MONASTERO piazza del Monastero
TARGA: piazza del Monastero.
QUARTIERE ANTICO: Comune
da MVinzoni, 1757-In celeste la crosa dei Buoi; giallo vico della Catena; fucsia la villa del Monastero con a monte il chiostro; rosso la via del Monastero.
N° IMMATRICOLAZIONE: 2807 CATEGORIA: 2
dal Pagano 1967-8
CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n: 39580
UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA
da Google Earth 2007- in giallo il teatro Modena; celestre il ‘Baraccone’ del Sale
CAP: 16149
PARROCCHIA: s.Maria della Cella
STRUTTURA: piazza comunale con traffico viario che collega in senso unico via Sampierdarena verso via del Monastero e piazza Vittorio Veneto da via della Catena. Risulta di 1106 mq., essendo profonda circa 31m.
È praticamente adibita a posteggio auto. I numeri pari posti sul lato a ponente hanno solo il 2 nero e 12 rossi tutti occupati dalla ditta Pittraluga tendaggi e stoffe.
Al civ 8-10r, nel 1950 c’era un bar, allora di Ivaldi D.
È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera
foto anni 1970 – Gazzettino Sampierdarenese
STORIA: della piazza:
Nelle prime carte settecentesche viene chiamata piazza del Monastero, come era d’uso quando non esistendo targhe ufficiali la zona veniva riconosciuta in rapporto a quanto c’era di maggiore evidenza, fosse una persona, un monumento, una chiesa.
Dal 1890 sull’onda degli entusiasmi dell’Italia unita, fu ribattezzata piazza XX Settembre (vedi), e tale rimase finché il podestà di Genova, il 19 ago 1935 deliberò il ritorno all’antico nome. In quegli anni le case erano abitate da: civ.1 e 5, Rivaro Francesco (Pretura); civ.2 Scuole Maschili Proprietà Municipale; civ.3 Grasso e C ; civ.4 Bertorella Colletta.
Nel Pagano/40 è sotto questa titolazione, da via N.Barabino a vico della Catena evia del Monastero. Come nn. Civici neri ha al 4n la red. del Giornale “Il Lavoro”; al 6n il r.Ginnasio G.Mazzini + biblioteca Civica +
il prof. Zononi G.. Nei civici rossi: 3r Pittaluga tessuti; 6r calzolaio; 8r bottiglieria; 11r latteria; 12 cartoleria.
Al centro, contornato da ringhiera, troneggia il monumento dedicato a Garibaldi, opera dello scultore Augusto Rivalta (AL.1838-1925; allievo della Accademia Ligustica di cui divenne accademico nel 1866; volontario garibaldino nei Cacciatori delle Alpi nello svolgimento della II guerra di Indipendenza; si trasferì nel 1859 e visse a Firenze mantenendo rapporti con gli ambienti artistici locali e genovesi; è lo stesso artista che produsse il monumento a N.Barabino, gli unici due della nostra città di grosse dimensioni (ma anche a Chiavari –1890-; ed in piazza DeFerrari - in largo Pertini, nel 1893-, ambedue a Garibaldi. Anche a Raffaele Rubattino a Caricamento). Era epoca di tradizionale espressione artistica e quindi facile alla ripetitività delle immagini ed alla loro banalizzazione: alcuni –pittori come i macchiaioli e scultori come il Rivalta- cercarono una personalizzazione nell’aderenza alla realtà (come NBarabino) purché essa fosse capace di stimolare vivacemente anche la fantasia (come poi Rayper, GBDerchi, ecc., soprattutto D Conte che a Firenze fu allievo del Rivalta in virtù di una borsa di studio rilasciatagli dal Comune di SPd’Arena). Essi e molti vincitori del premio dell’AccademiaL concretizzarono un ponte ideale tra SPd’Arena e Firenze, centro d’arte basale subito dopo Roma. Avere i bozzetti o disegni delle opere del Rivalta, era motivo di orgoglio per il possessore: lui fece comporre un album ufficiale, da esporre nel salone delle città all’Esposiz. Internaz. di Roma, del 1911, in occasione del 50enario dell’Unità d’Italia.
manifestino per onioranze inaugurazione prima collocazione nella data manca la M (anno 2011)
proprietà Majocco Giuseppe/Cercamemoria foto Biblioteca Gallino
Il bozzetto, datato 1893, è conservato al Museo del Risorgimento; i calcoli di statica e peso furono eseguito da Riccardo Haupt (architetto genovese di origini tedesche, collaboratore del Rivalta; propose alcune modifiche al basamento, che furono accettate ed in effetti è diverso da quello adottato); l’opera fu approvata in Consiglio comunale (per l’opera in totale fu preventivata una spesa di £. 20mila lire: £. 9500 furono tratte dalle sottoscrizioni popolari; il Municipio accettò la spesa di £. 5500); ovviamente non senza ostruzionismi ed ostilità anche tra gli stessi socialisti (il quotidiano “il Lavoro” pubblicò vari articoli contro giudicando inutile pazzesca la monumentomania che investiva 20mila lire per erigere il monumento), e fu pagato previa partecipazione alla spesa dei cittadini con autotassazioni e organizzazioni di feste (tra i tanti, soc.Universale, Croce d’Oro, Sampierdarenese, N.Barabino ecc, il club velocipedisti di San Pier d’Arena organizzò il 31 maggio 1885 una giornata sportiva nei giardini oggi Pavanello: vi era stata approntata una pista in legno di 350m e dalla Lanterna alla pista, un’ala di folla festeggiò i partecipanti assieme al sindaco, la giunta, i parroci e dirigenti di tutte le industrie; Davidson vinse la gara “San Pier d’Arena” correndo a 30 all’ora e doppiando tutti gli altri, essendo anche l’unico a possedere un ciclo da corsa; la gara “Garibaldi”, fu vinta da Cesare Buttolo. Il considerevole ricavato della giornata, fu donato per il desiderato monumento. Tale manifestazione, con identico scopo si ripropose il 25 giu.1905 con grande raduno sportivo in piazza d’Armi, e con la partecipazione di tutti i migliori atleti regionali, di ginnastica, atletica, scherma, ciclismo e motocicli). Tra le spese va annotata anche quella della coniazione di una medaglia commissionata all’incisore Pietro Ferrea: con le effigi in tondo di Mazzini e Garibaldi - affrontate, separate da un fascio repubblicano - con scritta Sampierdarena - P.Ferrea Genova.
Il monumento fu inaugurato il 22 giugno 1905, in occasione del primo centenario della morte di Mazzini, con un discorso del sindaco Nino Ronco (e dedica a Giuseppe stesso ed a sua madre Maria, delle scuole ai lati della villa Scassi). Sul basamento porta l’ iscrizione “a / Giuseppe Garibaldi / Sampierdarena / MCMV“ (la prima M è caduta e dal 2005 non sostituita); al lato mare, un bassorilievo sormontando da un’ aquila illustra l’ episodio saliente di tutta l’epopea garibaldina, la partenza dei Mille.
Sul lato a monte di fronte alle scuole, vengono ricordati dei garibaldini sampierdarenesi con la scritta di poche parole: “ all’ideale dei Mille (all’ufficio toponomastica del museo di s.Agostino, appaiono riportate queste prime parole “all’ideale del Duce – diedero il sangue...) – diedero il sangue - QUIRICO TRAVERSO - PAOLO GALLEANO – PRIAMO MACCIO’ – CARLO MERONIO - Sampierdarenesi “ (vedi a ‘piazza dei Mille’).
Garibaldini quindi, ma – escluso Traverso - non dei Mille; ed - escluso Galleano, non conoscendo di Macciò- non sampierdarenesi se non come abitanti.
Remedi propone l’idea della loro iscrizione sul retro del basamento, perché allievi dell’istituto – e quindi a simbolo della partecipazione e collegamento tra la scuola e Garibaldi.
Di uno di essi, di nome Galleano Paolo si è saputo che fu figlio di un sarto Filippo, e di Ferrari Caterina, cucitrice; nato alle ore 4 del 13 marzo 1839 e battezzato alla Cella dal curato don Benedetto Chiappe; padrini tal GB.Ferrari, tintore e Galleano Anna nata Tubino casalinga. Morì combattendo, durante l’assedio a Gaeta il 13 febb. 1866.
Risulta esserci un omonimo garibaldino, che sopravvisse fino alla battaglia di San Martino.
Carlo Malinverni, nella sua poesia “i Carabinê” (vedi bollettino ACompagna n.2/2010), lo cita:
...
Garibaldi o-i ciammava: – i mæ bravi
boin zeneixi: – tra lö gh’ëa ûn pittin
di fighæti a ûzo Canzio, a ûzo Savi,
e Bûrlando e Belleno e Dapin
e Sartoio e Gallian, – e via via,
tûtti zoeni de sò obbligasion:
pöso e chêu: ma a campagna finia,
se i contemmo, oimemi! quante son?
Dixe: – veddei ciù e là, derré a ûn costo
a ogni colpo ûn borbon peccettâ!
Vedde quella gran barba de Mosto
…
Degli altri tre non è stata ritrovata traccia alla Cella tra i nati 1815-45, probabilmente cittadini locali ma nati altrove; infatti sappiamo che Meronio Carlo, nacque alla Foce nel 1844; ma in tenera età si trasferì a San Pier d’Arena dove iniziò a lavorare come segatore di legname. Quando partecipò alla spedizione dei Mille, aveva poco più di sedici anni; il suo nome compare tra i soci dirigenti dell’Universale ove- autodidatta- insegnava nelle scuole serali quello che aveva appreso senza titoli ufficiali e quando pubblicò un opuscolo intitolato ‘Parole di un Operaio’. Combatté in tutte le campagne garibaldine dopo il 1860 escluso quella di Mentana perché ormai ben conosciuto dalla polizia, fu arrestato mentre stava per partire ed assieme ad altri volontari si ritrovò vigilato speciale a San Pier d’Arena, senza poter raggiungere i compagni che combattevano a Monterotondo; e poi con Menotti Garibaldi in Tirolo (1866) e l’anno dopo a Mentana ove furono amaramente sconfitti. Mazzini gli scrisse una lettera da Lugano, ma Maurizio Quadrio annotò che non era stata recapitata perché il Meronio era partito, corso in difesa della repubblica francese sempre nelle file garibaldine andate contro i prussiani che nel 1870 avevano invaso la Francia (in questa occasione gli otto sampierdarenesi accorsi, furono bloccati alla frontiera e ricondotti a Genova su un carrozzone per essere imprigionati in sant’Andrea; ma ritentando appena usciti, riuscirono ad unirsi al Generale); il 26 novembre,all’assedio di Digione assieme a Giorgio Imbriani, correndo all’assalto alla baionetta sotto una tempesta di fuoco nemico, a pochi metri dalle mitragliatrici nemiche cadde gridando ‘viva la Repubblica, viva Garibaldi’. All’Universale sono conservati alcuni cimeli (la sciabola, l’orologio forato da un proiettile –sospetto della sua morte-, un ritratto fatto postumo a memoria da Carlo Orgero. Il giorno della sua morte, Valentino Armirotti commemorò l’amico esaltando la sua abituale semplicità e costante disponibilità all’altruismo; sottolineando la sua coerenza di repubblicano dimostrandolo col modo di dare la vita; e stigmatizzando infine quel militarismo che impone l’usanza di esaltare gli ufficiali e dimenticare gli umili soldati); così il 22 novembre 1874 all’Universale fu posta una lapide in sua memoria mentre il pittore Orgero dipinse a memoria un suo ritratto a olio che poi fu distrutto dal vandalismo fascista.
Traverso Quirico di cui si sa che nacque a san Quirico di Polcevera l’ 11.3.1831 da Tommaso; sbarcato a Marsala l’11 maggio 1860 con i Mille, combattendo nella 1ª Compagnia, morì nella battaglia di Maddaloni il giorno 1.10.1860 (sui Traverso presenti tra i Mille, l’Abba fa alquanta confusione l’uno con l’altro, citando anche un Antonio che non risulta esserci stato; vengono citati un Francesco nato a Genova il 19.4.1841, che morì il 10.3.1928 godendo della pensione dei Mille; e Pietro, nato a Prà il 6.5.1833, avvocato, combattente nella 2ª Compagnia e pure lui morto a Maddaloni).
Poco si sa di Macciò Priamo, eccetto che morì nelle battaglie dell’Agro Romano nel 1867 (-dopo la campagna in Trentino, 1866- concluse con la sconfitta di Mentana; non è presente nell’elenco del Bevilacqua).
Non è facile capire perché manca il nome di Giulio Delucchi, sampierdarenese, partito da Quarto, giornalista in amicizia con l’Abba (il quale poi lo cita due volte ne “Le Novelle”).
La scarsezza locale di vistosi monumenti di commemorazione, sia a persone o a simboli (post unitari o post bellici) in città - rispetto ad altre, quali Milano, Torino, Roma - si potrebbe spiegare legandola all’assenza di spiazzi adeguati; ma anche alla mentalità tipica ligure consistente in un minore sentimento di ostentazione e molto misurata esteriorizzazione dei propri sentimenti (specie poi quelli di dolore); oppure alla carenza cronica economica che ci ha resi famosi nel mondo come avari.
Negli anni 1920, a Carnevale, la piazza era il punto di arrivo del ‘cârosézzo’ cittadino, dove ‘una giuria di allegre personalità locali premiava le migliori maschere ed i carri meglio bardati’. Il desiderio di evadere dalla routine di sempre, il famoso ‘semel in anno licet insanire’, avveniva anche in San Pier d’Arena con il carrossezzo. Divenne parte delle tradizioni che, nel piccolo ma molto sentito dalla popolazione tutta ricalcava quelli più famosi di Nizza e Viareggio: in quella data non era una manifestazione limitata ai bambini, come ora, ma vi partecipavano ed era vissuta soprattutto dagli adulti, seppur con semplici maschere, carri fatti col niente ma nati dal cuore, coriandoli a fiumi gettati anche dalle finestre e la voglia generale di divertirsi, divertire, partecipare e fare chiasso con la banda in testa: ali di folla applaudente e carri mascherati trainati da asinelli (vedi 4/33.401). Figure tipiche locali da maschera vengono citate quelle di ‘Genio e Brisca’, del ‘marcheize’, del ‘paisan’ e del ‘mëgo’. Nel 1981, come scritto sopra, fu ripreso per i bambini su iniziativa del sindaco Cerofolini. In tempi più recenti un carrossezzo percorre via A.Cantore, cercando di dare gioia ai bambini ma con scarsa partecipazione degli adulti.
Nel 2003, la circoscrizione ed i Comitati ‘Rolandone’ e ‘via Cantore e dintorni’ promossero per le strade pedonalizzate, nuclei sparsi di attori in gioiosa differente allegria
Nel 1951 fu costruito un caseggiato nella piazza, ma non è specificato quale.
CIVICI
2007= Neri, dal 2 al 6 (nessuno dispari)
Rossi, dall’ 1r all’ 11r; e dal 2r al 12r
===civ 2 Nel gennaio 1881 il rev.do marchese GB Centurione sottopose al sindaco per approvazione “il progetto di sistemazione ed ampliamento di una casa sita sull’angolo sud-ovest della piazza detta del Monastero, la quale costituisce una dipendenza di detta sua casa e di altre proprietà sue contigue alla denominata piazza”. Lì 11 febbraio la giunta municipale con firma del Bonanni approvò il progetto firmato dall’ing. Bruno Salvatore, nel quale si evidenzia una facciata di stile neoclassico in un palazzo a due piani con due sole entrate a piano terra (una facciata laterale prospiciente via C.Colombo) ed avente nella parte centrale alta lo stemma dei Centurione (un drappo con in alto la corona principesca ed al centro di esso uno scudo (con una trasversale a quadretti bianche e neri tipo scacchiera) sormontato da due teste d’aquila riunite da una seconda corona ed aventi negli artigli due bastoni); nel centro invece del primo piano, alto quanto le finestre, in una nicchia, una statua della Madonna (che dal disegno molto assomiglia a quella attualmente nell’angolo tra via S.Canzio e via Cantore, nel palazzo che fu venduto a don Daste dallo stesso principe GB Centurione).
===civ. 4: risulta che affacciata sulla piazza, in questa posizione, esisteva una chiesa del Santo Sepolcro.
Era da poco passato il fatidico anno mille: la profezia aveva caricato gli animi col “mille e non più mille”, creando un fervore religioso mirato -sia alla visita prima- e alla liberazione poi di Gerusalemme. Il movimento di sempre più tanta gente, sia per terra che per mare (ma con le piccole barche, solo di bolina o a remi), certamente creò in tutta la zona un grosso sovvertimento: in bene, una ripopolazione mista e l’inizio di un servizio ‘ospitaliero’ inteso come ristoro ed ospizio per i pellegrini.
L’essere coeva con la Commenda di Pré, porta a pensare possibile siano state erette in parallelo e ambedue battezzate del ‘S. Sepolcro’ (solo quando arrivarono nel 1098 le reliquie di s.Giovanni Battista quella di Pré si chiamò col nome dell’evangelista). Furono affidate ai monaci, presumibilmente Canonici del s.Sepolcro (quelli di Prè, dal documento più antico risalente al 1151 divennero Gerosolimitani, anche detti ospitalieri o dell’’ospitale di san Giovanni’).
incisione del Giolfi del 1750 – chiesa e palazzo.
Potrebbe essere che, prima che le navi partissero tutte assieme per la prima crociata (nel 1095 con Goffredo di Buglione e tanti pellegrini francesi, e poi nel 1098 quando 12 galee più un sandalo trasportarono un altro grosso contingente, l’avrebbero fatta innalzare alcuni Canonici regolari francesi (congregatisi per accompagnare i crociati e pertanto detti del ‘Santo Sepolcro’) col fine di aiutare, assistere e far pregare i pellegrini ed i soldati giunti dal nord Europa ed in attesa dell’imbarco. Questi, sostarono a migliaia sulla spiaggia in attesa di imbarcarsi per liberare il santo Sepolcro in Gerusalemme; si organizzarono -assieme agli abitanti di S.P.d’Arena- per fabbricare un luogo di culto forse ad imitazione di quello da liberare. Oppure nel 1099 quando le stesse navi tornarono trasportando i reduci e parte degli stessi monaci (per l’occasione anche detti dell’ordine dei Gerosolimitani, ovvero nativi da Hierusalem), con gli scopi sia di assistere i crociati quando di ritorno dalla missione furono in attesa di tornare a casa e sia per serbare memoria dei luoghi santi da quando nell’anno 636 erano caduti in mano turca. Il vasto fermento religioso delle crociate, aveva fortemente ingrandito sia l’interesse della popolazione, sia questo ordine monastico che fu chiamato a Genova da Goffredo di Buglione perché prestassero la loro opera a Gerusalemme. (come espresso a ‘la Cella’, è significativa un’altra considerazione: l’erezione di una chiesa con l’identico scopo -seppur più misera nelle proporzioni ed apparentemente inutile doppione di san Giovanni di Pré- è giustificabile solo con l’alto numero di soldati ed animali giunti per imbarcarsi laddove però doveva già esistere un porticciolo ben attrezzato per essere adibito a questa non facile operazione).
Nel nov.1143 la “ecclesia sancti sepulchri” è inclusa (assieme a san Martino) nei capitoli dell’arcivescovo Siro al caput VIIII (sic. al posto di IX) per stabilire “habet crateram unam potionis in pascha et candelas. III. (abbia un vaso di pozione (presumo io sia vino per la messa) nel giorno di pasqua e 3 candele). Nel Foliatium Notariorum, datato 4 gennaio 1156 c’è la volontà testamentaria di Raimondo, di essere sepolto nella chiesa.
Cattaneo Mallone non cita questi due documenti, e non conoscendo affatto la nostra chiesa, fa tutto riferimento a Prè, quando inizia affermando che è del 1182 un documento, segnalato da Tacchella, che fa riferimento ad un ‘ospitale di Capo di Faro’. In più pone dubbi pesanti che a Pré, prima potesse chiamarsi s. Sepolcro e poi passare a san Giovanni. M aammette che nel 1143 esistesse in Genova una chiesa dedicata al s. Sepolcro con annesso ospitale ed i cui sacerdoti pagavano censo alla Curia genovese (mentre quelli Canonici –fondatori- ne erano esenti).
Negli anni del 1200, i canonici furono supportati da monache Cistercensi. Esse, per se stesse, a lato in faccia al mare edificarono un ampio monastero. Sempre il Foliatium del 2 marzo 1221 nomina Rubia quale priora di 11 monache (invece Puncuh fa nascere il monastero nel 1236). Negli atti relativi al 1237, risulta che Gerardo, patriarca di Gerusalemme, accompagnato da altri vescovi, consacrò nella chiesa ‘un altare ai ss. Evangelisti ed altro, particolare, a Giovanni Battista’ (a Venezia, l’evangelista venerato in particolare fu san Marco) Poco in seguito a questi fatti, smorzata la fiammata dell’ interesse, e forse anche in conseguenza dell’estinzione della congregazione stessa -uccisi in Terrasanta o dispersi-, le suore benedettine dopo la riforma di san Bernardo poterono occupare tutti i fabbricati della struttura lasciata abbandonata ma popolarmente ancora chiamata ‘del s. Sepolcro’.
Dal Regsti di val Polcevera, II.268, si legge : 1275, 6 aprile, in Genova, casa degli eredi del q. Ribaldini e Guglielmo Lercari, “...prete Opizzono capellano della chiesa del S. Sepolcro di Sampierdarena, e sindaco di detto Monastero..”(vende a Nicola q.Pietro di Serra (Riccò?) il diritto di rivendicare dei crediti del monastero)
Nel 1396,. il 28 gennaio, 5 suore guidate da Terracina Gentile si trasferirono spaventate dalle guerre tra guelfi e ghibellini che insanguinavano Genova, recandosi in contrada dei Salvaghi a Genova; così, anche la chiesa rimase in abbandono.
Un atto notarile del 1415, 15 agosto, scrive che tal Castello di Fegino, per pagare un mutuo, riceve in prestito la cifra di lire sei ed alcuni soldi, dalla abbadessa suor Tommasina Gentile e dalla tesoriera del Monastero e Convento del S. Sepolcro suor Limbania Cattaneo. Promette restituire la somma entro due mesi in denaro o in legna da cantaro e per il forno; se inadempiente potrà “essere arrestato o detenuto per autorità propria di dette monache”.
Un atto notarile del 27 giu.1422 (FilzaII-2aNumeraz.-n.74) cita che le suore debbono dei soldi per vino acquistato. Sono Limbania Cattanea priora; Orietta Pinella badessa; Maria Massa tesoriera; Bianchina d’Accorso; Cattarina Ceba; Teodorina Spinola. Altre risultano “assenti e mancanti a causa dell’epidemia”.
Nel 1423 badessa è diventata suor Argentina Salvaga; permangono Litania Cattanea priora; Maria Massa tesoriera; Bianchina d’Accorso; Teodora Spinola; Cattarina Ceba. Compaiono nuove Eliana Spinola; Spinetta Spinola; Pietra de’ Grisulfi. ”Convocate al suono della campanella” decidono locazione - di casa con terra stalla e pozzo in contrada la braia - facente parte del Monastero - già affittata a Vertono Garrone q.Lorenzo, deceduto - ad Antonio del Faisollo q.Bertone, fornaio il quale pagherà un affitto, donerà corbe o cavagne di fichi ogni settimana e legna. (FilzaII-2aNumer.-n.182)
L’edificio fu restaurato nel 1472 quando vi tornarono guidate dalla badessa Costantina Spinola: «IESUS MARIA HANC SACROSANTAM AEDEM – FABRICARI SVO AERE IVSSIT – R. DOMINA CONSTANTINA SPINVLA ABBATISSA – SUOQUE TEMPORE SALICATA FVIT ECCLESIA ET CONVENTVS – AD HONOREM DEI ONNIPOTENTIS EIUS GLORIOSISSIMAE VIRGIMIS MATRIS – OMNESS EIVS GLORIOSISSIMAE VIRGINIS MATRIS – OMNES ROGENT DEVM PRO EIVS ANIMA. AMEN – ANNO DOMINI MCCCCLXXII DE MENSE IVLII». L’epigrafe viene conservata presso l’Accademia Ligustica.
Nel 1514 papa Leone X soppresse il monastero, cosicché nel 1530 la chiesa entrò in possesso dei padri Agostiniani della Cella che vi officiarono (e continuarono anche se nel 1549 –come scritto meglio in seguito- il monastero sicuramente ma la chiesa non altrettanto sicuri, fu venduta al nobile Nicolò Grimaldi; e nel 1587 a Barnaba Centurione). Nella primavera del 1582, quale visitatore apostolico, a Genova arrivò mons.Bossio vescovo di Novara mandato dal Pontefice affinché controllasse, riferisse e provvedesse sulle condizioni morali intellettuali del clero e sui beni posseduti; questi, a pag. 209 della sua relazione scrive della chiesa “ecclesia simplex…altare maius solidum sit, aliud altare parvulum et minime congruum diruatur”.
Il 6 luglio 1759 (Remondini scrive 1749) l’arcivescovo Giuseppe Saporiti vi fece una visita: nel verbale appare scritto che la chiesa conteneva più altari e che su un lato dell’altare maggiore dove si pone il Vangelo e vicino ad una porta per andare in sacrestia c’era il marmo poi spostato nelle stalle della villa e da lì all’Accademia delle Belle Arti (infatti scrisse: «a tergo eiusdem altaris maioris Ecclesiae S.Sepulchri – in districtu Ecclesiae parrochialis S.Martini – loco San Pier d’Arena – a cornu Evangelii extat ianua per quam habetur ingressus ad Sacristiam – et prope dicta ianuam visus fuit quidam lapis cum inscriptione valde antiqua litteris goticis sculpta - ex qua eruitur quod saeculo XV dicta capella sive Ecclesia esset propria monialium».
Nello stesso anno, l’arciprete Borelli scrisse all’arcivescovo specificando che in base agli accordi precedentemente presi, sui due altari si celebrava messa da parte degli Agostiniani della Cella.
Nel 1796 i francesi invasero la Liguria apportando le idee rivoluzionarie ed anticlericali: una legge del 1798 autorizzò il Direttorio Esecutivo a raccogliere i religiosi il più possibile assieme in unica comunità ed incorporare i beni delle chiese: così il 13 marzo 1799 gli Agostiniani furono mandati via dalla Cella e dovettero cessare di dire messa anche nella chiesa del S.Sepolcro; quindi vi cessarono il culto e gli uffizi religiosi; Caraceni scrive ‘soppressione dell’Ordine” già dal 1796. Il manufatto nel 1861 fu sconsacrato e trasformato in magazzini ed abitazioni, e tali rimasero fino ancora nel 1912, finché tutta la struttura fu demolita .
Attualmente corrisponde all’ingresso al palazzo delle Poste. Un vecchio civ. 4 fu demolito nel 1994, e ricostruito l’anno dopo.
Occupa una area di 6.849 mq in un’area complessiva di circa 20mila mq, al posto del ‘Palazzo o dock del riso’ (a cui si accedeva da via San Pier d’Arena attraverso un tunnel sotto la corrispondente casa di abitazioni posta a mare ed ancora esistente). Dopo tanti traslochi e fiumi di carta, essendosi rivelato insufficiente quello di recente costruito in via U.Rela, forse è la definitiva sede centrale locale delle PPTT (da san Martino a piazza Modena, piazza Cavallotti (vedere), palazzo del Monastero, piazza detta Galoppini, via Molteni, via U.Rela(vedi)). Progettato dall’arch. Giuseppe Di Blasi con i servizi a piano terra, un garage nei fondi, la facciata curvilinea ed a vetrata di forma definita ‘curtain-wall’; fu presentato al placet comunale a fine 1989; completato nel 1994 con una spesa complessiva di 60miliardi, ed aperto al pubblico nell’aprile ‘95.
Si dice che alcune fondamenta, avendo ostruito un naturale –ora sotterraneo- rivo di scarico dell’acqua piovana, abbia creato dissesto idrologico ed allagamenti nelle fondamenta, da richiedere interventi di aggiustamento.
===civ. 6: la villa CENTURIONE, detta Del Monastero, attualmente proprietà del Comune di Genova.
Vicino alla chiesa eretta vicino alla spiaggia a ponente della Cella, nei primi anni del 1200 (il Ratti precisa nel 1237; Roncagliolo scrive 1183) fu aperto un monastero femminile affidato alle suore Benedettine Riformate, ovvero monache Cistercensi: esse intitolarono la nuova sede alla Vergine, complementando così il nome in “s.Maria del s.Sepolcro”) (san Benedetto –nato a Norcia da nobile famiglia, nel 480 e morto nel 543-, quando riparò a Montecassino nell’anno 529 diramò -probabilmente a voce- le sue prime regole monastiche. Nell’evolvere del tempo esse subirono variazioni e deviazioni tali che nel 1098 l’abate Roberto (poi santificato) decise riunirsi tra abati e ristabilirle per scritto: così, proprio con quello scopo, fondò un nuovo monastero a Cistercio (Cisteaux), presso Dijon in Francia. Da questa località, il nome “cistercensi” dei seguaci (altre riforme diedero origine ai camaldolesi, olivetani, silvestrini, ecc.) che intanto decisero (1103) possedere una tunica bianca –suggerita da un successore dell’ordine, s.Aberigo (o Alberico), in seguito ad una sua visione di Maria SS-. Gli studi della nuova regolamentazione, proseguirono finché nel 1113 Bernardo (poi pure lui divenuto santo e dottore della Chiesa), dall’abbazia di Cisteaux dettò la definitiva regola di riforma basata su quella primitiva di s.Benedetto. L’ordine cistercense da allora ebbe enorme sviluppo numerico acquisendo importanza religiosa, politica ed organizzativa: fu dal loro patrocinio che partì la seconda crociata; che dal 1120 si espandessero in tutta l’Europa, scendendo anche in Liguria ove aprirono la prima loro abbazia a Tiglieto e poi nel 1131 a SestriPonente (l’abbazia di s.Andrea); e che si potesse estendere anche alle suore la possibilità di seguirne i dettami. Questo nuovo ordine femminile ebbe in Genova una improvvisa e numerosa riconoscenza, con apertura di innumerevoli conventi, più forse di altre città italiane. Semeria scrive”si fondarono tanti conventi che in veruna altra città io non saprei trovare uguale moltitudine”).
Per alcuni autori le suore furono dell’ordine dei ’Canonici regolari Gerosolimitani’; ma è un errore, essendo ad essi estinti che esse si sovrapposero nell’occupare la chiesa e convento.
Su carta, sono testimoni (molti dal Foliatium Notariorum) scritti i segg. documenti:
-nell’anno 1221, 2 marzo è nominata una priora in suor Rubia, con una comunità di 11 monache che presero il nome di suore di “sanctae Mariae de sancti Sepulchri de Sancto Petro Arenae” e presero cura della chiesa stessa. Pochi mesi dopo, il 13 luglio, era badessa una suor Agnese Malaspina, contessa, con 12 monache.
-Nel corso del 1236 (e probabilmente è a questo documento che risale Puncuh se fa nascere il monastero in quest’anno, ad opera della suore cistercensi), si legge negli “Statuta” del Canivez: “mandatum domini Papae de abbatia monialium monasterii Dominici Sepulcri, in loco Sancti Petri de arena Januensis diocesis nostro Ordini socianda et sit filia domus Cistercii exauditor ....omissis...et ispectio loci illius committitur de Tillieto et Ripalta abbatibus, qui ad domum illam personaliter accedant...”; testimoniando una dipendenza dai monasteri di Tiglieto e di Rivalta Scrivia, essendo loro soggetta, sia a visite di controllo che a tributi economici .
-Un altro documento scritto, inerente la presenza nel borgo della chiesa, sarebbe del 25 feb.1237 in cui viene menzionato dal notaio Pietro Musso, il prete Enrico cappellano del “Sanctum Sepulchrum de Sancto Petro de Arena”, converso dell’ospedale di s.Antonio in Genova. Il Gazzettino scrive che questo atto notarile arcivescovile è del 1183.
-Nel 1243, badessa era ancora suor Agnese; da Remondini, fu trascritta un’epigrafe presente – ma non dice dove sia - nel monastero fino al 1929, relativa alla sua sepoltura, datata 1275: “MCCLXXV De mense Iunii s(ororis) Domine Agnesine Comitisse Malaspine”.
-Il complesso edilizio, posizionato vicino alla riva del mare (presumibilmente già allora fervente di attività cantieristica, di approdo e di pesca), con lo spiazzo aperto verso il mare, certamente possedeva le terre attorno coltivate ad orto (tra il 1244 ed il 1250, numerosi sono gli atti che testimoniano vendite o lasciti a favore della comunità monastica, tra cui quello conservato negli archivi di s.Siro del 1250, lasciato dalla signora Giovanna Lercara); ed era collegato: dal retro con la via centrale (oggi via Daste-Scaniglia), verso est con la chiesa della Cella (allora gestita da frati) e con sant’Andrea (sia di SestriP che quello oggi demolito per aprire piazza DeFerrari).
-Sul Regesti (II.254) in data 1271, 23 luglio, in casa sua, Lanfranco di Volta q.Giovanni, lega 60 soldi al monastero del S.Sepolcro.
-Sullo stesso Regesti di vP (II.256) si legge che in data 1280, 12 settembre, nella chiesa di s.Torpete, Andina ved. del q. Iacobo Silvagno, lascia in testamento al monastero soldi 5 petr messe da cantarsi.
-Dell ’anno 1300, appare un’altra epigrafe della badessa suor Eliana Pavesina (da Pavia? o Ravesina), monaca del monastero di santa Maria di Latronorio (nome derivato da un fossato, posto tra Cogoleto e Varazze, oggi Piani di Invrea, nella cui solitudine fu eretto nel 1192 un omonimo monastero con chiesa ed ospedale), perché in quell’anno aveva fatto edificare il chiostro: AD LAVDE(m) ET GL(oria)M (sanctæ)TRINITATIS – V(ir)GI(ni)S (mariæ) B(ea)TI SEPVLC(ri) – X(ti) INCEPTV(m) ET CO(m)PLETV(m) E(st) HOC CLAVSTRV(m) EXISTE(n)TE ABATISSA E(gr)EGIA ET VE(nerand)A D(omi)NA D(omin)A ELYA(na) PAVESINA MONIALI S(anctæ) M(ariæ) DE – LATRO(o)NO(r)TO MCCC – BIV(i)A DE OSTEN…. E FECIT HOC OPV(s) DE ME(n)S(e) NOV(em)BR(is) MAG(is)T(e)R – (a)M(en) ET LAV(s) DE(o) .
Ella dirigeva le suore, molte provenienti dalle più nobili famiglie genovesi: assai poche quelle che sceglievano i voti per credo religioso intimo; le più spesso erano lì ospitate senza particolare vocazione perché obbligate dai genitori a cui tornava difficile o provvedere ad una dote per le nozze o preoccupati di disperdere i beni accumulati decidendo per una donazione totale al primogenito. Favorirono però di sicuro una buona organizzazione, economicamente sostenuta e protetta per ogni necessità da rendite e lasciti.
-Nei cartolari della vendita del sale esistenti in palazzo san Giorgio, si riscontra citato il monastero nel 1334; idem nel 1342 quando era tesoriera suor Andreola Demarini; e nel 1363 con badessa suor Illiana Pallavicino; nel 1387 il monastero è segnato al n°328 del riparto o lodo arcivescovile per L.1 e soldi 2 di tassa straordinaria dettata dal papa Urbano Vi al fine di ricuperare sulle spese per guerre e scismi
-Dell ’anno 1300, appare un’altra epigrafe della badessa suor Eliana Pavesina (da Pavia? o Ravesina), monaca del monastero di santa Maria di Latronorio (nome derivato da un fossato, posto tra Cogoleto e Varazze, oggi Piani di Invrea, nella cui solitudine fu eretto nel 1192 un omonimo monastero con chiesa ed ospedale), perché in quell’anno aveva fatto edificare il chiostro con gravi scontri armati nelle vicinanze che avevano messo in seria difficoltà le 6 religiose (”ob novitates guerrarum” –notaio Revellino Cristoforo-. In particolare tra i Montaldo contro gli Adorno e poi anche contro il vescovo di Savona Antonio DiVia; si conosce sicura una battaglia avvenuta nel borgo in zona Capo di Faro nel febbraio 1394 con strage di 200 guelfi guidati da Nicolao di Fiesco, uccisi dalle truppe di Raffaello Montaldo fratello del doge); l’insicurezza le obbligò, guidate dalla badessa suor Terracina (o Tommasina o Teresina) Gentile, ad abbandonare il 28 gennaio tutto l’edificio per rifugiarsi a Genova, nella contrada dei Salvago (via san Bernardo). Ma il 15 ago 1415 già erano tornate, se in quella data raccolgono una confessione di un certo Antonio Castello da Fegino.
-Un atto notarile datato 11 giugno 1416 testimonia la presenza delle suore ed il nome di alcune: “in Sampierdarena, nel parlatorio del Monastero del Santo Sepolcro. – Giovanni Gorgeggio qm Quilico abitante in Sampierdarena, sapendo che il qm Antonio suo fratello è ancora debitore di lire 40 di Genova verso le monache del Convento del santo Sepolcro di Sampierdarena, come complemento di lire 50, resto di lire cento, da lui avute a mutuo da dette monache, e più precisamente dalla qm. Violante Spinola già monaca nel detto Monastero, e volendo fare ciò che insegna il diritto, perciò confessa alle suore Marietta Arcanta badessa, ed Eliana Cicala priora dello stesso monastero, di dover loro le dette lire 50 per la ragione succitata, somma che esse accettano a nome proprio e a nome di detto Convento”.
-Vari problemi interessano le suore negli anni tra il 1416 e 1447 : da un lato la badessa suor Argentina Salvago, dell’ordine dei Cistercensi, si rivolge al doge Giano di Campofregoso (appoggiata dai congiunti di tutte le monache) perché interceda presso il papa affinché i monaci di santa Maria di Tiglieto -a cui erano soggette- smettessero di infastidire le suore angariandole con richieste di tributi sapendo essere di famiglie benestanti (“frequentibus visitationibus variis oneribus praesertim tributis… pecunias quot modis possunt ab eis extorquendo”); ed il 24 febb.1440 il notaio Gio DeLuca conferma il ripristino del convento con badessa Selvagina Salvago; dall’altra una lettera dello stesso doge a papa Nicolò V del 16 dic.1447, afferma che le cistercensi del santo Sepolcro in San Pier d’Arena, (e l’affermazione ha il tono di cosa nota e risaputa) “inter illas mulieres variis modis pleraque fieri minus quam honesta -cioè le giovani fanno tante cose, meno quelle oneste “. Anche altri conventi erano coinvolti in questa eccessiva libertà delle suore, sempre più numerose rinchiuse nei conventi non per vocazione ma per sottrarre la famiglia a fornire una conveniente dote matrimoniale degna del casato, specie se le femmine erano più d’una; le impudenze lamentate, a volte consistevano in “continuo gironzolare per il borgo offrendo spettacolo di vita assai poco religiosa”, specie per quelle inserite in conventi di clausura. Appare certo che in quell’epoca nel monastero esistessero ragazze schiave, che venivano vendute agli offerenti: così si legge di una schiava Margherita che il 18 luglio 1450 fu venduta dalla stessa badessa Argenta Salvago con tanto di ricevuta a Bartolomeo Doria ; ed il 16 giugno 1464 suor Ginevra Maria, tesoriera, ne vendeva una a Acelino Spinola che per scritto si impegnò a restituirla entro dieci giorni se la tenuta in prova non fosse risultata soddisfacente. La schiavitù non fu mai praticata come traffico commerciale dai genovesi, ma in quegli anni in città era accettata e vissuta comunemente, non bollata dalla Chiesa, e regolamentata da severe leggi di diritto privato, emanate dalla serenissima Repubblica (di vita con punizioni tipo mozzatura del naso o orecchie; o morte con rogo o impiccagione; limiti assai ristretti alla vita affettiva e sessuale) . Quindi ufficialmente riconosciuta specie a tutela dei padroni , era formata prevalentemente da ‘infedeli’, cioè prigionieri che avevano rifiutato la conversione e mantenuto la propria fede, non solo turchi o marocchini ma anche russi, caucasici, albanesi ; di cui esisteva un vero e proprio mercato riconosciuto e convissuto : liberi di esistere e di professare una fede, ma ghettizzati. Tale istituzione rimase in vigore sino alla fine del 1600 quando finalmente nel territorio della Repubblica venne abolita e combattuta).
Ma poiché le lamentele sortirono pochi effetti, allo scopo il Senato arrivò ad inviare al Pontefice un ambasciatore in Ambrogio Spinola. Intanto l’Arcivescovo genovese, in accordo col doge, si adoperò ad allontanare i monaci e nel 1459 pose mano alla riforma dei monasteri liguri.
-Nel lug.1472, un’altra lapide, ora conservata all’Accademia Ligustica di B.Arti e già scritta a pag. 57, parlando della chiesa, testimonia l’inizio di un restauro, sia della chiesa che del convento, sotto il governo della badessa Costantina Spinola, che -nel 1486-, appare essere ancora in carica di superiora. Infatti Remondini riporta una ‘questione’ avvenuta nel 1480 alla badessa suor Susanna Spinola (presumibile la stessa Costantina di sopra): avendo ‘occupati’ dei beni spettanti il cardinale Battista Cibo (poi Innocenzo III) allora Commendatore di san Siro in Genova, era incorsa in scomunica; appellatasi alla s.Sede, papa Sisto IV incaricò l’arciprete di Camogli Spirindeo Argiroffo e due canonici della Cattedrale, di valutare l’assoluzoione, cosa che sentenziarono il 18 febbraio 1480 notificando il tutto con il notaio Andrea di Cairo.
-Nel 1508 la comunità contava solo sette monache più la badessa Elianora Salvago: dichiarandosi pronte ad assoggettarsi alla legge del raggruppamento, furono assolte dal pagare le tasse che il governo aveva imposto ai conventi più riluttanti.
-Dall’anno 1459 era stata avviata l’opera di riforma dei monasteri femminili, sia per le questioni morali sopradette, sia per ovviare alle dispersioni soprattutto economiche; si previde accomunare in città, nel monastero di sant’Andrea della Porta (non ‘il sant’Andrea della Costa ’ a Sestri come si scrive altrove, ma quello a Genova ora distrutto per aprire piazza DeFerrari) più di cento monache desiderose di vivere in clausura. Così il 7 giu.1514 per breve pontificia di Leone X e conseguente decreto di mons. Domenico Valdetaro (o Valdettaro) delegato apostolico (anche vescovo di Accia (Corsica), e Vicario Generale dell’arcivescovo Giovanni Sforza), sanzionato un mese dopo da una “breve” o bolla di papa Leone X, il monastero del s.Sepolcro, privo di seria clausura ed isolato dalla città, venne incorporato in sant’Andrea (e si presume sia da questo rientro che il Masini chiama il Palazzo Centurione ‘già delle Monache di S.Andrea’), impegnandosi i Priori a far ufficiare regolarmente la messa nella chiesa vicina, e a conservarne i beni, decretando così la soppressione dell’ordine religioso cistercense e della dignità abbaziale del monastero.
Però il 7 ottobre successivo, del 1514, le 5 monache rimaste - dopo aver concesso un inventario dei beni - seppur consegnarono ai Protettori dell’opera di sant’Andrea le chiavi del monastero, vi rimasero. Infatti ricevettero in cambio varie promesse stilate con atto notarile (notaio Vincenzo Molfino), da mantenersi finché non sarebbero rimaste in due: la rendita annua di lire 180 per ciascuna, vita natural durante; che avrebbero potuto vivere con libero accesso nel monastero e nelle terre attigue di proprietà o nella casa che il loro ordine aveva in contrada santa Sabina, servendosi dei beni esistenti -vesti ed arnesi vari-; pagando l’affitto di lire tre annue; che sarebbe stato pagato un sacerdote ad officiare la messa quotidianamente presso la chiesa (che fu affidato ai sacerdoti agostiniani della Cella).
Da atti del notaio Bernardo Granelli stilato nel 1522, risulta che le suore erano rimaste in due più la badessa Aretina Salvago: era il momento di dover abbandonare il convento definitivamente. Il notaio Nicolò Pallavicino da Coronata, stilò il 10 gennaio 1530 il nuovo impegno di cedere il tutto ai frati agostiniani della Cella; così le religiose si trasferirono nel monastero di N.S.della Cella. Essi ricevettero con le suore anche il diritto a tutte le strutture dell’antico cenobio cistercense: abitazioni, chiostro e terre ma non furono nella capacità di gestirli amministrativamente; lo conservarono per una diecina d’anni (si scrive che negli scavi per l’esecuzione di opere fognarie, fu rinvenuto un passaggio sotterraneo che collegava l’edificio con la chiesa della Cella) senza però mai abitarlo né usarlo (il Giustiniani nel 1535 scrisse ‘vi è un altro monastero di s.Maria del Sepolcro, dove già vi abitavano monache ed al presente resta deserto’).
-Nel 1536 i frati proposero l’alienazione del complesso; le suore si opposero e perciò andarono in tribunale: la sentenza firmata il 27 marzo 1542 dal notaio Nicolò De’ Marino da Coronata fu favorevole ai frati, forti della concessione apostolica del 2 marzo 1536, e del parere favorevole del delegato apostolico card. Gerolamo Doria, delegato apostolico. Tutto l’intero complesso venne sconsacrato -esclusa la chiesa nella quale continuarono ad ufficiare i sacerdoti Agostiniani di N.S. della Cella.
Villa privata :
-Nel 1549, il 15 dicembre, - con atto notarile di GiovanniGiacomo Cibo Peirano, monastero e terre annesse furono vendute col permesso di profanarlo al patrizio Nicolò Grimaldi, principe di Salerno, al prezzo di cento luoghi delle Compere di san Giorgio .
-Nel 1586, il 7 giugno, l’insieme venne acquistato (notaio GB Procurante) da Agostino Doria che però apparirebbe solo come prestanome o comproprietario momentaneo (‘nomine exclarando’) perché l’anno dopo, il 15 luglio 1587 stila un atto, dichiarante aver comperato per sé solo una parte dei beni (probabilmente delle terre), il rimanente (cioè tutto il complesso) per conto di Barnaba Centurione Scotto
della famiglia Centurione che originariamente si fa risalire ad un nobile soldato rimasto a Genova nel 1209 (o da un omonimo nobile parmigiano Cassio, o dai romani Orsini; la leggenda vuole l’origine del nome dal centurione che –citato nel Vangelo- chiese a Gesù non per se stesso ma di guarire un suo servo: da ciò il motto “basta la parola”; e se sotto lo stemma (fatto con banda a riquadri alternati) c’è una capra, forse perché il centuriore era dedito alla pastorizia). Divenne importante nel 1379, con la alleanza delle famiglie Becchignone, Bestagno, Cantelli, ed Oltremarino che costituirono ‘rami’ importanti della famiglia; alle quali nel 1424 si unirono i Trovery, Navarri, e Scotti (o Scotto).
I Centurione avevano organizzato la famiglia quale compagnia finanziaria (tante famiglie ricche: Zaccaria, Cantelli, Oltremarini, Becchignone, Scotto; tutte dedite ai cambi, ai crediti ed ai commerci –sia in oriente che nel nord europa- con giro di disponibilità di denaro, come in una banca).
Quando avvenne la guerra dei cento anni, ne conseguì un salasso insanabile per i governi in guerra, causa deprezzando delle monete correnti; così i mercanti olandesi iniziarono a voler essere pagati non più con denaro svalutato ma -almeno metà dell’importo- con materiale prezioso, esempio l’oro. Fu nel 1586 che la famiglia dei Centurione propose ai Protettori del Banco di s. Giorgio di adottare come elemento base degli scambi il solo oro, facendolo divenire per tutti il controvalore (cartulario=banco=deposito e giro di monete d’oro valutate ad un corso fisso e quindi non soggette ad inflazione) di ogni trattativa commerciale, anticipando così l’aforisma di Erasmo da Rotterdam “quando l’oro parla, ogni eloquienza è priva di forza”. L’ufficio di san Giorgio trovò un ragionevole e per tutti proficuo accordo replicando col sistema del ‘terzo’ (un terzo oro, uno argento, uno moneta corrente).
Ecco il movente delle ricerche e scoperte che rivoluzioneranno il mondo: l’oro. E dato che in oriente già funzionava come merce di scambio, fu ovvio non solo andarlo a cercare in oriente o nelle indie, ma soprattutto cercare strade più brevi e veloci per arrivarci (non verrà trovato subito, nelle nuove rotte, ma prevalse l’effetto non cercato: la scoperta del Nuovo Mondo nel 1492).
Nel 1528 tutte le famiglie secondarie, furono riunite in uno –dei Centurione- dei 28 alberghi cittadini, essendosi collocate in primo piano economicamente e politicamente, con alti interessi locali ed in Spagna.
Alla Repubblica, la famiglia diede ben sei dogi. A Genova abitavano in piazza Fossatello.
Gli Oltremarini costituiscono un folto ramo dell’Albergo.
Il 21.7.1696 nasceva, dei Centurione, GiovanniFrancesco nonché IgnazioAntonioGaetanoInnocenzo (da GioAgostino q.Giulio e da Maria Maddalena Pallavicini q.GioFrancesco, abitanti in Strada Nuova a Genova): battezzato in casa perché gracile ed in pericolo di vita, l’anno dopo, il 23 ottobre, fu ricelebrato il battesimo con solennità nella chiesa della Cella (padrini lo zio Paolo Geronimo Pallavicini q.GioFrancesco, e la zia Luigia moglie di Domenico Centurione). Quindi erano di quelli che venivano nel nostro borgo e ci restavano ancora ad ottobre.
Dei Centurione, e di questo periodo storico, vengono ricordati Paolo (nel 1525 divenuto viaggiatore ed esploratore); Adamo (del 1530 , anche marchese di Stepa e Pedrera in Spagna, e grande ammiraglio di CarloV; a favore dell’imperatore, pagò a sue spese guerre in Africa, in Germania e ad Algeri: per quest’ultima battaglia, diede l’ingente somma di 200mila pezzi, bruciando la ricevuta rilasciatagli dal sovrano. Nella diatriba con gli Spinola, si schierò con Andrea Doria, ospitandolo nel proprio castello di Masone in attesa di riprendere in mano la situazione); Gerolamo (poeta del 1611); Luigi (sacerdote della Compagnia del Gesù); Giorgio (eletto doge nel 1621- alcuni testi scrivono che rifiutò l’onore dell’alto incarico, ma Levati nel suo libro chiarisce sia l’alto livello del suo operato, sia l’equivoco imputando i cronisti di non aver notato che il suo predecessore Ambrogio Doria colpito da ictus cerebrale era durato in carica un solo mese e pertanto il periodo sembrava coperto da quello); Agostino (doge nel 1650); GioBatta (doge nel 1658); Lorenzo (doge nel 1715).
Non ultimo Agapito (del 1625, dotto in scienze. Da una relazione -stilata il 5 ago 1663, Regesti, II pag.188- da due inviati del mag.co Vicario di Polcevera- sappiamo che tal Gio:Batta Albanera da conduttore della villa del mag.co Agabito Centurione -situata in San Pier d’Arena nella contrada del mercato- ‘ne aveva preso il largo insalutato hospite’. I due si erano recati nella villa per censire la frutta rimasta (limoni, olive, cetroni, cocomeri, frutti e tutto il resto esistente); Ottavio (degli Oltremarini, grande banchiere e diplomatico in Spagna- vedi il suo possibile coinvolgimento a questa villa alla fine, a “DEDICATA”); PaolaMaria (carmelitana scalza di alto valore morale) e Virginia (dei Centurione Bracelli, beata.=Controllare se si riferisce ad essa, la lapide posta esterna alla cappelletta che esiste in via Porta degli Angeli).
Il 28 lugl. 1660 il mag.co Cristoforo Centurione qm Adamo affitta – per tre anni e annua pensione di 500 lire- alla famiglia Notte una villa che teneva in San Martino; e datato 25.7.1665 (Regesti,II,pag.188) sua moglie e procuratrice, magn.ca Barbara riceve da due Pittaluga (Benedetto e Rocco – fratelli o padre e figlio; probabili manenti) ”tutto ciò che può da essi pretendere per pensioni decorose e da decorrere della villa di detto magn.co Cristoforo situata in San Pier d’Arena”.
Ultimi: il 27 dicembre 1997 a 91 è morto a sant’Ilario e novantunenne; Giacomo fu Carlo era l’ultimo erede della famiglia, appassionato di veicoli veloci e sensibile agli eventi metafisici e medianici (essendo morto il fratello Vittorio mentre sperimentava un aereo idrovolante nel lago di Varese durante la coppa Schneider nel 1926). Suoi discendenti, nel 2008, abitano a Nervi
In particolare, del ramo degli Scotto risultano -discendenti da Amico Scotto- un primo Barnaba; poi suo figlio Oberto; e poi ancora i due figli di quest’ultimo, Gerolamo e il nostro Barnaba. I due, dichiarano nel 1590 di essere gli unici ultimi di questo ramo, assieme al cugino Lorenzo q.Lodisio q.Oberto. Barnaba, tra il 1566 e 1574 figura come banchiere fiduciario –asentista- del re spagnolo Filippo II; nel 1580 commissionario del restauro della chiesa di s.Bartolomeo della Costa; nel 1587 acquirente del Monastero del s.Sepolcro; nel 1590 nominato senatore; e nel 1594 in terra spagnola. Nell’anno 1600 –come dimostra una lapide posta nella chiesa di s.Camillo a Genova - Barnaba acquistò - a nome, e per proprietà dell’oratorio della Crocetta, posto sopra Belvedere - un terreno a orto e giardino in Portoria per la Congregazione di Camillo DeLellis (=assistenza spirituale ed infermiristica dei malati; di questa congregazione sono i sacerdoti dell’Ospedale VillaScassi) la quale vi erigerà la chiesa ancor oggi chiamata “della Croce, o di s.Camillo”. La famiglia Scotto divenne così ricca e potente, che nel 1654 dall’ imperatore Ferdinando III ebbe il titolo di Principi del Sacro Romano Impero col diritto di battere moneta. La famiglia era stata tra le prime a valorizzare il nostro borgo, insediandosi in più posti con ville di prestigio. In particolare Barnaba seguendo l’andazzo del suo tempo e non volendo essere da meno dei suoi concittadini, non badò a spese pur di soddisfare il desiderio di costruirsi una casa in riviera, fuori dallo stress cittadino ma facilmente raggiungibile con i mezzi di allora.
È famoso Ippolito q.Francesco, ammiraglio ed armatore perché seppur filofrancese, non resitò a schierarsi a difesa di Genova durante il bombardamento navale del maggio 1684: anzi guidò la milizia urbana contro 3500 fanti francesi sbarcati sulla nostra spiaggia, costringendoli al reimbarco.
Questo ricco committente, con grossi interessi collegati alla Spagna, fece trasformare il complesso monastico in un grandioso palazzo, prima affidando le modifiche all’arch. Andrea Vannone (non è dato sicuro) realizzatore anche della chiesa di san Pietro in Banchi nel 1580 c.a .), che poco si curò di rispettare in genere l’integrità del monastero e del chiostro trecentesco sottoponendoli alla nuova costruzione. In particolare: dei quattro lati di esso, il nuovo palazzo ebbe il muro di tramontana eretto sulle colonnine del lato a nord rafforzate con pilastri in pietra da taglio; le bifore e trifore degli altri tre lati del vecchio chiostro furono riempite in modo da formare un muro continuo su cui appoggiare la base del nuovo cortile (relegando così il chiostro nel sottosuolo ed adibendolo a magazzino e scuderie); il piano terreno formatosi sopra il chiostro si trovò sopraelevato di circa 3 metri rispetto al terreno della piazza, e divenne raggiungibile con una breve e decorativa scalinata esterna. Il tutto, progettato secondo lo stile dell’ ultimo periodo classico del rinascimento sulla scia dell’architettura sorta col Brunelleschi, maturata per tutto il 500, e smorzatasi lentamente a cavallo tra la fine di quel secolo ed il 600 . Essendo da poco –1572- morto l’Alessi, , è ovvio che l’architetto si sia ispirato alle nuove formule da esso ispirate per le molte ville genovesi
Poi si affidò a Bernardo Castello (Ge.Albaro1557-1629- allievo del Semino e del Cambiaso, grande amico del Tasso) perché lo affrescasse (negli anni a cavallo tra fine XVI e primi del XVII secolo era uso decorare i palazzi con affreschi che parafrasassero le virtù religiose, mercantili, militari, o comunque gesta, glorie e ideali etici della famiglia del committente. La scelta dei temi –in genere tratti da opere letterarie o dalla Bibbia- avveniva in concordanza tra proprietario e pittore. In questo caso pare che Gio Vincenzo Imperiale, committente non facile per la sua cultura aggiornata e competente, si affidò al Castello -altrettanto nutrito di ampi sfoggi letterari, derivati dalla frequentazione di letterati come il Tasso, il Chiabrera e padre Angelo Grillo- lasciandogli libera interpretazione; cosicché in virtù di questa fiducia l’opera fu approntata dal maestro ed allievi con la scelta dei temi più congeniali al pittore ed in contemporanea capaci di offrire quanto voluto dall’ordinante. Così il Castello divenne il pittore ideale per parafrasare –come di moda allora, attraverso i temi più disparati- le richieste del Centurione; il fatto avvenne immediatamente prima di altre scelte poi espresse dal pittore in altri palazzi come l’ Imperiale-Scassi e nello Spinola di San Pietro. Senz’altro questi felici affreschi -i migliori dell’artista, confrontati con quelli già eseguiti e la produzione successiva-, gli meritarono maggior fama e fiducia, anche se una critica riconosce in questi ultimi non tanto una particolare crescita espressiva quanto una sostanziale conferma del suo manierismo, però sempre garbato e formalmente semplice).
Anche il giardino fu ristrutturato, e contribuì a far scrivere da ignoto “San Pier d’Arena che nel monte e al piano, di bei giardini ha sì famoso nome”.
Da allora la famiglia, usò questa villa come luogo di villeggiatura, frequentandola d’estate (in genere, da ferragosto sino alla festa di s.Martino a metà
novembre) per ancora tre secoli circa, sino alla vendita.
Fu ovvia la alta frequentazione di questa villa da parte della nobiltà genovese, sia in missione politica che per diletto: il mezzo di trasporto preferito era sempre il mare, arrivando tramite l’uso di galee o barche personali. E negli anni, ovvi furono gli abbellimenti, ristrutturazioni e modifiche dell’assetto primario, il tutto sempre in visione di un esprimere potenza e ricchezza rispetto gli altri nobili delle altre ville (gli Imperiale, gli Spinola, i Doria, i Sauli , ecc.). Erano tempi in cui gli invitati a palazzo, ambasciatori in missione o invitati a feste, raggiungevano il palazzo via mare: imbarcati nel porto a Genova, sbarcavano direttamente sulla spiaggia davanti casa. L’arrivo e la partenza venivano solennizzate con sontuose feste e lauti conviti a cui venivano invitati i vicini, i parenti e gli amici (per frenare l’abuso di queste feste, il Senato nel 1506 aveva promulgato un decreto mirante a vietarli se smisuratamente dispendiosi, comminando pene di decine di ducati da devolversi in parte all’ufficio di Sanità)
- Nel 1599, da Giorgio Centurione vi fu ospitato l’arciduca Alberto, con il suo seguito personale tra cui i duchi di Borgogna. Provenienti tutti da Ferrara, egli accompagnava la sorella (divenuta regina di Spagna perché moglie di Filippo III; aveva un proprio seguito spagnolo) e la madre (con proprio seguito tedesco), tutti (circa 1200 persone) erano di passaggio a Genova (per andare in Spagna ??***).
- Non è sicuro appartenga ai possessori di questa villa, la testimonianza legale datata 26 luglio 1665 in cui si attesta che “la mag.ca Barbara, moglie del m.co Cristoforo Centurione e sua procuratrice, confessa aver ricevuto da Benedetto e Rocco Pittaluga qm.Bartolomeo, tutto ciò che può da essi pretendere per pensioni decorse e da decorrere della villa di detto mag.co Cristoforo situata in San Pier d’Arena”.
- Nel 1684, il bombardamento navale francese, procurò seri danni estetici, deducibili da interventi di restauro ancora riconoscibili. Luigi XIV fece bombardare la città ma anche il nostro borgo. Fu un inusuale, innovativo ed avvilente (anche sia per l’impreparazione a rispondere al nemico e sia perché coinvolgeva la popolazione inerme senza distinzione di dove poteva cadere una bomba) metodo di portare guerra: Genova veniva colpita dal mare, proprio dove si sentiva la più forte del Mediterraneo.
Un tentativo di sbarco fu subito frustrato dall’accorrere sul spiaggia del borgo, delle milizie di Ippolito Centurione –della famiglia proprietaria del palazzo- e dei paesani della Polcevera. Il re, ciò malgrado vittorioso, poi fece occupare le ville dalle truppe e dal suo stato maggiore comandato dal marchese Seignelai.
muro di confine Poste; con timpano e modellature stile antico,
visto da abitazione di via S.Canzio, sue finestre a levante (nella foto sotto: finestra spalancata).
1990 - costruzione edif. Poste –i muri della foto precedente con arcate (della chiesa o del palazzo riso?)
- Solo nel 1750, per mano dell’abate Giolfi, di cui rimane il disegno della facciata in una sua incisione, ebbero inizio le riparazioni dei danni subiti dal bombardamento: ovvia la ristrutturazione di alcune parti che furono trasformate seguendo lo stile barocco dell’epoca. Dice Lamponi che in concomitanza i proprietari di allora erano ‘momentaneamente lontani’ e tornarono a lavori conclusi.
-Anche la carta del Vinzoni del 1757 non precisa il proprietario, definendo l’area come proprietà generica dei Centurione senza precisare chi.
- Dal 1792, malgrado il proclama di neutralità, Genova ridotta alla carestia ma sempre strategicamente fondamentale nella strategia internazionale, non poté rimanere indenne nello scontro tra i titani del tempo: i francesi da una parte, gli austriaci dall’altra, gli inglesi dal mare. Le truppe dei primi entrarono in Liguria nel 1794; l’anno dopo avvenne la feroce battaglia di Loano; nel 1796 erano a Voltri. Il 14 giugno 1797 morì la Repubblica di Genova, e nacque la ‘Repubblica Ligure’; con essa ebbero inizio profonde e sostanziali riforme che modificarono sia i poteri locali (l’eliminazione della antica aristocrazia e l’apparente valutazione del ‘cittadino e della sovranità del popolo’; ma si introdussero nuovi metodi di gestione degli uffici e delle gerarchie del comando politico, del potere giudiziario e dell’amministrazione in genere. In pratica, in una situazione di completa sudditanza alla Francia, il borgo veniva retto da un ‘Commissario’, che consigliato da un ‘Direttorio Esecutivo’ costituivano ‘la Municipalità’; a sua volta suddivisa in vari comitati –di sanità (i cimiteri, come nuova istituzione), di polizia, di giustizia (con anche un giudice di pace), di amministrazione (registrazione precisa di nascite, morti, matrimoni, ecc. fino ad allora registrati solo dai sacerdoti e custoditi nelle canoniche), di rappresentatività lavorativa (come gli edili)); che i rapporti con la Chiesa (con chiusura di molti centri di culto, soppressione di congregazioni religiose, confisca dei beni materiali della Chiesa; ovvie numerose sommosse popolari locali fomentate dai parroci periferici); e non ultimo il modo di vivere locale (il borgo diviso in tre quartieri Libertà-Fratellanza-Eguaglianza).
- Essendo l’antico castello –sede sino ad allora del Municipio, posto poco lontano sulla spiaggia - in condizioni pietose, le riunioni di questa municipalità, dal 17 luglio 1798 vennero effettuate “nei locali del cittadino (titolo rivoluzionario francese: in pratica era cardinale dei Gesuiti) G.B.Centurione al Monastero” (che molto probabilmente non l’abitava; ma che comunque era una proprietà privata, presumibilmente requisita dai militari; ciò desunto dalle mosse giudiziarie sotto descritte – ovvero che in questi anni la villa era occupata da –presumo ufficiali- delle truppe francesi).
In una di queste riunione fu eletto a capo della municipalità il cittadino Onorato Tubino e segretario, il cittadino Ambrogio Galliano. Cinque giorni dopo, fu istituita una Commissione con l’incarico di cercare una sede non privata ma di uso pubblico: venne adocchiata una villa non precisata, definita “Loggia degli ex Nobili”).
- Il 3 sett. 1802, da poco finito l’assedio, il ‘cittadino’ G.B.Centurione scrisse alla Municipalità affinché sgomberasse il palazzo entro cui si era insediata da alcuni anni: vincendo la causa, i pubblici ufficiali e gli uscieri che vi abitavano, furono trasferiti nel Castello ove erano prima. Il provvedimento però non fu messo in atto per i soldati francesi che essendo truppe di governo, non risposero all’invito. Proseguì nella rivalsa anche il ‘cittadino’ marchese Nicolò, tramite il cittadino-don Giuseppe Tubino: ottenne che anche le truppe fossero traslocate (si pensò dapprima alla Cella, ma poi si dovette soprassedere perché troppo angusto; la caduta di Napoleone era ormai prossima)
- Infatti nel 1812, quantomeno alla Restaurazione ed al passaggio sotto il regno torinese, evidentemente liberato il palazzo, si provvide ad un nuovo ristoro, che modificò profondamente la facciata; da questi anni il palazzo non fu più abitato dalla famiglia (se l’abitava: il proprietario era alto prelato dei Gesuiti con sede in via Balbi e chiesa quella del Gesù), perciò fu affidato in gestione (locali annessi alla villa, furono concessi a tal Giuseppe Grosso per crearvi una fabbrica di biacca).
- Così dopo il 1850, dal proprietario monsignor GB Centurione dei gesuiti, fratello di Giulio e figlio di Vittorio, fu affittato all’avv. GB Tubino, quale sindaco del Comune di San Pier d’Arena (e poeta) per uso scolastico elementari, eccetto i fondi, già adibiti a magazzini (si deliberò all’unanimità un affitto, pattuito in lire 1.750 annue da pagarsi in rate trimestrali anticipate; era già dal 1819 che il Comune di SanPier d’Arena studiava di aprire nel borgo una ‘scuola di carità’ idonea a procurare ai figli degli indigenti una educazione e cultura: l’incarico era stato affidato al sacerdote Giuseppe Comandi, ex agostiniano, che alla Cella iniziò l’istituzione).
Tra i primi provvedimenti della Giunta, ci fu la fondazione di una scuola superiore (media, ad indirizzo tecnico-commerciale); lo studio della fattibilità comportò che essa ebbe l’avvio nell’ottobre 1852, assieme alle elementari, col titolo di “Corso Speciale”, con primi insegnanti i prof. Chiappori e Gorrini. Negli anni a seguire, la municipalità continuò a studiare di ampliarla (locali, insegnanti, ecc.).
- nel 1853 (ma non è precisato se era già nel palazzo) la sig.ra Maria Cabella Coralli, da Albaro si propose quale direttrice dell’Istituto di educazione femminile, con corsi dal 1° al 3° anno di elementari.
- nel 1854, il totale degli alunni elementari era 254, ripartiti in quattro classi.
- Nel 1855, su domanda del prof Gorrini concorde al direttore delle elementari prof Chiappori, il Comune (sindaco GB Tubino) accordò un locale nel palazzo, per aprire il collegio “Convitto Commerciale Industriale”, (i due formarono la nuova direzione, ed addivennero ad offrire mezza pensione gratis ad un alunno meritevole, segnalato dall’amministrazione comunale, ogni 10 iscritti).
Negli anni immediatamente successivi il prof Chiappori rimase solo nel gestire l’amministrazione del collegio, cambiando denominazione in “Convitto e scuola di Commercio”, solo maschile.
Dopo lui -1859- subentrò il padre agostiniano Giuseppe Bistolfi (nato a San Marzano/Acqui; allora di anni 50; già stato per tre anni supplente al Collegio Nazionale di Genova e secondo maestro in quarta elementare a San Pier d’Arena. Aveva stipendio annuo di lire 1200) uomo di infinita bontà e grandissima cultura ‘...varia dottrina’, che aveva preso la direzione delle elementari al posto del Chiappori; rimase in carica sino al 1875. Sotto la sua guida, insegnarono: lettere italiane Luigi Mercantini (Ripatransone, 20 sett.1821-Palermo 17 nov.1872- compagno d’esilio di Daniele Manin; persona pia; poeta considerasto minore della letteratura italiana, stimato da G.Pascoli, fu autore della famosa ‘spigolatrice di Sapri’ dedicata a Carlo Pisacane, de ‘La madre al campo di san Martino’, dell’’inno di Garibaldi’ e delle gesta di Tito Speri, che commossero l’Italia intera; grande patriota avendo aderito alla Repubblica Romana ed avendo partecipato alla difesa di Ancona assediata dalle truppe austriache; compromesso da questi moti del 1848, dovette esiliarsi e dal Piemonte venne a Genova e quindi a SanPierd’Arena. Qui fu incaricato da Garibaldi di comporre l’inno (“si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti...) che fu musicato dal genovese Alerssio Olivieri – per la prima volta cantato allo Zerbino in casa di Gabriele Camozzi capo della rivoluzione nelle valli bergamasche e dove si raccoglievano i migliori intelletti del Partito d’Azione.; e storia e geografia il Giuseppe Andrea Cannonieri (modenese di Villa Santa Caterina nel 1795-morì a Genova 1864; uno dei primi carbonari, aveva partecipato ai moti del 1821 per i quali dovette esiliarsi in Francia avvicinandosi a Filippo Buonarroti e divnendo convinto mazziniano specie sul tema dell’educazione del popolo; mentre era condannato a morte da FrancescoIV di Modena; rientrato nel 1848 fece parte della costituenda repubblica Romana inserito nella Assemblea Costituente scrittore della Storia Popolare d’Italia. Lasciò alla biblioteca il manoscritto del racconto pubblicato a Firenze nel 1848 intitolato “L’assedio di Ancona dell’anno 1174 per Cristiano arcivescovo di Magonza, luogotenente di Barbarossa”. Lavorò anche come giornalista, divenne esponente delle associazioni operaie, divenendo anche uno dei promotori delle scuole serali per i lavoratori). Fu invece alunno famoso Giacomo Bove (vedi)).
- Il 1865 fu l’anno della nomina a città. A.Cuneo segnala che già in quest’anno gli alunni erano 650 ma a mio avviso legge male l’Alizeri da cui trae il numero: questi invece lo riferisce al 1875. Infatti in quell’anno l’Alizeri scrisse la presenza di ‘tal uffizio di civil carità… per le solerti cure del Municipio’ -a suo scrivere già in atto dal 1861 per scuola elementare e tecnica-, descrivendo la presenza di 650 alunni di tutti i ceti sociali, nonché lezioni ‘notturne’ e domenicali per i lavoratori; più ‘stanze dischiuse agli studj e lavori di 550 fanciulle, e un complemento (che pur s’iniziò) di svariate cognizioni, atte a perfezionar la coltura degli studi inferiori’. In altra parte ancora “poche terre e comunità potranno lodarsi d’aver preparato più nobile albergo al sapere e in quelle stanze che soccorrevano alla mente il pensiero della salubrità e della pubblica benemerenza l’insegnamento veniva diretto e impartito da ottimi direttori e maestri”.
- Nel 1875 al Bistolfi deceduto, successero: sino al 1877 il vice direttore f.f. cav Luigi Giamberini (veterano di guerre risorgimentali); ad esso, seguì 1877-78 il cav. don Michele Tomatis (ex rettore del Collegio Nazionale genovese, autore di una pregiata monografia su Tommasina Spinola); l’incarico passò al cav.don G.B. Belloni, agostiniano, dal 1880 al 84 – quando cessò l’ufficio (ed in contemporanea la scuola, con 111 allievi, ottenne il pareggiamento alle scuole governative, che evidentemente non aveva) ma rimanendo direttore delle elementari fino al 1905 quando le classi furono trasferite negli edifici eretti apposta a fianco di villa Scassi-.
Viene ricordata di quei tempi la figura di uno stalliere che per la sua burberia veniva chiamato ‘Mangia-figiêu’ , e che venne sfrattato a fine secolo: fu lui a segnalare al prof Ratto, abbandonato nella stalla ed ingombrante per lui, il marmo ricordante il restauro del convento avvenuto nel 1422; così salvato alla distruzione, fu portato nel 1878 all’Accademia Ligustica di Belle Arti.
Il 1 ottobre 1887 l’istituto fu trasferito nel palazzo di proprietà comunale Boccardo, sito in via del Mercato (nel 1922, don Daste) ove rimase sino al 1905 per trasferirsi poi, a villa Scassi (negli edifici affiancati a villa Scassi ed intitolati a Giuseppe e Maria Mazzini), restaurata nel 1889. Nel 1919 aumentando gli alunni, le sezioni femminili furono distaccate in villa Spinola; e la scuola da pareggiata è ‘convertita in regia’. Infatti, nel 1922 gli alunni erano 540, divisi in 15 sezioni = tra le attività scolastiche vengono ricordate passeggiate ginnastiche (in città, alla Guardia, a Coronata, all’Acquasanta, al Monte, al Turchino, a Villetta DiNegro); rappresentazioni cinematografiche (al teatro Splendor, offerto dal proprietrario Stefano Frugone, fu proiettata ‘la Marcia su Roma’, la Dalmazia, Dante, glorificazione del MiliteIgnoto; al Politeama SPdArenese il Natale di Roma), cerimonie varie tipo tumulazione salme di combattenti, visite al cotonificio Sciaccaluga, inaugurazione dei gagliardetti scolastici, cortei funebri (disastro dei DoksLiguri); concorsi ginnici.
Nel 1923 la regia Scuola Tecnica, viene intitolata a “Dante Alighieri”
-il 20 giugno 1879 per divisione dei beni dell’asse paterno, monsignor GB Centurione divenne proprietario del palazzo.
-il 5 maggio 1882 il neo proprietario lasciò quest’intera proprietà in eredità all’Ospedale Pammatone di Genova (che accettò l’eredità in data 14 novembre dello stesso anno e che rimase erede-proprietario anche di case in via Arnaldo da Brescia, in vico Mentana, in piazza Teatro Modena, in via Vittorio Emanuele). Erano gli anni della trasformazione sociale e terriera : i nobili divenuti ‘poveri’ cercarono più lontano i luoghi di svago e villeggiatura, e di vendere i beni terrieri per racimolare nuova moneta; i neoricchi borghesi cercarono spazi terrieri per costruire essendo quello il filone, speculativamente ricco di entrate a poco prezzo.
-nel 1884-5 Giulio Centurione, cercò e forse riuscì a rientrare in occupazione della villa affittata, ma ben presto fu nella necessità di venderla (o meglio lasciarla vendere dall’ospedale) definitivamente al Comune di San Pier d’Arena, il quale pensò di poterci insediare i suoi uffici . Il passaggio di proprietà avvenne il 6 ago 1885 comprendente il palazzo con il cortile retrostante; la piazza antistante sino alla via a mare C.Colombo; una casetta affacciata sulla piazza e distinta con un numero 69 occupata da un fabbro ferraio (bisnonno di Roncagliolo, storico del Gazzettino e morto nel 2006): il tutto per la cifra di 135.000 lire.
In attesa di ulteriori decisioni, fu infine deciso: la piazza è certo che subito dopo l’abbattimento della casupola, venne approntata a luogo pubblico e chiamata XX Settembre; la facciata del palazzo fu affidata al pittore genovese Francesco De Lorenzi (nato a Varese Lombardo nel 1830 e morto a Campomorone nel 1900 cadendo da una impalcatura mentre decorava la cupola. Era esperto diplomato a Brera di decorazione ed ornato; stabilitosi a Genova nel 1860 divenne amico e collaboratore di N.Barabino che lo aveva chiamato per decorare la Madonna dell’Olivo ed anche vari palazzi genovesi (Celesia di v.Assarotti; Orsini in v.Roma; Pignone in sal.s.Caterina), numerose chiese (Rivarolo, Campomorone, Varazze). Era stato chiamato anche all’estero (Nizza, Wilna). A Genova, divenne Accademico di Merito alla Ligustica. L’opera fatta nel palazzo Centurione soddisfece le aspettative, risultando assai elegante, a un tempo rispettosa della tradizione genovese ma aperta al linguaggio pittorico rinnovato. Di tale opera nulla rimane poiché nel 1911 la facciata fu reimpostata in stile neo rinascimentale fiorentino.
Era attivo anche Achille De Lorenzi (appartenuto alla famiglia di pittori liguri a cavallo tra fine 1800 ed inizi 1900 innovatori della pittura di paesaggio; fu anche affrescatore (accompagnatore a volte del Gainotti) a Busalla, Campoligure, FinaleL.. A Genova le chiese di s.Teodoro, s.Maria delle Vigne, Staglieno, Cornigliano; ed i palazzi Croce di v.XXSettemnbre, Fuselli di v.Casaregis) e nel 1891 l’istituto venne definito ‘scuola centrale maschile ’ (proprietà immobiliare del comune stimata del valore di 200mila lire di allora); ma anche di uso pubblico, infatti il 1 maggio 1904 Andrea Costa (non citato da 85 né 52. Uno dei primi sindacalisti, che inesperto e da solo partecipò fin da giovanissimo alle prime battaglie sociali, per le quali subì arresti e ammonizioni: la polizia lo aveva definito “ozioso, vagabondo e sospetto di reato contro le persone e la proprietà”. Divenne invece il primo deputato socialista e poi vice Presidente della Camera italiana, costante propugnatore dell’istituzione delle “camere del lavoro” ed altre istituzioni necessarie per proteggere ed elevare socialmente il lavoro degli operai. Morì a Imola) vi fece un comizio a carattere politico rivolto ad un corteo di 15mila lavoratori che da via Milano fece capo a San Pier d’Arena (parlò anche l’on. Borciani, sul significato della ricorrenza, dei nuovi diritti e della nuova morale del lavoro).
cartolina del 1904 – senza monumento, con scale laterali e facciata con decorazione affrescata.
difficile spiegare l’edificio nell’angolo in alto a sin se non il ‘palazzo del riso’
- nel 1905, in occasione del centenario della nascita di Mazzini, fu installato ed inaugurato davanti, il monumento a Garibaldi e fu deciso per l’uso a sede municipale: a dicembre di quell’anno fu approvato in tal senso un progetto che vedeva l’ammodernamento dell’edificio con una spesa di 59.000 lire appaltato alla società Cooperativa ligure fra Muratori (vedi Umberto I).
- Si venne alla valutazione di vari progetti di sistemazione (uno in stile barocco, uno in stile medievale, uno in stile moderno proposti da Gino Coppedè coadiuvato dall’ing. Geri dell’ufficio tecnico; il migliore di essi prevedeva una spesa di 314mila lire: troppe per le modeste finanze della città, così come fallì anche un quarto progetto più modesto presentato dagli stessi al nuovo sindaco l’avv. Murialdi ma bloccato perché al governo locale era subentrato un commissario prefettizio).
- Nel 1907/10 ottobre l’assessore avv.Murialdi Luigi, dopo delibera della giunta dell’8/sett., scrisse sia a Galileo Chini (fu Elio; pittore nato a Firenze ed ivi residente) incaricandolo dei: I°- lavori di pittura occorrenti per la decorazione interna del palazzo detto del Monastero da adibirsi a nuova sede Municipale. Tale decorazione dovrà essere eseguita restaurando gli attuali affreschi dell’atrio, scalone e vestibolo del salone e comprenderà le nuove decorazioni nelle lunette (soggetto di bambini pescatori con festoni e conchiglie) e volte dei tre archi del porticato del cortile; del salone e delle cinque sale del primo piano (nobile); II° il termine dei lavori è stabilito per la fine di aprile dell’anno dopo; III° sarà a carico del Comune preparare le impalcature e la preparazione delle pareti; IV° le altre spese a carico del Chini; V° compenso di £.5000 di cui metà a lavori incominciati ed approvati (prova di alacrità), e metà al termine dei lavori; VI° se ritardo, multa di £.10 al giorno e –se non ultimati- rimborso spesa da sostenere per farli ultimare; VII° spese del contratto al 50%); e sia a Plinio Nomellini l’incarico accettato dalla giunta di due pannelli ad olio per la decorazione del salone del nuovo Palazzo Municipale della Città (furono pagati diecimila lire e sistemati nelle sale in uso dell’Università Popolare Sampierdarenese dopo che erano stati esposti all’Esposizione di arte di Venezia. Quando fu deciso non usare la villa a scopo municipale, furono trasferiti a villa Spinola di s.Pietro ove rimasero sin al trasferimento alla GAM di Nervi).
- Nel 1908/2 marzo l’assessore L.Murialdo scrisse a Nomellini segnalandogli che la giunta, il 29 febbraio precedente aveva accettato quale termine dei lavori la fine luglio 1908
Appena iniziati i lavori, venne scoperta l’esistenza del chiostro, sottostante il pavimento del piano terra. I lavori vennero fermati ed enorme interesse suscitò la scoperta.
Il blocco popolare socialista vincitore delle elezioni chiamò, a reggere il governo sampierdarenese, il cav. Peone Gandolfo il quale coadiuvato dall’assessore ai LLPP Giuseppe Guelfi, dall’assessore anziano Testa Martino, dall’ingegnere capo del Comune cav. Carlo Bisogno, promosse un ampio programma in cui si ritornava al progetto di uso ad edificio scolastico
1910 – a sin in alto, il palazzo del riso
- Nel 1910 (il Gazzettino dice 1908) il Comune retto dallo stesso sindaco affidò i lavori di una ristrutturazione della facciata e dello stabile in genere al progetto dell’ing. Cuneo Adriano ed all’impresa degli ing. Carnovale e Rota. Per procedere a ricuperare questa opera di alto valore, si rese necessario modificare i primitivi progetti, sia eliminando la destinazione ad uffici comunali, sia architettonicamente con il completo rifacimento della facciata (le scarse possibilità economiche frenarono il progetto iniziale: la decorazione fu affidata al pittore prof. Antonino Quinzio), con la complessa ricostruzione della parte posteriore del palazzo: per ottenere ciò fu giocoforza eseguire in un paio d’anni un’opera di costruzione in cemento armato delle ali del palazzo verso via Arnaldo da Brescia (via del Monastero) e vico Mentana (vico Catena) e unire queste basi portanti con una ossatura interna, tale da controllare lo scarico del peso su esse e gravare di meno sulle fondamenta e ancor meno sul chiostro e sul cortile interno coperto dalla loggia a sbalzo d’ordine ionico; con aprire una nuova scala in via Arnaldo da Brescia (perché una servitù gravante sulla proprietà comunale nei confronti del proprietario finitimo, impedì di completare la loggia sui quattro lati) e così disimpegnare il salone del piano nobile e permettere due accessi indipendenti (un terzo accesso, da vico Mentana, dona adito ai fondi ed al chiostro) .
- Molto dovette essere fatto per riportare alla luce quello che per secoli era rimasto sepolto e per come meglio elaborare la valorizzazione dell’artistico chiostro trecentesco, divenuto nel frattempo ‘monumento nazionale’. Rinforzato il pavimento soprastante (nell’impossibilità del chiostro di sorreggere qualsiasi struttura superiore a quindici m.di altezza una volta liberato dalle opere murarie di riempimento) furono liberate le colonnine, alcune delle quali trovate rotte dovettero essere opportunamente sostituite; fu rifatto il pavimento in piastrelle di cemento; la banchina di posa di alcune colonnine venne interamente rifatta con pietra di Promontorio (avendone trovato una scorta inutilizzata); gli archi e le volte furono intonacati (come risultò fossero in origine) e ultimati in tinta unita (perché non trovata notizia che fossero affrescati a strisce bianco-nere). Il Cuneo, lasciò una ampia precisa documentazione dei lavori , della salvaguardia e della ricostruzione.
- Il 22aprile 1912 l’on. Pietro Chiesa inaugurò il salone, sede dell’Università Popolare con un discorso impostato sul decoro dell’operaio e della sua cultura fonte di educazione e benessere. L’utilizzo socio-culturale del palazzo proseguì con celebrazioni storiche, manifestazioni civiche ed ospitandovi la biblioteca (già progettata nel 1870, trovò una delle prime sedi nel palazzo, fino a quando fu trasferita in via C.Rolando nel palazzo Spinola nel 1939), la Camera del Lavoro, un museo (nella sede dell’Università furono esposti due grossi pannelli con dipinti del prof. Plinio Novellini; nel salone cinquecentesco, ribattezzato col nome di N.Barabino, furono ospitate in mostra numerose sue opere, raccolte ed esposte seguendo l’indirizzo del prof. Angelo Vernazza suo allievo, utilizzando anche mobili ed altri quadri che avevano figurato nel padiglione ligure all’esposizione a Roma celebrando il 50enario della Patria), le scuole elementari (“scuole maschili ,di proprietà municipale”) e scuola media per le fanciulle.
- Il tutto contribuì all’appellativo di “Palazzo dell’ Istruzione” o aulicamente “nobile albergo del sapere”; pensando di dedicarlo a G.Mazzini ma a cui si preferì poi Angelo Silvio Novaro (in realtà, Angiolo; nato a Diano Marina il 12 novembre 1866, fu scrittore di narrativa di tono pascoliano, di liriche spesso dedicate ai lettori più piccini. Morì a Imperia il 10 marzo 1938. Anche un fratello, Mario, fu poeta a tema principale la Liguria; fondatore della famosa rivista “Riviera Ligure”).
foto 1920 circa
Nal 1915 il palazzo fu requisito dall’Esercito per uso militare (ospedale?): la maggior parte dei mobili furono trasferiti nella sede municipale, e là sono rimasti; mentre le tele di Plinio Nomellini furono trasferite in palazzo Spinola di san Pietro, e poi alla GAM di Nervi. Sono invece rimasti tutti i quadri del Vernazza compresi i semi tondi sopraporta.
Nel 1922, DeLandolina non ha ancora certezze, e scrive “si crede fosse un tempo asilo a monache di sant’Andrea...il palazzo d’istruzione di proprietà del municipio come afferma il suo nome, è adibito a sede di scuole che purtroppo per circa due anni esularono per concederlo alla Camera del lavoro. Proprio in questi giorni però, caduta l’amministrazione socialista, con fine discernimento il Cav. Gioacchino Silvano, venuto per incarico del Prefetto di Genova a reggere l’interregno del nostro Comune, restituiva il luogo sacro alla coltura dei nostri cittadini al suo primiero scopo”.
- Comunque, sempre inserito in una zona che ancora aveva il ruolo di centro cittadino, avvalorava il primario interesse pubblico e sociale del quartiere stesso.
- Nel 1925-6 l’Amministrazione comunale decise potenziare l’esistenza del Civico Ginnasio (istituito in via sperimentale dal 1918-9, ma languente di scolari che preferivano essere inviati a Genova): dispose una adeguata cifra e l’inserimento in aule del secondo piano del palazzo, con propria entrata; lo arricchì anche di suppellettili e quant’altro fosse necessario al fine di dare avvio nell’anno 1926-7 alla fondazione del “regio Liceo Ginnasio” intestato a G.Mazzini (Lamponi segnala che alcune sale ospitarono pure la Direzione della sede decentrata del quotidiano cittadino ‘il Lavoro’).
- Nel 1929 divenne sede dell’Opera Nazionale Balilla.
Tutte le trasformazioni del territorio circostante, avvenute negli anni 30, hanno relegato la villa in una posizione secondaria rispetto il nuovo centro cittadino spostato sull’asse di via Cantore- declassando cosi tanta meraviglia, a parcheggio auto, ad un bene troppo scarsamente valutato.
- Nel 1934 il “palazzo e chiostro ex Centurione già delle Monache S.Andrea” fu vincolato e tutelato dalla attuale Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.
- Nel 1943, causa il numero degli sfollati, fu aperta una succursale a Savignone; mentre nel 44, il 4 giugno, in un bombardamento aereo, le varie esplosioni vicine aprirono delle fessure negli spigoli del salone, distruggendo alcuni affreschi relativi agli episodi della guerra giugurtina.
- Un nuovo periodo di restauro, iniziato nel 1994 fu concluso con la spesa di 2,5 miliardi nel 1997.
- Attualmente, anno 2000, ospita la direzione della scuola media statale Sampierdarena (già intitolata ad Angelo Silvio Novaro; ha due succursali: una in via Rolando, 12 ed una in corso Martinetti, 77G).
Vi si custodisce due grossi cartoni con -disegnate da N. Barabino- le bozze de “i Vespri Siciliani” (1873) e di “Pier Capponi che straccia i capitoli dfavanti a Carlo VIII” a voce si riferisce che essi sono di proprietà della S.M.S. Operaia Universale di via Carzino. Alla quale l’aveva regalati direttamente l’autore, ed erano nel salone della palazzina nel 1932 avvennero gesti inconsulti di distruzione vandalica delle memorie dell’associazione (lapidi, libri, documenti: nell’ignoranza più completa, furono defenestrati anche questi disegni, ricuperati in segreto dal preside della scuola che li ricoverò in essa; e qui sono rimasti e divennero dono-forzato nel 1955 quando la SMS non trovò giustificazioni valide per ottenere la restituzione. (un disegno è riprodotto nel libro di Roscelli a pag. 217 ).
Il giardino, sviluppato prevalentemente verso levante, a nord rispetto la strada usata per raggiungere la Cella, quale rettangolo regolare, esteso sino a confine con quello di villa Gavotti (v.via Daste) ed usato a orto e vigneti.
(Il terreno retrostante la villa appare nella carta vinzoniana proprietà di un Doria, evidente insediato prima nell’occupare la fascia litoranea del borgo). Fu lottizzato all’atto della vendita della villa: il 5 apr.1856, il commerciante Giovanni Bruno, ne acquistò un lotto, che comprendeva anche una casa del manente, per 26mila lire, per erigerci il teatro G.Modena (vedi).
Il chiostro, costruito nel 1300, era in stile gotico, ed è vasto circa 200mq. dando così l’idea delle dimensioni originali del convento. La fascia esterna costituisce la zona chiamata ‘ambulatorio’ perché percorsa dalle monache in preghiera, lunga 28m per lato, larga 3,70m ed alta 3,50m, coperta da volte a crociera che poggiano sul muro esterno e sulle colonnine binate, ed ai quattro angoli su massicci pilastri in pietra tagliata, alternata bianca e nera a fasce (queste volte mancano del cordone: ciò lascia presupporre che nella costruzione del palazzo nel 1500, abbiano sostituito le antiche travature).
Dei quattro pilastri a sezione rettangolare ed a strisce, tre hanno i capitelli i diversi solo per l’ordine di foglie sottostanti all’abaco; uno invece al posto delle foglie ha una fascia ornata con rilievi aggettati di visi di angioletti, musi di animali, un uccello. Le basi, uguali per tutti, constano del plinto, di un toro e di un listello separati da una scozia composta.
Le colonnine, trecentesche (e probabilmente alcune anche antecedenti: i loro capitelli hanno forme che possono risalire al 1100) belle ed eleganti, binate, poggiano con una bassa base cilindrica (decorata con motivi vegetali a foglie praticamente sono tutte eguali; constano di un dado rettangolare, di un toro e di una scozia composta: di queste si ammirano due tipi distinti, uno con foglie d’angolo ed altri con unghie a piccole volute) su un muretto (interrotto al centro di ogni lato da due fenditure che permettono entrare nell’interno); delimitarono insieme la parte interna dell’ambulatorio e l’area scoperta centrale. Formano bifore e trifore costituenti sette (sagep.11, dice 5) campate per lato, con archi acuti e slanciati delimitanti la volta a crociera (Cuneo dice che così rappresentano “uno tra i notevoli esempi di stile ogivale che ebbe a lasciarci il medio evo di chiese e monasteri cogli annessi chiostri”); hanno in alto capitelli diversi l’uno dall’altro per 10 tipi (alcuni con caratteri fogliacei, tipo “crochet” con foglie mosse come ad andamento naturale sormontate da altre piccole volute o foglie a bottoni -ed abaco sagomato alla foggia comune dell’epoca, a modanature semplici) .
L’interno del chiostro, che una volta era o prato o orto aperto al cielo, ora costituisce il gran salone centrale.
Nella ristrutturazione del 1500 il chiostro fu coperto -come con un tetto- dalla gettata che nella futura villa divenne il piano terra (rialzato di tre metri rispetto la piazza e l’ingresso, reso raggiungibile –secondo il disegno del Golfi, innalzando il terreno della piazza antistante- più probabile tramite una breve scala centrale munita di due vie carrozzabili in ascesa ai lati, detta poggiolo). Per fare ciò, riempirono le campate tra le colonnine, e costruirono nel retro dell’atrio –sopra il chiostro- un cortile porticato (così ideato , per non gravare sulle fragili fondamenta del chiostro sottostante): così il sottostante, divenne come una cantina, circondato e coperto da nuove strutture, e fu abbandonato ed usato come magazzino e scuderia . Ma quello che riesce interessante è che le volta a crociera sotto l’androne d’entrata del palazzo, poggiano sopra una colonna di mattoni con capitello cubico in pietra: essa è esempio unico in tutta Genova; non solo, ma essendo il capitello anche grezzo, viene datato anteriore al 1200 e questo avvalora l’ipotesi che quando le suore entrarono in possesso del monastero, esso era già stato eretto da Canonici chiamati ‘del s.Sepolcro’.
Col restauro del 1810, per rinforzare il pavimento del piano terra con cemento armato, ci si accorse della esistenza del chiostro e della sua primitiva funzione: liberarono le colonnine dai riempimenti, rinforzarono le ali del palazzo per rifare il pavimento in cemento armato. Così facendo, il chiostro rimane sempre ed irrimediabilmente sotto il pavimento, infossato, ed in modo che l’occhio – che anticamente poteva osservare il cielo - oggi si ferma alla copertura in cemento armato che lo ricopre, per formare la base del cortile sovrastante.
Venne riportato all’antico splendore ed usato anche per scopi sociali (è stato anche palestra pugilistica, sala da ballo popolare, mensa popolare nel periodo bellico, sede del Circolo Musicale). Infine, affidato al preside prof Russo fu promossa l’idea di farlo adibire a palestra dando l’incarico alla Cooperativa della Scuola Edile Genovese: i corridoi esterni al colonnato furono abbassati a livello dell’interno che fu rivestito a parquet in legno sovrapposto ad un opportuno isolamento termico; si aprì di una porta di comunicazione diretta tra scuola e palestra, si ristrutturò l’ingresso da via del Monastero; furono rifatti a norma gli impianti elettrici ed igienici).
È dichiarato monumento nazionale.
La scala d’accesso, inesistente fino all’800 essendo il terreno leggermente in salita; fu applicata dopo quel restauro con le caratteristiche di poter raggiungere il portone tramite due laterali carrozzabili, e scalinata centrale anteriore. Ora, semplice scalinata anteriore.
La facciata: il disegno dell’edificio quando era monastero; l’incisione del Giolfi del 1750; una foto degli anni 1910; la visione attuale, spiegano l’evoluzione della trasformazione della facciata dell’edificio.
---Incisione del 1750. Inizialmente si evidenzia il bel portone, che ha tre caratteristiche: una, non appare centrale ma asimmetrico (perché infatti ci sono tre finestre a ponente e due a levante del portone stesso); l’altra che è piano terra (perché probabilmente il dislivello d’altezza era superato dall’aver fatto la piazza in discesa); terzo, appare molto grande e riccamente incorniciato da stucchi. Al centro della facciata del piano nobile, una grossa effigie con lo stemma di famiglia, eguale a quella più semplice posta su una facciata di una casa vicina.
---Dopo i restauri ottocenteschi, la facciata fu ampiamente modificata : scomparso lo stemma centrale, per aprire le finestre in stile alessiano (simmetriche, tre centrali e le altre due lateralizzate), alternate e incorniciate da dipinti e fastigi a tinte vivaci, stucchi, con gusto tardo barocco; lo stemma della famiglia fu rifatto sopra il portone (poi distrutto durante le vorticose giornate del periodo 1796-9).
---Infine, nel restauro del 1912 si propose la facciata odierna, neo rinascimentale, con cornici, timpani, trabeazioni e sotto il cornicione da mensoloni, tutti in stucco, secondo la moda del momento. Sopra il portone d’ingresso, lo stemma è quello cittadino col sole nascente dal mare.
Nell’ interno, subito si entra in questa prima stanza:
l’atrio, scendendo le scale con l’ingresso alle spalle soffitto
=l’atrio, più ridotto in profondità e non in asse col cortile retrostante (modalità mai accettata dall’Alessi ma, così obbligati in struttura anomala causa il chiostro sottostante ed i grossi piloni perimetrali che debbono sorreggere il pavimento); ma l’occhio subito si distrae nell’ammirare tra vasti fregi e grottesche (o raffaelleschi), il primo affresco di Bernardo Castello dipinto nella medaglia rettangolare centrale incorniciata da stucchi all’apice della volta (fatta a padiglione lunettato). Vi è rappresentata la scena di “Erminia sfuggita ai cavalieri cristiani, si trova tra i pastori” (settimo cap., dalla Gerusalemme Liberata, del Tasso: il poeta scrive “e vede un uom canuto, all’ombre amene, tesser fiscelle alla sua greggia accanto, ed ascoltar di tre fanciulli il canto. Seguite (dice) avventurosa gente al ciel diletto, il vostro bel lavoro; chè non portano già guerra quest’armi all’opre vostre, ai vostri dolci carmi! …” la lettura simbolica vuole interpretare il tema espresso proprio all’ingresso, come la fuga al corteggiamento iniquo della città e del potere, per fuggire con i pastori in campagna, nella vita semplice e piacevole ad “ascoltar di tre fanciulli il canto”: lo stesso soggetto sarà per villa Imperiale, con la raffigurazione di flora e fauna. Al Louvre è conservato il disegno preparatorio. Nel 1590 il pittore incise la medesima scena per decorare una edizione speciale dell’opera letteraria. L’unica cosa che lascia perplessi sulla scelta del simbolismo, è l’esaltazione di Erminia che era un cavaliere musulmano.
Nelle lunette si vedono riquadri con ‘battaglie tra mostri marini’; e nei pennacchi ‘figure allegoriche femminili’. Il tutto fu ritoccato da ridipinture successive.
=nella sala a terreno, a destra, già sede della biblioteca (che già nel 1875 possedeva 4mila volumi), sulla volta a padiglione, al centro ed in un finto cassettone prospettico, il “trionfo di David”, il disegno appare più frutto di allievo non conosciuto, piuttosto che del Castello; e sempre dentro il finto cassettone, divinità mitologiche. Sottostante, in quattro riquadri più piccoli, scene forse riferite alla vita di David (corteo di donne danzanti e festanti; sacerdote che compie un sacrificio; donna attorniata da donne e fanciulli cantanti; sacerdote che fa abbattere una statua in un tempio). Nei riquadri ovali, racchiusi in cornice stuccata, sono “le quattro stagioni”, affiancati da altri riquadri rettangolari descriventi dipinte su un piedistallo “allegorie della virtù”.
Agli angoli, quattro putti disegnano lo stacco.
la testa di Golia impalata a fianco e sotto: scene di Davide
Il cortile, collocato al piano terra nel retro del piano terra, verso nord, è come una corte - delimitata da un bel colonnato marmoreo che - dall’angolo in fondo- dava accesso diretto alla chiesa
Nell’intervento effettuato nel 1910, fu rialzato di un piano con un corpo di fabbrica completamente nuovo soprastante l’antico chiostro e, volutamente lasciato vuoto per non gravare su esso col peso. Lateralmente però, ai quattro lati, l’edificio doveva essere alzato di altri due piani ma, oscurando così il retro del palazzo Balbi, dopo un contenzioso durato a lungo si rinunciò all’elevazione. Nel cortile solitamente tutte le foto di classe degli alunni.
prima rampa seconda rampa
=Lungo la risalita delle scale sulla volta a botte, tra decorazioni a grottesche e figura allegorica, è descritta nella medaglia con finta cornice di stucco, la leggenda di “Perseo che libera Andromeda”. Perseo, fuggito all’ira delle sorelle della Medusa, il mostro da lui ucciso, arrivò trasportato dai sandali alati in Etiopia ove regnava Kefeo, sposo di Cassiopea: questa aveva offeso le Nereidi per eccessiva vanità, e Poseidone per punizione aveva mandato un mostro marino divoratore di esseri umani; i vati avevano dichiarato che il flagello non sarebbe cessato finché gli non fosse stata donata in pasto la figlia del re Andromeda. Così mentre ella legata alla roccia attendeva l’orribile fine, apparve Perseo che ucciso il mostro liberò la fanciulla e ne fece sua sposa. Negli ovali e lunette sono paesaggi con figure generici.
=Al piano nobile superiore,
salone N.Barabino
-a sinistra invece appare un ampio salone, dedicato a Nicolò Barabino; longitudinale (ricco a sua volta di decorazioni affrescate sulla volta a padiglione, rappresentanti nei 5 medaglioni centrali di difficile interpretazione la “guerra dei romani contro Giugurta re di Numidia”: il centrale più grande raffigura forse “Mario che combatte i Numidi presso Cirta”, è vistosamente crepato causa le vibrazioni subite durante i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale; gli altri episodi forse sono: ‘il perfido Giugurta incatenato’, ‘lo scontro tra i due eserciti’ ‘la divisione delle spoglie tra i vincitori’, ‘due prigionieri tra cui un re nel campo militare romano’.
affresco di Mario lo scontro
A descrizione dell’Alizeri, anche le pareti del salone erano affrescate, con sfondati prospettici ricchi di colori ed invenzioni -insuperati dall’autore stesso in nessun’altra produzione-ora purtroppo scomparsi; furono sostituiti al restauro della fine del XIX secolo dagli spolveri del Barabino per i dipinti dei Vespri Siciliani, Pier Capponi, Carlo VIII, e di putti.
Si notano pure tra i grossi riquadri su descritti, quattro finte nicchie monocromi color bronzo con effigie a statua di imperatori romani o di armati, e nelle medaglie d’angolo incluse in cornici ovali dorate a loro volta inserite in cartelle molto elaborate e di finto stucco le immagini a busto di Cicerone, Cornelia, Pompeo e Lucrezia; nelle lunette sovrapporta, dipinti di Angelo Vernazza; due gessi di Nicolò Barabino).
Quando nel 1911 la regione Liguria partecipò con un padiglione (progettato dall’arch. Venceslao Borzani e decorato dal pittore Antonio Calcagnadoro – Rieti1876, Roma 1935 -) all’Esposizione Etnografica, tenuta a Roma (culminata con l’inaugurazione dell’Altare della Patria) per il 50enario dell’Unità d’Italia, il Comune di SPd’Arena partecipò (assieme a quello della Spezia, di Genova, di SestriPonente, Savona e Sanremo) con materiale prodotto da Angelo Vernazza e ma mobilieri locali. Finita l’Esposizione, l’ing. Botto Giuseppe fu incaricato del ricupero del materiale che Vernazza stesso si premurò di riutilizzare sistemando gli album nella biblioteca e i mobili (un tavolo con poltroncine, gli scranni con braccioli, portavasi, leggii e lamadario) che furono collocati nel salone di questo edificio (il lampadario nella sala d’ingresso a piano terra).
Questo grande salone è orientato verso nord; ed è contornato - da stanze salotto - 3 a destra e tre a sinistra; di esse solo tre conservano dipinti degni di attenzione, a ovest:
sala con volta ricoperta di decorazione a grottesca riccamente intrecciata con palese innovativa creatività, molte ridipinte:
Sala A destra del salone (foto sotto - oggi 2011 sede della ‘sala professori’), si apre verso levante, ed affacciato sulla piazza antistante il salotto detto di Callisto perché vi è affrescata nel riquadro centrale il rimprovero della ninfa agreste Callisto, epilogo della sua storia: Giove innamorato della giovane, le si era avvicinato sotto travestimento; del non essersi accorta e difesa, fu osteggiata e sgridata da Diana contornata dalle ninfe al bagno; rappresenta una scena molto dettagliata da sembrare una miniaturatra le più graziose e procaci (a quei tempi, la magrezza era sininimo di povertà o malattia), visibili sui soffitti genovesi generalmente prodighi di nudità; nelle medaglie d’angolo altri episodi del mito di Callisto (la ninfa Callisto al fiume, Giove vede la ninfa, Giove trasformatosi con le sembianze di Diana si avvicina a Callisto, Giove corteggia Callisto). Nei riquadri sottostanti, sono dei paesaggi di fantasia; nelle lunette sono busti in finto marmo di divinità sottoposti a cellette decorate a grottesche.
Alle pareti, due grossi quadri sono di A.Vernazza:
sala Callisto - Diana e Callisto fra le ninfe –
due delle quattro figure d’angolo. il quadro riproposto sotto, nella sua dimensione.
presumo raffiguri e simboleggi la famiglia: si dice descriva la famiglia Canzio ai giardini di
lui, col martello è operaio; al centro la madre villa Scassi; lei a destra in camicia rossa; lui da
con bambino; Apollo, Mercurio e le muse sono anziano signore, con medaglie e bastone.
gli dei che proteggono l’unione.
sala – d’angolo di ponente del palazzo: con volta a padiglione, contiene sul soffitto un riquadro in cornice di stucco, assai deteriorato e stinto titolato ‘scena di pesca’ e circondato da grottesche e da quattro riquadri con scene di paesaggi di fantasia. Sulle pareti due grossi quadri del Vernazza:
la spiaggia di San Pier d’Arena cantiere navale
busto Angelo S.Novaro lavori manuali degli studenti
===senza un civico distintivo, nella rientranza a levante tra la piazza e la via del Monastero (viene descritta in “via del Monastero” in quanto appartiene ad essa), proseguendo la lottizzazione dell’ampio parco della villa, nello stesso anno 1905 del monumento, si inaugurò un ingresso del mercato che, posizionato a mare del teatro si apriva con questo cancello anche sulla piazza; era a testimonianza della scelta di rendere la zona epicentro della città. Ora appare definitivamente chiuso ed usato come uscita di emergenza del teatro e per i trasporti dei materiali necessari al teatro stesso.
DEDICATA
La titolazione è comunemente attribuita alla precedente presenza di un monastero delle suore del s.Sepolcro, rimasto come base dell’edificio attuale, compreso il suo chiostro tutt’ora esistente.
Remedi propone un’altra spiegazione: Monastero quale marchesato dei Centurione in Spagna. La spiegazione sta in due considerazioni: la prima, che nessuna villa in Genova si qualifica nel nome del suo sedime, quanto invece solo con quello della famiglia che la ha eretta ed abitata. Secondo, che i Centurione erano anche marchesi di Monasterio, che a lungo hanno mantenuto questo titolo che, a ragion veduta avrebbe più meriti ad essere mantenuto nel nome, sicuramente più dell’antico convento di suore.
(“Ottavio Centurione, figlio di Marco e di Livia Centurione, era commendatore di Zara, cavaliere di Calatrava, membro del Consiglio di guerra di Filippo IV, maggiordo momaggiore della regina donna Isabella di Austria e primo marchese di Monasterio, cittadina in provincia di Badajoz nella comunità autonoma dell’Estremadura – comarca di Tentudia, sui versanti settentrionali della Sierra Morena – a nord della Sierra Tudia – verso i confini del Portogallo, lungo la antica via dell’argento da Merida a Siviglia. Aveva sposato la nobile Battina Doria q.Agostino, ed ebbero un’unica figlia, Chiara – andata sposa al cugino Domenico Centurione; ebbero una figlia, Anna Maria. Alla morte di Ottavio, il titolo fu trasmesso alla figlia Chiara e da lei alla nipote Anna Maria; ma morendo quest’ultima diciottenne, retrocesse a suo padre, Domenico, praticamnte un Centurione ormai definitivamente spagnolo seppur imparentato con i Doria, i De Fonseca ed altre.; il ramo si estinse nel XIX secolo, quando Soledad Centurion y Oroyo, settima marchesa di Monasterio; essa aveva sposato il conte Juan Antonio Fivaller y Taverner passò il titolo (ottavo discendente) al figlio Fernando Fivaller y Centurion, morto senza figli. Il titolo passò (nona) alla sorella di Fernando, Maria de las Mercedes Fivaller y Centurion, che sposando il marchese Gabino Martorell, ebbero numerosi figli: tra essi José Maria Martorell y Fivaller che – anche se non più Centurione del Monasterio - nel 1859 ereditò molti beni di famiglia esistenti in San Pier d’Arena tra i quali la chiesa di san Giovanni Decollato, che poi vendette nel 1872 a don Bosco”
Remedi propone che anche la villa Centurione posta in piazza N. Montano sia stata dei Centurione spagnoli, essendo questa villa posizionata a nord di un terreno che, a mare ha la villa del Monastero.
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