ORATORIO : in un bombardamento aereo del 7 nov. 1942, la chiesuola dell’Oratorio di san Martino, fu tragicamente distrutta. Uniche foto, ci permettono nostalgicamente di vedere parzialmente l’interno, presso l’altare maggiore.
altare maggiore con effige della Madonna 1942
della Guardia
In totale assenza di altre immagini, siamo riusciti da chi è vissuto nella zona, a rifare la mappa ed il plastico del luogo (vedi allegato) prima di quell’infausto giorno.
Non è tanto la sua piccola presenza, né i beni seppur di enorme valore artistico in essa contenuti, ma è andato perduto l’intenso significato storico e tradizionale, di quasi mille anni della zona: e non è poco.
l’oratorio, ricosctruito da testimonio oculare
Dove ha sede il civ. 1A attuale, di via A.Caveri, da dopo il 1400 già esisteva nel retro della abbazia questa chiesuola affiancata dalla casa per il sacerdote, perpetua e campanaro, con davanti un giardinetto; il tutto circondato da un discreto muro. Era il cuore pulsante della parrocchia, dal quale si diramavano tutte le attività di rappresentanza extraliturgiche (processioni, assistenza, aggregazione) programmate dal Consiglio direttivo.
Uno studio del canonico Cambiaso Domenico, permette risalire alle prime decadi del 1400 per molte ‘confraternite rurali’ vicine, non per la nostra (vengono segnalate quelle di Voltri, SestriP, Rivarolo, Bolzaneto fino a sant’Olcese; non la nostra); anche se conclude il periodo scrivendo “queste istituzioni sullo scorcio del sec. XV erano diffuse in tutte le nostre campagne”.
Nel Regesti di val Polcevera vengono però segnalati alcuni particolari, probabilmente inerenti all’erezione di questo oratorio: «data 4 aprile 1417—Pietro di Pietra risulta procuratore ed amministratore di5 persone: 4 sono nipoti di Iacobo Bacarino (ovvero due –Antonio e Bartolomeo-, figli che la figlia qGiovannina ha avuto sposando Pietro Di Pietra; altri due nipoti -Antonio e Lodovico- figli ed eredi di q.Domenichina q.Iacobo); + Cristoforo Barocio q.BeretolloBarono. Hanno accertato che i Confratelli Disciplinanti del beato Martino di SPdA hanno costruito una casa su un territorio di Iacobo e di volerla ‘tramutare alla Chiesa’ (territorio che fu venduto ai Confratelli, ma con “patti, modi e condizioni”). A parte il fatto che detti confratelli (in particolare Martino de Coronato, priore, e Antonio di Fassolo sottopriore) sono liberi su tutto ciò che hanno costruito su terreno della chiesa; su quello che invece hanno costruito su terreno di Jacobo, entro natale –escluso nei mesi di agosto e settembre- vogliono si proceda a ‘scoprire detta casa e diroccare i muri. Promettono di lavorare e far lavorare in detto territorio a loro proprie spese ed asportare tutte le pietre e il getto di essa Casa senza portare danno alcuno”.
Dieci giorni dopo, datato 15 aprile 1417, il “prete Giovanni di Montemerlo, arciprete della chiesa di S.Martino in Sampierdarena, concede in locazione perpeytua, per l’annuo canone di lire 2 di Genova, ai signori Martino di Coronato, speziaro, priore, e ad Antonio di Fassolo, fornaio, sottopriore della casa dei disciplinanti del beato Martino, presenti, stipulanti ed accettanti a nome proprio e a nome e vece ancora degli altri confratelli di detta Casa, presenti e futuri, un pezzo di terra, ossia un vuoto di detta chiesa e vicino alla stessa, di lunghezza goa 25 e la larghezza goa 10, cui confina, di sopra la strada pubblica ovversia la crosa, da un lato la terra di Raffaele Doria, inferiormente e dall’altro lato la detta chiesa, sopra il qual territroio, ossia vuoto, devono i detti confratelli coistruire la loro Casa che hanno già cominciata, con tutti e singoli gli introiti ed uscite spettanti a detta Casa” (Filza II.prima numerazione.152).
E già (Filza II, seconda numerazione 67) pochi anni dopo, 9 giu.1422 compaiono delle disposizioni testamentarie del su citato «Antonio di Faissolo q.Bertono, abitante in Sampierdarena. Vuole essere seppellito nella chiesa del beato Martino in Sampierdarena e precisamente nel monumento dei disciplinanti di detta chiesa... Ordina altresì che gli introiti e redditi di una sua casa, con forno, situata in Genova nella contrada dello scalo, e che non dovrà mai essere venduta, vengano percepiti da un cappellano o prete, da eleggersi tra i massari e priori della chiesa di San Martino, il quale dovrà celebrare in perpetuo, in detta chiesa, delle messe di rimedio dell’anima sua e de’ suoi parenti, e ciò in ciascuna domenica e nelle principali solennità»
In mancanza di altri dati certi, taluni autori ponevano la nascita, in corrispondenza della visita di mons. Bossio, nel 1582, il quale cita l’oratorio; ma tale atto ne sancisce l’esistenza, non l’anno di erezione. Lo stesso vale per la “Casaccia di s.Martino” sampierdarenese, compare segnalata la prima volta dopo detta visita.
Essendo il pregio dell’edificio sacro, basato prevalentemente sulle decorazioni che la bomba aveva pressoché completamente distrutto (marmi degli altari, balaustre e pavimento; stucchi e dorature, caratteristiche per raffinatezza, eleganza e policromia) ne fu ordinato tout-court l’eliminazione.
Particolare menzione merita la ‘rettoria’ di san Martino, munita di gonfalone proprio.
La CONFRATERNITA (o Arte o Corporazione).
da leggere: SemeriaGB –libri 1912 in 6.1A - vol.I pag. 117 e aggiungere in biblioteca
PREMESSE= Già dai tempi delle crociate, esisteva in tutta Europa un fervore religioso molto acceso, sentito e temuto (i preti erano colti, possedevano potere temporale anche nei singoli Stati, promuovevano quel microcommercio povero ma diffuso nel popolo da condizionarlo: la disciplina penitenziale nasce così). Nel XIII secolo erano sorti gruppi di laici popolari che diedero vita a manifestazioni parareligiose, molto istintive essendo essi solo pescatori o contadini anche se presumibilmente dirette dai più colti figli di nobili. Descritta in atto notarile (perché la sacra rappresentazione, svoltasi probabilmente sul sagrato della nostra abbazia, fu seguita da una rissa tra uomini del borgo ed alcuni di Sestri), San Pier d’Arena fu testimone nel 1253 di una di queste prime rappresentazioni –e tra esse è considerata la più importante-, allora chiamate ‘ludus’, ovvero nel nostro caso ‘ludus peregrinorum’ perché riproponeva in forma scenica l’incontro dei discepoli-pellegrini con Gesù a Emmaus. Queste rappresentazioni locali (che sulla base dei documenti furono una delle prime sacre rappresentazioni d’Italia, molto probabilmente portate qui precocemente da qualche frate proveniente dall’Umbria) dovettero continuare nei secoli, se ne abbiamo documentazione di altre datate 1538 (nessuno doveva recarsi armato laddove si andava a conversare, ballare, fare festa, pena due tratti di corda) e 1589 nel ‘diario Pallavicini’ conservato nell’Archivio municipale (“Domenica 8 8bre 1589; dopodisnare certi giovinetti di poca età hanno recitato una rappresentazione spirituale in lo Chiostro delli Fratti di S.Pietro d’Arena, et riuscitte benissimo: Vi era gran concorso di persone particolarmente di donne. Li figlioli sono doi di Gio.Batta Pallavicino q.Damiano e uno di Ger.o Grimaldo q.Luce; li altri erano figli di huomini di S.Pietro d’Arena”)
Questi uomini (più spesso appartenenti alla stessa classe sociale –e quindi ‘fratelli’-, si riunirono in associazione sia per pregare ma anche per riunirsi laicamente in autonomia del clero; e preferirono non farlo in chiesa quanto invece in locali annessi, laddove poter discutere e quindi instaurare un punto di aggregazione sociale, ed appoggio culturale o di soccorso nelle spicciole necessità della vita quotidiana.
AGGREGAZIONE = In tempo di religiosi –prevalentemente francescani e domenicani- dal forte carattere che predicavano -tra l’altro- la penitenza, minacciando gravi castighi (s.Pier Damiani, s. Domenico Loricato, s.Antonio da Padova, s.Francesco d’Assisi, l’eremita perugino Raineri Fasani) divenne nuova l’ idea-sviluppata in campo internazionale- di manifestare il pentimento in forma organizzata, più qualificata e clamorosa tale da stupire, ammirare e da emulare. La primogenitura –relativa alle prime due decadi del 1200- è variamente attribuita: fece poi scalpore quella prodotta dai frati francescani in Umbria nel 1258, dal Fasani nel 1260 (per noi, i più vicini francescani e quindi fautori di questi ‘ludus’ erano a SestriP): sorse come festa di popolo affiancata all’uffizio liturgico (celebre quella dopo la predica di s.Antonio da Padova nel 1225: la folla iniziò a flagellarsi e cantare pie canzoni), organizzando i personaggi che vennero chiamati “Disciplinanti” in onore della Passione di Gesù (altri scrive ‘Disciplinati’ dalla traduzone latina di “domus disciplinatorum s.Antonii in conventu s.Dominici”; Roscelli a pag.150 scrive - presumo erroneamente - la ‘Confraternita della Morte’: perché questa è tardiva nel tempo e corrisponde a quella dell’oratorio omonimo, una volta esistente in via N.Daste ora sarebbe in via A.Cantore). Questi, acquisirono -su tutti gli altri tipi di aggregazione- la maggiore importanza e popolarità, diffondendosi rapidamente anche in Liguria. Anche il noistro Oratorio di san Matrtino, appartenne a questa categoria. A Genova una prima rappresentazione risale al 1260 (quando Sinibaldo Opizzoni venne a Genova con grande compagnia di persone che denudati nel dorso iniziarono a girare per le vie gridando “misericordia”, battendosi ed invocando Maria perché intercedesse con Gesù per i loro peccati. Ebbero un buon successo di folla, e tutti gli storici concordano che furono il seme da cui germogliarono le prime Confraternite (oltre una dozzina a Genova in quella data; altre numerose, nelle riviere, un secolo dopo).
Come sempre, l’idea ebbe varianti per allargamento inventivo (di essi più famosi sono i ‘penitenti’ (che andavano vestiti di sacco e cappuccio ‘invocanti’ la misericordia divina o che si sottoponevano spontaneamente a severe proibizioni). Essi furono esasperati poi dai ‘flagellanti o battuti’ (che girando l’Italia diretti in Provenza eseguivano penitenza pubblica, istericamente autofrustandosi a sangue o automortificandosi con il cilicio).
Prevalsero però poi, alla fine del 1300, gli atteggiamenti più moderati e pacati, seppure sempre con fervore ardentissimo, chiamati i ‘bianchi’ (provenienti dalla Provenza, erano vestiti di sacco, ancora biancato dalla farina (saio), fermato da una corda alla vita, e con cappuccio coprente tutto il volto salvo due fori per gli occhi: diedero l’avvio ai costumi tipici delle Confraternite).
Assieme ai religiosi, sicuramente divennero gli infermieri degli Ospedali (XV secolo); dei Lazzaretti (XVI); delle Scuole di carità e del Monte di Pietà (XVII). Più tardi divennero anche mecenati dello sviluppo dell’arte sacra (XVIII).
ORATORI= Una delle prime necessità fu di crearsi e costruirsi un locale proprio, (laddove non ne erano reperibili nell’ambito della chiesa): sorsero così, prevalentemente nel XV secolo gli ‘oratori’, favoriti da leggi approvate dal senato della Repubblica e dalla aspirazione ad una propria autonomia (per ottenere la quale si autotassavano e si proponevano per donazioni ed eredità; arrivando poi -spesso- a possedere beni cospicui).
REGOLAMENTO o statuto= Apparve ben presto necessario regolarizzarsi con statuti, fissare gerarchie, comportamenti, multe, cerimoniali (abiti (cappe di velluto, più o meno ricche in rapporto alla gerarchia, a volte con strascichi e paggi a sorreggerlo; bottoni appositi; cappucci ricamati), Cristi; casse; mazze ornate con statue d’argento del Patrono; crocchi per sorreggere i Cristi; fanali; e tanti beni vari) sia per testimoniare in processione la propria fede, sia per evitare abusi ed eccessi (essere disarmati perché le ovvie rivalità, non finissero in inevitabili risse).
Il più antico a Genova, risale al 1306 nella chiesa di s.Domenico, ove sta scritto che stavano «congregati per lo bonu statu di la compagnia».
Oltre poi ai regolamenti interni, fu necessario nel 1530 circa, istituire sia per Genova che per il suburbio e territorio della Repubblica, uno speciale Magistrato -detto dei Quattro Sindaci- che sorvegliasse l’osservanza alle regole di base dettate dal Senato. Così aggregate ed uniformate, le confraternite si trovarono riunite in Casacce (in un documento notarile del 1561 per la prima volta viene scritta la parola ‘casacia’ come volgarizzazione di casa, nome dato come ‘domus’ alla sede delle Confraternite stesse alla loro nascita), fino a divenire sinonimo stesso di Confraternita, di sede specifica per le attività caritativo-assistenziali, parrocchiali e di aggregazione organizzate dal Direttivo.
1923
STORIA LOCALE = Della casaccia di Promontorio, ne parliamo alla voce specifica.
Qui era quella di san Martino: si hanno notizie di essa in una lettera datata 1825 nella quale il priore – nel rivendicare il diritto di trasportare i defunti (vedi sotto a quella data) - esprime che dai documenti a sue mani (in particolare il libro dei confratelli defunti, risalente a quella data: documenti andati perduti con il bombardamento) tale funzione era esercitata dalla Compagnia la quale ‘esisteva da prima del 1379’.
Nulla si ha di ufficiale, sino al 1582, quando alla Pieve fu ospitato - quale severo visitatore apostolico - mons.Francesco Bossio, vescovo di Novara (visita effettuata a tutte le chiese e comunità religiose, subito dopo il concilio di Trento (1545-63) per dare aggiornamento ed impulso al culto della Madonna in contrapposizione al protestantesimo; nella sua relazione si legge che fece tagliare dalla “ Casacia Sancti Martini in villa Sancti Petri de Arena“ degli alberi vicino ad un cimitero (‘coemeterio ante fores ecclesiae arbores extirpentur’= presumibile lo stesso da cui emersero nel dopoguerra ‘45 dei resti umani durante il rifacimento del palazzo soprastante; esistevano cimiteri all’aperto in quell’epoca solo per i poveri: i ricchi venivano sepolti in chiesa). DeRobertis aggiunge altre e precise istruzioni, rilasciate dal prelato direttamente al parroco così responsabilizzato di persona, da attuare entro quattro mesi, mirate a migliorare la decorosità della forma ecclesiale (che però a mio avviso riguardano più la chiesa dell’Oratorio): fece ingrandire la predella e l’altare maggiore; collocare la ‘pietra sacra in modo conforme; fare una ‘umbrella’ (sopra l’altare) con un panno di seta; trasferire la pila dell’acqua santa; ingrandire la sacrestia; arricchire i paramenti sacri munendoli di pettorali, borsa e purificatoi; munirsi di tre veli da calice di colore diverso, di tre tovaglie d’altare, di due palli – uno bianco o rosso, un altro nero o viola - di due casule degli stessi colori.
Così sappiamo che allora esisteva già una organizzazione a Confraternita; quando questa aveva deciso costruire un Oratorio proprio, è scritto sopra. Comunque l’edificio fu eretto a monte della chiesa, a forma di L rovesciata (╗) la cui parte verticale era l’Oratorio, e la parte orizzontale era suddiviso in cella campanaria, canonica ed abitazione della perpetua. L’Oratorio era un grosso vano rettangolare, con abside ed altare maggiore posizionati a monte, e due altari laterali. Un tetto unico copriva in forma non differente dalle costruzioni tipiche di allora; sotto di esso erano due grandi finestre lobate, mentre – sopra il fastigio dell’altare maggiore - ve ne era una più grande, schermata da vetri colorati. L’ingresso era in basso, sulla facciata laterale interna; dava accesso ad un vano molto piccolo, tipo ingresso, prima della chiesuola vera e propria; nel quale erano affissi i due crocefissi.
Le casacce ebbero il loro apogeo sociale e politico con l’inizio del 1600, ed il loro tramonto alla fine del 1700. Infatti anche l’arcivescovo Domenico DeMarini negli anni 1629-32 si interessò dell’Oratorio, riordinando di fare entro sei mesi un ‘umbrella di seta’ sopra l’altare maggiore (probabilmente non essendo stato eseguito il dettato del Bossio)
Una serie progressiva di ‘spese’, sono frutto e conseguenza del lento sviluppo e maturazione culturale dell’associazionismo, che inizia a rilasciare documentazioni di sé: così sappiamo che nel 1649 la Compagnia dei Disciplinanti di san Martino è composta da due priori, tre consiglieri e 44 confratelli, i quali ultimi potranno arrivare a 72 (il numero, frequente imposto in tante Confraternite, nasce da un passo del Vangelo di Luca (10.1) dove si dice che Gesù designò eguale numero di discepoli da inviare a due a due a raccontare la nuova fede): era iniziato proponendo rappresentazioni religiose popolari semplici come preghiere o laudi cantate, e si passò a rappresentazioni tipo teatrali più complesse, a loro volta lievitate in quelle più immediate e di grossa partecipazione delle processioni; e queste poi cresciute di intensità in vere e proprie competizioni nella ricerca del bello, del vistoso e grandioso, per stupire le altre congregazioni e contrapporsi –tramite la religione- al lusso dei nobili.
In questo periodo oltre che al servizio della propria parrocchia, la rivalità tra loro trovò sfogo anche sull’estetica (possedere tante cose belle e preziose significava essere generosi e magnifici: abiti di fini tessuti, mantellette, cappe o tabarrini finemente e riccamente decorati; cristi sempre più pesanti, comunque superiori ai cento chili, ed arricchiti di argenti ed oro a sbalzo vere e proprie lavorazioni fantasiose di oreficeria; casse scolpite da artisti di massimo valore e con pitture ricoperte con lamine d’oro zecchino); sulla forza (il tenere in equilibrio e trasportare cristi sempre più appesantiti divenne un’arte raffinata e non da tutti, adatta a far presa sul gentil sesso che ammirava chi riusciva a mantenere in equilibrio quell’enorme peso pur eseguendo passi di danza, sapersi genuflettere e rialzarsi o virtuosità diverse); sulla rappresentatività (la presenza nelle processioni è richiamo ai fedeli a partecipare): il povero dava sfoggio di ricchezza tramite l’associazionismo e sotto il tollerato mantello della religione; ma assolutamente è da rifiutare il preconcetto che si raccogliesse solo ‘arte povera o popolare’, perché le scelte andarono a cercare artisti anche ‘foresti’, valutati ‘alla moda’ essendo presenti nelle chiese e palazzi più prestigiosi della città. L’impegno religioso spesso si sommava e si confondeva col bisogno dei meno abbienti di riunirsi, distinguersi con una divisa, ed esprimersi nel possedere il bello gareggiando con i patrizi: da qui l’affetto nell’abbellirsi sempre più; la cura nel conservarlo con zelo; il puntiglio di essere sempre migliori.
Ancora del 1654 quando l’arcivescovo, card. Stefano Durazzo, in seguito alla visita pastorale nelle parrocchie e dei maggiori luoghi di culto, fece chiudere una finestra presso l’altare del Crocifisso e riunire la reliquia dell’oratorio con quella dell’abbazia in una unica teca d’argento (i confratelli possedevano conservata in una teca collocata in una nicchia nel coro una preziosa reliquia, tramandata di derivazione dalla santa Croce). In più, scrive che: esiste “l’Oratorio de Disciplinanti di S.Martino in quale si celebra, et oltre l’altare maggiore vi è l’altare del SS.Crocifisso al quale è una compagnia particolare con capitoli approvati dall’ordinario”(quindi uno statuto; con modalità di iscrizione, elezione di priori e consiglieri, obblighi degli associati, ecc.).
Ma in altro documento dell’archivio storico del Ducale, nella stessa data si ricorda che il capitano della Polcevera, Gerolamo Spinola, a causa dei dissapori interni alla Casaccia prese d’autorità a nominare i dirigenti ed il regolamento, portando ‘a buon fine’ i dissidi.
Questo fermento fu forse la causa nel 1689 di una disposizione arcivescovile mirata a frenare usanze non gradite al parroco; in particolare si proibisce nelle feste solenni far celebrare messa nell’Oratorio (concedendolo invece nelle domeniche ordinarie e per le messi in suffragio delle anime del Purgatorio).
Gli associati, necessariamente di età superiore ai 17 anni, erano suddivisi in severi ordini gerarchici, con un priore a comando (gerarchicamente sottoposto al parroco, ma molto influente nelle decisioni parrocchiali a seconda delle personalità); i Consiglieri (che comandavano i singoli, ma anche le varie compagnie (quella dei crocifissi, quella della ‘cascia’, del coro, delle donne) alcuni dei quali svolgevano ruolo anche di pacificatori (‘mantenere l’unione e la concordia tra di noi tutti’)); ed infine l’Università dei fratelli.
Sono di quegli anni degli inviti alle altre Confraternite (sicuramente a quella di Coronata) per partecipare assieme ad alcune cerimonie; e si dava anche libera la possibilità di risiedere nel nostro borgo ed iscriversi altrove (reciprocamente nei documenti dell’Oratorio di NS Incoronata del 18 ott.1665, all’art.4 si fa norma “che il Superiore pro tempore debba la seconda domenica di ottobre giontarsi con li Consiglieri quali unitamente doveranno fare nomina di sei persone cioè due di S.P.D’Arena, due di Coronato e due di Cornigliano che bebbino andar sotto l’approvazione per Priori...”.). Con queste Confraternite limitrofe (quella di NS Incoronata, S.Stefano di Rivarolo, s.Martino di Pegli) non sono solo rapporti di presenza nelle occasioni di festività solenni ma anche di aggregazione e ‘conserva’ negli impegni e funzioni (esempio, nel trasporto dei defunti, su richiesta dei familiari, una di esse poteva svolgere il servizio, al posto di quella di diritto per località dell’evento)
E sicuramente, questi confronti esterni furono causa di un graduale ma intensivo migliorare l’apparato decorativo interno.
Di altissimo pregio ed unica divenne la ‘macchina per processione’: una scultura in legno di Anton Maria Maragliano (1664-1739, intagliatore genovese,emerso tra gli operatori della stessa arte per bravura e capacità di soddisfare i desideri di maestosità a sfarzo richiesti dai committenti) col gruppo: il santo Martino, la Madonna col Bambino ed angeli, intitolata “apparizione della Madonna a san Martino”, compiuta nel 1703.
Rappresentava la Madonna, in posizione elevata, nell’atto di accogliere le suppliche del santo, in posizione di intermediario tra cielo e terra in quanto -con la mano destra- Le indicava la folla dei fedeli idealmente posizionata in basso (tale sequela, finalizzata ad esaltare gli stadi della religiosità, verrà riproposta dal Maragliano in molte altre casse da lui costruite.
Acquistata per 400 lire, fu ospitata sull’altare a sinistra, ed adoperata come “cassa” o “macchina” per le processioni; alla consorteria era costata 400 lire; ma nel 1774 più del doppio costò il ricolorarla perché Lorenzo Campostano, reputatissimo in questo lavoro (anche per altri interventi in altre sedi, di ripintura e restauro delle opere del Maragliano), usò molto oro in rilievo sul fondo pitturato, mirando ad imitare alla perfezione le antiche preziose stoffe genovesi.
Anche queste vesti processionali, appartengono alla prima metà dell’800
È del 1705 quando si comprò un grande Crocifisso,da porre sull’altare di destra, opera dello scultore sampierdarenese Pier Maria Ciurlo (vedi vico Ciurlo: a lui attribuite sono conosciute solo due opere: questa per l’Oratorio andata distrutta; ed un’altra esistente alla Cella dapprima attribuita al Pittaluga); si sa per riferito, che i due “cristi”, uno “bianco legno” ed uno “nero ebano” erano posti ultimamente uno di fronte all’altro, nell’ingresso dell’Oratorio. Un secondo Crocifisso fu scolpito da AntonMaria Maragliano, ovviamente per questo di gran pregio, datato 1743
Belle e preziose tele arricchirono le pareti della piccola chiesa,di autori definiti ‘di ottimo livello, con punte di eccellenza’ acquistate negli anni dopo il 1726 e pressoché tutte ispirate a episodi della vita di san Martino l’un l’altro complementari (un’idea può farsi attraverso l’unica foto visibile sopra o visitando altri oratori tipo quello di Coronata): posta sulla parete destra e di Sebastiano Galeotti, la ‘guarigione di un’ ossessa’ (Alizeri precisa che essa era del 1732 ed era ‘fermato sulla destra parete’. Dopo il bombardamento risultò gravemente lacerata dalle macerie e mancante di un largo pezzo centrale, salvandosi solo la figura del santo a sinistra, fermato nell’atteggiamento di –seduto- porgere il braccio destro alla figura femminile in primo piano a destra il cui volto ed i panneggi retrostanti sono stati lesionati dallo strappo), ed aveva accanto il seguente, di Domenico Parodi, il ‘Valentiniano II ed il suo trono avvolto dalle fiamme’. Anch’essa riportò numerosi strappi e vuoti dal bombardamento tanto da comprometterne gravemente la leggibilità. Posto invece sulla parete sinistra, e di G.B. Resoaggi, la ‘visione del Santo ancora catecumeno’ (appariva Cristo additante Martino ai suoi angeli come a dire loro che essendo quello ancora catecumeno, era da Lui stesso definitivamente vestito. Questo quadro è stato catalogato come definitivamente perduto); del savonese Domenico Guidobono, la ‘guarigione di una mendicante’ comprato tra il 1728-30 e giudicato irreperibile; di Giuseppe Comotto, un ‘condannato alla forca liberato’, da altri definito il ‘forsennato scampato al laccio’; anch’esso oggi irreperibile;
di F. Campora
disegno soffitto Oratorio
di Francesco Campora, (1693-1753. nato a Rivarolo, carattere irrequieto, fu a Napoli e Roma per apprendere, ma producendo tele di mediocri qualità. Solo nella maturità riuscì a trovare l’espressione giusta e di valore, come si può vedere a Sestri, in Albaro, Rivarolo, a Sarzana e Bitonto, ed infine anche nel nostro Oratorio. Il Campora era stato allievo di Giuseppe Palmieri (che sei anni prima aveva decorato con angioletti similari la volta dell’Oratorio di Coronata e che quindi –molto probabilmente- fu da modello all’allievo, nel frattempo influenzato anche da Domenico Parodi, il romano Maratta ed il Solimena)). Sue due tele ad olio, in totale, con gli affreschi, costando alla Casaccia 1400 lire, una titolata ‘san Martino guarisce un cieco’ ovvero ‘il miracolo del paziente risanato a un occhio’ questo fu uno dei primi acquisti della Confraternita nel 1736 ed inizialmente posto sull’altare maggiore; altra fu una pala della ‘Madonna con s.Martino, s.GBattista e s.G.Evangelista’ (tela che dopo il bombardamento rimase intatta, ma che è scomparsa dopo; nel 1953 un soprintendente effettuò invano delle ricerche. Raffigurava la Madonna in alto a braccia aperte, e sottostanti i tre santi F.Campora – Madonna dell’Oratorio di s.Martino
Alizeri definì che l’autore «si condusse da buon figurista»; Dellepiane descrive: «...tra ornamentazioni eleganti, minute, capricciose, fughe prospettiche, sinuose cornici architettoniche, nella volta centrale dell’oratorio, in moto roteante, dipinse il vasto affresco della gloria di san Martino. Con l’opera maggiore, armonizzano nella correttezza del disegno e delle chiare scale cromatiche, gli affreschi allegorici del coro, degli Evangelisti nei peducci della volta, e la gloria degli angeli del soffitto che sovrasta l’altare sul quale campeggiava il quadro del San Martino, pure del Campora»).
Alizeri cita esistesse anche una tela di Palmieri (appartenente – secondo lo studioso - ‘ad un’età men felice per l’arte, ma non menoma lode ai Confratelli che tanto fecero in breve tempo e con non lievi dispendj’), comunque scomparsa nel bombardamento.
Quasi tutti questi professionisti sono presenti nella decorazione di altri Oratori (specie Coronata e Pegli), a dimostrazione di un ‘gusto comune’ nell’interpretare il ruolo del laico ordinante, ma molto presumibilmente in parallelo con la decorazione della Chiesa a fianco.
Ebbe un primo restauro nel 1736 affidato sia allo stesso Francesco Campora che dipinse con affreschi le pareti e la volta (nella volta del presbiterio affrescò una ‘gloria di angeli e putti danzanti o seduti sulle nuvole’. Due sono le sinopie conservate a Palazzo Rosso –Gabinetto dei disegni e stampe-: una evidentemente fu scartata nella scelta.;
e sia a G.B.Revelli (o Revello; quadraturista, soprannominato “il Mustacchi”, che per 800 lire compose gli ornati).
La dottoressa DeRobertis precisa che, dalle fotografie e per gli elementi ornamentali, sono rilevabili una ‘maggiore compostezza’ rispetto gli altri Oratori ancora eretti; in particolare lo ravvisa ne «le incorniciature rettilinee e lobate delle tele, le finte paraste con capitelli compositi, i motivi a mensola e a voluta, le protomi di angeli dalle ali dorate ai lati della pala d’altare e delle finestre. Gli stucchi dorati e un’ornamentazione più serrata prevalgono nella zomna del presbiterio e in uno dei due altari laterali; quest’ultimo è caratterizzato da un ricco fastigio a volute, intorno al quale si notano racemi vegetali in stucco dipinto. La parete laterale è qualificata dalle grandi tele rettangolari inframmezzate da paraste dipinyte con capitelli in stucco»; propone l’idea di una progressione decorativa in crescendo, avvicinandosi al presbiterio rispetto.il resto della chiesa; questo era il punto più ricco di dorature e rilievi che si integravano in continuità con gli affreschi del Campora. Nell’abside, in apposite nicchie ai lati dell’altare, erano state affrescate in formato grande, le figure di s.Pietro e di s.Paolo
Sicuramente l’oratorio non andò indenne a saccheggio e sopruso, ai quali fu sottoposta tutta la popolazione, durante le invasioni austriache; specie quella del 1747 quando la ritirata dell’invasore fu accompagnata da rabbiosa ruberia e devastazione.
È conservato nei registri manoscritti dell’oratorio di Coronata, datato 1754 e registrato due anni prima davanti a notaio, un regolamento riguardante la tassa da versarsi dai minolli qui iscritti (anziché all’oratorio di san Martino), a testimonianza di accordi di collaborazione e reciproca tolleranza.
Il testo del Ratti, edito nel 1766, descrive la presenza di tele, affreschi e stucchi eseguiti dai migliori artisti locali del tempo.
Con la presa di governo nel 1797 della Repubblica Ligure, inizia un periodo di estremo e rigoroso controllo di tutte le istituzioni religiose da parte della Municipalità della Polcevera. Il 2 maggio 1798 il segretario generale del direttorio locale, fornì ai superiori l’inventario degli ori e preziosi vari sequestrati nelle 20 chiese: di fronte al valore di lire 75 requisite all’Oratorio della Morte, la somma ritirata al nostro Oratorio fu di 18.018 (la più alta di tutti, compreso della Cella (L.6048), Belvedere (L.210), la parrocchia stessa di san Martino, ormai quasi in disuso ma con beni corrispondenti a L.5080). Pieno di titubanza ed ossequio verso in Direttorio esecutivo, il priore GB Morando q. Giuseppe scrisse (cofirmata dal vice Antonio Pittaluga) una lettera di rimostranza ‘per i modi precipitati e iritanti’, ‘con la generale insoddisfazione di un pubblico così ben affetto al governo’, concludendo ‘ a presentarvi le giuste nostre istanze onde ci sia permesso il ricupero suddetto’. Sappiamo che pochi anni dopo, nel 1803, i confratelli erano 220.
Sono documentate presso le altre confraternite genovesi le disposizioni limitative che il governo impose a tutti gli iscritti e sacerdoti: elezione degli Amministratori da parte della Municipalità; obbligo per essi di comparire di fronte ai Commissari del governo per sentire lette le ordinanze ed obblighi relativi alle disposizioni scelte per la gestione degli oratori; non poter vendere o comperare alcuna proprietà né radunarsi, o fare processioni né celebrazioni liturgiche senza l’assenso delle autorità. Alcuni altri oratori – non si sa del nostro - furono utilizzati per cerimonie civili quali feste patriottiche o comizi. È ovvio il degrado a cui andò incontro tutta la struttura. Un ultimo decreto napoleonico del 1811 a seguito de precedenti, riguardante sia gli ordini monastici sia gli oratori, determinò infine la soppressione delle congregazioni laiche e quindi la chiusura di molti oratori e dispersione dei loro corredo liturgico e patrimonio artistico (quadri, casse, crocefissi, statue, vesti, ecc). La restaurazione permise a molte di ricuperare i beni e la libertà d’azione.
Nelle processioni, veniva portato anche un gonfalone; il Priore ed i suoi Vice, procedevano in processione portando della mazze molto probabilmente d’argento (appunto dette mazze processionali) che sono andate perdute. All’apice esse avevano scolpiti, una la Vergine e l’altra il Santo. Dalle riproduzioni fotografiche e dalle caratteristiche dei motivi ornamentali (specie i motivi floreali del basamento), sono attribuibili alla prima metà del 1800 tutti i Confratelli seguivano - reggendo i Crocefissi, il gonfalone (con l’effige dell’’Assunzione’, scomparso col bombardamento, era stato dipinto da G.B.Chiappe) ed i pastorali- vestiti con lunghe e prestigiose cappe, munite di cappuccio, tutte in seta cremisi, lavorate e ricamate con fregi d’oro; mentre il tabarrino era in velluto nero, anch’esso fittamente ricamato (si dice ‘broderie’) con fili d’oro e d’argento (due cappe e due tabarrini sono conservati presso la Confraternita del ss.Rosario di Marassi). Solo dopo vari lustri e con la restaurazione (1815), consenzienti i reali piemontesi, sia le Associazione che le Casacce ripresero le manifestazioni; ma le seconde, seppur mantenendo prevalente il carattere religioso e di pia associazione, perdettero quel forte valore e potere perché troppo spesso sconfinavano nel politico e sociale, con ovvie ripercussioni sulla loro libertà d’azione.
È datato 1822 quando finalmente si riuscì ad avere un sacerdote fisso a testimonianza della concessione di celebrazione della s.Messa e conservazione del SS.Sacramento come custode dello steso e dell’assistenza spirituale della zona, in un periodo in cui l’abbazia era non in atto, e quando della funzione parrocchiale era incaricata la Cella.
Come relazionato in inizio della trattazione, nel 1825 i priori Francesco Dalorso e Antonio Pittaluga q.Andrea (?), scrivono al Vicario Generale genovese rivendicando il diritto della Confraternita nei confronti dell’Oratorio della Morte ed Orazione in merito al trasporto dei defunti. Nella lettera si vantano essere unici a poter svolgere questo ruolo, da quattrocentocinquant’anni (prima del 1379; e non da 70 anni come la Confraternita concorrente, data da essi stessi scritto nella richiesta alla Curia, stilata nel 1803). Si vantano altresì essere aggregati alla “Sacrosanta Chiesa Lateranense, ed all’Arciconfraternita del Gran Gonfalone di Roma".
Nell’anno 1876 il priore dichiara un reddito netto di lire 66,08.
Nel 1898 invece viene redatto un inventario dei beni, comprensivi di 1262 lire (£.800, l’appartamento del sacerdote+50 oggetti di culto+330 rendite varie+82 la quota associativa dei confratelli (una lira a testa)).
Il 3 nov. 1911 l’assemblea generale della Confraternita approva un nuovo statuto, conformato alle leggi allora vigenti in merito; tale statuto venne poi approvato dal Comune del borgo il 18 dicembre successivo.
Ancora, -1920- quando l’arcivescovo card. Tomaso Boggiani, erigeva la chiesuola a succursale della parrocchia di san Gaetano, col titolo di rettoria. Ovviamente possedeva un gonfalone proprio.
Nel 1933 era rettore il sacerdote P.Opizzo
Nel bombardamento del 7 nov.1942 l’oratorio andò completamente distrutto. È possibile che alcuni pezzi - come in particolare le teste di due angeli - rimasti illesi, siano ricomparsi su mercati antiquariali e in collezioni private. Il recuperabile fu trasferito alla Cella o all’arcivescovato.
Da alcuni anni, i fratelli Bisio, Ottavio e Marco si sono assunti il gravosissimo onere di far rivivere la antica confraternita presso la chiesa della Cella. L’appoggio del parroco permise di ricuperare parte degli oggetti ed arredi di proprietà, e lì ospitati; altro materiale è archiviato nei fondi dell’arcivescovado, ma - per vari motivi - notevoli sono le resistenze a riportare alla luce, e rimettere questi reperti in mani generose e disinteressate o quantomeno responsabili super partes, come il confratello Remedi o il parroco stesso.
In compenso, essi stessi non sono personaggi facili: una ‘riservatezza’ abbondantemente oltre i limiti della normalità e non certo per timidezza, anzi ai limiti della superbia, ridimensionata solo dalla costante partecipazione alle faticose cerimonie; ma restii a fornire notizie, idee, programmi, ecc (la stessa de Robertis nel 2007 scrive, relativo alla documentazione in mano all’attuale priore, che “non ne è stata possibile la consultazione ai fini della stesura del presente studio”).