confermato ma solo £.120;  da X a XV annullati. Totale £.3684

   Fino al primo di Luglio 1891 i legati pii del cardinale Carlo De Marini in San Pier d’arena erano percepiti dall’arciprete di san Martino e santa Maria della Cella ed erano i seguenti:

1. Legato di 50 Messe annue    con la limosina complessiva di lire 91 e cent.36 nette da riscuotersi presso il Magistrato di Misericordia in due semestri con fede in carta bollata da cent. 60.

2. Legato di £.105 e 50 annue nette, in due rate pei fanciulli della dottrina cristiana, che sono insaccati ed estratti 4 per ogni domenica -£.0,40 a ciascuno dei presenti

3. Legato per le fanciulle della Dottrina cristiana, insacate che si estraggono ogni anno in novembre e ricevono dal Magistrato lire 18 circa ciascuna: se ne ammettono 16.

4. Legato per gli infermi, che giova a compire l’onorario del del Prete sacristano, ed è di lire 154 annue nette in 2 semestri –dal magistrato- dello Sacrista era l’ora fu D.Nicolò Daste riceveva ogni semestre £. 77,12.

    Quella speciale di beneficenza, dopo una ventina d’anni fu passata alla Congregazione di Carità, con conseguenti lagnanze circa la fedele distribuzione dei sussidi

Negli ani 1891 – 1892 – l’ arciprete di san Pier d’Arena riscosse ancora in ciascun anno £. 445,68 per 25 Messe - £.52,75 per la Dottrina cristiana e per gli infermi £.77,12.  Il Rev.mo Arciprete di San Pier d’Arena in data 4 genajo 1892 notava nel registro del suo archivio quanto appresso.

«Il legato della Dottrina cristiana per i maschi e la dote per le figlie della Dottrina cristiana, essendo che oramai non corrisponde più al fine inteso dal testatore, è a desiderarsi sia dall’autorità competente rivolto ad altro buon fine. Urgerebbe aver da pagare più tosto alcuni catechisti, ora che dalla maggioranza bastardamente cattolica non si sanno più i Misteri principali. Lo stesso Rev.mo  Arciprete nella stessa data notava pure: il Legato De Marini pei poveri dal Magistrato di Misericordia viene pagato (non conosco la cagione di ciò) alla Municipale ‘Congregazione di carità. Si capisce: è una congregazione laicale. Se è vero che furono eletti finora, generalmente parlando, onesti amministratori, non cessa il pericolo che possa diventare, e forse presto, cosa tutta massonica. Il legato è ridotto a lire 2008 alla quale somma van sottratte le tasse !!!»

 

===Controversa l’attribuzione della nascita della famiglia: per alcuni genealogisti (Scorza e Belgrano), capostipite apparirebbe

===Marino di Baldo  q.Guglielmo degli Alinerii, detto Marino della Porta di origine viscontile   (del ramo derivato da Oberto di Manesseno); fu console del comune di Genova negli anni 1130, 1141, 1146, 1148.

    Per altri (Giustiniani, Dellacella), capostipite fu Ogerio De Marini, console nel 1130 che ebbe tre figli, Lamberto (che fu nominato principe di Peveglio , consigliere del Comune nel 1146 e partecipe del pedaggio di Voltaggio nel 1149); Guglielmo (che  appare qualche volta come firmatario di importanti trattative come quella di tregua -ripetutamente violata- tra i cittadini genovesi mentre la Repubblica era minacciata dall’esterno, specie da Pisa); e terzo più importante fu Beltrame, il primo di cui con sicurezza si hanno notizie di comando e valore: divenne console, in particolare del ‘Placiti’ ovvero gli addetti all’amministrazione della giustizia per le varie compagnie genovesi, cittadine              (Castello, Piazzalonga, Maccagnana, san Lorenzo) e burgensi (Porta, Soziglia, Porta Nuova, Borgo). Appare anche firmatario di molti giuramenti come console della repubblica: uno nel 1146 nella promessa al conte di Barcellona -dopo l’impresa di Almeria- di intervenire all’assedio di Tortosa (la convenzione prevedeva che le conquiste, la città ed i castelli, sarebbero state divise in tre parte di cui, due al conte ed una al comune di Genova; nell’accordo, anche la chiesa avrebbe beneficiato a parte); l’altro ne1 1157 assieme ai fratelli ed altri 298 cittadini quando sottoscrissero un trattato con Guglielmo I re di Sicilia obbligandosi di non allearsi con l’imperatore di Costantinopoli,  in guerra con il re; un terzo, col fratello Guglielmo,  appaiono firmatari il 30 agosto 1157 di un’altra convenzione con il conte di Ventimiglia Guido Guerra, disposto a  donare al Comune di Genova i suoi domini di Roccabruna, Gobbio, Poggiopino e Penna.  Fece parte anche di una ambasceria presso Federico Barbarossa nel 1162, per stabilire come prestare aiuto all’imperatore e ricevere in cambio privilegi vari come il possesso della città di Siracusa; fu presente al giuramento fatto all’arcivescovo di Genova dal marchese Opizzo Malaspina e da suo fratello Moruello, di fedeltà e di obbligo a mantenere libere e sicure le strade di accesso alla città e, in caso di guerra, armare a proprie spese 15 cavalieri e 300 arcieri; ultimo, nello stesso anno, fu firmatario di accettazione di una sentenza arbitrale, sulle indennità ai marchesi Malaspina e sulle controversie per il castello di Monleone. Anche un figlio di Beltrame fu console per tre volte con partecipazione ad alleanze, protezioni, e giuramenti vari. Mentre  ===Pasquale, forse figlio di Beltrame (altri dicono fratello), divenne nove volte Console, nel terribile periodo delle lotte con Pisa ed alleanze con Lucca .

===Montano, grande navigatore del 1200 (mercante di mervci di valore), un po’ pirata contro i pisani ed i veneziani, un po’ politico nelle lotte cittadine. Parteggiando per i guelfi  e,  sconfitto, fu espulso; catturato dai veneziani riuscì a capovolgere la sua posizione facendosi nominare podestà di Padova. Morì in Turchia, nelle colonie genovesi ove era stato inviato dal nostro Senato.

=== Marino, (sono più d‘uno gli omonimi menzionati in quell’epoca dai documenti genovesi); viene ricordato in particolare un Marino o Marietto come valoroso combattente nel 1240 comandante una squadra di 10 galee nell’epica lotta contro Federico II di Svevia nell’assedio del castello della Pietra (Ligure); annalista (nel 1256), ma soprattutto giureconsulto, testimone ambasciatore di innumerevoli trattative in Italia specie con Venezia (che accusava enova di pirateria) e Vaticano; poi ‘clavigero’ assieme ad altri sette nobili come consigliere del podestà (allora, il bolognese Rambertino Buvalello);  nel 1283 assistette al ritrovamento delle reliquie dei corpi di san Siro e san Felice vescovi di Genova; capace di accumulare un cospicuo patrimonio che investì nel commercio e nell’acquisto di beni immobili in città; morì nel 1293

   Nel 1236 figurano essere titolati ‘ conti di Gavi’.

===Le prime notizie di un Ambrogio risalgono al 1370 quando esercitava attività commerciali nel Mediterraneo (vino), nel mare del Nord (grano) ed in Oriente (zenzero); bancherius, civis et mercator Ianuæ divenne poi ambasciatore della Repubblica in Portogallo; ed infine governatore della Corsica in tempi difficili e sediziosi, ove morì nel 1403.

===Suo figlio Pileo (nato da Violante Fieschi;  Semeria scrive ‘nato intorno all’anno 1370’). 

Il 30 nov.1400, appena  trentenne, (altra fonte dice ventitreenne; altra dice 1 dicembre) divenne arcivescovo di Genova previa dispensa del papa Bonifacio IX (altre fonti dicono erroneamente Bonifacio VIII). Fu persona scomoda, quasi mai silenziosa e discreta, scarsamente arrendevole sia al potere politico che religioso, eppure meritevole di alti ed esaltanti elogi, specie per la coordinazione delle opere pie, per l’istituzione del magistrato di Misericordia, e per il restauro della sede arcivescovile. Fu però coinvolto negli intricatissimi rapporti sia di potere (volubile era  la politica locale, costantemente in lotta sanguinosa tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini) sia religiosi tra la sede romana e quella avignonese inizialmente dichiarando obbedienza a quest’ultima (presumibilmente perché sottoposto a pressioni –specie da parte del canonico di san Lorenzo Giovanni da Godigliasco suo protetto- e fors’anche  minacce visto la pressione che la Francia esercitava su una Genova dominata. Lo scisma sconvolse tutta la vita religiosa locale, dal 1404 fino al 1417 quando col concilio di Costanza venne deposto l’antipapa francese Benedetto XIII (al secolo Jean Le Meingre detto Boucicaut, o Pietro di Luna, dichiarandolo spergiuro, eretico, scismatico). Benedetto XIII era venuto a Genova il 12 mag.1405, proprio per incontrare il DeMarini). Pileo fu ovviamente destituito dal papa romano, ma schierandosi poi apertamente col neoeletto terzo papa –fedele a Roma- Alessandro V nel concilio di Pisa (1409), fu evidentemente perdonato e reintegrato. Infatti partecipò nel 1414-17 al concilio di Costanza, tenuto per ricomporre lo scisma, a cui fu messa la parola fine, quando unanimemente nel nov.1417 fu eletto a capo della chiesa universale Martino V).

Se pur approfondendo gli studi classici, favorì -in quegli anni di trapasso tra il ‘300 e ‘400- la penetrazione nell’ambiente culturale genovese dei nuovi ideali umanistici; diede vita al Magistrato della Misericordia per opere di carità e pietà (nelle assemblee aveva diritto a due voti: l’incarico era di ‘invigilare’ le pie dispense annuali affinché fossero ‘fedelmente e con buon ordine distribuite à poveri dell’uno e dell’altro sesso per loro sovvenimento’), nonché fu promotore dell’ospedale di Pammatone (o di santa Maria de Misericordia, voluto da Bartolomeo Bosco nell’anno 1420). Entrato in contrasto col duca di Milano Filippo Maria Visconti, lente e corrosive furono le divergenze col potere politico locale e religioso centrale, al punto che nel 1426 fu allontanato dalla cattedra e portato forzatamente a Milano. Tornato verso Genova, a Voltri si mescolò ai ribelli senza poter entrare in città. Dopo allora il papa Martino V nel 1429 nominò al suo posto un altro arcivescovo spiegando la successione ‘per obitum’, senza precisazione di dove, quando, perché (Semeria lo fa morire in città, nel 1436).

===Giovanni Battista, rinunciatario del cognome antico di  Castagnola, nato a Chio nel 1540, nominato grande elemosiniere del papa). La famiglia si estese anche fuori della Repubblica: vengono ricordati dei De Marini a Milano, Torino, Napoli, Venezia.

===Tomaso (1499 (Bedocchi scrive 1475)-1572) fu il figlio di Luchino (valente banchiere, col fratello Giovanni arricchiti a Milano nei lunghi anni di pace sforzesca), e ne curò e continuò i lucrosi interessi (il suo fastoso palazzo è oggi sede del Comune). Discendente dei Castagna, la più antica casata tra tutte quelle che si riunirono nei De Marini, seppe abilmente spremere denaro ai contribuenti (e con il commercio del sale) che travasava nelle casse assetate del duca, del papa, del governatore, ed investendo gli ampi guadagni in proprietà sparse in tutta la Lombardia (compreso un marchesato, di Casalmaggiore, 1544), nel genovesato ed a Roma. Riuscì a malapena a districarsi nell’aver partecipato alla congiura di Gian Luigi Fieschi contro Andrea Doria del 1547; ma pochi anni dopo, recidivo, fu bandito –1551-2- da Genova obbligandolo a Milano. Fu graziato nel 1555  e dal Senato fu coinvolto nella difesa della Corsica invasa dai francesi. Ma era a Milano il suo vorticoso giro di soldi, che lo portavano ad interessarsi di tutto ciò che poteva produrre grossi affari , dai quali dipendevano per il governo le paghe dei soldati mercenari, costruzioni di cinte murarie, le grosse imprese pubbliche: era genericamente considerato un approfittatore senza scrupoli, abile nello sfruttare i tempi e l’economia anche quella neonata con il nuovo mondo, protetto dai ‘bravi’.  Nel 1588 diede via ai lavori diretti da Galeazzo Alessi, per l’erezione di un suo palazzo in Milano, che doveva essere ‘il più bello della cristianità et costargli un pozzo d’oro’. Ma un po’ l’età, un pò le tragiche vicende familiari (ambedue i figli omicidi, uno di un servo e l’altro della moglie nobildonna spagnola), un po’ la congestione ed il disordine nell’intricato groviglio delle sue innumerevoli contabilità, la sua morte e quella dell’Alessi, determinarono che il palazzo non fu interamente completato e, nel 1577 confiscato (ma nel 1615 a conti ultimati, ne venne fuori che i crediti superavano di gran lunga i debiti).

===Leonardo  fu grande teologo dell’ordine dei Predicatori, fu nominato vescovo di Laodicea nel 1550; attivo partecipe al concilio di Trento (1562) ed inviato più volte quale nunzio apostolico alle corti europee specie di Spagna e Portogallo; è noto per aver preso parte –assieme a Muzio Cabino, arciv. Di Zara- alla compilazione del Catechismo Romano e nel confutare gli errori della dottrina di Lutero. Morì a Roma nel 1575.

===Giovanni Agostino 1572-1642; per poco meno di un anno (in cui raccolse fondi per un pubblico contributo del riarmo navale: riuscì a allestirne venti; ed ordino che tutti, nobili e popolani, si salutassero sollevando il cappello), doge dal 1641 interrotto per decesso. Nel 1616 era stato incarcerato nella torre del Palazzo Ducale, per aver prso le difese del fratello Domenico, arcivescovo, che voleva essere seguito da scorta armata anche durante le funzioni religiose. Suo figlio Francesco divenne gesuita e letterato (scrittore di commedie, recitate dai nobili)

===Un GB (1597-1669) divenne maestro generale dell’ordine dei Domenicani; ===mentre Giovanni Filippo (1608-1682) fu un gesuita missionario e scrittore che morì a Macao in Cina dopo essere stato molto tempo nel Tonchino (nord Vietnam).

===Nacque illegittimo a Venezia Giovanni Ambrogio nel 1596 (in alcuni testi è citato con il cognome senza il ‘de’): divenne sacerdote e letterato (il più noto e celebrato romanziere genovese del seicento essendo le sue opere oggetto di numerose ristampe; frequentatore a Genova dell’Accademia degli Addormentati di Anton Giulio Brignole Sale e “de’ Disperati”; numerose le opere letterarie e scientifiche a lui dedicate da vari autori). Fu sepolto in san Lorenzo.

===Nato a Genova (1540-1604) Giovanni Antonio, attivo uomo d’affari, proprietario di trireme, usato dalla Repubblica come ambasciatore: nel 1602 fu inviato a Valladolid per ottenere copia del testamento di Cristoforo Colombo conservato a Madrid da Scipione Casanova; ma là, raggiunto da malattia, vi morì. Nel testamento, lasciò una casa in San Pier d’Arena a suo fratello.

     Nel 1600 acquisì importanza il patrizio Claudio, nato in Francia nel 1574 circa e che fu promotore della ‘congiura dei De Marini’. Filofrancese per motivi natali, in una città filospagnola per convenienza , essendo di personalità complessa e turbolenta  e di carattere rissoso e violento, gli costò in varie tappe processi, perquisizioni della casa, arresto ed esilio. Finché nel 1610 poté risiedere a Genova (non come ambasciatore ma solo come ciambellano e consigliere di stato di Luigi XIII, perché la Repubblica ammetteva rapporti solo con l’ambasciatore spagnolo); in tale veste fece rappresentante politico della Francia nelle guerre dapprima contro, poi a favore dei Savoia fino a divenire ambasciatore francese a Torino e consigliere dei Savoia nel ricercare ‘lo sbocco al mare del regno sabaudo’ attaccando Genova: forti dell’appoggio francese, il re Carlo Emanuele I con un esercito piemontese di 14mila fanti e 2500 cavalieri, guidati dal connestabile di Lesdiguières e dal maresciallo DeCréqui, nel 1625 attaccò le mura; ma in soccorso arrivarono  70 galee spagnole che costrinsero i piemontesi a rientrare dei loro territori. Fallito l’atto di forza, il re tentò di impadronirsi della città con l’inganno pagando un parente De Marini Vincenzo che lavorava come direttore generale nell’ufficio postale della repubblica, affinché aprisse la corrispondenza e rivelasse i contenuti; l’infedele fu scoperto, arrestato, sottoposto a tortura  e decapitato nella torre del palazzo Ducale ed in più depennato con gli eredi dal Libro d’Oro della nobiltà; anche Claudio fu processato in contumacia e confiscato dei beni: la casa in piazza Salvago rasa al suolo (al suo posto sorgerà la chiesa di san Bernardo; altrettanto dura sarà la risposta del re di Francia contro Genova poiché  mise al bando i genovesi in Francia e ne sequestrò i beni). Morì a Torino nel 1629.

===Contemporanei a Claudio, due patrizi omonimi Domenico; uno studioso e scrittore di scienze, di teologia  e filosofia. Divenuto vicario generale dell’ordine dei domenicani, fu consacrato nel 1648 arcivescovo di Avignone.

L’altro Domenico anche lui avviato alla vita ecclesiastica perché secondogenito, arrivò ad essere vescovo di Albenga nel 1611, governatore di Perugia nel 1612 ed arcivescovo di Genova nel  1616-35: fu partecipe di un grave attrito diplomatico tra la Repubblica e lo Stato Pontificio quando quest’ultimo aveva chiesto -tramite l’arcivescovo- l’arresto in città del prete secolare Antonio Montenegro, nobile cittadino genovese dimorante a Napoli, reo di aver pubblicato libelli antipapali: il senato genovese accondiscese purché si procedesse solo all’arresto e non alla pena capitale prevista nel caso; ma appena il sacerdote fu trasferito a Roma, fu decapitato nel Castel sant’Angelo.  Fu questo arcivescovo che ricevette in grande solennità la reliquia di san Bernardo abate in Chiaravalle che nel 1625 era stato eletto a patrono della città per decreto votivo legato alla guerra con i Savoia dello stesso anno (una vertebra,  distratta dalla teca conservata dai frati del santuario di Chiaravalle e consegnata al console genovese marchese Agostino Centurione).  Morì a 72 anni; e fu tumulato in san Lorenzo  nel febbraio 1635.

===Di DeMarinis Giorgio, è testimonianza una lapide murata nel corridoio alla sacrestia della Cella, ove si legge pure lo stemma della famiglia; il nobile -nell’anno 1619- per sé e per la moglie Nicoletta Grimaldi, ordina delle messe all’altare di san Francesco da fare in perpetuo.

===Un altro Marino, nato illegittimo a Venezia da ignota nobildonna locale durante una missione diplomatica del padre in quella città; poi riconosciuto legittimo ed ascritto al patriziato genovese. Troppo spesso fuori città per fuggire i creditori, è famoso perché nel 1634  inventò una nuova bombarda  (interessante e di attualità in un periodo assai inquieto -era ancora recente l’assalto dei piemontesi del 1625- , più leggera -quindi facilmente trasferibile sulle mura e laddove occorresse-, ed anche meno costosa: prevedeva minimo impiego di metallo limitato alla bocca da fuoco, alla parte interna della canna, ed alcuni anelli intervallati, il tutto circondato da corda impeciata e doghe di legno coperte di cuoio, con rivestimento esterno di carta pecora dipinta a finto bronzo; regalata l’invenzione al Senato della Repubblica, ebbe in cambio il brevetto ed una catena d’oro del valore di 1200 lire; l’efficacia bellica però risultò deludente, e l’arma non fu riprodotta).

===Gian Agostino, (il Gazzettino dice Gian Domenico, figlio di Gerolamo) doge nel 1641, ricevette dall’imperatore l’ambito titolo di ”serenissimo”, titolo che rimase poi sempre ai dogi genovesi; durò in carica solo un anno e di lui si ricorda soprattutto aver dettato obbligo a tutti di salutarsi levandosi il cappello (cosa che era obbligata solo al ceto inferiore di fronte a quello superiore;  con non poche dispute, specie tra i cittadini più arroganti o superbi)

===De Marini Francesco, nato a Genova nel 1630, battezzato in san Pietro in Banchi, seguì la vocazione sacerdotale con una rapidissima ascesa tanto che a 25 anni era già vescovo di Albenga. Di carattere zelante ma focoso e puntiglioso, assai poco diplomatico; in attrito con tutti , spesso con alterata e scomposta reazione sia contro gli amministratori della città, sia i suoi stessi sacerdoti anelanti maggiore autonomia; arrivò a interdire il culto della messa in cattedrale perché contrastato nella scelta di un predicatore (con una breve pontificia fu obbligato a ripristinare l’officio), e lo stesso fece a Pietra Ligure nel 1658 quando arrivò anche ad alzare le mani addosso  e poi scomunicare  un frate superiore cappuccino con cui era venuto a diverbio (fu richiamato a Roma per un anno ove dovette giustificare il suo operato; e nel 1660 il tribunale ecclesiastico gli diede torto negandogli anche lo ‘ius visitandi’ per Pietra Ligure). Trasferito a Molfetta, preferì ritirarsi a Roma ove seguì la carriera ecclesiastica fino a divenire arcivescovo di Theodosia nel 1676. Forse è di lui che cita il notaio GB Badaracco, parlando dell’arciprete Gio.Vittorio Angeletti, figlio di Angelo da Vezzano, “familiare dell’arcivescovo De Marini: il 23 sett.1647 riscuote la decima dei pesci dai pescatori di Sampierdarena”.

===Paolo Battista Gerolamo Maria, fu ambasciatore in Francia quando Luigi XIV approfittando della debolezza della Repubblica non più protetta dagli spagnoli, espresse richieste provocatorie e lesive alla sovranità genovese; grande errore del DeMarini fu il non aver capito la gravità degli eventi ed i preparativi di una flotta a Tolone ed a Marsiglia (ma anche a Genova non si erano accorti degli innumerevoli pittori, turisti, commercianti, studenti francesi che con le più disparate scuse spiarono ogni difesa, punto debole delle fortificazioni, i traffici del porto e quant’altro potesse offrire vantaggio militare in caso di offesa da terra o dal mare): il re ordinò una azione punitiva rinchiudendo il De Marini nella Bastiglia; facendo bombardare la città dal 15 al 20 maggio 1684 sparando su essa ben 13mila colpi; e concludendo il tutto con l’umiliante condizione di una possibile trattativa solo se il Doge si fosse recato umilmente a Versailles: il De Marini, liberato (aveva dimostrato nel carcere la fierezza dei genovesi, mai umiliandosi ed anzi –seppur censito nei messaggi alla Repubblica- generoso invitando il doge di ‘non prendersi alcuna pena per lui perché contento di soffrire se necessario per aver ben operato per la patria’),  ottenne che la delegazione fosse considerata una ambasciata di puro ossequio e ricevesse gli onori riconosciuti ad una grande potenza; così il doge Gian Francesco Maria Imperiale Lercari, con quattro senatori (Giannettino Garibaldo, Agostino Lomellino, Paride Salvago, Marcello Durazzo), poté recarsi il 15 maggio 1685 a Versailles, ove col famoso ‘mi chi’ riparò il grave disagio e l’umiliazione diplomatica con un successo  personale (vedi anche a Imperiale). Il DeMarini, tornato a Genova, divenne senatore nel 1690 e poi anche padre del Comune negli anni 1693-4 e 1701.

===De Marini Ferdinando (1718-1800), collocò la famiglia nell’alto patriziato genovese, ricoprendo numerose magistrature e divenendo senatore; coltivò anche interessi letterari, componendo sonetti.

===  Un De Marini Domenico Vincenzo, nato nel 1763, definito ‘nobile e gran proprietario, dotato di eminenti qualità e di grande sensibilità culturale’; fu abile amministratore e politico  nel periodo della caduta della Repubblica: sia con gli austriaci che con i francesi e poi dopo con i reali torinesi ottenne cariche di alto prestigio, fino a senatore,  consigliere regio, e sindaco di prima classe nel 1828; durante il suo mandato fece collocare lungo le scale dell’Università molte antiche lapidi di grande importanza storica (che furono rimosse dai successori). Morì nel 1847 quando ancora era in piena attività .

===Paolo Ferdinando fu funzionario del regno di Sardegna , intendente generale della Divisione di Genova ed insignito della croce di cavaliere dell’Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro; fu anche presidente della Camera di Commercio e di molte altre istituzioni cittadine .

===Cappellini aggiunge  un Domenico vissuto nel 1449, patriarca di Gerusalemme dopo essere stato legato dell’Umbria e governatore di Roma. GiovanniAgostino, 1572-1642, doge 1641-2, fratello dell’arcivescovo Domenico, sventò le mire di conquista di CarloEmanueleI di Savoia. GiovanniAmbrogio fu nel XVII secolo sacerdote e letterato lasciando molte prose e poesie.  Girolamo di Francesco 1595-1668?, senatore, scrittore nel 1666 dell’operetta ‘Genua’ descrivente il dominio ed il governo della Repubblica. Oliviero del XVI secolo, benefattore e fondatore nel 1538 di un collegio per orfani. Pietro domenicano, uno dei primi 12 teologi dell’Università di Torino fondata nel 1405, priore di s.Domenico.

 

BIBLIOGRAFIA

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-Il Secolo XIX   : maggio e giugno 1984 + 12.9.97 + 5 e 10.3.98 + 18.11.98  +  09, 16, 21, 23 e 24.1.99 foto + 30.7.99 +  02.11.99  +  24.2.00  +  17.9.01  +  10/01/02  +  6/6/03 + 13/9/04 +

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-Vitale V.-breviario della storia di Genova-SLSP.1955-vol.I-pag.318

 

=non citati su Enciclopedia Motta; Enciclopedia Sonzogno; Grillo-origine storica località; catalogo ville genovesi 

=parte della bibliografia delle due prime chiese di NS delle Grazie sono in via Dottesio (da cui provengono le relazioni, ma dove sono rimasti i riferimenti bibliografici)


DERCHI                                                          via  G.B.  Derchi

 

 

 

TARGA: San Pier d’Arena – via - G.B. Derchi – pittore – 1879-1912

                                                                       

 

                                                                                    

 

 

  

targa posta alla sommità della strada                    

QUARTIERE ANTICO: Promontorio

Da Vinzoni, 1757. In verde, tratto di via Imperiale (v GB Derchi); giallo salita DConte; rosso abbazia SBdFossato; celeste, abbazia di Promontorio

N° IMMATRICOLAZIONE:  2769   CATEGORIA 2

 

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   22160

UNITÀ URBANISTICA: 27 - BELVEDERE

 da Google Earth 2007. In celeste, via MFanti; giallo, via BCarrea

CAP:   16149

PARROCCHIA:   (civ.2) Promontorio

 

STORIA: è la strada più diretta per il pedone che - dal levante della marina, della Coscia - voleva ascendere a Promontorio; quindi che questo tracciato sia antico non c’è dubbio, anche se oggi assai poco frequentato. Però non è da sottovalutare che l’abbazia, in via Promontorio si presenta con il retro, essendo la facciata e la porta rivolte verso salita S.Rosa come a testimoniare a quest’ultima una priorità di nascita e di funzione.

   Nelle prime mappe ottocentesche il sentiero già appare quale tratto terminale in alto di ‘vico Imperiale’, che in ascendere proseguiva la ‘crosa Larga’ ed arrivava a Promontorio allo stesso incrocio di ora.  Questo lungo vicolo fu cambiato di nome in ‘via E.DeAmicis’.

    Nel Pagano/1940 compare già la delimitazione: ‘da corso O.Scassi a sal Dante Conte’.

    Solo il 7 genn.1955 il tratto in salita da ‘corso O.Scassi’ ebbe il nome di ‘via M.Fanti’ il cui tracciato aveva interrotto la stradina con uno sbalzo da dover costruire delle scale; così in contemporanea venne delimitata anche la ‘via GB. Derchi’.

   Assai poco frequentata, è spesso soggetta a deterioramento ed invasione di erbacce; l’ultimo restauro dell’acciottolato risulta del 1995.

 

STRUTTURA:  in discesa, va: dalle via Promontorio-salita D.Conte a via B.Carrea.

Unica in tutto il genovesato,  non fu pavimentata a risseau-mattoni ma a lastre di granito tagliate a losanga, ancor ora sufficientemente composte fino alla scalinata. Il motivo forse è dovuto ad una pavimentazione più tardiva e quindi più mirata al lato economico

Dall’alto potrebbe essere doppio senso veicolare, ma in basso  finisce con una scalinata che la rende non transitabile se non pedonalmente; comunque è totalmente così stretta da lasciar percorrere un solo veicolo  di medio piccola cilindrata.

Pochi metri dopo l’inizio in alto, su un pilastro c’è una nuova edicola della Madonna che pare sia stata posta di recente, essendoci dietro le tracce di una più antica, forse andata perduta. Subito dopo l’edicola, si costeggia la sommità dell’ex villa Scassi, ora proprietà dell’Ospedale.

 

CIVICI

2007= UU27= solo il civ. 2

===civ.1  :  demolito nell’ apr.1959

===civ 2  villa coltiva di modeste proporzioni, ma segnalata nella planimetria del Vinzoni, compresa  nella proprietà Imperiale, all’altezza della peschiera del parco di villa Scassi.

Nel Pagano/40 non vi sono segnalati né civici neri né rossi.

 

DEDICATA al pittore sampierdarenese, nato il 4 giu.1879 da Antonio Martino (a sua volta figlio di GB Derchi e Maria Perasso, fu per 40 anni capo meccanico dell’Ansaldo, decorato con “Stella del Lavoro” e meritevole per serietà professionale di essere personalmente presentato a Mussolini quando come capo del governo venne a visitare Genova. Un suo fratello fu garibaldino) e da Eleonora Palazzo, in via Cristoforo Colombo 85. Ebbe due sorelle, Luigia e Maria. Iniziò a frequentare le elementari e poi l’istituto tecnico a Palazzo del Monastero.

   Quattordicenne (nov.1892) lo iscrissero ai corsi serali dell’Accademia Ligustica delle Belle Arti’ divenendo allievo di C.Perosio pittore di paesaggi e miniature. La sua frequenza appare irregolare probabilmente perché doveva lavorare per consentirsi di proseguire gli studi; però conseguendo ogni anno menzioni onorevoli, riuscendo ad esternare la sua vocazione artistica, specie pittorica (nell’anno scolastico 1893-4 ebbe una ‘menzione onorevole’ di terza classe; l’anno dopo –l’ultimo di frequenza- di prima classe nel disegno geometrico e di terza nel disegno a mano libera.  

   Lavorò per un breve periodo all’Ansaldo come disegnatore meccanico (godendo stima ed apprezzamenti; ma lasciò l’occupazione per motivi di salute, presumibilmente tubercolosi).

   Preferì proseguire come autodidatta interpretando a modo suo le crose e la campagna sopra la città; e –per vivere- negli anni 1901-4, accompagnò  come aiutante, a pitturare caffè e teatri nonché chiese e ville, i bergamaschi decoratori Fermo Taragli (operoso in chiese e ville del genovesato e bergamasco ove in quel periodo fervevano lavori di decorazione; tra essi la commessa del conte Vimercate Sozzi per il quale il Nostro adornò assieme ad altri artisti alcune stanze della villa posta in santa Lucia Vecchia; e così pure in una chiesa di Bergamo; più importante era poter essere all’aperto, ma d’inverno faceva troppo freddo per lui) ed Achille Filippini Fantoni (sua la volta decoratore dei portici di via XX Settembre, di  teatri e chiese. Morì cadendo da impalcatura nel teatro Paganini).

   In quegli anni appare un frequentatore del caffè Centro e Roma di piazza Vittorio Veneto, animato dal critico d’arte Lucifero Bagnara; e frequenti i contatti con i ‘grigi’ (sopratutti E.Rayper) e con i ‘macchiaioli’(tramite A.Varni legato all’ambiente fiorentino di N.Barabino): così Eugenio Olivari, Ercole Vallebona, LuigiAdolfo Bertorello e DanteMosè Conte. Invece si sentiva denigrato e non apprezzato dai più quotati Angelo Vernazza e C Orgero.

   Nel 1905, risulta abitare in via del Campasso (allora dapprima  via nuova del Campasso, poi via Giordano Bruno, al 20).

   Nel 1911 gli fu commissionato - dal comune di San Pier d’Arena - il lavoro di restauro di un affresco in villa Lomellini-Boccardo, (in via Cantore 39 (vedi): “il ratto di Elena” di Luca Cambiaso); l’operazione di ‘strappo’, assai complicata e delicata per la posizione e le condizioni del materiale, fu completata alla perfezione con grande soddisfazione degli amministratori comunali e sotto il vigile sguardo di un “garsonetto” d’eccezione, GB Bassano (detto Maestro Ave, scultore e pittore, divenne accademico di merito della Ligustica). L’affresco fu poi restaurato e trasferito -scrivono- dapprima a villa Scassi.

   Probabilmente già minato dal male, dovette limitare le uscite alla zona di residenza: iniziò a rifrequentare  villa Scassi ed il suo parco con assiduità, divenendo essa un soggetto frequente e dominante sia nei disegni che nelle tele, lasciandoci pertanto una  sostanziale testimonianza dei giardini all’epoca.   Francesca scrive: «E sulla tela fissa anche l’aristocratica umiltà delle ville vicino casa, dei giardini dalle piante conosciute e comuni, dei volti aspri e fieri della gente di Sampierdarena».

   Comunque non mancò di riprendere ampiamente sia ritratti che paesaggi di colline e giardini liguri, nonché -con corretto stile floreale- decorò le pareti del caffè Roma, in piazza Vittorio Veneto.

   Suoi dipinti sono riscontrabili nelle varie quadrerie private (alcune arricchite con “prelievi” da collezioni non opportunamente protette come sembrerebbe sia stata quella dell’Ospedale (si legge sui libri che nel nosocomio si trovano “molti suoi dipinti”, qualcuno ne contò una ventina; ma alla  risultanza in loco se ne contano molti meno)).

  tomba nel cimitero della Castagna

   Morì trentatreenne, il 22 feb.1912, dopo una vita breve, ma intensa di produzione artistica ed interesse. Sempre Francesca interpreta il momento «in una fredda sera di febbraio Derchi – stanchi i polmoni di rincorrere faticosamente l’aria – si mise a letto, ad ascoltare la musica che le dita del vento suonavano con le foglie, con le inferriate, con le statue, con gli archi; temi da lui tante volte dipinti, sollecitato da quell’amore che è uno dei segreti dell’arte. Si permise un sorriso un pò sgualcito, e così si addormentò, senza paura o mistero, in un  ovattato scalpiccio di ricordi».

   La sua valutazione, come spesso accade nei pittori, avvenne postuma e tardiva: una accurata retrospettiva iniziò solo nel 1957, con mostra di 68 opere alla Galleria Genova, quando già la città lo aveva ricordato dedicandogli la strada ed una copertina della rivista ufficiale del Comune.

Altre presenze in esposizioni risultano nel 1958-9, 1961-5.  Una mostra fu patrocinata dalla Camera del Commercio di Genova nel 1967 e disposta nel palazzo comunale della delegazione (ordinata da Vitaliano Rocchiero, ed intitolata “ i sampierdarenesi”): questa sancì definitivamente le spiccate qualità artistiche, inserendolo autorevolmente nella storia dell’arte locale (cataloghi, enciclopedie e testi d’arte pittorica). Altre 2 presenze nel 1968, fino alla  mostra dell’ambito barabiniano, che  avvenne nel 1976 nei locali dell’Universale  G.Mazzini.

 

BIBLIOGRAFIA

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DIAVOLO                                         crosina del Diavolo

 

 

Il nome compare solo in una cartina redatta “a complemento di progetto di case operaie, al Campasso”,  stilata nel  periodo 1915-30.

Non compare in alcun altro testo antecedente né come annotazione né ovviamente in senso ufficiale.

La crosa su quella carta è posta sul retro, a levante delle case popolari da erigere in via Pellegrini. Iniziava nella piazzetta che c’è retro-laterale della chiesa;  ma non è completa di dove arriva verso monte.

Comunque nella suddetta piazzetta,  esiste un cancello (a lato di quello in uso per entrare nei giardini di recente costruzione e che salgono sino a via Baden Powell): bloccato, perennemente chiuso ed arrugginito, riaggiustato ma non rimosso negli anni 2000,  limita inutilmente una riviera, sul ciglio di un muraglione che delimita le case, e su cui potrebbe esserci stato un sentiero .

A voce, viene ricordato che effettivamente il sentiero c’era e portava ad una villa, bella, ora scomparsa, detta  popolarmente “u cason”; fu demolita per costruire i piloni dell’autostrada. Viene ricordata che era in bella posizione, e riccamente affrescata sui soffitti.

A Genova esiste una omonima, ed il nome viene ascritto al fatto che era particolarmente deserta

Negli anni 1995-2000 il sentiero era stato riattivato da extracomunitari, che avevano riaperto la via a qualche casa soprastante, abbandonata.

 

BIBLIOGRAFIA

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-Poleggi E.&F.-Descrizione della città di Ge. da...-Sagep.1969-pag.293


XVIII NOVEMBRE                                   Via  Diciotto Novembre

 

 

Fu dato questo nome in ricordo della data delle sanzioni economiche imposte nel 1935 all’ Italia dalla Società delle Nazioni (consesso di 52 Nazioni, con sede a Ginevra), su irrigidimento inglese volto a stornarci  dall’impresa coloniale,  in seguito all’occupazione italiana dell’ Abissinia. Furono  interpretate dal governo di Mussolini da affrontare con fierezza e come un vanto di fronte ad un torto subìto. La municipalità fascista inventò la partecipazione popolare dedicando la giornata alla donazione della fede nuziale in cambio di una similare in minerale povero; ‘oro alla Patria’ fa chiamata la giornata a sostegno dell’economia nazionale; e gli alti gerarchi furono i primi a dare l’esempio anche se poi non  si sa bene dove finì tutto quel prezioso minerale raccolto.

Era successo che,  in seguito all’aggravarsi della situazione di frontiera tra la Somalia italiana (il 5 dic.1934 un migliaio di abissini attaccava il presidio di 70 somali ad Ual Ual; e lo stesso successe  il 29 genn.1935 ad Afdub) e l’Etiopia (Abissinia è un termine improprio perché è una parte della nazione).  Con questi incidenti presi a pretesto, il governo italiano aveva deciso di  inviare  uomini e materiali in Africa Orientale, dando inizio il 3 ottobre alla campagna coloniale di conquista dell’ Etiopia stessa.

Il gen. Rodolfo Graziani fu nominato governatore della Somalia: il 3 ott.1935 varcò il confine (zona chiamata Mareb), ed avanzò nel cuore dell’Etiopia, spezzando le resistenze dell’armata abissina ed entrando dopo aspre battaglie ad Addis Abeba il 5 maggio; l’ 8 maggio le ultime vittorie completarono il dominio italiano, concedendo al re  anche il titolo di imperatore d’Etiopia.

Dal Pagano/1940 si rileva che la titolazione fu data all’attuale via  T.Molteni, quando andava da via dell’Industria a via N.Barabino;  mentre ora unisce via S.Dondero con via San Pier d’Arena. In questa data (Pagano/40) sono riportati solo civici neri = tutti di privati o professionisti o rappresenanti di ditte. Di rilievo al 3/18 la s.a. calderai Ramai.

Fu modificata e dedicata al partigiano, con delibera della giunta comunale il 14 mar.1946.

Tutta l’operazione fu resa vana dallo scoppiare della seconda guerra mondiale nel 1940: l’Etiopia era troppo lontana, troppo isolata e circondata dai domìni inglesi già meglio organizzati. Il Duca d’Aosta, nominato vicerè, resistette sino al finire delle munizioni e viveri, ma dovette arrendersi ad Amba Alagi - seppur con l’onore delle armi - per andare a morire in prigionia a Nairobi (Kenia). L’ultimo contingente italiano resistette sino al 27 nov.1941.

Alla fine della guerra, l’imperatore Hailè Sellasiè, aiutato dagli inglesi, poté tornare a ripristinare la precedente monarchia; e nel 1950 l’Assemblea dell’ ONU, sancì questo ripristino, concedendo al Negus anche la sovranità sull’ Eritrea, come unità federata.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale Toponomastica

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno  

-Pagano 1940- pag.274

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.1202

-Stradario del Comune di Genova edito 1953-pag.69


DIECI                                                          via  Dieci Giugno

 

È stata la titolazione dell’attuale via di Francia  dal 1943 a 1945

In origine, dal 19.3.28 appena finito il tracciato, le fu dato il nome della terra dei cugini d’oltralpe.

Nel periodo di governo fascista con delibera del podestà il 31 lug.1940, la titolazione alla Francia fu sostituito con dedica al  nome del fratello del Duce, Arnaldo Mussolini.

Dopo l’ 8 sett.1943 ovviamente la titolazione fu ridecisa, eliminando la precedente e dando il nome a ricordo della data fatidica.

Il  nome originario, fu poi ripristinato con delibera del sindaco il 4 mag.1945.

DEDICA: espressa per onorare la data del giorno dell’anno 1940 in cui l’Italia, rompendo gli indugi,   dichiarò  guerra  alla  Francia  ed all’ Inghilterra, schierandosi a fianco della Germania, nel momento in cui quest’ultima prevaleva su tutti i fronti di guerra.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale Toponomastica

-Enciclopedia Sonzogno

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.736   --Stradario del Comune di Genova edito 1953-pag.79


 

DISPERATI                                                   vico Disperati

 

(DISPERSI                                                     vico Dispersi )

 

da Vinzoni, 1757 in fucsia via NDaste; in giallo via A.Scaniglia; in celeste via CRolando.

 

Il nome è citato nel libro  ‘Storia di Sampierdarena” di Tuvo, a delimitazione dei Quartieri dell’Eguaglianza e della Fratellanza, secondo un decreto del 24 lug.1798 da parte del nuovo governo filofrancese della Repubblica Ligure,  mirante a ristabilire l’ordine pubblico e la tranquillità in quegli anni di grave confusione politica. Così fu decisa la divisione del borgo  in tre quartieri, genericamente con eguale proporzione di abitanti, dando ad essi nomi nuovi,  ma usando limiti territoriali vecchi e preesistenti: l’ Eguaglianza era dalla via della Pietra al vico dei Buoi (a mare) e vico dei Disperati (a monte);  a levante era il secondo quartiere della Fratellanza,  sino a  vico sant’Antonino (a mare; si sottolinea la confusione tra s.Antonio e s.Antonino)-vico san Barborino (a monte); il terzo, posto all’estremo levante  dalla Coscia , era il quartiere della Libertà.

     Alla fine dell’anno 1801, in epoca di dovuta convivenza con i soldati francesi, il concittadino Gaetano Bignone, per motivi non conosciuti chiuse arbitrariamente l’inizio della crosa, ponendovi un ‘rastello’ (cancello in ferro o in legno) che la municipalità gli impose di rimuovere essendo essa di spettanza pubblica.”Se l’ordine non verrà eseguito si farà eseguire l’atterramento”.

 Il vicolo è confermato in un elenco delle strade esistenti il 29 maggio 1817 (firmato dal neosindaco Mongiardino Antonio): “inizia dalla strada provinciale, finisce nell’ultima villa vicino a Belvedere” (ovvero l’attuale via GB Monti; e la villa –ora abbattuta- era dove attualmente è il civ. 20).

    In una ‘statistica dei cholerosi, morti a domicilio nel 1867’, stilato ad uso del Comune di San Pier d’Arena, si annovera un caso, avvenuto nella via, quindi ufficialmente riconosciuta.

   Anche in una lettera, con cui la Curia Vescovile scrisse la sua approvazione all’erezione della nuova parrocchia di san Gaetano –che sino ad allora era stata prima chiesa privata, poi sconsacrata ed infine acquistata da don Bosco,  e per i suoi fini  riattivata, abbellita, resa funzionale e  pubblica ma non ancora con l’incarico specifico parrocchiale-:  in data 20 mar.1884 , si leggono i confini; ed  oltre a strade conosciute, viene citato  il “Vico Disperati“.

   Una cartina del 1899 evidenzia la stradina “vico dei Disperati”, in corrispondenza delle attuali via  C.Dattilo (che poi fu allargata)-E.Rayper fino a via G.B.Monti. Iniziante dunque in via  Mercato (poi -già nell’anno 1900 da via A.Saffi), subito dietro la villa Carpaneto, con all’angolo la casa Ferrando (citata anche nel regio decreto del 22 magg.1857 con cui re Vittorio Emanuele II accettò la delibera comunale di San Pier d’Arena per la nomenclatura delle strade, in base a cui ‘via del Mercato’ dalla crosa della Cella arrivava fino ’alla casa Ferrando all’incrocio con via san Cristoforo’) e, per tutto il percorso, la proprietà Rebora-Cristofani  a nord, ed orti a levante.

Arrivava in ripida diritta ascesa, e con un tornante alla fine, a levante della villa Lomellini Bocci (vedi via GB Monti, 20; per pura ipotesi,  forse trasformata in lazzaretto). Forse finiva a quel livello ma da carte posteriori sembrerebbe che continuasse in salita -anche dopo il taglio effettuato dalla neonata via GBMonti- proseguendo in scaliata Pisacane (poi Filangieri) fino al tornante superiore della stessa via GB.Monti.

 Lo stesso autore Tuvo, sul Gazzettino S., dà interpretazione del nome  risalente forse ad una epidemia di colera durata due anni, e durante la quale la popolazione ebbe un calo del 60% con ovvia disperazione dei salvati che avevano cercato rifugio a monte del borgo nella speranza di essere in zona isolata ed al riparo dal cataclisma (se l’ipotesi dell’epidemia è giusta quale causa del nome, segnaliamo che la più grande strage o il più luttuoso avvenimento che abbia mai patito Genova in tutta la sua storia e, durata un anno, fu senz’altro l’epidemia di peste del 1656-7, descritta a san Gaetano e che ridusse la popolazione locale del 75%: non colera, ma peste;  quella che nel genovesato vide rifulgere l’opera assistenziale del sestrese padre Antero; drammaticamente uguale a quella ‘manzoniana’ che però avvenne a Milano nel 1630, quando Genova allora ne fu preservata; dentro le mura di Genova, da 70mila anime ne erano rimaste 15mila (più alcune migliaia che erano riuscite a fuggire).

 Da fonti storiche si sa che epidemie in Genova –di peste o colera o tifo-  , da dopo l’anno mille e di gravi ne erano già venute sette: 1348, 1383, 1481, 1493, 1528, 1579, 1580, ma tutte meno aggressive rispetto quella del 1656.

 Gli infettati, tipicamente erano dei disperati. Venivano innanzi tutto  isolati in un lazzaretto -alla Fiumara (in genere le fosse comuni venivano scavate ai margini del mare, che col vento ‘depurava’ la zona) o al Campasso (ove è adesso il mercato dei polli), o ospitati nelle chiese (vedi san Gaetano in via Rolando, dove anche il 90% dei soccorritori, morì); senza assistenza specifica, e nella speranza –scarsa- di sopravvivere, non solo alla malattia ma anche a tutte le complicazioni allora sconosciute legate all’alimentazione, all’acqua, all’igiene, alla robustezza fisica, ecc.).

 

Tutto lascia quindi  pensare che mentre vico dei Disperati ha una storicità, non altrettanto sia per “vico dei Dispersi”; o fu un lapsus tipografico, o calligrafico di quei tempi (le scritture a mano  non sempre sono facilmente leggibili; e se anch’esso sempre riferito alla peste, fu dedicato a qualche imprecisato episodio di  salvati di una famiglia distrutta o separatasi in conseguenza  dell’evento.

Nel dic.1900 fu deciso dare alla strada ufficialmente  la dedica a “via Pastrengo” .

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-A.sconosciuto-Dattiloscritto parrocchia s.Gaetano-Bosco-vol.I.pag.85

-Gazzettino Sampierdarenase-  9/87.18  +  2/91.3  +  7/93.4  

-Romano da Calice-La grande peste-Bullesi.1992-

-Tuvo.Campagnol-Storia di Sampierdarena-D’Amore.1975-pag.52

 


DOGANA                                               piazza della Dogana

 

TARGA:  non c’è più

 

da Vinzoni, 1757. Il palazzo e la piazza del Monastero con la Marina, dove delimitata dal Baraccone del sale, sorgerà la piazza.. Dall’angolo con la piazza del Monastero, molto malamente si leggono i proprietari di alcune case: verso ponente sino alla crosa dei Buoi= ecc.mo principe Centurione; sig.r Simone Morta; Francesco Rumero; (nella parte più larga) sig. Batti(sta) R...i; sig.r Daniri Grongivia; sig. Sebastiano Galiano; sig.ri Giacomo Fras...; ecc.mo Pri.pe Centurione.

 

QUARTIERE ANTICO: Canto

 da Pagano/1961

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2779   CATEGORIA 3

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:  22700

 

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth, 2007

 

CAP: 16149  

 

PARROCCHIA:  NS della Cella

 

STORIA:   Nella carta del Vinzoni, si vede che era tutta spiaggia, senza alcuna costruzione se non - a ponente, il Castello, o palazzo del Municipio-    Con la costruzione del Baraccone del Sale e dei palazzi ad est di esso, si formò un primo spiazzo anonimo che solo ai primi del 1900 acquisì un nome molto probabilemnte legato agli uffici specifici.

Quindi, la piazza c’era già all’inizio del secolo e citata dal Novella, quando da quella parte a mare della strada, le case attuali ancora non erano state costruite tutte, come ora . Siamo in pieno quartiere del Canto.

   Unica, una guida di san Pier d’Arena del 1914 che testimonia che per andarci,  da piazza VVeneto (allora p.zza F.Ferrer), occorreva seguire l’itinerario “da via N.Barabino (via Carzino), voltare a sinistra in via Cristoforo Colonbo (via San Pier d’Arena), 2ª a destra” (oggi corrisponderebbe allo stacco tra il Comune ed il palazzo del Sale). Non ho trovato altre fonti che attestassero dove altrimenti fosse  esistito una  dogana sulla spiaggia: si presume indichi quindi direttamente la parte a ponente del Palazzo del Sale, chiamata anche “Deposito delle Gabelle”. Questa  localizzazione, potrebbe indurre a  limitare l’esistenza dell’ufficio, solo al traffico  del sale, seppur importantissimo ovviamente. Ma  poiché il termine “dogana” significa un punto organizzato per la riscossione di tributi  per merce che entra o esce da uno “stato” ( mentre si chiama “dazio”  lo stesso tributo, ma posto ai limiti di zone interne come era il servizio sul ponte di Cornigliano oppure in via Campi al limite con Rivarolo ed ai piedi della collina di san Benigno), offre la possibilità di pensare che dentro alle possenti mura del baraccone si ospitassero degli uffici  ad ampio spettro merceologico;  e poiché non certo a San Pier d’Arena potevano essere i confini della Repubblica Genovese  a parte quelli provenienti dal mare, si va a chiarire che sulla nostra spiaggia anche senza pontili particolari,  arrivava merce che veniva imbarcata o sbarcata direttamente dai navigli, senza usufruire dei servizi del grande porto del capoluogo.

   Si legge che il nostro  borgo (e poi città), anche senza pontili,  aveva un movimento navi piuttosto rilevante ed assolutamente indipendente da Genova.  In una lettera del dic.1761 viene fatta una denuncia da parte dei “famuli” ossia “Cavalleri delle Gabelle della Casa serenissima di san Giorgio”, perché un bastimento di Loano, dopo aver sbarcato dell’olio da consegnarsi al sig. Cambiaggio Stefano, poi avevano raccolto sabbia per la zavorra in luogo proibito.

Nel giugno 1838, il Consiglio Comunale decide costruire dei baracconi per le regie Dogane, con restrizione dei punti di imbarco e sbarco dalla spiaggia.

Ancora negli anni a metà secolo (1850, circa),  gli armatori cittadini avevano sbarcato   ben 542mila tonnellate di sale da Cagliari; e  sempre direttamente sulla spiaggia anche  7.500 tonnellate di foglie di tabacco da lavorare nell’appena costruita Manifattura Tabacchi (di via E.Degola); sappiamo che altri comandanti di  bastimenti da cabotaggio facevano lucroso traffico con  i porti del basso Mediterraneo; e di altri che muniti di grosse scune o piccoli brigantini andavano sulle coste di Tripoli ad acquistare partite di sparto indirizzate alla Carena e Torre nata in quegli anni. Con moderno macchinario costruiva cavi, dai più sottili ai più grossi, per il fabbisogno di qualsiasi bastimento anche attrezzato per navigazioni transoceaniche. Posta alla Marina, dove forse poteva operare direttamente lo sbarco del materiale suo necessario, nel 1847 le nacque adiacente l’officina metallurgica del Taylor e Prandi e con loro ebbe delle controversie per l’occupazione dell’arenile (si legge che Taylor –malgrado avesse ottenuto il finanziamento statale per aprire una officina solo ad uso costruzione e riparazione locomotive e quindi senza utilità della marina- era riuscito ad assicurarsi (e quindi aveva idee espansionistiche in direzione navale) l’uso della spiaggia antistante il suo Meccanico, grazie all’intervento dell’Azienda Generale delle Strade Ferrate che avevano dato l’ordine all’Intendente Generale di non rinnovare alla corderia la concessione di quel tratto di litorale necessario per il maggior sviluppo dello stabilimento metallurgico eretto in quella località). La diatriba si risolse quando l’Ansaldo ricorrendo all’esproprio per pubblica utilità, obbligò la Carena a spostare tutta l’azienda al Campasso. L’edificio della Carena fu demolito nel 1916 dalla ditta Valverti & Cerruti (con l’intenzione di costruire uno stabilimento per trattamento termico dei proiettili prodotti dal vicino proiettificio, ma finita la guerra, non fu eretto ed il lotto fu usato come balipedio).

   Vi sbarcavano anche semi oleosi da raffinare, ed olio ( la città era il vero deposito in materia, di tutto il commercio genovese . Sempre a metà 1800 circa, affluivano in zona più di 61mila barili d’olio, dei quali più della metà veniva riesportato; e solo per questa merce, la dogana  introitava più di 1000 franchi al giorno); e  materie prime per i 17 saponifici esistenti (che richiedevano 20 mila barili di olio e 578 tonnellate di soda, per produrre 2000 tonnellate di sapone); ed infine anche materiale per i cantieri navali (sicuramente già esistenti dal 1248 con traccia scritta di un certo Guglielmo di Coronata;  sino all’ultimo, più noto fu tal Francesco Casanova (vedi C45), i cui eredi però furono tosto obbligati a trasferirsi a Sestri ).

   Nel 1922 DeLandolina scrive «vi sorgono gli uffici doganali»; il suo testo è pieno di errori, ma qui sembra decisamente sicuro della loro presenza.

   Nel 1933 nella piazza al civ. 2 vengono descritti esserci:  il ‘Deposito generi di Monopolio (sale)’ ed un ‘Ufficio compartimentale per i servizi commerciali e fiscali’, ambedue gestiti dalla regia G.di Finanza.

   Era in questo slargo, che si esibivano i comici-clown Fagiolino e Padella, in concorrenza reciproca nel tentare di strappare delle risate negli anni del dopoguerra (un piccolo palco, due baracche qualche panca e sedie sparse).

   Sempre, nel 1940 andava da via N.Barabino al mare, ove al civ.2 erano i Monopoli di Stato, e l’’uff. compart. serv. comm. e fiscali Monopoli Stato’.

 

 

STRUTTURA e CIVICI

2007- civici dispari da 1 a 3; pari da 2 a 4

 

La piccola piazza è posta tra via San Pier d’Arena e lungomare G.Canepa, a ponente del Palazzo del Sale.

   Nell’anno 1900 fu ufficialmente proposto il nome di “piazza della Dogana” a quella che già veniva chiamata “piazzetta detta della Dogana”, posizionata a ponente del Palazzo del sale. Evidentemente fu accettata apparendo così chiamata nel primo elenco delle vie e piazze pubblicato dal Comune nel 1910, nel quale è genericamente posta da  ‘via C.Colombo al mare’ e con un solo civico, il 2.

   Nell’anno 1927 appare inclusa nelle strade della Grande Genova, senza ‘della’, classificata di 5a categoria.

   Il Pagano 1950 segnala nella piazza al civ. 2 la presenza del ‘Monopolio di stato Cartine e Tubetti per sigarette’.

  Al fianco ovest del ‘Baraccone del Sale’ ancora negli anni 1990 era attaccata una piccola appendice-casetta che improvvisamente crollò causando anche  una vittima: venne così rasa al suolo ed eliminata, lasciando il segno sul muro esterno; forse  con essa, anche con la targa della piazza, visto che non c’è più.

   L’unico civico nero, il 2, fu soppresso nel 1974, murando la porta. Ed è ancora a questo numero che fa riferimento la Soprintendenza  per i beni architettonici per vincolare e tutelare lo stabile dal 1984 (erroneamente chiamandolo ‘palazzo manifattura Tabacchi ex depos.Sale’).

   La società bocciofila che si apre nel piazzale, ancora nel 2004 reclamizza la sua sede in ‘piazza della Dogana’.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archivio Storico Comunale Toponomastica

-Cevini-Torre—Architettura e industria—Sagep.1994—pag.125

-DeLandolina GC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.40

-Gazzettino S. : 4/98.4 +  

-Gazzo E.-I 100 anni dell’Ansaldo-Ansaldo.1953-pag.39

-Lamponi M. –Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag. 63

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio-1900-pag.17

-Pagano/1933-pag.246--/40-pag.276--/50–pag.514---/1961-pag.565

-Poleggi E. &C.-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.50

-Tuttocittà cartina

-Tuvo Campagnol.-Storia di Sampierdarena-D’Amore.1975-pag.38  

-non c’è = nella cartina di Pagano/61 (quadro 120) + Annuario archidioc./94.402  


DONDERO                                          via Stefano Dondero

 

TARGA: via – Stefano Dondero – caduto per la Libertà – 1924-8/4/1944

                via - Stefano Dondero – caduto per la Libertà – 1924-8.4.1944

 

 angolo via A.Pacinotti

 

  fare panoramica e dire dov’è

 

QUARTIERE  ANTICO: Coscia

da Vinzoni, 1757. In giallo la creusa dei Buoi; in celeste ipotetica via Pacinotti; fucsia via s.Cristoforo (Scaniglia-Degola). In verde ipotetico tracciato di via SDondero

 

 

 

 

 

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2771

 

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:    22920

 

UNITÀ URBANISTICA: 26 – SAMPIERDARENA  

 da Google Eatrh, 2007. In giallo, piazza VVeneto; celeste via APacinotti.

CAP:   16151

 

PARROCCHIA:  NS sM. della Cella

 

STRUTTURA:  senso unico veicolare, da piazza Vittorio Veneto  a via A.Pacinotti. Prima della ristrutturazione della zona, del 1935, a mare era fiancheggiata da vecchi edifici (civv. 2,4,6) dei quali il primo era il palazzo dell’orologio seguito dalle vie Imbriani e Balduino che delimitavano la piazza Tubino.

 

STORIA: non ha storia particolare se non il riconoscimento di essere nata, come via G.Buranello, costeggiando il muraglione della ferrovia, e di portarsi da piazza V.Veneto in zona Crociera.

   Nell’ott.1895, l’UITE acquisendo i beni della Compagnia Generale Francese, si impegnò di collocare i binari anche nella “nuova strada”  (quindi allora senza un nome preciso ancora).

   Ma in quegli anni di tardo 1800 era già popolarmente intestata allo statista piemontese: infatti quando all’inizio del secolo 1900 fu ufficializzato il nome di  via Cavour, si precisò confermare la ‘strada cosiddetta Cavour’, da piazza Omnibus a via Garibaldi. Questo avvenne senza dubbio nell’ondata di manifestazioni inneggianti al Risorgimento ed in ringraziamento della politica dello statista favorevole agli impianti industriali (che il buon Dio lo crogioli nelle fiamme dell’inferno: sicuramente a lui poco importava di Genova e nulla di San Pier d’Arena; quanto piuttosto cosa e quanto avrebbero  potuto fornire -dalle locomotive,  alle navi , alle armi- al Piemonte impegnato si nella strada verso l’Unità d’ Italia, ma anche ricco di ambizioni espansionistiche e contenti di aver finalmente –dopo secoli di inutili tentativi- ‘conquistato il mare’ in spregio a ‘quella vil razza dannata’ dei genovesi).

   Il nome, essendo già presente a Genova nel centro, fu cambiato il 19 ago.1935 con via dell’Industria; stigmatizzando il pieno accordo e volontà di tutti, di continuare a sfruttare la zona ovest del borgo, a fabbriche (si scrive che Genova ha sempre goduto e ritenuto privilegio  possedere l’industria pesante. Nel conservare, ampliare e sostenere con i denti queste, fino alla loro consumazione determinata a livello internazionale, lasciandoci alla fine con un pugno di mosche in mano (pensionati a 50 anni, disoccupati, non peso politico ‘a Roma’ troppo spesso unico committente del prodotto, declassamento culturale per emarginazione dei piccoli imprenditori, ecc.)non si può non leggervi un ben deciso disegno di pochi ma potenti imprenditori (spesso neanche genovesi) e  politico mirato alla primaria fornitura di voti, e quindi di potere, anziché preoccuparsi del territorio e della sua produttività.  Troppo spesso l’Ansaldo trovava ossigeno solo nelle produzioni belliche ordinate dal Ministero della ’difesa militare’ (dalla Crimea al Risorgimento, da Tripoli alle colonie, dalle 2 guerre mondiali…alla chiusura). Sull’altro piatto, in tutto il secolo del 1900, troppe le grandi e piccole società emarginate e costrette a fuggire da Genova, soprattutto per ragioni di spazio, servizi e tasse soffocanti e non promozionali.

   Questo titolo, rimase fin dopo l’ultimo evento bellico, quando l’amministrazione comunale decise il 14 mar.1946 di cambiarlo a favore del partigiano, e passare la strada  dalla 3ª categoria, alla 2ª.

   Pochi gli insediamenti comm-artigianali: sul marciapiede a mare, sotto i portici c’è Buffetti ed ex saloni di aste e di auto ora dimessi ed abbandonati; altri pochi negozi si aprono vicini al mercato (un macellaio, un caffè).

Nella strada sono state girate alcune scene del film “Il giorno dello sciacallo”.

 

CIVICI

2007- neri   =  da 2 a 8  (manca 6)

          rossi  =  da 1 a 65 (aggiungi 41B);   e da 2 a 34 (aggiungi 34ABC) 

===civv. dispari rosso: sul marciapiede della ferrovia, inizia e -finisce dove era il giornalaio (dal 2007 trasferito di fronte)- una serie di baracchette di micronegozi per lo più di abbigliamento, bijotteria, cartoleria e similari; appoggiate al muraglione: nacquero in attesa di collocare il mercato, e da provvisorie divennero definitive quando dentro l’area del mercato non c’era posto per inserirle al coperto e forse anche per diversa destinazione d’uso del mercato stesso (alimentari). Per fare questo, tutte le piante che decoravano il marciapiede furono nottetempo segate per permettere erigere la struttura in cemento.

Nel tratto finale dentro i fornici ferroviari netta prevalenza di officine meccaniche.

===C’erano una trattoria all’11r Nel Pagano/1950 la trattoria era di Ghio E.;--- una autorimessa ‘Vittoria’ al civ.12; ---la sede locale dell’ACI al civ.18r; ---la banca di Sicilia al 24r; ---un droghiere al 30r; ---seguito da un pizzicagnolo al 34r. (Lamponi ne cita altri, ma non dice di quale epoca; essendo tutte figure ed attività tendenzialmente fugaci).

   Negli  anni del 1970, sfruttando vani preesistenti aperti sotto la stazione  ferrovia, fu aperto l’accesso al sottopasso che conduce direttamente ai binari e sbucare anche in piazza N.Montano.

===civv. 2 e 4  fu costruito nel 1936-7, presumo riferendomi alla descritta sulla rivista Genova “casa tra le vie dell’Industria e Nicolò Barbino, progetto della SA Immobiliare Aedes Sampierdarenese, ing. Carlo Montano”. Negli anni 1960 al 2/12 abitava il pittore Canepa Mario Antonio (nato a SPd’Arena il 22 agosto 1895, si spense il 6 marzo 1967; per le sue innate doti artistiche ebbe da giovane il primo premio di viaggio di istruzione rilasciato dalle Belle Arti; partecipò alla 1° guerra mondiale nel genio; amico del Derchi, dipinse solo quello che lo commuoveva, fuori dalla speculazione. Le sue opere (ritratti, paesaggi, marine) furono, coronate da successi, premi nazionali ed internazionali, onori accademici. Anche decorò grandi navi (Conte Grande, Michelangelo, Angelina Lauro) e locali (il Giunsella)).

Viene anche detta casa Lo Faro***(credo fosse questo nome riferito al vecchio palazzo dell’orologio)

===civ. 8 (’casa, e sottostante mercato al minuto’) approvato nel 1951, fu assegnato alla nuova costruzione il 17 sett.1953.

Interessante e tutt’ora presente il grosso mercato rionale a cui furono destinati i fondi del pianoterra. Comprende numerosi ‘banchetti’ di generi alimentari (polli, verdure, dolciumi)

===Il civ.10 nasce e fu costruito contemporaneo al civ. 8; fu però poi trasferito a via D.Salucci , nel 1959.

===Dall’altezza del  voltino che reca in stazione fino a via Pacinotti: a mare non vi sono entrate; sotto la ferrovia  ci sono i civv. rossi dal 43 al 65, praticamente adibiti a garage auto (civ.55); officine (civv.45-63 della Piaggio per riparazione e tagliando di motocicli); box (57-59-61.65); o chiusi da tempo (con vecchie insegne scritte di ‘auto’(47), ‘carrozzeria’ (49), o saracinesche sconnesse e raffazzonate (51-53)).

 

DEDICATA:  al giovane partigiano sampierdarenese chiamato Stea, nato nel Fossato il 4 giu.1924 da Gigin pescatore e da Giulia. Ebbe tre sorelle.

Avviato al lavoro senza neanche finire le elementari, divenne ansaldino.

   Arruolato (o al fine di sfuggire all’arruolamento forzato messo in atto dalle forze repubblichine di Salò), disertò e decise di fuggire in montagna aggregandosi con i partigiani della 3.a brigata Liguria accettando il nomignolo di Mea.

   Combatté con valore nella zona delle Capanne di Marcarolo.

   Il parroco di Voltaggio, don Pietro Zuccarino, lasciò un tragico diario di quello che successe nel paese in quei giorni: arrivati in forze nel paese, i tedeschi occuparono il seminario installando -in una palazzina- un Tribunale Speciale: nel pomeriggio (7 aprile 1944) già avevano dei prigionieri tra i quali Stefano; furono interrogati e tenuti nella prigione dei Carabinieri a Voltaggio, sino a sabato 8; senza un approfondito o particolare processo.

   Il giovane Dondero fu fucilato lo stesso giorno 8, era Sabato Santo,  assieme ad altri sette compagni, contro il muro del cimitero del paese: a due a due, dopo essere stati comunicati dal sacerdote, caddero gridando “morte ai tedeschi” oppure “viva l’Italia”.

   I soldati rimasero a Voltaggio sino all’ 11 aprile, fucilando in quella mattina altri otto rastrellati; poi, dopo aver incendiato delle cascine, rubato tutti gli apparecchi radio, cibi e vestiti, se ne andarono.

   I familiari seppero della sua sorte, ben quindici giorni dopo.

   A lui era dedicato un circolo ricreativo posto dietro l’abbazia in via s.B.d.Fossato

 

BIBLIOGRAFIA

 

-Archivio Storico Comunale Toponomastica

-A.sconosciuto-Storia del trasporto pubblico a Genova-Sagep.1980-p.157

-AA.VV.-Annuario.guida archidiocesi—ed./94-pag.402—ed./02-pag.440

-Ferrero V.-Viturin, un ragazzo del Fossato-SES.2006-pag. 3

-Gazzettino Sampierdarenese :  1/73.10 

-Gazzo E.-I 100 anni dell’Ansaldo-Ansaldo.1953-pag.38

-Genova, rivista del Comune-  3/37.62  +  10/51.31 +  11/51/48 + 1/56.38

-Gimelli G.-Cronache militari della resistenza-Carige.1985-vol.III-pag.71

-Pagano/1961-pag.190.444

-Poleggi E. &C.-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.33

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DONNE                                        Rotonda    Donne Di Teheran

 

    

 

A Teheran (ma in tutto il vasto oriente - con religione diversa dalla cattolica – specie se esasperate dall’interpretazione restrittiva - oggi chiamata ‘integralismo talebano’), succedono fatti  - probabilmete sempre successi nella storia del paese, compresi quelli limitrofi e- in antichità anche da noi, e che ora vengono alla luce mondiale in virtù della telematica.

In occidente, l’evoluzione  dei diritti dell’uomo è stata lenta, ma c’è stata; in particolare sono considerati fondamentali i concetti di “diritto al lavoro, alla sicurezza, alla cultura ed all’eguaglianza – e, quest’ultima, senza discriminazioni di razza, religione, sesso, lingua”.

Questi avvenimenti nel lontano oriente, da loro giustificati non sulla nostra base (del diritto dell’uomo) ma su quello “divino” del Corano (e quindi insindacabile né criticabile – anche se poi interpretabile a proprio uso e consumo) provengono sicuramente da pesanti risvolti politici qualificabili nel “potere” o “dittatura”  (ovvero nella capacità insita -in alcuni uomi (il charma, magnetismo, trascinatori – fino ai capipopolo) di sapersi proporre come interpreti della massa degli altri; e la religione è l’arma più semplice per avere la mano pesante sui non consenzienti); ed urtano contro l’educazione ed emancipazione dei diritti individuali ai quali si ispira l’occidente.

Si sono formati così movimenti di ribellione a questi fatti  giudicati di arretratezza; e le manifestazioni – di piazza o cortei mirano a sensibilizzare sempre di più sul tema, la gente agnostica e superficiale.  Unico lato negativo di questa reazione, è che con troppa frequenza ed evidenza viene guidata dagli interessi politici locali (politicaly no correct): anche noi non abbiamo del tutto superato le barriere nord.sud-padania-altoadige.sudtirolo. Così, mentre si osteggiano irruentemente situazioni particolari, se ne ignorano tantissime altre,  altrettanto pesanti (come la pena di morte -vigente negli Usa, in Cina ed in questi paesi medioorientali- e sia le stragi che si effettuano in Africa. E ne cito solo una minima parte); si recrimina e ci si mobilita per quelli che motivano questa lapide ma  nessuno si muove per il Tibet, per i Curdi e per tante altre minoranze  violentate.

Ovviamente questa ‘protesta’ crea a sua volta una controreazione di irrigidimento, che –dicono loro- si professa inflessibile ed a salvaguardia dei principi e della fede religiosa, e non lascia microaperture di autocritica allegando messaggi ben chiari: non si accettiamo ingerenze.

   L' iniziativa genovese (inserita nella ‘settimana internazionale dei Diritti’ promossa dal Comune) nacque l' 8 marzo 2010 grazie a Mariam Molavi della comunità iraniana nel capoluogo ligure (duecentocinquanta persone).

Dalla cronaca, dai tam tam di internet sono così emersi i nomi di Neda (Neda Salehi Agha-Soltan  in persiano: ندا آقاسلطان, nata a Teheran il 23 gennaio 1983 – morta il 20 giugno 2009. Studentessa di filosofia era in compagnia del suo insegnante di musica Hamid Panahi partecipando alla protesta contro l'esito sospetto delle elezioni. Alle ore 19:05, nel viale Kargar, all'incrocio con via Khosravi e via Salehi, un membro dei Basij, la milizia armata, le ha sparato uccidendola. La sua morte ebbe subito reazioni internazionali a causa di un video amatoriale diffuso via Internet che testimoniò gli ultimi istanti della sua vita. Il suo nome - Neda significa "voce" o "chiamata" - è velocemente diventato un grido di protesta, scandito dagli oppositori al governo del presidente Ahmadinejad[, che riconoscono in Mir Hosein Musavi il reale vincitore delle elezioni presidenziali, accusando il presidente in carica di brogli. Per questo la donna è stata definita come la "voce dell'Iran" e "un simbolo dei manifestanti per la democrazia che stanno attaccando il regime islamico), e di altre due studentesse, uccise nella capitale da una sparatoria notturna da miliziani, che colpì  nel mucchio del dormitorio universitario. Nonché  della giovane curda Shirin, impiccata nel maggio scorso dopo un processo a porte chiuse e il cui corpo non è mai stato riconsegnato alla famiglia; delle tante donne e giornaliste imprigionate; e di Zeinab, che potrebbe essere impiccata da un giorno all' altro.

   Alle rimostranze per via diplomatica, si stanno aprendo correnti di pensiero e di fatto in tutto il mondo occidentale che hanno scelto questo nome generico “Donne di Teheran” per indicare tutti i suprusi fatte alle donne per qualsiasi motivo, foss’anche religioso.

 

La Giunta genovese, con sindaco in testa (Marta Vincenzi) ha accettato di collocare una targa a questo movimento nel marzo 2010, trovando uno spazio ove collocare una statua-totem che riporta il volto di Neda e una targa.

La statua fu scoperta il 20 luglio 2010, con solenne cerimonia, presenti

tante madri in lutto che, mostrando centinaia di immagini di giovani vittime, hanno testimoniato il dolore e l' orgoglio di un paese che non è quello rappresentato dalle informazioni riportate dai nostri media ma solo il 5% di quella reale. In giornata è stato anche insignito di laurea ad honorem e cittadinanza, l’avvocato Shirin Ebadi, che nel 2003 - prima donna musulmana è stata insignita del Nobel per la pace  «Questa targa porta il nome della libertà»  ha detto, ringraziando «e il nome delle donne che negli ultimi tredici mesi hanno lottato per la libertà iraniana...  i loro nomi non saranno dimenticati. I governi vanno e vengono, i popoli rimangono: e questa piazza rimane come un legame eterno tra le donne iraniane e quelle genovesi, italiane ». Promettendo il Comune, che in primavera nell’aiuola rotonda della Fiumara fioriranno i tulipani rossi, scelti come simbolo della lotta iraniana per la democrazia, e il sangue versato dai loro martiri.

 

  La targa, è stata uficialmente inaugurata il 16 dicembre, presso una aiuola circolare in via Mantovani, all’altezza del Mazda Palace.

 

  Ai nomi su citati, altrettanto clamore desta da mesi la condanna a morte, emessa nel 2006, mediante lapidazione della donna iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani, 43 anni di Tabriz (nord-ovest dell’Iran), accusata di adulterio e dell’uccisione del marito.

Sakineh Mohammadi Ashtiani fu condannata per la prima volta il 15 maggio 2006, da un tribunale di Tabriz, per il reato di "relazione illecita" con due uomini in seguito alla morte del marito. Fu condannata a ricevere 99 frustate, e la condanna venne eseguita.  In seguito, nel settembre 2006 ricevette una nuova condanna quando un tribunale penale accusò uno dei due uomini per il coinvolgimento nella morte del marito di Mohammadi Ashtiani. Per questo venne condannata per concorso in omicidio mentre ancora sposata, e condannata a morte per lapidazione. Il mondo intero occidentale e gli stessi stati musulmani più progressisti si sono ribellati a questa sentenza mettendo in atto manifestazioni popolari, striscioni, appelli in Internet e sui media,  comitati (il più importante con sede in Germania) specifici contro la pena di morte.

Questa onda di sdegno, ha indotto il governo iraniano – non senza risentimento per ingerenza definita ‘politica’ ma in realtà religiosa – a rimandare l’esecuzione; con alterne decisioni ma con la ‘talebana’ decisione di portare alla realizzazione la condanna (interpretazione estremista del Corano, trascurando laddove lui parla di positiva convivenza e rispetto); sino alla beffa del 10 dicembre 2010 quando si annunciò la liberazione della donna (che invece era solo stata portata a casa sua perché registrasse – sul luogo del crimine – la confessione della ‘pianificazione’ dell’omicidio.  Decisione che si presta a trutte le interpretazioni, ottimistiche e pessimistiche). Anche il figlio della donna, Sajjad fu arrestato nel 2008 con l’accusa di partecipazione, e rischia l’impiccagione, mentre sono in cacere anche l’avvocato della donna Javid Hutan-Kian assieme a due giornalisti tedeschi catturati mentre la intervistavano (il primo avvocato – la su citata Shirin Ebadi – era stata  costretta a esiliarsi in Norvegia perché contestata dalle autorità avendo difeso la donna).

 

BIBLIOGRAFIA

-Google-Sakineh  e  Neda

-Il Secolo XIX quotidiano : 11.12.2010-pag. 7

-Repubblica - sezione: GENOVA - 22.07.2010-pagina 7  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DORIA                                            via Andrea Doria

 

La strada non è più a San Pier d’Arena, ma a Prè. Corrisponde all’attuale via G.Giovanetti.

   Nel 1700 ancora non esisteva, e la chiesa si affacciava rientrata, sull’antica via,  omonima ad essa. 

   Nella prima metà del 1800, costruiti i palazzi, la strada già era stata aperta ed intestata  col  nome del principe (delimitata a monte da “via sant’Antonio”(via N.Daste), ed a mare da “via Cristoforo Colombo” (via Sampierdarena)); ovviamente col fondo  in terra battuta;  aveva la facciata della  chiesa ancora “rientrata” e  diversa da quella attuale (cioè il tempio non era stato ancora allungato, e la facciata non ancora rifatta totalmente).

   Nella strada, appoggiate alla parrocchia, esistevano ben due  Confraternite: ‘delle Anime del Purgatorio’ ; e quella ‘del S.Rosario e della Dottrina Cristiana’ .

      Nel tratto a monte, nella seconda metà del 1800, si aprirono la farmacia, allora chiamata col nome della moglie del  proprietario Milanesio Luigi (per il Pagano/1908 si apriva in via s.Antonio; più dettagliato, vedi via Giovanetti); a levante, la fabbrica di liquori di DeAmicis Clotilde in Parodi (erano anche grossisti di liquori e sciroppi). Il cappellificio di Bagnara Ermillo (nell’ edizione Pagano/02, risulta ancora in via VEmanuele 14b (via G.Buranello). La fabbrica faceva allora concorrenza alla più rinomata Borsalino).

    Il palazzo sovrastante la farmacia deve essere della seconda metà del 1800: il cornicione a grossi mensoloni di sostegno, è oggi protetto dalla S. alle Belle Arti.

   Poco prima dell’anno 1900, vi erano solo cinque case, i cui proprietari furono: civ.1 , Testa, Storace, Vernazza e C.;--- civ.2 : Repetto Stefano;--- civ.3 Tubino Arturo (forse quello dei metalli e rottami in via Dottesio 14r ancora nel 1950);--- civ. 4 Danovaro Lorenzo; ---civ 5 Dellepiane fratelli .

Il Pagano 1902 segnala : al civ.1 l’intagliatore in legno Canepa Enrico*°;---4 l’unico elettricista a San Pd’A  Morando G.*°; al 5 il negozio calzature di Arvigo Gioacchino’ ;--- cNP  il floricoltore Pittaluga Giuseppe*°;---negozio di mode di Gatto e C.’;---negozio di frutta secca ed agrumi di Monteverde Giovanni;----

   Nel 1908’ (con ancora nel 1911* e 12°), il Pagano segnala al 3 l’orologiaio Dacqui Luigi;---  civico non specificato: un deposito di birra e bottiglieria di Palleari Pietro*¨;---   ‘fabbrica cappelli soc.an. già Bagnara e figlio’ che occupava quasi tutto il lato a ponente della strada, oggi i civv. 6, 8, 10).  Per il Pagano, nel 1912 diventò: «‘Cappellificio Cinzio Bagnara’; nel 1925 fu “cappellificio Bagnara” (fabbrica cappelli di feltro e paglia). Fabbrica a Sampierdarena via A.Doria (superiore) telef. 41107. Succursali Milano-Genova»; la stranezza architettonica ne fa un unico in tutta la regione: un misto tra parigino, napoletano, carcere---   il negoz. vini di Giuseppe Vernazza*¨;--- il confettiere Moizo Attilio (con negozio in via DeMarini di droghiere; nel *°¨ è anche in via Manin);---.

  Trovo scritto che vi era aperta la sede della Ardita Juventus (un circolo ciclistico locale che darà vita a gare  ed attività di spicco per la città  a livello nazionale; e vivrà sino al 1924. Direttore sportivo divenne Augusto Morselli bolognese trapiantato e per tutta la vita grande  sostenitore dello sport ciclistico; e “sponsor”  particolare fu un Florio,  fabbricante di biciclette con officina posta nella stessa via).

   Nel 1910 la ‘via Andrea Doria, da via C.Colombo a via sant’Antonio’ aveva civici sino al 10 ed al 15.

   Nel Pagano/ 1912° compaiono nuovi (vedi 1908) 1-3r (angolo via CColombo) i coltellinai fratelli Mas騤 specialità affilatura coltelli per macchine;--- al 28r l’orologiaio Valcasale Antonio¨¤;--- al 29r commestibili e forno di eredi di Caneva¨¤ (Canepa?) Giuseppe;---  al 40r la merciaia Noli Maria¨ e figl (veniva chiamata’Nettin’ ed era madre di ‘Menego’ uno dei due sacrestani della Cella) .

Con civici non specificati:  il ‘lampista’ e lattaio (lavora la latta) Canale Pietro (nel ¨= neg. di lampade; fu uno dei primi ad impiantare questa attività artigianale);--- il parrucchiere Canali Cesare¨ (era ricordato per una speciale spazzola cilindrica, unica nel genere, con la quale ‘domava’ ogni tipo di capigliatura).

Nel Pagano 1925¨ si segnalano: all’ 1-3 (in angolo con v.C.Colombo, il negozio ferramente,e coltellinai f.lli Masè (appassionati di montagna, furono i primo ad aprire in città una rivendita di articoli sportivi);--- al 10-1 la levatrice Saracco Clotilde;--- al 39r la tipografia-cartoleria di Barbieri Luigi (anche legatoria, fornitura completa per uffici; nel ¨¤ è specialità biglietti da visita, consegna istantanea e forniture complete per uffici, arredi sacri.  Su una etichetta  incollata in ultima pagina di un libretto di preghiere da comunione; vi è scritto «cartoleria, tipografia, legatoria libri / Guglielmo Tacchini / via Andrea Doria / San Pier d’Arena»; non è specificato dove era –si presume qui- né di quando. Potrebbe essere quella che negli anni 1950 era del padre di Toletti Enrico).--- civico sconosciuto:  l’officina della fabbrica  metalli di Gatti Epifanio fu L. ( succ. f.lli Gatti C. e E. fu L. e dopo ancora, DeMarchi)  fabbr. Lig. strumenti per pesare e costruz. metalliche (uffici e depositi in via VEmanuele 187r);--- il pizzicagnolo Lanza Angelo¤;---una seconda tipografia di Nencioni & Palmieri;--- le cantine Paleari nella ‘strada superiore’;---

   Nell’elenco delle strade comunali edito  nel 1927, appare la via Andrea Doria, di 1a categoria, assieme ad altre cinque, dedicategli dal Centro, Bolzaneto, Nervi, Pegli, Rivarolo. 

   Nel 1933¤ al civ. 47 l’importatore-esportatore nonché fabbrica di liquori DeAmici Enrico & Parodi; al 49-51 il deposito e fabbrica di liquori c.te Chazalettes & C.(nel 1925 il deposito era in via Vitt.Eman,54); al 59r il droghiere Orengo Maria; civ.60r mobilificio di Repetto Ferdinando;  civ.76r c’era una fabbrica di Marzola Celso che lavorava in  ghiacciaie; ed al civ.79r aveva sede la soc.an. coop. Carlo Rota con vari negozi al dettaglio (in v. A.Doria 37r, cso DAlighieri 42, GBMonti 14, v.Pellegrini 7, v. DeMarini 1, v.Umberto I,147).

 Non specificato dove un negozio di ‘apparecchiatori a gaz, elettricità con lampade, idraulica’ Canale Pietro (dal 1911), ottoniaio; un pizzicagnolo Lanza Angelo¨; una fabbrica di

registri di Palmieri Romeo¨; l’orologiaio Pavese (che aveva l’incarico della manutenzione degli orologi comunali).

Roncagliolo, storico del Gazzettino, ricorda nella via (ponendo i ricordi negli anni 1920-40, non fa distinzione tra via Doria e via Giovanetti) =’Luigi’ con la friggitoria; Caffè Zino detto ‘Gigio’ (ritrovo di sportivi, di calcio, nuoto, pallanuoto, ciclismo); Fanti (negozio di alimentari; imparentati con i Masè); Pasta (la signora, chiamata ‘Milann-a’ vendeva ricami, pizzi, indumenti intimi der la donna); Tosi (era la signora Pia a vendere calzature per bambini); ‘o Baciccia’ vendeva droghe; Marchelli (articoli di abbigliamento, mutande, ecc);‘da ‘ä pippa a-i denti’ vendevba pane, focacciua, farinata, castagnaccio…non aveva fama di grande igienista); Vernazza bottiglieria; Roncallo macelleria; Noli (vendeva stoffe dette ‘parmì’. Era stata preceduta nel locale da una agenzia della Banca Nazionale di Sconto, poi fallita; e fu seguita da Danovaro Tranquillina); Savelli bar; da ‘a Gigia’ trovavi trattoria con alloggio. Personaggio famoso nel tratto inferiore era ‘o Padella’, uomo di spirito allegro e dalle battute mordaci e pronte,barzellettiere e maestro pernacchiatore; caratterizzato dalla paglietta con nastro multicolore, fazzoletto al collo e dalla carrozza munita di gabbia per trasporto dei detenuti tra caserma dei carabinieri e vari carceri). 

   Il 19 ago.1935, con delibera del  podestà, la  strada  venne  intestata al Giovanetti,  per  non  avere  doppioni   con  il  Centro   da quando -dal 1926-  la città entrò a  far parte  della  Grande  Genova   (nel Novella, si cita ancora la vecchia strada ma -tra parentesi- si accenna alla nuova.).

   Da vecchi sampierdarenesi (inizi del 1900) la zona veniva chiamata “da o zeugo da balla” perché in mancanza dei palazzi gli spiazzi venivano utilizzati per il gioco del tamburello o altri giochi simili (tipo ‘balla velenosa’); che di volta in volta dovette spostare prima in piazza Galoppini poi in piazza d’Armi.

 

DEDICATA ad uno dei più illustri personaggi della storia genovese,  riconosciuto quale benemerito e “padre della patria”, grande condottiero ed ammiraglio, principe pirata.

LA FAMIGLIA: da già potenti nei primi decenni dopo l’anno mille– si presume commercianti – acquisirono enormi ricchezze con l’incarico di gabbellieri per l’Imperatore (l’aquila come stemma e san Matteo come protettore). Divenne così una delle più celebri della città; in più, immortalata universalmente dal suo figlio Andrea, determinante la storia locale ed internazionale (meno per quella nazionale) per l’incisività delle sue decisioni.   

 Dal latino «de Auria», derivato dal fatto dei possedimenti dentro e fuori la ‘porta Aurea’ (dalla quale anche il rione Portoria) sarebbe più giusto chiamarla alla latina ‘de Auria’ e quindi D’Oria come ancora fanno tanti per tradizione e –oggi- per anagrafe; ma per uso corrente, quasi tutti adottano la forma senza apostrofo.

La stirpe sarebbe nata ai tempi delle crociate – Cappellini scrive 1089, la prima; la leggenda aggiunge la storia del un conte –o visconte francese- Arduino da Narbona (Nùarbon), il quale venne in città per peregrinare (o di ritorno) in Terrasanta. Ammalatosi però gravemente, fu allora ospitato nella casa DellaVolta (famiglia che poi accettò divenire Cattaneo) e curato in particolare dalla fanciulla Oria (o Orizia). Il nobile prese in sposa la giovane (la cui madre era divenuta vedova, e forse per curare i possedimenti e gli altri figli –fuori città- erano divenuti “de Oria”, e si fermò in città. Ebbero quattro figli, dei quali il primo fu chiamato Ansaldo (e nelle ‘Istorie genovesi’ di Paolo Interiano, anche lui, “de Auria”), ufficialmente capostipite della famiglia genovese. Fu console per quattro volte, ed ambasciatore in Sicilia. Postosi al comando di una flotta, conquistò Almeria (1147) e Tortosa (1148).

La storia della famiglia (essendo assai prolifica, in appena due secoli era già così vasta da non riconoscersi più legami di parentela) si avvale di innumerevoli personaggi, dogi (GiovanniStefano 1633-5, l’uomo più ricco d’Italia; Nicolò 1579-81, primo serenissimo; ), consoli, sacerdoti, ribelli (GioAndrea nel 1576 provocò la riforma del governo locale; Branca, ricordato da Dante; Filippo ucciso nei moti del 1797 lottando contro il governo aristocratico), scienziati, annalisti, ammiragli (Oberto vincitore della Meloria; Lamba vincitore dei veneziani; Corrado di Oberto del sec.XIII fu determinante nella vittoria contro Pisa). Non ultimo, Giacomo fu sindaco di Genova nel 1891.

Da me non conosciuta (ahi, Tosini!) il ramo che si interessò, visse e determinò buona parte della storia di San Pier d’Arena, dalla chiesa della Cella,  alle ville (Franzoniane, don Daste, ecc.).

IL NOSTRO  nacque secondogenito (primogenito fu Davide) ad Oneglia (signoria della Repubblica)  il 30 novembre 1466 (Cappellini scrive 1468) da Ceva a da Caracosa dei Doria di Dolceacqua, allora ramo minore economicamente “debole”, dell’illustre famiglia genovese (Si è scritto che le nobili origini di questo ramo imperiese sono state scoperte risalendo sino all’anno 960, ma –come già scritto in altre occasioni- diventa nebuloso e frequentemente falso l’accertamento di qualsiasi documento anteriore agli anni del prima del 1100. DeLandolina/1923  scrisse che nacque nel 1468; e -riferendo lo storico Canale- aggiunge che fu discendente da un oscuro della nobile famiglia, caduto in povertà e trasferitosi ad Oneglia (mentre conferma che il capostipite della famiglia sarebbe stato del casato principesco di Arduino visconte di Narbona). Nuvolari-Valenziano, raccontando la “saga dei Fugger” –potente casata mercantile danese- propongono la possibilità che Andreas sia stato figlio adottivo di Ceva Doria, ricevutolo dal ricco mercante Markus Fugger,  naufragato col bimbo davanti a Oneglia, e –nell’impossibilità di rientrare in Danimarca col bimbo- lo affidò in cambio di ripetute rimesse di denaro). Visse poi a Genova fino all’età di  94 anni, ove morì il 5 nov.1560 (altri scrive 25 nov; erediteranno i fratelli GioAndrea (il marchesato di Tursi, il protonotariato del regno di Napoli, le galere, il palazzo di Fassolo) e Pagano (feudi appenninici e contea di Loano)).

   Alla sua nascita, era da più di un secolo che la Repubblica cercava una propria identità, dignità, e libertà, da maturare rispetto lo stato feudale precedente. Mentre fuori le mura l’attività prosperava abbastanza rigogliosamente con grosso afflusso di beni (malgrado i corsari barbareschi ed i giochi internazionali tra Papa, francesi, imperatore), in città i ricchi beneficiari di questo benessere, potenti gruppi aristocratici,  si combattevano tra loro per mera questione di potere e-di conseguenza- di alleanze: il patrimonio andava destinato al lavoro (il Banco di san Giorgio, fondaci e navi) ed all’immobiliare (la villa con la torre, la propria chiesa, le case per i sudditi). In particolare l’albergo dei Fregoso c(dei quali a Cesare,  Andrea offrì il favore il 22.8.1527) contro quello degli Adorno (espulsi da Genova dal Doria in nome del re di Francia) sanguinosamente alternandosi al punto che la Repubblica per difendersi si era dovuta appoggiare, e quindi soggiogarsi di volta in volta, ai francesi di Carlo VI (1396), al marchese di Monferrato (1409), ai Visconti (1421), al francese Carlo VII (1458), agli Sforza (1466), a Lodovico il Moro, ai re francesi Luigi XII e Francesco I (1528). 

  Da giovane, come tutti i benestanti, fu educato culturalmente ed alle armi ed il mare. Diciassettenne, rimasto solo, fu raccomandato a Roma nel 1483 quale aspirante uomo d’armi nelle guardie pontificie mettendosi al servizio di Innocenzo VIII (un genovese pure lui: GB.Cybo). In vent’anni di questo impegno, dimostrò attitudine al comando e capacità degne di un capitano di ventura; ed in tale veste fu assunto  dal duca di Urbino, Federico da Montefeltro, e poi da don Ferrante d’Aragona, dalla Francia (contro Consalvo di Cordova ed il duca Valentino Cesare Borgia); ed infine -1503-  dal Banco di san Giorgio (con il grado di prefetto del porto, e con l’impegno di domare i corsi, ribelli al Banco proprietario dell’isola).  

   Anche  abile marinaio, con un Fregoso doge (1512-5), fu assunto per comandare le uniche (chi dice due, chi quattro) rimaste galee genovesi contro i pirati, al servizio del re di Francia Francesco I di Valois che lo nominò ammiraglio (Il re francese e l’imperatore CarloV d’Asburgo, furono i personaggi più potenti del cinquecento. Nel febbraio 1525 il francese fu sconfitto e preso prigioniero a Pavia dagli imperiali; tornato libero, usò il Doria per riconquistare i genovesi, divenuti da colonizzatori e mercanti con l’oriente a banchieri, arrestando l’ultimo doge perpetuo Antoniotto Adorno e dando il comando di governatore a Cesare Fregoso). Però il sire francese non solo non accettò di pagare il servizio, ma neanche nascose l’ambizione di sottomettere la nostra Repubblica, a proprio uso e comando. Pertanto il Doria nell’anno 1528, si svincolò a sorpresa dall’impegno col regnante d’oltralpe e stilò un accordo (‘asiento’: ovvero affitto delle proprie navi) con l’imperatore (e re di Spagna) Carlo V d’Asburgo, quello sul cui dominio non tramontava mai il sole. Nel 1529 il Doria con 15 galee e 400 uomini era andato a Barcellona a prenderlo per portarlo a Genova –ove arrivarono 67 galee trasportando 4mila soldati di scorta; qui ristettero dal 12 al 21 agosto prima di ripartire per Bologna ove essere incoronato Imperatore. Continuamente bisognoso di soldi per pagare le innumerevoli iniziative (indebitamento sia per necessità di sempre migliori navigli per i traffici atlantici nelle nuove terre; sia per continua guerre in Europa; sia per la corte), facilmente divenne debitore del Doria, che ricambiò con parte del debito (25mila scudi),  onoreficenze (Toson d’Oro e ducato di Melfi (Basilicata; che produceva 40mila ducati l’anno) ma soprattutto con la promessa –a lui molto conveniente- dell’indipendenza della Repubblica genovese con dominio –ovvero “piena sovranità”- su Savona, e parità, nei commerci in tutti gli stati dell’impero, con propri sudditi).    A Madrid il 10 agosto firmò un patto di collaborazione; il 13 settembre guidando tredici galee   entrò nel porto di Genova e sollevò la popolazione contro i francesi conquistando la fortezza di Castelletto, facendo eleggere un doge biennale e riportando alla totale autonomia il comando del Comune che divenne Stato, ovvero Repubblica; il 28 ottobre rase al suolo le mura di Savona per una sua sottomissione definitiva.

Capì così nel frattempo, che troppa confusione regnava tra i potenti nobili e padroni dell’economia; e che era quindi  necessario prima di tutto  riformare l’interno dell’ordinamento dello stato repubblicano onde riuscire a mantenere un minimo di autonomia ed indipendenza politica.    

Come detto, il comando della Repubblica fu affidato ad un Doge (ma con carica biennale), sorretto da persone scelte tra le famiglie nobili e di cospicui capitali (esclusi i Fregoso e gli Adorno); il Doria partecipò a formare un ordinamento tale da disciplinare i poteri della casate nobili, eliminare così rivalità e malcontenti e mettere ordine nelle gerarchie del governo: raccolse i popolari in 5 casate ed i nobili in 28“Alberghi” (per farne parte occorreva possedere minimo sei case in città; ed accettare il cognome di uno dei ventotto).

(Furono popolari i DeFornari, DeFranchi, Giustiniani, Promontorio, Sauli. 

Furono alberghi i Calvi, Cattaneo, Centurione, Cibo, Cicala, D’Oria, Fieschi, Fornari, DeFranchi, Gentile, Giustiniani, Grillo, Grimaldi, Imperiale, Interiano, Lercari, Lomellini, DeMarini, DiNegro, Negrone, Pallavicino, Pinelli, Promontorio, Salvago, Sauli, Spinola, Usodimare, Vivaldi. Per un totale di 600 cognomi e 861 cittadini.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

Furono aggregati le famiglie nobili: DeLagnello, DeRado, DaLecca, DeSanMatteo, Re, Castigliona, Inurea, Riccardi, Segno, Galeana, Cantalupo, Bergona, Foresta, Piacenza, Clavexana, Mottina, Rovere, Noce, Berinsona, Marchese, Bertorotta, Brocarda, Novara, Sperona, Bozola, Cornera, Chiavaria, Malaspina, Chiarella, Fossa.

Mancano 4 famiglie delle quali non vienere riportato il nome, 

La Repubblica, grata, gli donò un palazzo (ancor oggi eretto in piazza san Matteo; non usato perché in zona pericolosa), gli innalzò una statua (distrutta in tumulto del 1797, è stata rifatta ed esposta all’ingresso del palazzo Ducale), lo nominò ‘padre della patria’ e Priore perpetuo del Magistrato dei Sindacatori, esentandolo (forse unico al mondo) dal dover pagare le tasse. Era divenuto così, senza essere doge, l’unico vero dominatore della Repubblica; Paolo III Farnese gli donò una spada con l’elsa arricchita di gemme, conservata nella chiesa di san Matteo.  Con C.Colombo, sono i navigatori più rinomati del ‘500 italiano.

Da mecenate, contribuì ad abbellire la sua casa nel palazzo fuori mura, con opere d’arte (Perin del Vaga, allievo di Raffaello, su tutti).

Nel 1533 ebbe ospite Carlo V, con seguito di mille persone, fornendo a tutti sfarzo e ‘signorate’ varie

Da buon condottiero, difese il commercio e la navigazione combattendo  nel 1534, a 66 anni, i pirati barbareschi guidati da in genere crudeli corridori come Dragut, Auroudj Barbarossa, Saracino (ed altri minori dal nome bizzarramente fantasioso come Camalicchio, Mezzomorto, Maezzamamma, Sinãm il giudeo) che infestavano le coste. Nominato Sommo Ammiraglio della flotta, guidò 72 galee (del Papa, del regno di Napoli, genovesi  di casa Doria, spagnole, portoghesi), e 60 navi da carico con 18mila arruolati. Da buon politico seppe amicarsi e farsi rispettare dai potenti del tempo, tanto da permettere che la Repubblica rimanesse autonoma e fortissima (il re di Spagna già gli aveva concesso il titolo di Principe di Melfi; da cui il nome della piazza, in zona Fassolo, ove c’è ancora il suo grosso e ricco palazzo. É l’unica persona che nella storia della Repubblica ha avuto e portato questo titolo monarchico. Gli attribuì anche il ducato di Tursi –Basilicata-).

   Ovviamente ci furono i malcontenti: di essi i più fieri furono Gian Luigi Fieschi (guelfo, conte di Lavagna, il 2 gennaio 1547 quando il Doria era ultraottantenne. L’ipotesi era riunire le truppe fliscane in città e far sollevare i galeotti nel porto e bloccare le navi dei Doria; uccidere sia Andrea e Giannettino Doria che Adamo Centurione banchiere di CarloV; nominare doge Barnaba Adorno e tornare sotto la Francia. Il Doria fuggì a Masone da dove diresse il ricupero dell’ordine alla morte di GianLuigi e fuga dei Fieschi a Montoggio);  ed in tempo successivo Giulio Cybo (marchese di Massa e Carrara cognato dei Fieschi); ambedue alleati di Francia e Parma, tentarono invano di sovvertire l’ordine da lui  instaurato.

   Ultime due  iniziative, prima di dare le consegne al nipote GianAndrea (figlio di Giannettino)furono: far approvare una nuova legge, detta ‘del garibetto’mirata a ridare ordine ed evitare di alterarsi con l’imperatore che voleva un suo presidio militare in città, mirato a garantire la fedeltà alla Spagna; e ultima a 87 anni la riconquista della Corsica

   Morì 94enne alle ore 10 di lunedì 25 novembre 1560 (Ascheri scrive 22), nel palazzo in Fassolo, distrutto dalla notizia della sconfitta da Dragut ed Ulug-Alì Gerbe, che pregiudicava il dominio del Mediterraneo.

   La sua tomba è posta nella cripta della chiesa di san Matteo.

La sua figura viene riproposta in vari busti e targhe nella città; tra tante, la statua posta sopra la galleria N.Bixio di Corvetto (opera di E.Baroni del 1929).

 

Nel 2009  il principe -erede  dell'ammiraglio- è Jonathan (1963- )Doria Pamphilj;  ha una sorella Jesine (-.-) entrambi figli di Orietta Doria (1922-2000) che nel 1958 aveva sposato un ufficiale di marina inglese, di sangue non nobile, Frank Pogson. La coppia non ebbe figli; ed i due risultano ambedue adottati in orfanatrofio (dove il nome del ragazzo era Archibald, e quello della sorella, Mary; e nessuno dei due ha preso il cognome inglese, ma quello nobile della madre). La madre Orietta ha loro lasciato l'eredità familiare con una sola clausola: la non dispersione dell'immenso patrimonio (più vistosi, il palazzo genovese e quelli romani). Entrambi vivono a Roma nel loro palazzo in via del Corso ove sono ospitate mirabolanti ricchezze (tra cui, quadri di Velazquez, Raffaello, Caravaggio, Rubens, ecc.) in una situazione complessa coinvolgente non solo la discendenza nobiliare ma anchele sceltecomportamentali e legali. La legge italiana è chiara per alcune parti del problema, meno su altre e sulle quali sta infuriando la polemica politica (=famiglie alternative):

-Gesine ha sposato Massimiliano Floridi (esperto d'arte) dal quale ha avuto 4 femmine (Anna-199e4; Elisa-1995; Orietta-2002; Irene-2004).

-Jonathan, celibe, dichiaratamente ed apertamente riconosciuto omosessuale (presenza in prima fila al gay pride di Genova 2009+ assoc.genitori di omosessuali; libertà intellettuale, orgoglio, intelligenza, indifferente della provocazione che pone) vive con il suo partner, il brasiliano -Elson Edeno Braga-  a cui è unito a Londra da civil partnership. Per meglio rappresentare la continuità dinastica, ha rinunciato al nome del padre ma non al passaporto inglese desiderando avere una progenie, ha adottato un sistema concesso in alcuni paesi esteri: ovulo (da una donatrice) ed utero (in affitto, da altra donatrice. Metodo proibito ed  illegale in Italia, punito col carcere e dove una coppia gay non può formare famiglia e quindi neanche adottare).

Ha avuto così - dopo aver consultato una clinica specializzata californiana-  prima Emily, nata a Wichita nel Kansas il 12 ago.2007 (in un articolo di 22 ottobre 09, si scrive nata nel 2006; e quindi 2007 per il fratello). Poi, selezionando geneticamente da avere la sicurezza maschile, FilippoAndrea, nato in Ucraina  il 20 ago 2008. Ambedue con due madri (una donatrice dell'ovulo; l'altra dell'utero) e con passaporto inglese per evitare che -quando in Italia- siano sottratti al genitore. Infatti, con due papà e nessuna mamma (maternità surrogata), debbono per molto tempo vivere in Brasile.

Poiché la legge italiana riconosce come madre la partoriente, Gesine nel 2007 (solo per Emily ché FilippoA era ancora da nascere) ha denunciato la situazione illegale del fratello trascinandolo in tribunale (Procura di Roma) col fine del non riconoscimento italiano dei due figli di Jonathan  ed in più nel timore che la madre (sconosciuta) di FilippoAndrea, esca all'aperto.

 

La discendenza del nostro Doria, sintetizzata, inizia con

--Niccolò

--Emanuele 1282

--Antonio

--Ceva

--Francesco   sposa Chiaretta Doria

--Ceva           sposa Caracosa Doria

-----Andrea I (Oneglia-1466-1560) principe di Melfi – sposa Peretta Cibo ved. DelCarretto

-----Giannettino (-.1547) sposa nel 1537 Ginetta Centurione

-----Giovanni Andrea I (1540?-1606)   sposa nel 1558 Zenobia DelCarretto

-----Andrea II (1570-1612) sposa Giovanna Colonna   -  principe di Melfi

-----Giovanni Andrea II (Pagano; 1607-1640 ) sposa Maria polissena Landi – vicerè di Sardegna

-----Andrea III (1628-1654) sposa Violante Lomellini nel 1652

-----Giovanni Andrea III (1653-1737) – sposa Anna Pamphilj

-----Andrea  (1675-1737) sposa Livia Maria nel 1703

-----Giovanni Andrea IV (1705-1764) sposa Maria Giovanna Doria di Tursi nel 1726; poi

                                                                      Eleonora Carafa dei duchi di Andria nel 1742

-----Andrea IV (Giorgio; 1747-1820) sposa Leopolda di Savoia Carignano nel 1767

-----Luigi Giovanni Andrea V (1779-1838) sposa Teresa Orsini di Gravina nel 1808

-----Filippo Andrea V (1813-1876) sposa Mary Talbot dei conti Shrewsbury nel 1839

-----Alfonso (1851-1914) sposa Emily Pelham Clinton dei duchi di Newcastle nel 1882

-----Filippo Andrea VI (1886-1958) sposa Gesine Mary Dykes nel 1921

-----Orietta (1922-2000) sposa Frank Pogson nel 1958

-----Jonathan (1963-   

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archivio StoricoComunale Toponomastica - scheda 1646 

-Ascheri GA.-Notizie storiche delle famiglie…-DeFerrari.2003-pag.XI

-Boccardo P.-A.Doria e le arti-Palombi.1989

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-Borghesi V.-Vita del principe GAndrea Doria-C.d.Librai 1997-p.XLVI

-Cappellini A.-Dizionario biografico di genovesi ill.-Stianti.1932-pag.53

-DeLandolima GC-Sampierdarena-Rinascenza.1923-pag.40

-Durante A.-Don Nicolò Daste-DonDaste.1984-pag.16

-Gadducci&D’Oria-san Matteo-SES.2005-pag.69

-Grendi E.-A.Doria uomo del Rinascimento-SocLigStP.1979-fasc.I-pag91

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-Museo s.Agostino-archivio toponomastica

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio.1900-pag.16.19

-Nuvolari&Valenziano-La saga dei Fugger-DeFerrari.1993-pag49

-Pagano 1911+1912+1919+1925+1933-pag.246+

-Pasolini A.-Semmo da taera de Colombo-NEG.1990- pag29

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova-Forni.1986-pag. 32

-Rivista ‘Genova’   :   2/44.1  +  12/67.24  +

-Rota A.-Enciclopedia dei Liguri Illustri-ERGA.vol.II-Andrea Doria

-Scriba G.-Memorie storiche su Caffaro del 12 ago.1881-SocLigStPatria


 

DOTTESIO                                             via Luigi Dottesio

 

 

 

TARGHE:

via - Luigi Dottesio – patriota - martire – 1815-1851 – già via De Marini

via – Luigi Dottesio – patriota - martire – 1815-1851

 

sottopasso all’ angolo con via di Francia

 

 

angolo via GDCassini

 

 

 

 

 

 

angolo via Palazzo della Fortezza

QUARTIERE ANTICO: Coscia

da Vinzoni, 1757.

In fucsia via Demarini; celeste via sBdFossato; blu via Spinola; rosso crosa Larga (Palazzo della Fortezza); giallo via NDaste.

N° IMMATRICOLAZIONE:   2772

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   23140

 

UNITÀ URBANISTICA: 28 – s.BARTOLOMEO

 da Google Earth 2007. In giallo via palazzo della Fortezza.

CAP:   16149

 

PARROCCHIA:  s.Maria delle Grazie

 

STRUTTURA:  strada comunale, carrabile con  senso unico veicolare , da via di Francia  a via N.Daste. La carreggiata a mare, è adibita a posteggio libero di mezzi motorizzati.

Lunga 285 m ; larga 5,50 m . Con due marciapiedi.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

STORIA: Nel regio  decreto emesso nel 1857, con cui si sancivano i nomi delle strade cittadine,  questo primo tratto della “strada Superiore” che da Largo Lanterna arrivava alla Crosa Larga,  era tutto chiamato “via De Marini”.

L’apertura di via di Francia, tagliò in due la vecchia via, con conservazione della titolazione in ambedue i tratti.

Fu ufficializzato - con delibera del podestà il 19 ago.1935 - la conservazione del nome della famiglia genovese al tratto a levante;  mentre il secondo tratto che comincia dal sottopassaggio della ferrovia,  assunse il nome attuale di L.Dottesio (nel 1937, l’esperto storico che tratteggiava sulla rivista ”Genova” le strade cittadine, alla descrizione di via Balbi Piovera scrisse che iniziava da via Bottisio).

Nel 1940, sul Pagano, non sono scritte le strade delimianti. Riporta i numeri neri= da 1 a 41 e da 2 a 42, con in particolare al 2 Moro Tommaso e Figli, olii; al 10 f.lli Lombardo fu Raff., sego; all’11 Repetto trasporti e ‘Santina’ prmanente; al 18 i Sanguineti L&C cons(erve); senza civico NS delle Grazie (parr.). Dei numeri rossi= al 28r e 53r soc.an.coop. Carlo Rota; 30B Molino N demolizioni auto; patate, 3 macellaio, 2 commestibili, metalli, 2 parrucchiere, 3 fruttivendolo, 3 drogheria, friggitoria, drogheria, tripperia, salumificio, panificio, pollivendolo, bar,  stiratoria, 2 merceria, carbonaio, 2 cantina vini, olii saponi, pescivendolo, marmista.

  Subito dopo la ferrovia, la prima ad incontrarsi sulla destra è via GB. Carpaneto: era l’inizio dello Stradone san Bartolomeo, che portava in origine alla abbazia omonima nell’interno del vallone, costeggiando l’omonimo rivo che nel 1930-5 –per fare il piazzale dell’Autostrada- fu spostato un pò più a ponente.

 

CIVICI

2007= NERI   =  da 7 a 13 (manca da 1 a 5)   e da 2 a 18 (mancano 4, 6)

           ROSSI =  da 11r a 65r   e da 2r a 66r (manca 14; aggiungi 2A(B)→F, 30AB, 62A→D)

A MONTE  da via di Francia a via N.Daste
=== civ 1. A destra , la prima costruzione è la  villa Negrone, poi Moro.

Essa, ormai aprendosi nel retro, è descritta in via Pedemonte

===civ. 3:    demolito nel 1972. Era  la  villa Pallavicino, poi Moro: nella carta del Vinzoni, è indicata proprietà del magnifico Nicolò Pallavicini; ed alla sua famiglia rimase finché nella prima metà del 1800 divenne  parte dell’oleificio Moro che la adibì a scopo industriale (cosa che a mio avviso meriterebbe l’erezione di una novella “colonna infame” sul posto). Le caratteristiche architettoniche permettono di far risalire la costruzione alla seconda metà del 500. La facciata aveva una loggia, poi murata, e dei poggioli le cui mensole di sostegno erano ornate di mascheroni finemente scolpiti; la parte inferiore aveva un portale sormontato da un fregio e stemma della famiglia, circondato da finestroni con grosse inferiate.

Il giardino si estendeva verso il monte, sino a poco oltre dove ora passa via A.Cantore; fu occupato dall’oleificio; alla sua chiusura, quasi tutto lo spazio venne adibito alla costruzione del grattacielo, detto Torre Cantore.

La concessione ad uso industriale, in pochi anni riuscì a completare tutto il male che non aveva compiuto la natura in quattro secoli: la casa raggiunse un degrado tale da renderne impossibile il ricupero -o comunque non vantaggioso secondo gli esperti-; così fu demolita per far posto ad un caseggiato; gli architetti tentarono di conservare la propria dignità lasciando (1971) eretta la parte inferiore della facciata, che interessando a nessuno, sta andando  in assoluto degrado pure lei .

===civ. 9:  l’edificio, costruito in stile primi anni del 1900, ospita la scuola materna comunale Maria Mazzini.  Nell’elenco degli immobili di proprietà comunale del 1890 e 1896 compare la voce ‘locale per la sala di musica’; nel 1908 diventa ‘locale per la sala di musica affittato all’Asilo infantile’. Non si conosce, ma si presume sia riferito a questi locali; se fosse, dimostra che l’edificio c’era già nel 1890.

Subito dopo era una cappella, sacra a sant’ Antonino, già presente negli anni attorno al 1200. Questi, soldato nella legione tebea (vedi a Maurizio, in via GBMonti), divenne martire;  però il suo nome, confuso con quello più popolare di sant’Antonio, perdette di importanza a vantaggio del secondo e postumo)

La cappella (NB controllare se fu una cappella a se stante, o invece si fa riferimento al monastero omonimo che era 4-500 metri più a ponente), nel 1300 era sotto il patronato della famiglia Grisolfi, a cui rimase sino all’estinzione, nel XVI secolo; ne prese cura allora mons. G.B.Cicala, già vescovo di Albenga e poi cardinale a Genova: così poi, nel 1586, papa Sisto V concesse il patronato ad Alessandro Cicala, promuovendola contemporaneamente a Commenda.

Minacciando di rovinare per vetustà,  nel 1582 (?) la famiglia Lercari provvide a farla ristrutturare dando l’incarico ai maestri Giorgio e Stefano Storace; nel 1621 ospitò il corpo di sant’Innocenzo martire portatovi da Paolo Serra, persona  non oltre conosciuta; subentrarono alla cura della chiesa i padri Agostiniani del convento di Belvedere, che vi rimasero sino al 1797, epoca in cui gli sconvolgimenti politici franco-rivoluzionari,  obbligarono la cessazione del culto. Così abbandonata, nel 1826 venne trasformata in abitazioni, e poi distrutta.

=== civ.  : in via DeMarini, (vedi vico Cibeo) in epoca fine 1800, vengono descritti i vari proprietari in questa zona: vi compare “proprietà delle FF.SS” e dovrebbe essere qui dove ebbe natali il gen. A.Cantore .

===la chiesa di santa Maria delle Grazie.  Il tempio vede nella sua storia, tre edifici diversi come posizione geografica, anche se poco distanti ciascuno. L’edificio è protetto da vincolo delle Belle Arti.

A Voltri esiste un omonimo convento e santuario, retto dai frati Minori Cappuccini

Il primo ed il secondo , vengono descritti nella  via DeMarini.

 

   Il terzo fu costruito nel terreno ove già  prima esisteva una cappella dedicata a santa Maria della Vista: piccola ma abbastanza alta, ricca solo di un altare in marmo , e di uso pubblico, era  posta in capo alla crosa della Catena (poi via Manin, ora via G.Cassini), e vicino al piazzale d’ingresso della villa Spinola. Inizialmente -ma non si sa da quanto-, la cappella era dedicata a san Girolamo (vedi in via DeMarini la cappella gentilizia nel palazzo Neuroni). Nel 1749 il vescovo mons. Saporiti Giuseppe, ne interdì l’uso, non si sa perché . Solo cento anni dopo ,nel 1850,  fu riaperta al culto, acquisendo però il nuovo nome di “santa Maria della Vista” in virtù di una immagine omonima della Madonna collocata nel tempio (dopo averla prelevata da una casa  posta nelle vicinanze, in demolizione causa la costruzione della ferrovia). Allo scopo, un prof. Rebuffo scrisse l’epigrafe : “ D.O.M. - IMMAGINEM - AB ANTIQUITATE - CULTAM - VIRGINIS MATRIS A VISU - EX VIARUM CONVICIO - IN HANC AEDICULAM - PATRONAE OPTIME MAXIME - DECENTIUS COLENDAE CAUSSA - CLIENTES - PECUNIA COLLATITIA - INTULERUNT ANN. MDCCCLIX “

   Nel 1886 fu ristrutturata con pitture ed affresco sulla volta, ma con una sostanziale riduzione in altezza per costruirvi sopra l’ abitazione ed alcuni stanzini per il rev. cappellano, senza riguardo all’estetica e “con gusto quasi vandalico”, degenerando l’aspetto del tempio a simil bottega o magazzino. I fedeli vi accedevano comunque offrendo lampade e candele; e la frequentavano in forma solenne in occasione della processione del Corpus Domini.  La cappelletta dava punto di riferimento alla strada, chiamata omonima in un documento del maggio 1817 elencante le strade locali.

Fu infine abbattuta, per permettere l’erezione del grosso ed attuale edificio)

 

    L’area interessata dalla sudescritta chiesuola, era divenuta nel frattempo di proprietà della RES (vedi); il cui presidente, ing. Cuneo, era in buoni rapporti con il parroco GioBono Schiappacasse (parroco dal 1920, insediato nella chiesuola di via DeMarini); l’intesa tra i due favorì superare tutte le difficoltà –da quelle burocratiche a quelle economiche (£.220mila per il terreno)- che si interponevano all’iniziativa.

   Una prima rata di 50mila lire, era quasi preparata dalla Fabbriceria, attraverso donazioni, prestiti (di cui uno più ricco e gratuito ottenuto da una benefica famiglia genovese che completò il campanile) ed iniziative varie, da dare nel 1922 per il compromesso (ed a rate, altre 35+ interessi x tre anni, solo per il terreno. In totale la Fabbriceria dal 1921 al 1928 spese 225mila (–terreno, notaio, registro, interessi-) + 369mila a Stura (mancanti ancora di 86mila da dare) + 22mila di varie (tra cui uno sfratto al “caffè Tubino” evidentemente collocato nell’area, non si sa dove). In attivo 311mila in donazioni, 335mila la vendita della chiesuola). Il contratto fu stipulato il 5 maggio 1925 (essendo intervenuti nella RES problemi di liquidazione e programma di chiusura dell’attività); in attivo c’era solo la vendita della precedente chiesuola (prima era arrivato una ingiunzione  di esproprio da parte del CAP mirato ad ingrandire i suoi spazi: si fece opposizione;  si erano offerti prima i Doks Liguri, poi l’oleificio Costa) e -più tardi- anche con contributi (6.XI.1928) a titolo ‘rimborso spese per la costruzione’ da parte del Comune di Genova.  L’impresa edile che si accollò i lavori anche in precarietà di regolarità dei pagamenti, fu la ditta Stura.

    In una area di 1350 mq (di cui 860 occupati dal tempio e 420 dai necessari distacchi), furono prima scavati 2500m3 di terra  e poi eretto il tempio mariano, ideato dall’arch. Piero Barbieri (lo stesso che progettò il santuario di N.S.della Guardia e che dovette eseguire più di due successivi progetti e disegni: il primo prevedeva un edificio –con possibilità di essere aperto in via Carducci se si fosse comperato tutto il terreno- con due campanili ai lati della facciata; di 43x20m. più un fondo di 3x20 ed un Sancta Santorum di altri 12x20. Una navata centrale larga 10m ed alta 20m, più due laterali  di 4m cadauna separate da 8 piloni snelli in stile gotico-pisano alternati da  sei in marmo colorato; la volta ad archi acuti era percorsa da una galleria con lo scopo di aggraziare lo sguardo e dirigerlo verso l’altare) in stile misto gotico e romanico.  Le abitazioni erano sul retro. Nel 1929 un altro progetto vedeva la facciata decisamente a sud, con nella parte apicale una serie di 12 colonnine delimitanti finestre ogive, con andamento a V rovesciata  parallela all’architrave§§§ della sommità; sotto esse, un rosone di 4m di diametro, ai cui lati due bifore per dar luce alle navate laterali e snellezza alla facciata; in basso tre portali, col centreale più ampio ed alto, di tipo gotico. La lunghezza diventuta 40m, altezza 20. 

   Ebbe la posa della prima pietra il 27 giu.1926 (questa, donata dal sig. GB Frantone presidente degli degli Uomini Cattolici, era di 1m3 e fu portata in loco da un carro trainato da 4 cavalli adorni, servizio offerto dalla ditta Canepa. Alle ore 17 su auto offerta da Gustavo Dufour, giunse l’arcivescovo con  l’ing. Tosi preside dell’istituto a fianco, don Raffetto arciprete, ed altre autorità come Broccardi podestà di Genova, Diana podestà locale,fino alla banda (della Croce d’Oro; c’era anche il Risorgimento), Luigi Pasteris commissario degli Esploratori. Fu benedetta dall’arciv.di Genova, mons Carlo Dal Maggio Minoretti. Porta la scritta dettata dal prof . P.Olivari:    “ V.Kal. Julias An. MCMXXVI - Pii XI . Pontificatus anno V. -  Victorio Emanuele III. f.f. regnante - Carolus Dalmatius Minoretti - Genuensium Archiepiscopus -  Sacrum auspicalem lapidem - Solenni ritu statuit - huius curialis aedis - quam - Deo Optimo Maximo - in onorem Virginis Deiparae - ab inchoato aedificare instituit - Ioannes Bonus Schiappacasse - Curio - ut ampliori atque augustori loco - Alma Gratiarum Mater - populum suum pecullarem tueatur ac foveat “ Tradotta : “Il 27 giugno 1926 -- V di pontificato di Pio XI -- felicemente regnando V.Emanuele – III  -- Carlo Dalmazio Minoretti --- arcivescovo di Genova -- pose con solenne rito -- la prima pietra -- di questa chiesa parrocchiale – che -- a Dio ottimo massimo -- in onore della Vergine madre -- Giovanni Bono Schiappacasse   --parroco -- imprese ad innalzare dalle fondamenta -- affinché da più ampia ed augusta sede -- la benigna Madre delle Grazie -- il popolo suo diletto difenda e protegga”). Nell’interno furono racchiuse una pergamena, alcune monete di fresco conio 1926, una moneta d’argento da £.2, una medaglia del Papa.

   Il nuovo progetto di rimaneggiamento, fu necessatrio già dall’epoca della prima pietra, sia per i costi, sia per le dimensioni che per contrasti con gli abitanti confinanti (il progetto eccedeva di 2 m. il terreno acquistato, ed i vicini non li concessero; restringendo la lunghezza, ne conseguì anche la larghezza e quindi sacrificio dei due campanili); e sia il Ministero della P.Istruzione che contestò ed impose cambiare lo stile goticopisano perchè stonante a fianco del rinascimentale eretto davanti alla villa cinquecentesca.

   Fu eretta in cemento armato; i lavori videro soste e sospensioni (per otto mesi nel 1927, tre nel 1928, per mancanza di fondi anche se si era venduto la cappella di via DeMarini ai Costa, ma il cui ricavato non potè essere utilizzato subito) e venne data  incompleta nelle rifiniture del tetto, della facciata, dei pavimenti, degli alloggil

   Lo stesso arcivescovo, il 24 mar.1929,  domenica delle Palme, celebrò la solenne inaugurazione e benedizione dell’effige della Madonna solennemente trasferita in processione dalla vecchia chiesuola lungo via Chiusa; le fornì uno stemma col motto “Ave gratiarum Mater”, dando continuità alla funzione parrocchiale ed inizio alla nuova residenza. Il campanile non era ancora ultimato, avendo raggiunto 30 dei suoi 55m preventivati

   La nuova chiesa, eretta in pieno ambiente di periferia di operai-piccoli commercianti-donne di casa, diede da subito sicuramente un forte incremento alla partecipazione alla vita parrocchiale, specie dopo il 1931 con la riapertura dei circoli e la soluzione del contrasto con il regime: grazie anche alla decennale  coadiuvazione con le ‘suore petrine’ per il catechismo, ed alle iniziative della varie associazioni ospitate (per prima l’Azione Cattolica frazionata in vari circoli secondo l’età e sesso; le Figlie di Maria fondata nel 1864; due ‘congregazioni’ (dal 1927) chiamate ‘della dottrina cristiana’ e ‘della Madonna delle Grazie’).        Iniziative ricordate furono un corso di avviamento alla lettura del vangelo(1933); istituzione di un asilo infantile a condizioni modestissime, spesso gratuite; un bollettino mensile (dal 1922) con rubriche ad indirizzo personalizzato (tipo con i ‘cari ammalati’) o culturali (letture di Dante e storia locale);

   In data 3 mar.1932, il Comune deliberò concorrere alle spese per le rifiniture della chiesa.

   Il 27 maggio 1934 fu scelto perché ricorrenza di cinquant’anni della nomina a parrocchia; si approfittò per benedire le campane mentre in porto entravano in funzione l’Idroscalo e, a monte, la Camionale; stava per aprire via ACantore ed un notevole fermento nella zona portuale: nacque così l’idea di sovrapporre una statua della Madonna sul tetto, a protezione di tutta la zona. Fu dato incarico  al direttore dell’Acc.Ligustica di BA prof. comm. Morera Antonio, di preparare il calco in gesso, per –appena possibile- trasportarlo in fonderia.

La statua fece trionfale ingresso in chiesa il 29 sett.1940; in contemporanea, prese campo -con simpatia a livello nazionale- l’idea di associare gli aviatori, marinai e motoristi-autisti in genere sotto la protezione della Madonna, patrona del mondo meccanizzato e motorizzato (12mila iscritti alla s.Lega dell’Angelus Domini L’impegno era di recitare tutti assieme la preghiera dell’Angelus alle tre ore del giorno (matt-mezzog.-sera)). L’entrata in guerra pose freno a tutte le cerimonie di dedica ufficiale ed alla ricerca del materiale per fondere la statua. Fu invocata anche quale protettriuce nei giorni di bombardamento..

  Coesisteva un ingente debito con gli Stura (interessi, avvocati, tribunale, lavori sospesi e non finiti).

  L’11 maggio 1941 subentrò a parroco don Alfredo Sozzi. Don Schiappacasse fu inviato quale Canonico penitenziere della Metropolitana.

   I bombardamenti degli anni 1943-44 furono causa di notevoli danni, deturpando degli affreschi dipinti da GioRaffaele Badaracco e da Lorenzo Brusco posti nel catino, e distrussero in maniera irreparabile un crocifisso ligneo.

Nel 1953 con la riparazione dei danni di guerra, si riuscì ad iniziare le rifiniture: per primo  completare l’altare col polittico marmoreo in cui è inserito in trionfo il quadro della Madonna delle Grazie; poi (1955) donarle il pavimento in marmo; gli altari apicali laterali di s.Giuseppe e del Sacro Cuore, ambedue con statua marmorea; gli altari di metà navata dedicati a s.Rita (a sin.) e Madonna della Guardia (a destra); la via Crucis (1962).

   L’8 dic. 1963 subentrò don Eraldo Susto che proseguì l’opera di ristrtturazione (Campanile: alto 56m. fu finito l’8 dic.1967, con applicazione sulle pareti esterne di mattonelle rosso cotto e oro dorato; la cella campanaria si apre all’resterno con quattro trifore gotiche bianche; la guglia ricoperta di ceramica policroma capace di riflettere “lampi di luce colorata”. Interni: con marmi alle pareti ed alle  colonne; eliminazione del pulpito trasferito a Rivarolo; spostamente del polittico marmoreo portato in zona del coro; nuovi altari e strutture varie).

   Il 19 apr.1980 la chiesa tanto rinnovata, fu riconsacrata dall’arcivescovo mons. Siri.

Negli anni 1955-65 tra le attività giovanili, la parrocchia ospitava gli scouts dell’ASCI del gruppo Ge53. Poi il parroco, evidentemente sconvolto psicologicamente e soggetto poi ad una triste ed avvilente fine (1984), non tutelò sufficientemente questa attività, perdendone i benefici.

Fu sostituito, fino al 2001, da don Franco Viganego; e questi, dal 2006?,  da  don Filippo Monteverde. Nel 2007 il parroco ha avuto l’onore della cronaca per una antipatica situazione: l’apertura di una balera sotto le finestre della sua camera da notte, con relativo chiasso notturno, hanno determinato uno stato di stress tale da impedirgli di dire messa l’indomani mattina

   L’edificio è tutelato dalle Belle Arti

   ESTERNO La facciata doveva essere tutta in marmo dal progetto definita ‘armoniosa ed elegante’;  rimase invece allo stato grezzo che le dona d’antico; possiede nel centro un grosso rosone tipico dello stile imposto (romanico-gotico pisano), e sovrastante il portale a sesto acuto dovevano esserci un timpano adorno di bassorilievo figurativo, nonché tre statue sacre sul frontone. Il card. Minoretti voleva fosse apposta la scritta «Totius populi labor et amor» ma, malgrado l’effetivo impegno del popolo, a facciata mai ultimata, la scritta non vi appare ancora.

La  robusta porta, capace di isolare l’interno dai rumori stradali, è in legno massiccio di teck, lavorata dalla scuola dei salesiani sampierdarenesi.

I muri laterali, hanno le porte a sesto acuto pure loro,  dovevano avere delle loggette cieche nella parte centrale e delle bifore con vetri policromi; e tra porte e finestre delle formelle a riquadratura mistilinea. Il tetto a coronamento è spiovente e –nelle parti laterali- decorato con archetti pensili

   INTERNO misura 43x20. La navata centrale è lunga 40m  e larga 17 ; ha un abside di 12m ; il tutto è alto circa 19m . La totale superficie è suddivisa in tre campi rettangolari: i laterali, sono lunghi circa 10m e larghi circa 4;  sono delimitate  da quattro grossi piloni rastremati e da colonnine incassate negli spigoli. La volta ad archi acuti, prevedeva la possibilità di essere arricchita nel futuro con mosaici o ornamenti dorati.

Fu arricchito con tre altari principali: quello maggiore favorito con  una pala di autore ignoto raffigurante la “Madonna delle Grazie” che porta la scritta “Diva Virgo del quartiere***” ; gli altri dedicati a san Giuseppe ed al Sacro Cuore.

Il campanile (progettato dall’arch. Ettore Mazzino), fu eretto negli anni seguenti,  è alto 54m., a quattro piani culminante con una cuspide piramidale e le sue facciate decorate da finestre bifore e trifore; il tutto sormontato da una prima grossa croce lavorata,  alta 4m.. All’inizio era stata progettata l’elevazione suprema di una statua della Madonna che da lassù avrebbe tutelato l’idroscalo e gli aviatori in genere; impedimenti vari -specie bellici- fecero optare per una croce che -a sua volta- fu sostituita dall’attuale.

 area dell’idroscalo

Ha un concerto di nove campane (nel 1934 erano sei, acquistate quando ancora non era stato eretto il campanile: fuse con 8 q. di stagno in buona parte procurato dalla ditta Nasturzo, e con 34 q. di rame  in buona parte donato dal parrocchiano benefattore GB Bertorello, demolitore di una sua nave “Stella Maris”; furono lavorate dalla ditta fratelli Picasso Matteo e Francesco, di Avegno vicino a Recco, e collaudate dal maestro sac. Stefano Ferro, organista al’Immacolata.

Il provvidenziale supporto economico (35mila £.) di un benefattore, permise completare campanile e posizionare le campane. Nel 1942 lo Stato impose consegnare  2220 chili di bronzo.

   La prima è in tono di “re grave”; pesa 1175 kg e porta inciso le parole “in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti - cor Jesus sacratissimum, adveniat regnum tuum”, e vari nomi di benefattori. Padrini furono le famiglie Pizzorno (presid. della Fabbriceria) e la moglie Amalia Lombardo.

La seconda è in tono “mi”; pesa 780 kg ; vi è inciso:” ave Gratiarum mater Maria - sancte Francise e Paola - ora pro nobis“;  fu dedicata agli aviatori ed alla loro arma. Suonerà l’Ave Maria. Padrino il col. Carnevali, comandante la prima zona territoriale dell’aeronautica.

La terza, in tono “si bemolle”, pesa 570 kg , ed è dedicata a san Giuseppe:  “Te Joseph celebrent agminam coelitum. Te cuncti resonent ...”. Padrini la fam. Gardino Guglielmo.

La quarta, in “sol”, pesa 460 kg ed è dedicata alle anime del purgatorio: ”requiem aetarnam dona eis Domine, et lux perpetua luceat eis ...”. Padrini la fa, Sanguineti Guido.

La quinta è in “la”, pesa 340 kg., dedicata a sant’Antonio, san Giovanni Battista de’ Rossi, beato Francesco da Camporosso (conosciuto come Padre Santo); porta una scritta invocante tutti questi santi. È uno dei santi –non comune ad altre chiese- venerato nella parrocchia è rimasto dalle precedenti sedi. Padtrini la fa, Bertorello GB.

La sesta è in “si” e pesa 240 kg., dedicata a santa Caterina da Genova, santa Rita e santa Teresa del Bambino Gesù, con preghiera a queste sante. Padrini la fam. Masnata Romolo.

   Nel 1941, in pieno periodo bellico, il rev. Schiappacasse divenuto monsignore, lasciò le redini al prevosto Sozzi Alfredo, il quale con l’aiuto dei cooperatori don Ferrea E., don Bernasconi PL., don Piccardo E., proseguì il completamento degli arredi, di cui il migliore fu (1953) un grandioso polittico in marmo, in cui venne inserito il quadro della Madonna delle Grazie, e posto all’altare maggiore. Dietro esso fu posto l’organo e lo spazio per il coro; si arredarono gli altari laterali dedicati a san Giuseppe, a santa Rita (a sin.), al Sacro Cuore ed alla Madonna della Guardia ( a destra).

   Dal 1961 al 1984 reggerà la guida di parroco, don Eraldo Susto; il quale provvederà a grandi lavori di restauro in particolare la facciata, il campanile (abbandonata l’idea originaria della statua della Madonna, fu inaugurato l’8 dic.1967, rivestito di pietra e mattonelle di cotto, che donano un colore oro-rosso-rosato, i singoli piani separati da spessori in ardesia, la cella campanaria al sommo con trifore bianche in parallelo con la componente in stile gotico,  con la guglia rivestita di ceramica policroma, ed all’apice la croce in ferro battuto alta circa 5 m., che dapprima era all’apice della facciata principale) e l’interno, rivestito di marmi (come anche il leggio; alcuni altari laterali; la fonte battesimale  -rappresentante il fiume Giordano con i suoi 4 affluenti e sul cui bordo è incisa la frase: ” dalla Croce zampilla l’acqua della salvezza: chi si immerge in questa onda non incontra la morte. Chi è sepolto con Cristo, con lui rinasce alla vita”-;  spostati il polittico marmoreo in fondo,  al posto del coro, e vari altari; nonché eliminato il pulpito che venne trasferito in una chiesa di Rivarolo).

   A sin., nell’altare marmoreo dedicato alla Madonna con le Anime penitenti, è stato inserito un piccolo mosaico rappresentante un angelo, proveniente dal Tabernacolo del precedente altare maggiore; e la statua del sacro Cuore viene inclusa nell’altare del SS.Sacramento.

   Vicino all’ingresso, venne posto in un altare un grande crocifisso in legno, di pregevole fattura, la statua di san Giuseppe (che era in altro altare) e di sant’Antonio.

   L’attuale parroco è don Viganego Franco, che cura personalmente varie associazioni di fedeli, di giovani e della confraternita di san Vincenzo.

===civ.45-47r:  una testa di montone appare come simbolo dell’attività commerciale sottostante (ora un macellaio con insegna che richiama in dialetto: o maxella); in stile neoclassico, rispecchia l’uso frequente di queste “insegne”, specie come arredo esterno, simile anche se più semplice di quello della farmacia di via Cassini. 

===civ. 25r tabacchino Ferrando, dal Pagano /67

===civ.33r  nel 1950 il Pagano segnala l’osteria di Ponassi Maria

===civ.***  l’ultimo della via. ha sulla facciata graziose decorazioni di stile tardo liberty, sia nel coronamento delle finestre che nella ringhiera di ferro battuto ad archi intrecciati, dei terrazzi 

 

A MARE

===civ. 2 Di fronte alla villa Pallavicino-Moro precedente, si aprivano le “Officine Meccaniche Navali”, aperte nel 1898 da Salvatore Bacigalupo: come tutti a quell’epoca, iniziò a lavorare giovanissimo come disegnatore, acquisendo in breve la nomina di tecnico navale; intelligente e tenace, volle dedicarsi totalmente nel 1898 a questo settore di attività, organizzandosi -assieme ai soci Paselli e Bertorello- in maniera da ottenere imbarcazioni di prima qualità ed all’avanguardia: fu uno dei primi ad adottare il ferro-acciaio (i rimorchiatori detti le “barcasse”) e ad adottare la propulsione ad elica ai piroscafi della Compagnia di Navigazione Grandi Laghi, in servizio sui laghi del nord Italia.

Il cantiere genovese era in ‘via san Bartolomeo’: quindi nei pressi; usando il vallone quando in secca, i rimorchiatori completati, venivano di notte scivolati su traversine di legno fino alla marina,  e varati. 

Diede lavoro a molti operai, divenendo meritevole di considerazione  internazionale. Abitava in ‘via Vittorio Emanuele (via G.Buranello), civ.10’. Cessò l’attività nel 1918,  e morì nel 1932 a Crocefieschi.

Negli anni 80 la sede (non citata nell’elenco SIP/1972) fu occupata dal Credito Lombardo; poi da un mobilificio; dal 2007 circa dalla “residenza protetta per anziani, san Benigno” (ingreso auto al civ.2; pedonale al 2D).   

Ospizio                                                                  suo posteggio lato ferrovia

 

===civ. 4r: nel 1950 vi operava la FILEPS (fabbrica ital. lampade elettriche portatili speciali) di Antonio Bagnasco.

===14r nel Pagano 1950 si descrive l’azienda Tubino Arturo & Adriano di metalli, rottami non ferrosi, stagno, piombo, zinco laminato in pani e lastre, ecc.

===civ 20r:  presso la trattoria, è la sede dell’ “US Dottesio calcio” , fondata nel 1996 , iscritta alla FIGC, con colori sociali bianco-blu-azzurro-celeste , milita nella terza ===Civ 28r vi era negli anni della titolazione stradale, uno dei due spacci della cooperativa titolata ‘C.Rota’ (l’altro al 53r.55r).

===civ.30Br negli anni 1950-70 e successivi, punto di riferimento era l’officina di Molino Nicola, di vendita di trattori, pezzi di ricambio per autocarri e vetture, nonché di demolizione auto.

categoria girone A e gioca nel campo Italo Ferrando a Cornigliano.

Via D.CASSINI

===civ.    r :   l’ex sala Montecucco, descritta in via Cassini.

===civ.16 apparentemente senza significato storico; il palazzo termina con il civ. 62r

===civ. 18, proseguendo verso ponente, a sinistra della strada compare la villa Grimaldi - Sanguineti quale viene segnalata sulla carta del Vinzoni, ma senza precise informazioni sugli anni precedenti: solo dai caratteri architettonici, si può presumere una origine cinquecentesca, munita di ampio giardino che arrivava di fronte alla Fortezza alla crosa Larga, ed a sud si estendeva  quasi al mare.

   Sappiamo che Lazzaro Grimaldi, durante il suo incarico di Doge, ebbe autorizzazione a trascorrere 12 giorni in pace nella sua villa di san Pier d’Arena. Non viene specificato quale era; e in quell’epoca, oggi conosciute ve ne erano  sette di ville Grimaldi. Escludendo la Fortezza che all’epoca era in mano a Grimaldi GB, poteva essere una qualsiasi delle sei rimanenti (questa, vDaste 4 poi Rebora; vDaste 24 Gerace; Carabinieri; e quelle oggi distrutte Salesiani e Cristofori). Perciò la descrizione viene inserita in questa villa solo perché è la più vicina a Genova ed allora grande abbastanza da soddisfare un nobile molto ricco.

Lazzaro Grimaldi-Cebà: nacque nel 1520 circa, da Domenico (fu un Riformatore delle casate nobili nel 1527, ufficiale di moneta, finanziatore di una grande nave; senatore) e da Clara dei Calvi. Suo nonno, omonimo, era stato ambasciatore dal re di Francia Carlo VIII e da Papa Giulio (rispettivamente negli anni 1496 e 1506). Quando sposò Marzia Centurione di Marco, ricevette il 3 dic.1573 il titolo di feudatario di Masone (con castello, abitanti e boschi; giurando fedeltà alla Repubblica. Nel borgo costruì  la chiesa, si rappacificò con Campoligure allora feudo non genovese ma imperiale, fissando i confini). Iniziò come diplomatico, divenne procuratore della Repubblica e poi governatore (1571) e deputato alle gabelle (1576). Nella diatriba del Garibetto, si schierò con la vecchia nobiltà e cercò di difendere questa legge che le dava potere contro i nobili di recente nomina di estrazione popolare. Durante la peste del 1579-80 non fuggì ma costituì il magistrato della Misericordia ed occupò l’ufficio di Sanità ricevendo consensi ed ammirazione. Per questo divenne anche Padre del Comune, ambasciatore dal neoeletto papa SistoV, Protettore delle Compere di san Giorgio, ed altre cariche di alta responsabilità.. Nel 1596, imperversando grave carestia, di sua moneta comperò il grano, un intero carico di una nave, per soddisfare sia Masone che Genova. L’anno dopo assurse a Sindacatore Supremo;  ed il 7 dicembre 1597 a Doge (36° della serie dei biennali) superando il candidato dei Doria che non accettò la sconfitta giurando rabbiosa vendetta, proponendo innumerevoli insolenze cerimoniali da urtare l’eletto senza offenderlo direttamente, ma frustrando la sua pazienza. Così dovette chiedere una sosta al Senato: contrariamente alla legge che obbligava alla residenza nel palazzo Ducale per i due anni in carica senza poter mai dormirne fuori, gli furono concessi 12 giorni da trascorrere a san Pier d’Arena. Rientrato, dovette affrontare il pesante incarico di ospitare, per una decina di giorni ed a spese della Repubblica, 1200  nobili in trasferimento da Venezia ed Austria verso la Spagna (vedi alla villa Lercari di via N.Daste ove fu ospitata Margherita la futura regina di Spagna e dove il Nostro andò a parlarle (tramite un interprete), partendosi a cavallo da Genova col seguito di guardie svizzere e di 350 nobili genovesi). Al pranzo, effettuato a Fassolo, il Doria stesso ritornò ad aggredirlo con clamoroso e mordente frasario mirato ad offenderlo, accusandolo di aver disonorato la sua carica e quindi la Repubblica avendo concesso che la regina fosse accompagnata  dal contestabile di Castiglia, governatore di Milano e non da sé, più alto in carica. L’amarezza di questo attacco verbale, lo mortificò al punto di sentirsi male: dopo una settimana, il 16 febbraio 1599, quasi sessantenne -e dieci mesi prima di finire il suo dogato, morì presumibilmente di infarto-, proprio nei giorni in cui le maestà ospiti levavano l’ancora. Due giorni dopo, le esequie furono condotte con grande pompa portando dapprima il feretro in processione per la città, ed infine dopo altri giorni di cerimonie ad essere sepolto in san Pier d’Arena presso gli Agostiniani  della chiesa di NS della Cella: nella cappella privata di san Paolo, fu posto assieme al padre ed al nonno (il cui sepolcro porta la scritta “+Jesus Maria 1506. Die 11 Genoariis Sepulchrum Nobilis Lazari de Grimaldis q. D.Dominici et haeredum suorum”). Il testamento fu assai munifico in beneficenza a tante categorie di bisognosi (Agostiniani, Teatini, ospedale di Pammatone, Incurabili, monasteri e poveri, nonché quattro  amici in profonda disperazione sanando i loro debiti). Avendo avuto solo una figlia, Cassandra (che aveva sposato un Fabrizio Pallavicini ma che morì precocemente), lasciò il feudo di Masone al nipote Paolo Agostino Spinola, figlio della sorella Peretta e di Giovanni.

   E’ questa villa probabilmente (oppure la Fortezza?), che viene citata perché munita di cappella privata (sinonimo di distinzione sociale), nel 1813 proprietà degli eredi del principe di Monaco (un Grimaldi quindi) e posta ‘in cima alla crosa Larga già crosa delle Catene’ (quindi più a levante della crosa Larga e quasi di fronte a mare alla villa Spinola).    

   Dapprima la ferrovia, poi l’attuale via G.Buranello tagliarono una grossa porzione della proprietà compresa la torre che fu ovviamente distrutta per la successiva lottizzazione del rimanente.

Nei primi anni del 1900, fu acquistata dai Sanguineti, per essere utilizzata a fabbrica di conserve. Fu poi tramutata in due distinti edifici adibiti ad abitazione, cosicché oggi è divenuta nascosta, in maniera pressoché totale, la sua origine di villa.

Nel Pagano/67 persiste l’esistenza dell’azienda Sanguineti L&C di conserve alimentari e lavorazione latta.  Fu il nonno delle attuali ancora in vita (91 enne) che aprì la manifattura della latta; acquisendo il palazzo, viene narrato che trovarono dentro il quadro della madonna che ora è appeso nell’angolo di vico Grandis (scelse così per protezione della sua azienda ed anche perché tutta la zona era devota a questa Madonna, e nell’occasione faceva una sagra con luminarie e banchetti di dolci e prodotti agricoli)

civ. 62Ar  Il palazzo finisce con questo civico.

Vico Grandis

Il palazzo dopo, verso ovest, non ha portoni neri ed ha ancora due civici rossi 64 e 66r. La strada finisce all’incrocio con la seguente:

Via Palazzo della Fortezza

 

DEDICATA  al tipografo nato nel 1814 a Como. Da adulto si trasferì a Capolago ove era divenuto direttore della Tipografia Elvetica di Capolago, il più importante centro editoriale dei testi degli scrittori romantici e
dei patrioti della prima metà del Risorgimento.

   Prese parte alla campagna militare del 1848 schierandosi con i piemontesi e mettendosi però in evidenza negli schedari della polizia.

   Favorito dalla vicinanza con la Svizzera e con lo spirito cospiratore contro l’Austria, introdusse in Lombardia e –di qui nel Veneto ed in Italia- scritti, volumi, articoli, messaggi patriottici dei fuoriusciti Guerrazzi, Berchet, Rossetti, ecc.

   Arrestato dalla polizia austriaca a Maslianico, dopo un lungo processo fu giudicato colpevole di alto tradimento e, condannato a morte, fu impiccato a Venezia l’ 8 ott.1851.

 

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