PACINOTTI                                     via Antonio Pacinotti

 

TARGA:

San Pier d’Arena – via – Antonio Pacinotti – fisico – 1841 - 1912

 

 

Targa all’inizio, a mare lato ovest

 

targa a monte, lato ovest

 

 QUARTIERE ANTICO: Coscia

 da Google Earth 2007. In verde, ipotetico tracciato della via, partendo da rosso per via Fiumara; blu via Bombrini, celeste via Pieragostini + Degola.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2817

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   44520

UNITÀ URBANISTICA:  26 - SAMPIERDARENA

Da Google earth 2007 – in marrone, largo Jursé; fucsia via E.Degola; blu, via F.Avio; rosso, via S.P.d’Arena; giallo, via Bombrini 

 

CAP:   16151

PARROCCHIA: s.Maria della Cella

 

STRUTTURA:   strada che dalla fine di via San Pier d’Arena prosegue fino alla  Crociera e Largo E.Jursè (dalle quali prosegue via R.Pieragostini).

Dall’incrocio con via F.Avio, la viabilità verso il monte è a doppio senso; quella verso il mare è invece a  senso unico (obbliga i veicoli diretti verso Genova o a immettersi in via San Pier d’Arena o in via Molteni); solo i mezzi pubblici possono girare a sinistra ed immettersi direttamente in via Avio. 

È lunga 340 m circa; larga 10,6; in pendenza del 2% e collega il quartiere del Canto (a cui appartiene) con quello della Crociera; San Pier d’Arena con il ponente. A nord è intersecata dalla ferrovia che le passa sopra con due suoi viadotti.

La strada, dal lato levante, termina con l’ultimo civico 57r, che è posto a monte del ponte della ferrovia, sulla facciata a mare del fabbricato che si sviluppa in via Alberto di Bozzolo.

    

la saracinesca è in via Pacinotti; la targa è di via Alberto di Bozzolo; il civico “57r via Pacinotti”

è sulla colonna di mattoni sopra il marmo tondo.

 

STORIA:   Nella carta del Vinzoni del 1757 non c’è alcun cenno alla futura strada che – quando sarà tracciata - passerà attraversando l’interno di terreni di pproprietari: da mare, del rev.do Giacomo DeNegri, di Matteo Castelli (Magistrato dei Poveri) e del rev.do Stefano DeFerrari.

Se ne deduce quindi che sia stata creata nella prima metà del 1800 quando i proprietari terrieri iniziarono a vendere in conseguenza delle trasformazioni progettate, specie ferrovia e Taylor, e della necessità di collegare la strada a mare col ponte e verso il nord bypassando il centro.

Una prima carta, del 1846, già la descrive chiamandola “ strada Reale di Genova”. In quegli anni, le strade del borgo erano in terra battuta senza lastricato; era necessario innaffiare il terreno per ridurre il polverone, quando vetture e carri procedevano più spediti. La zona attorno la strada era ricca di acqua e quindi di orti di eccezionale fertilità rispetto alla generica sterilità delle terre del genovesato, e quindi il rifornimento di verdure all’interno delle mura era effettuato passando su questo itinerario per arrivare alla spiaggia e via mare rifornire la città.

    Il regio decreto del 1857, la chiamò “via Nuova”, quale tratto finale della Strada della marina e la leggiamo - con lo stesso nome - proseguire lungo l’attuale via Spataro sino al Campasso. In quegli anni erano già nati nella zona gli stabilimenti di Taylor poi Ansaldo; ed in beve a seguito verranno il ponte-muraglione della ferrovia verso il ponente, i Molini, le OEG, i binari a terra (ferroviari e dei tram; questi ultimi, elettrici, iniziarono il servizio l’8 febbraio 1900).    

Ebbe finalmente il nome ufficiale di “via Garibaldi”, negli anni di fine 1800.

Dal 1904 (un anno dopo rispetto i similari Molini Liguri, nati nell’area Fiumara ma prospicienti il mare), su un lotto di terreno a nord dell’Ansaldo e vicino al ponte, si aprirono sulla strada al civ.22,  i “Molini Alta Italia”.

 

 


L’album descrive  “ MOLINI ALTA ITALIA / società anonima / col Capitale di Lire 8. 000. 000. – Interamente Versato e colla Riserva di Lire 7. 034. 955.74 / SEDE in GENOVA /  Stabilimenti di Macinazione /  Sampierdarena – Pegli – Bolzaneto – Ferrara – Bologna – Collegno – Oneglia /  - Vedute interne – del Molino di Sampierdarena / della potenzialità di q.li 5000 al giorno”


 

 


Grossa industria di farine, con direzione a Genova via XX Settembre, che ebbe le sue radici dal superamento tecnico dei numerosi mulini a conduzione familiare disseminati sul territorio (che nel 1882 erano –in provincia di Genova- 37 a vapore e 1331 ancora idraulici). Nata nel 1899 da finanziamento-investimento di 12 milioni da parte di grosse banche (determinante quello della Commerciale Italiana, con quote di oltre 5milioni, divenuti 7 nel 1901; ma anche minori come quello di una banca Russa nel 1903 per 250mila lire) che fusero tre grosse imprese private (di Pietro Ravano, f.lli Bozano e della sampierdarenese Scerno-Gismondi&C. con stabilimento anche a Pegli ed in Emilia), divenne un colosso finanziario (e come tale soggetto a periodiche recessioni di mercato, come con svalutazione dei titoli (1906) e ricupero nel quinquennio successivo) ramificato in produzione e partecipazioni (iutificio a LaSpezia (assieme all’Eridania), magazzini, frigoriferi, pastifici, oleifici, ecc) ovvero a sua volta finanziatore e compratore di decine di altre imprese sparse anche in Piemonte, Toscana, Sardegna ed in Tunisia; con la partecipazione di grosse famiglie genovesi come i Raggio, Odero, Becchi, Ravano, Scerno, Gismondi e tanti altri.

Da noi, i due stabilimenti pluripiano furono eretti dall’impresa ing. GB Porcheddu di Torino che -con prodotto a brevetto belga- era divenuta esperta nel neonato cemento armato, sostitutivo del vecchio metodo dei muri in pietra e sostegni interni in ferro e ghisa. Dei due, un fabbricato era per la pulitura del grano e macinazione, un secondo quale silos per deposito del prodotto iniziale e finito; serviti da binario ferroviario collegato su strada con il porto e la stazione. Il normale trasporto in spalla di sacchi di farina, generava gare di forza tra i vari facchini: fa parte della leggenda tra fantasia e realtà quindi, ma che viene ricordato su tutti i testi, tale Antonio Bottaro, detto Manela, che compì l’ impresa di sorreggere sulle spalle per un minuto 5 sacchi da un quintale; era capace di tenere un sacco da un quintale sottobraccio, con la stessa semplicità con cui una madre tiene il suo pargoletto in fasce).

Nel 1903 alla nascita dei confinanti e concorrenti ‘Molini Liguri’, anziché combattersi tra loro nacque subito una reciproca integrazione dirigenziale che permise la vigorosa espansione di ambedue. Nel 1937 in concomitanza di una ristrutturazione della zona della Crociera, come descritto sotto, il muro perimetrale verso via Pacinotti fu arretrato verso l’interno ove era un cortile, permettendo alla strada di allargarsi oltre il pilone della sovrastante ferrovia, ed ai tram di eseguire una curva più dolcemente. Lo stabilimento fu chiuso nel 1965, demolito nel 1969 ed il terreno acquistato dall’Ansaldo MN che vi edificò di suo.

   Una fonte del 1910 scrive che era: “da via C.Colombo allo scalo ferroviario di Piccola Velocità”, con civici sino al 27 e 42). Ma anche allora, come detto,  comprendeva le attuali via Pacinotti e via G.Spataro assieme fino al sottopasso di via G.Tavani. In questi anni la strada non aveva il traffico attuale (oggi, è praticamente una strada solo di traffico) ma era molto più vissuta dai suoi più numerosi abitanti (considerata la vicinanza con le fabbriche): piccoli negozietti creavano il calore indimenticabile di un ambiente di vita vissuta con le picole cose, specie per i più piccoli; così nella strada vengono ricordati i “Pasin” che vendevano chincaglierie e cartoleria con una meticolosità e riservatezza da dare l’impressione di essere dispiaciuti di vendere un oggetto; la macelleria del baffuto e generoso“ö Pinetto”; la latteria dei Cerrato che col misuratore travasavano  la quantità di latte richiesta nel proprio “bolacchin”; e la drogheria delle sorelle Duo che tra l’altro vendevano a portata dei bambini i pescetti di liquirizia ed il reganisso.  Ad ovest si aprivano i magazzini –forniti di linea ferroviaria  sino all’interno-  di Scerno e Gismondi (posti tra via Operai e la ferrovia; poi inglobati dall’Ansaldo); e quelli di Luigi Morasso (da via Operai a via Bombrini) a cui apparteneva probabilmente il caseggiato-villa  seicentesca sopravvissuta alla ristrutturazione totale dell’ambiente.

Sulla strada, a levante, si apriva la “ piazzetta dei Lavatoi”, dove su due grosse bocce di pietra era uso agli uomini sedersi per parlarsi un po', mentre le mamme facevano bucato e i bambini giocavano alla palla fatta di stracci. Sulla strada passava il tram , ed anche un binario dei treni merci (vi si formavano i convogli, da agganciarsi ed essere portati al parco Forni).

    Inflazionata risultò la dedica stradale al generale, quando nel 1926 si dovette scegliere per dedicargliene una sola nell’ambito della grande Genova: ben 11 delegazioni avevano una via a lui dedicata, e tutte dovettero ‘cederla’ a favore del Centro (oltre al Centro, era a Borzoli, Nervi, Pegli, Pontedecimo, Rivarolo, SPd’Arena, Sestri, Voltri, Cornigliano, Prà, Quarto). Per la nostra città fu programmato sopperire, trasferendo la dedica ad Antonio Pacinotti dal vico presso la Cella a questa via.  Però dal 1926 al 1935 nulla fu fatto di ufficiale, risultando che ancora nel 1933 la strada sempre si chiamava via Garibaldi ed iniziava al Canto da via C.Colombo, e sempre arrivava  a via G.Tavani a san Martino; che era di 3.a categoria ed i civici erano fino a  27 e 36. In questi anni, il vico Antonio Pacinotti era ancora presente presso via della Cella (vedi).

    Solo il 19 agosto 1935 con delibera del podestà le venne ufficialmente imposto il nome attuale di via Antonio Pacinotti (da via N.Barabino a via G.Tavani, spostando in posizione più degna la dedica stradale dal vicolo collegato con via della Cella che rimase anonimo). In quegli anni corrispondenti all’apertura di via Avio, una parte del piazzale dell’OEG fu “acquistato” dalla strada neoformata, per allargarne lo sbocco.

   Nel 1937-39,  la strada (che alla Crociera per continuarsi in via Monte Corno (via R.Pieragostini) passava con una stretta angolatura solo a monte del pilastro a sostegno della ferrovia della linea Genova-XXMiglia) si deliberò poterla notevolmente allargare, sia abbattendo a levante un grosso palazzo ad abitazioni (che la separavano da “vico Alberto di Bozzolo”, divenendo le due strade direttamente affiancate e divise come oggi solo da un giardinetto); sia espropriando a mare della strada -per ragioni di pubblica utilità- una striscia di terreno a forma di fuso (di proprietà -e comprendente la portineria- della soc.An.Molini Alto Italia. Alla fine però si venne ad un accordo amichevole, con una spesa per il Comune di 30mila lire per l’esproprio e 120mila per il rifacimento della zona)). Così il tratto nuovo di strada, quasi una piazza, raggiunse tra i 11,5 e 15,5 m. di larghezza .

   Nel dopoguerra, con delibera dell’apr.1946  il tratto a monte dopo la Crociera, venne dedicato ai due partigiani E. Jursé e G. Spataro.

   Nel Pagano 1950 vengono segnalate  tre osterie (3r di Spinoglio F.;  7r Gaj E.; 34r Gastaldi Lidia); nessun bar caffé; una trattoria (di Pesce Emilio al 69-71-73r).

 

anno 1970                                           1980

   

tre foto anno 2002                                                                                       retro

      Negli anni 2000 frequenti sono stati gli incidenti: più eclatante l’ improvviso rovinoso spontaneo cedimento e caduta di un palazzo disabitato da oltre trent’anni,  (i civv.14-16-18;  il 30 giugno alle h.16. Cedendo un arco a piano terra, la facciata -in via di demolizione da parte della soc.genovese Edilpamoter- si trascinò dietro le impalcature; per fortuna senza vittime; gravissime ripercussioni sul traffico, dirottato e capovolto in via Dondero e su una tubatura dell’acquedotto spezzata. Nel 2007 gli otto imputati di Fiumara Nuova –società destinata alla demolizione dell’Ansaldo- e di Coop7 alla progettazione, quindi responsabili del piano di sicurezza, sono stati tutti assolti perché ‘il fatto non sussiste’); e la morte di alcuni autisti (un veicolo precipitato in una fossa mal recintata; una motociclista scivolata e finita contro un tir) con qualificazione di strada ad alto rischio veicolare.

Nel 2004 fu lanciato – per Ge. capitale della cultura - il concorso “Urban Regeneration” col fine di far proporre a giovani architetti nuovi progetti sulla città in cambiamento. Per via Pacinotti,  tema: “ area di 1 ha, residenziale per 100 abitanti, attività commerciali e direzionali, verde attrezzato, parcheggio per 250 vetture.

Ne furono presentati quattro (uno di appartenenti alla facoltà di archit. Diparc, con parcheggi e  piani a diversa inclinazione; due belgi, uno con parcheggi e palazzine multiple;  l’altro con collinetta e sei edifici a torre. Uno dell’univ. di Ge, con edifici a gradoni, verde, parcheggi ed auditorium.

 

   Con l’apertura dei centri della Fiumara, la strada è attraversata da migliaia di persone al giorno.

 

                                                         

foto 2002                                                         foto 2008

 

CIVICI

2007= NERI= dall’1 al 19 (mancano 7 e 9) e dal 2 al 20 (mancano 12→18)

          ROSSI=dal 3r al 57r (manca 1r; in più il 21Fr e 21Gr)

                        Dal 2r al 52r (mancano 38r→48r; in più 6Ar e 26Ar)

Nel Pagano/40 sono segnalati: la strada che è limitata ‘da  via N.Barabino e  da via G.Tavani’: civ. 1n = RollaTraversi&Storace, s.a. ferri, met.; 1n =L’immobiliare finanziaria s.a.; 9 canc. e 13/1 Offici.Elettr.Genovesi; 20n s.a. Ansaldo; 22n s.a. Esercizio Molini; 34n Eridania zuccher.nazionale e spaccio commest..

Civv. rossi dispari= 3r trattoria BozzoloF.; 5r s.lle Storace pasta fresca; 7 osteria Gaj; 9r macelleria; 11r chincagl.; 19 comm.; 59r orologeria; 61r parrucchiere; 63r calzolaio; 65r fruttiv.; 69 trattoria Brusco Isabella; 77r vini; 81r vini; 83r latteria; 85r salumeria; 87r drogheria e bar.

Civici rossi pari = 2r salum.; 4r tabaccheria; 6r parrucchiere; 8r latteria; 10r drogheria; 14r fruttiv.; 18r fonderie FavaM fu G.; 22r calzolaio; 26r polliv.; 28r mercerie; 30r falegname; 34r osteria; 66r osteria; 68r osteria; 76r commes.li; 78r rip.biciclette; 82r osteria; 84r Distillerie Italiane (laborat.); 84Ar bottigl.  

===civ.1: ancora nel 1950 il prof. Rolla Luigi era consigliere della “soc.an. Rolla, Traverso & Storace, di prodotti siderurgici e metallurgici” ( fabbrica di lavorazione del ferro, lamiere, metalli, tubi. Bande estere e nazionali, depositi di bande e lamiere stagnate e piombate).  Già nel 1933 aveva un capitale di 3milioni ed una filiale in piazza Cavour. Lavorava materiale minuto il più vario, reclamizzato in ben  41 articoli come l’acciaio, apparecchi per riscaldamento ed illuminazione elettrica, articoli di idraulica ed igiene,  ecc.. Nel 1961 aveva sede in via F.Avio al 4/2bis con capitale aggiornato a 25milioni, dei Traverso nel consiglio di amministrazione, ed un magazzino doganale proprio, e produzione allargata all’alluminio, al rame ed allo stagno, lana di piombo (unici fabbricanti della cosiddetta ‘stoppa di piombo’ per giunture di tubi, ponteggi tubolari con brevetto proprio per i giunti d montaggio,  ferro per cemento armato, il tutto anche ‘a vagoni completi’ e per l’esportazione, vantando una anzianità di oltre sessant’anni e di essere il ‘più assortito deposito di materiali siderurgici e non ferrosi della Liguria.

Nell’area fu costruito un palazzo nuovo con portoni che si aprono in via T.Molteni; sulle facciate si vede ripetuta in rilievo la sigla TRS.

===civ. 2  i primi civici pari sono  case da abitazione popolare, alcune a villetta settecentesca, alcune fatiscenti perché trascurate.

 

===civ. 5: nel 1849 vi abitava l’ing. Tomaso (Thomas) Robertson, facoltoso scozzese, proprietario dell’omonima società, uno dei pionieri dell’industria siderurgica genovese  che godette della fiducia del Cavour -vedi-. Arrivato quell’anno a San Pier d’Arena, per primo rispetto altri conterranei, con discreto capitale ed un pacchetto creditizio da Glasgow - quale forse unica iniziativa britannica di un certo rilievo nel campo dell’industria manifatturiera - aprì nel 1851 nella zona “sud occidentale”  il suo stabilimento-officina meccanica e fonderia che diverrà terzo grande opificio del borgo specializzato nella produzione di ruote idrauliche e turbine. Utilizzando commesse statali e di privati (tra i quali c’era il gruppo Rubattino: egli in proprio ne era socio per lire 70.800) si specializzò nella produzione di ruote delle quali appunto il gruppo necessitava per i propri piroscafi. Sposato, aveva tre figlie.  Dopo soli 12 anni di attività, improvvisamente morì appena 49enne,  nel novembre 1863.

La sua fabbrica,  nella quale nel periodo 1858-61 lavoravano 230-400 operai, gradatamente divenne fortemente indebitata al punto di crisi  irreversibile, fino ad essere messa in liquidazione l’anno successivo (con grossi crediti vantati su ipoteche e prestiti da banche ‘foreste’, nonché professionisti e nobili genovesi). All’epilogo di questa situazione a poco valse l’ultima boccata d’ossigeno proveniente dalla regia Marina che nell’estate 1863 fece una ordinazione per 133.683 lire (di fronte ai 2.647.120 per l’Ansaldo); la crisi era ormai un dato di fatto. Gli eredi dell’impresa si trovarono senza commesse – in uno Stato (Destra storica) tendenzialmente restio ad investire nel settore industriale preferendo in quello agricolo - e, fortemente indebitati, dovettero liquidare tutto. (Pare che nel frattempo l’azienda si fosse trasferita nell’attuale via W.Fillak -vedi di fronte alla casa civ.15 ma invece probabilmente fu quella dei suoi conterranei Wilson&Maclaren).

  Dalle lettere del Cavour a suo riguardo si leggono particolari parole di elogio e riconoscimento di capacità professionali, quando in contemporanea formulava aspre e sfiduciate critiche nei confronti dei dirigenti dell’Ansaldo. Al  suo servizio –dopo la guerra in Crimea- erano venuti anche i conterranei Alexander MacLaren e John Wilson, che forti del titolo di ingegnere, di macchinisti e di una generosa liquidazione ottenuta dopo il servizio in Marina -approfittando che il governo torinese aveva tolto l’obbligo del passaporto per gli inglesi, si fermarono proponendosi come capotecnici per una scelta definitiva genovese, ed aprirono dopo il 1862 uno stabilimento proprio, il quarto in città, divenendo pure loro pionieri industriali della San Pier d’Arena metalmeccanica.

L’edificio venne demolito nel 1952 e ricostruito  nel 1955.

===civv. 11.13.15:   erano dapprima palazzine isolate.

La palazzina n° 11, era di proprietà di Luigi Morasso, un ricco industriale del sapone (insieme al fratello aveva aperto alcune fabbriche di oli e saponi (tra le quali quella poi posseduta nel 1833 da Salvatore Tubino - padre –comunque omonimo- del futuro sindaco GB? - a sua volta ‘sfrattato’ da Taylor (vedi Ansaldo) nelle sue necessità espansionistiche), con la passione della pittura,  e capace  al punto di essere stato chiamato a realizzare degli affreschi nella parrocchia della Cella. Nato a Sampierdarena il 7 apr.1797 da famiglia facoltosa di commercianti. Trasferitosi a Cadice, stimolato dai pittori e dalle cose d’arte locali nonché dalla sua indole espressiva, iniziò a produrre opere figurative sempre più interessanti. Tornato al “Canto” nel 1840 circa, continuò la produzione di tele assai di pregio e divenute di grande valore locale e praticamente limitato a collezioni private. Nella chiesa della Cella, un affresco riproducente “Valentiniano salvato dalle fiamme miracolose” è l’esempio visibile da tutti della sua validità artistica. Morì in San Pier d’Arena il 13 dic.1872.

Essendo unica, si ritiene che inizialmente quando la strada si chiamava ancora via Nuova, la casa avesse il n°12: dove nel 1860 vi era andato ad abitare lo scozzese John Wilson affittuario del Morasso.

Lamponi dice primitivamente sede degli impianti della società francese ‘Unione del Gas’ (con capitale interamente francese, era negli anni 1860-00 ed oltre, monopolio dell’erogazione del gas a Genova, con dimostrate spese negli anni 1880 di ‘nuovi impianti’ mirati a tentare di ostacolare la nascente scoperta di Edison della illuminazione con lampada elettrica. Questo costò alla città possedere un iniziale impianto in centro (nel 1890, 108 lampadine) sei anni dopo le altre città).

   Esse furono nel tempo inglobate in un edificio unico dalle officine elettriche che si chiamarono OEG (Officine Elettriche Genovesi). 
 
I suoi impianti, con macchine, caldaie ed alti camini costruiti su progetti della AEG tedesca,  iniziarono l’attività nel 1897; e furono all’altezza di sostituire negli anni attorno al 1901 i precedenti impianti di illuminazione a gas, con una nuova rete elettrica, ampliata sempre più  nel successivo decennio.

  

 

    

Possedeva grossi tubi che arrivando sino al mare: assorbivano ingenti quantitativi di acqua, necessaria per raffreddare gli impianti.   L’energia elettrica diffusa in città,  favorì l’inserimento dei tram ways eliminando la trazione animale , e della

 

illuminazione stradale fissa per tutta la notte con lampade appese alle case (visibili ancora in via Buranello ed altre) o a piloni di legno pitch-pine muniti di traverse graziosamente lavorate in ferro e poste a mensola, e poi di tutte le case con il relativo conseguenziale enorme progresso.

Il complesso, era dell’ ENEL (ed usato come deposito e magazzino; mentre sono stati  decentrati gli uffici).  Nel 2010 con la privatizzaziobne della corrente elettrica, tutta l’area appare sgomberata dall’Enel ed il piazzale segnato per terra per area di posteggio veicoli

Esternamente appare come un lungo edificio a doppia scaletta di altezza, con portoni distribuiti irregolarmente a significato di – seppur fatti tutti eguali con la parte alta arrotondata, escluso il 43r rettangolare- aperture in tempi diversi per uso diverso. Al centro quello più alto a tre piani senza portone; lateralizzato da due costruzioni a due piani delle quali quella a mare ha un portone (civ. 13 nero), quella a monte due (civv15 nero e 45 rosso); a sua volta ancora lateralizzato da costruzione più lunga ad un piano di cui quella a mare ha il civ. 11 nero e 43 rosso,  e quello a monte con due portoni, i civv. 17 e 19 neri.

    

progetto OEG – 1908 - sala macchine              1914

  

l’area Enel in una panoramica dell’anno 2000

 

===civ. 15r Nel Pagano 1950  viene descritta la “fonderia metalli di Fava Mich. succ. Palazzo Luigi”

===civv 14-16-18 (oppure 12-14-16?) erano stati sgomberati da casa di abitazioni trent’anni prima, e poi chiusi per evitare abusivismo dagli extracomunitari. Nel programma di demolizione da parte della ditta genovese Edilpamoter nell’ambito del progetto di utilizzo della “zona Fiumara” già di proprietà dell’Ansaldo, l’ultimo giorno di giugno 2000, l’intera facciata del civ. 14 in quel momento alta una diecina di metri e lunga una ventina crollò spontaneamente sulla strada, trascinandosi l’impalcatura, bloccando il traffico e occludendo una condotta d’acqua; fortunatamente senza vittime divenne obbligatoria la chiusura al traffico della strada per alcuni giorni, con pesanti ingorghi, inversioni di traffico; avvisi tecnici di garanzia alla Coopsette (titolare dei lavori di demolizione), alla Edilpamoter (che aveva acquistato il sub appalto) ed alla Ira sas, (che gestiva una parte del subappalto), per sopralluoghi e perizie al fine della tutela della pubblica incolumità.

                                       

1999. L’arco, presumibilmente faceva passare un treno, per servire un grosso stabilimento (Ansaldo?)                                                              

    2000

===Civ. 19. Un palazzo, in angolo con via Degola, nato presumibilmente come resendenza operaia (senza terrazzi e decorazioni), nel 3/2007 è in fase di ristrutturazione e vuotato di abitanti. Reca cartello con scritto: «proprietà di Spazio Industriale 2 srl, di Milano».

 

anni 1980                              

 

foto 1918 cica

 

Ne ususfruirà l’Agenzia di Produzione INPS, per suoi uffici.  

===civ. 20: una palazzina in stile secentesco, della cui origine  non si conosce nulla (proprietario, data, architetto).

Dagli anni 1880 circa, era in affitto alla fabbrica di olio Scerno e Gismondi, che poi era divenuta ‘Oleifici Nazionali’, con una fabbrica eretta dietro alla villa stessa; a loro rimase una trentina di anni. Il 30 ottobre 1913 il proprietario Carlo Pastorino firmò un compromesso di vendita - della villa e dei 5mila metri quadri di terreno racchiusi tra il viadotto ferroviario e la via G.Ansaldo - con l’Ansaldo (Mario Perrone); l’impegno che fu onorato definitivamente il 3 giugno 1915.

L’Ansaldo conservò la villa  ad uso uffici e, per accedere alle officine retrostanti dall’arch. Ravinetti fece disegnare un cancello in ferro battuto da aprire a fianco della casa (e distrusse l’oleificio retrostante per costruire una officina di 600 mq ad uso ‘presse e proiettili’ - disegnata trapezoide dall’arch. Ravinetti Adolfo e costruita dall’impresa  Porcheddu specializzata in cemento armato-, a sua volta demolita negli anni 1940 per un fabbricato ad uso uffici appaltato alla ditta Bo&Celesta di tre piani, che fu poi occupato dalla Ansaldo Sistemi di componenti fotovoltaici). 

L’appropriazione di questo lotto a levante, concluse una serie di acquisti che inglobarono nel complesso Ansaldo la via G.Ansaldo che il 27 novembre 1920 fu acquistata a sua volta e privatizzata.

In una carta del 1918 appare (inserita in un vasto terreno racchiuso tra via Garibaldi=viaPacinotti e via Bombrini, di proprietà Dufour) di proprietà ‘fratelli Feltrinelli’; divenne poi l’ingresso-portineria  per l’Ansaldo Meccanico (poi  Nucleare, poi ASGEN=Ansaldo soc.generale elettromeccanica); la società, nata nel 1966, subì un drastico arresto nella sua espansione produttiva, quando un referendum popolare bocciò in Italia qualsiasi attuazione di progetti per l’energia nucleare . Nel 1998 ancora in vita, attraversava momenti di gravissima crisi, con minaccia di accorpamento anche con società straniere, o riconversione ad altre tecnologie. Un cartello avverte nel nov.1999 che è sede della società Coop 7 che si interessa dell’area retrostante da ristrutturare.

===civv 21-23-25 furono demoliti nel 1963. Al civ. 23 c’era il 4° distretto di polizia, Il Commissariato di P.S. era locato come in un appartamento  ancora negli anni 60, diretto dal dr.Fatigati. Poi il tutto fu trasferito a Cornigliano.

===civ. 22 nel 1950 avevano sede i molini della Società Esercizio Molini, in quegli anni unica del genere, in Sampierdarena, a parte una soc.an. Molino di s.Giuliano Piemonte localizzata in via B.Agnese in un appartamento del 7°piano del civ.2.

===civv.dal 24 al 36 passarono a via G.Spataro a seguito della nuova denominazione stradale, nel febb.1946. 

===civ. 27 fu demolito nel 1962.

 

 

DEDICATA  al celeberrimo fisico pisano (a lungo fu ritenuto genovese), nato il 17 giugno1841.

Studioso di problemi correlati all’induzione elettromagnetica, inventò – nel senso che progettò e costruì nel 1859 – il primo generatore di corrente continua, comunemente poi utilizzata per motori e dinamo.  Detto “anello di Pacinotti” è un anello - rivestito di fili di rame – girevole su un asse – posto ai poli di un magnete nel quale, la rotazione induce nel filo una corrente elettrica, e viceversa, quest’ultima imprime un moto rotatorio all’anello.

Principio che - poi perfezionato da lui stesso e da altri - è divenuto la dinamo necessaria per il motore ad energia elettrica.

Il padre Luigi, fu un valente fisico e  per anni rettore della cattedra di fisica tecnologica a Pisa. Il nostro, studente liceale al collegio santa Caterina, si iscrisse all’università nel 1856.

Ancora studente partecipò alla guerra di indipendenza del 1859, quando già aveva intuito di ottenere un generatore di corrente continua facendo rotare un piccolo anello elettromagnetico: il principio di base del motore fu scritto come appunto in un diario personale che aveva intitolato ‘sogni’. Con l’aiuto del meccanico G.Poggiali, l’anno dopo sui ciglioni del Mincio sperimentò l’invenzione della prima macchina capace di trasformare energia elettrica in energia meccanica motrice, e viceversa; sia quindi come motore che come dinamo; ma nel subito non si rese conto delle enormi e rivoluzionarie possibilità che l’invenzione possedeva.

Si laureò dottore in matematiche applicate nel 1861. Pubblicò  i risultati nel 1865 su “Nuovo Cimento”: fortunatamente, perché nello stesso anno esibì la sua macchina ad uno studioso belga di nome Gramme, il quale la diffuse industrialmente brevettandola come sua invenzione. La polemica si trascinò per una diecina d’anni finché Pacinotti ebbe esplicito riconoscimento del mondo scientifico (all’esposizione di Vienna del 1875, ed al Congresso internazione di Elettricità di Parigi nel 1881), anche se al Gramme rimasero gli enormi vantaggi economici avendo intuito l’importanza industriale dell’ invenzione.

Dopo essere stato assistente del padre, entrò in carriera di insegnamento accettando  l’incarico  a   Firenze  di   aiuto   dell’astronomo   GB. Donati pubblicando ricerche sulle comete e sul calore solare;   poi  a   Prato (1863, insegnante di fisica e chimica nel collegio Cicognini); fu inviato dal   regio  governo      in Francia, Belgio e GranBretagna quale studioso di meteorologia; divenne professore di fisica e di chimica nell’ ist.Tecnico di Bologna da cui passò alla cattedra di fisica nell’ università di Cagliari nel 1873 a  soli  32 anni; ed infine - dopo il riconoscimento parigino - fu chiamato quarantenne a succedere al padre nell’università pisana, rifiutando il titolo nobiliare di conte.

Quest’ultima scelta e le vicende della scoperta sottolineano il carattere schivo,  modesto e severamente dedito alla famiglia, lavoro e studio.

Nel 1906 divenne senatore del regno, essendo già membro delle principali accademie internazionali - compreso i Lincei - nonché presidente onorario dell’Associazione di elettrotecnica italiana.

Accettò nel 1911con dignitosa pazienza, le solenni onoranze nazionali, al cinquantesimo anniversario dell’invenzione.  

Lasciò numerose pubblicazioni scientifiche

Morì a Pisa il  25 marzo 1912

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archio S. Comunale Toponomastica - scheda n°  3231

-A.sconosciuto-storia dattiloscritta chiesa san GaetanoDonBosco-pag.16

-AA.VV.Annuario-guida archidiocesi—ed./94.-pag.426---ed./02-pag.463

-AA.VV.-Urban regeneration-Erredi per Assedil-2004-

-Balletti Giontoni-Una città tra due guerre-DeFerrari.1990-pag.77

-Castronovo V.-Storia dell’Ansaldo-Laterza.1994-vol.I-pag. 104carta

-Cevini-Torre-Architettura e industria-Sagep.1994-pag.56.117.121.167.

-Ciliento B.-Gli scozzesi in piazza d’Armi-DeFerrari.1995-pag.26

-DeLandolina GC.-Sampierdarena -Rinascenza.1922-pag.50

-DoriaG.-investimenti e sviluppo economico..-Giuffré.1969-vol.I-pag.395          .                                                                                        1973.vol.II.pag.75

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno

-Gazzettino Sampierdarenese.  7/75.3  +  4/87.7  +  9/88.10  +  7/89.10  +  8/89.6  +  5/96.3  +  3/97.8  +

-Gazzo E.-I 100 anni dell’Ansaldo-Ansaldo.1953-pag.34

-Genova, rivista municipale  :  6/37pag.46.52  +  1/39pag.31  +

-Il Secolo XIX  del    1,2,4,5/07/00  + 30/10/04 + 28/10/07

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002-pag.106

-Millefiore.Sborgi-Un’idea di città-C.Civico SPdA.1986-p.58.62.106-8.141

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio.1900-pag.16

-Pagano/1933-pag.247---/40-pag.358---/1961-pag.464.555   

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.1355

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.33

-Tuvo T.-Sampierdarena come eravamo-Mondani.1983-pag.43

-Tuvo.Campagnol-Storia di Sampierdarena-D’Ampore.1975-pag. 211-2  
PACINOTTI                                   vico Antonio Pacinotti

 

 

 

 in verde la primitiva via A.Pacinotti

 

 

Nel febbraio, e di nuovo il 14 sett..1914, al municipio di San Pier d’Arena fu proposto dare il nome di vicolo A.Pacinotti al caruggetto (verde) “da via della Cella a vico Nicolò Bruno (giallo), posto a levante e  parallelo a via Cella superiore”. Fu accettata.

All’atto della unificazione di SPd’Arena con Genova, il Comune stilò l’elenco delle strade presenti nel territorio: dedicata al fisico c’era solo il nostro ‘vico’, di 5a categoria, e quindi passò indenne alla massiccia trasformazione dei nomi fatta allo scopo di eliminare i doppioni col Centro.

Ed uguale appare  ancora esistere nel 1933 quando il Pagano però lo descrive “da via della Cella a vico Scaniglia A.” (celeste).

Sembra facile collocare vico A.Pacinotti nel tratto parallelo a via della Cella nel retro del civ. 9-11, e collegato con via della Cella dal tratto parallelo alla ferrovia, visto che anche  il Novella dice:  “vico Antonio Pacinotti da via della Cella”.  Ma questo presupporrebbe che il nostro vico Pacinotti, mentre ora è chiuso verso monte, a quei tempi continuasse nel retro delle case sino a raggiungere vico N.Bruno, come descritto nella proposta su citata.

Alla Toponomastica non esiste una scheda con questo vicolo.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Novella P.-Strade di Genova-Manoscritto bibl.Berio.1930circa-(pag.16)

-Pagano/1933-pag.247  


PALAZZO                                   via Palazzo della Fortezza

 

TARGHE:- via - Palazzo della Fortezza – già via Ruffini.

                                                            

   

tratto a mare, angolo via G.Buranello

   

tratto a mare, angolo via L.Dottesio-Daste

 

  

 

tratto a monte, angolo con v.N.Daste

 

 

tratto a monte, angolo con via M.D’Azeglio

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia

 da MVinzoni, 1757.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2818      CATEGORIA:   2

 Da Pagano/1961

 

 

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   44780

UNITÀ URBANISTICA:  26 – SAMPIERDARENA

                                           28 – s.BARTOLOMEO

 da Google Earth, 2007.

In giallo, via NDaste;

 celeste, via LDottesio;

fucsia, via Md’Azeglio.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:  (civ. 2 e 4)=s.Maria della Cella—(resto)=s.Maria delle Grazie

STRUTTURA:   Da via G.Buranello, a via M.D’Azeglio.

Senso unico veicolare, da mare a monte, escluso i giorni di mercato***

Strada comunale carrabile, lunga 133,3 m e larga 4,80 con 2 marciapiedi larghi m 1,30; viene intersecata da via L.Dottesio.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

STORIA:   la strada nacque nel 1560 circa, praticamente con l’erezione della villa dei Grimaldi, in conseguenza della loro necessità sia di sfogo al mare dall’esterno delle mura di cinta della loro villa, e sia per separare i terreni dei vari altri Grimaldi posti sia a ponente che a levante della strada stessa (poi divenuti degli Ansaldo). Probabilmente vi scorreva un torrentello che, a quei tempi,  faceva da ‘smaltimento’ e da divisione.

Sulle prime carte scritte del borgo, appare col nome di “crosa Larga“, ed andava dalla strada reale della Marina (via San Pier d’Arena) alla strada Comunale interna (via Daste-via Dottesio).

Nella seconda metà del 1700, il lungo spiazzo fu adattato – probabilmente dagli stessi ‘signori’ – per adattarvi un nuovo gioco importato dalla Francia: il “gioco del pallone” (ovviamente non si trattava del gioco del calcio attuale, ma di un gioco con le mani vicino alla pelota, alla palla a muro ed alla palla-corda, presochè tutti di importazione francese. Frequenti erano gli incidenti, specie vetri infranti ad abitazioni o magazzini, con coseguenti proteste, istanze, petizioni (documenti presenti in archivio) che però pare non trovarono accomodante seguito, se un esposto municipale firmato nel 1798 dal presidente Galliano ingiungeva che “prima dell’ inizio del gioco, si tolgano i vetri, e eventualmente si dovranno  pagare i danni cagionati”.  

La stessa, era il limite di separazione del quartiere Coscia (posto a levante) dal quartiere della Crosa Larga (posto a ponente, e che arrivava sino a via Albini circa, qui confinando con quello denominato Boraghero, che a sua volta arrivava sino alla crosa sant’Antonio). Nell’angolo a mare a levante, si ergeva la casa di Ignazio Morando a due piani, con bottega, retro e cucinino a piano terra, e tre stanze al piano sopra; completava la casa un piccolo giardino a nord: nel decreto del 1857, la casa serviva da confine - nella lunga strada della Marina -  tra quella chiamata via Galata a levante e la via Cristoforo Colombo a ponente.

In alcuni fascicoli del 1843 relativi agli espropri da effettuare per aprire la strada ferrata, la crosa orta sempre lo stesso nome ed ha ancora - nella sua metà verso il mare – lo slargo adatto al gioco. Il taglio effettuato, pochi anni dopo, dalla ferrovia farà cessare ogni aspetto ludico e l’area verrà ocupata da edifici popolari.

Il regio decreto del 1857, la chiama “ stradone della crosa Larga”.

In epoca attorno al 1900, le fu cambiato il nome, su iniziativa del governo regio mirante alla valutazione del Risorgimento,  titolandola ad Jacopo Ruffini.

Con delibera del podestà del 19 agosto 1935 fu deciso il nome attuale, spodestando il patriota per concomitante presenza in una strada genovese.

Il 14 nov.1946 le fu sottratto il pezzo a mare che fu dedicato ad Andrea Prasio, che si appropriò quindi dei civv. 1 e 2-2a-4.

Da ché furono erette le costruzioni che la affiancano, si conosce un susseguirsi a piano terra di negozi e botteghe di artigiani (marmisti, friggitorie, osterie, fruttivendolo, merceria, alimentari, ‘la Rapida’ riparazioni calzature e –più recente- la trattoria con tonalità spagnole ed un negozio di vernici).

 

CIVICI

2007=UU26= neri = dal 214 (mancano da 6→12)

                       rossi= dal 2r48r (compreso 2Ar; mancano 4r, da 32r→46r

           UU28= neri = da 111              e 18 (mancherebbe 16***)

                       rossi = da 19r75r (manca 53r; aggiungi 43Ar)

                                  da 50r60r

RIASSUMENDO

Neri=                                   da 111=UU28

                 2→14=UU26   +           18=UU28              manca 16

Rossi= da 2→48=UU26   +   5060=UU28

 

Nel Pagano/40 – è delimitata da via N.Barabino e via Md’Azeglio; ha civv. neri da 2 a 12 e da 3 a 11. (con al 14 la “scuola ind. «G.Garibaldi») e civv. rossi: 5 osterie all’  1,3,13,33,54r ; 2 latterie (7r e 41r); 3 commestib (10, 42,49r); 2 parrucch (11 e 61r); carta da macero(24r); impr.edile Gentilini (28r); salum (31r); 2 carbone ((32 e 38r); merceria (35r); ottoniere (37r); droghiere (39r); farinata (45r); fruttiv (47r); riparaz calzat (59r);  marmi (65r)

Nel /1950 per il Pagano, vi si apriva una osteria  al 33r allora di Meirana Ester; non bar né trattorie.

Possiede civici sino all’11 e 4 neri; 61 e 32 rossi

 

Nel muraglione della ferravia, nella parte a levante rispetto la strada,  si nota dietro ad un cancello un tombino in basso, di non facile comprensione. Nella parte a ponente sovrasta un residuo di ‘archeologia industriale’.

 

          

===civ.1 dopo ristrutturazione dell’edificio, fu assegnato nel 1992

===civv. 2 e 4  corrispondono a costruzione eretta nel 1963 

===civ. 5 ha il portone unico ma dà adito a due possibilità -come una V  appiattita-: il lato a destra propone subito le scale per salire nel palazzo stesso; il lato sinistro posto a monte, dopo un breve e basso corridoio a tunnel, si apre nel retro del palazzo, in una minuscola aia: si ha di fronte un manufatto assai antico, forse sei-settecentesco: case fatte ancora in pietra e con  travi portanti di legno. Completamente fuori contatto del traffico cittadino, qui troviamo un angolo assai interessante della antica città: una aia di pochi mq davanti ad una casa bassa e di aspetto assai semplice.

 

A piano terra, l’ingresso - chiuso da porte moderne - che dovevano dare adito a cantine o “scagni” di artigiani (oggi magazzini privati, irraggiungibili da mezzi motorizzati). Tutte le finestre dell’edificio sono piccole. Il portone si apre rialzato di un metro, raggiungibile tramite breve scaletta di sette-otto gradini fiancheggiato da un caratteristico scorrimano, fatto tozzo con mattoni e con l’estremo esterno arrotondato. Sulla facciata e subito sopra il portone, si scorge uno stemma  tipico delle abitazione di religiosi: esso, sopra il portone, è stato parzialmente scalpellato nella sua periferia ma conserva ancora il segno di HC sovrapposto a MV sormontati da una croce esternamente. Internamente al portone si scorgono le scale strette e ripide travate al soffitto.

Sul lato a mare della piazzetta è murata una importante immagine in lavagna, di presumibile datazione medievale, rappresentante il “sacro Agnello”: è un tondo, con libro sovrapposto da agnello portante una bandiera crociata. L’ “Agnus Dei” è un motivo simbolico paleocristiano che in origine si trova nel libro di Enoch; in terra ligure affonda le sue radici nel XII secolo quale segno sacro relazionato a san GiovanniBattista, patrono della città, quasi sempre raffigurato con un manto di agnello addosso. Simboleggia la purezza, l’innocenza, la mansuetudine ed in non meritato sacrificio; da dopo il 1500 ha pure valore talismatico e protettivo, ed è in questa forma che lo vediamo applicato come sovrapporta o nei fregi anche nella casa privata di cui si scrive.

    

 

  

 il tondo con l’Agnello                                              incombente la fabbrica che si apre in via Cassini 

                                              

Il retro della casupola - a levante confina con un piccolo corridoio esterno di proprietà della ex-Depa (che si apre in via Cassini).

È chiaramente un “avanzo” dimenticato della antica SanPierd’Arena. 

===civv. 6-8-10-12 furono demoliti nel 1962

===civ. 18 rimane nella parte a monte di via Daste ed è simmetrico al portone di via D.Chiesa ove è descritto il palazzo.

===19r la sede della palestra “Gymneastic Club”.

===24r nel Pagano/1950 si segnala Cervetto Stefano in attività nella carta da macero.

===civ.45r  nel 1999 la friggitoria “torte e farinata” si è guadagnata la segnalazione nel libro della Sagep di Nico Monatti con: ”ci si può sedere a tavola o prendere al volo una porzione. L’importante è gustare la farinata, qui davvero eccellente. Morbida e sottile, come richiede la clientela, preparata anche con carciofi e funghi. Ingredienti genuini e forno a legna completano il quadro, idilliaco per i golosi”.

===civ. 47r ora è chiuso. Vi vendeva e riparava biciclette Grazi Bonfilio

 

 

===civ 14    la villa Grimaldi, detta  la Fortezza

 

La famiglia Grimaldi

ha origini molto lontane, sembra da Vezzano: un ramo stabilitosi a Genova a metà del 1000 ha per capostipite conosciuto Grimaldo, vissuto nel 1160, arricchitosi nel traffico marittimo, divenuto console (quindi nobile di origine consolare) ed inviato a Pavia nel 1162 quale ambasciatore a Federico Barbarossa. Schierandosi con i Fieschi a formare i Guelfi, furono nei secoli tra il 1200 e 1300 tra i promotori di tutte le lotte interne tra le due fazioni. Un ramo emigrò in Sicilia nel 1396, mentre il ramo genovese si estinse nel 1824.

Divennero Duchi nel 1605. Ebbero moltissimi feudi in Liguria e Piemonte ed a Salerno, nonché  in Francia. Dal 1581 la famiglia fornì alla Repubblica sei dogi, 32 senatori e 3 cardinali, molti ambasciatori, ammiragli, scrittori.

 

         

Il loro scudo era a scacchiera, con 15 rombi bianchi (argento) e rossi,  con   sovrastante la corona  o un’aquila ad ali spiegate (vedi Labò, pag. 161). I rombi sono detti anche ‘fusi’ e potrebbero rappresentare sia la punta della lancia che il fuso per tessere (in omaggio alle dame, a simbolo di perseveranza e pazienza).

La famiglia ebbe aggregate  altre 24 famiglie: Bracelli, Carlo, Castello, Cavazza, Ceba, Ceva, Cogorno, Crovari, Durazzo, Fereta, Jofia, Morasana, Oliva, Pateri, Ricci, Robia, Rosso, Salinera, Taschifeloni, Vitali, Zino.

1300= Un Antonio fu ammiraglio vincitore dei Catalani nel 1332 ma sconfitto dai veneziani nel 1353 con gravi perdite. Un altro omonimo fu a capo della Commenda di Prè e cadde in battaglia a Famagosta nel 1403. Visconte  fu ammiraglio con PaganoDoria, combattè a Morea e Parenzo, 1354.   Nel 1395 i fratelli Giovanni e Lodovico (Scorza scrive che fu Francesco nel 1296) occuparono Monaco e, da quel tempo in poi la famiglia rimase assoluta padrona del paese. Condottieri di armate e di flotte, nei  secoli tra il 1300 e  1500  furono a capo di continue lotte contro i veneziani ma anche  contro i ghibellini liguri.

1400=Un Ansaldo (1471-1539) fu senatore, ambasciatore a PaoloIII, soprannominato “il grande benefattore”; di lui esiste una statua in villa Rosazza scolpita da Nicolò Traverso. Fu Gaspare Grimaldi Bracelli  (1477-1552) ad essere doge 1549-51 e nipote dello storico Giacomo Bracelli. Istituì il Magistrato delle Monache e scongiurò il tradimento di Giulio Cibo e Domenico Imperiale.

Dal 26 marzo1476   al 9 nov.1492, uno dei Sauli fu scrittore dell’acquisto di beni immobili in San Pier d’Arena.

Un Grimaldi Rosso Cristoforo (1480-1563) fu medico, filosofo, matematico, ammiraglio (con CarloV in Tunisia, partecipò con 25 galee, e doge nel 1535-7 ristrutturò le mura).

1500=Nel 1528 entrarono a far parte di una delle 28 famiglie più potenti in città - chiamate “alberghi”, e formandone il 10°- ed a cui dovevano aggregarsi le altre famiglie. Un Giorgio, fu con proprie galee alla battaglia di Lepanto nel 1572.

Dagli archivi Sauli emerge che in questo secolo più d’uno di questa famiglia fu amministratore, in particolare (oltre che della famiglia Doria), di Ambrogio Grimaldi Cebà q. Antonio.

Ed altrettanto, dal 1565, un Sauli è scrittore del saldo di un debito da parte del rev. Alessandro Cicala q. Nicolò che paga Alessandro I Grimaldi Cebà q. Antonio cedendo una villa sita in San Pier d’Arena.

Un Grimaldi DeCastro Luca (1530-1611) fu doge 1605-7.  Battista istituì nel 1580 una ‘Fondazione Grimaldi’ a scopo di beneficenza.

1600= Alessandro di Pierfrancesco (1621-1683) fu doge (1671-3); signore di molti feudi e castelli, perspicace ed acuto d’ingegno, rese grandi servizi alla Repubblica in terra-mare e diplomazia e guerre: da doge scongiurò la ribellione dei DellaTorre e sconfisse i piemontesi guidati dal duca di Savoia (1672; vi parteciparono anche tre dei suoi figli). Luca di Nicola (1675-1750) fu doge 1728-30, combattè contro rivolte di Sanremo, Finale e Corsica. Giovanni Battista, di PietroFrancesco (nato mag.1678-1757), amato dal popolo, fu guerriero a Savona e Corsica; fu deputato a trattare con BottaAdorno nel 1745 dimostrando serenità eroica al punto che lo stesso Botta lo definì “novello Muzio Scevola”. Eletto doge il 7 giu 1752-4. Iscritto alla ‘colonia ligustica degli Arcadi’ col nome di Uranio.

Antonio Grimaldi Cebà di Nicolò (1641-1717)fu doge dal 1703-5. 1700=PietroFrancesco di GB (1715-1781) fu doge 1773-5.   GianGiacomo di Alessandro (1705-1777) fu soldato (1746 comandante contro gli austriaci); politico commissario in Corsica (ma commise l’errore -1753- di sopprimere il ribelle corso Giovanni Gaffori facendone un eroe; gli si ritorse dovendo fuggire dall’isola nel 1759), eminente pensatore il migliore filosofo genovese dell’epoca. Doge dal gen1757.

 

   Ad ordinare la villa, fu Giovanni Battista Grimaldi q.Gerolamo chiamato anche Battista I (banchiere, mercante, magistrato del Banco, massimo esponente della politica ed economia genovese della metà del 500, ritenuto  uno dei più ricchi dell’epoca. Nel 1593 risulta che il figlio Nicolò avesse ereditato un patrimonio netto –in lire genovesi-  = 148.055.6.8; poco però, rispetto Agostino Doria (696.666,6.8), Imperiale GioGiacomo (597.221,13.4), Ambrogio Spinola (309.999,6.8) e Filippo Spinola che nello stesso anno aveva 1.553.666,6.8. Prestatore di soldi a imperatori e re, committente di artisti e musici. Nacque nel palazzo sito in piazza della Meridiana a Genova fatto erigere da suo padre Geronimo (o Gerolamo Grimaldi Oliva di Giorgio, erede delle enormi fortune di Ansaldo Grimaldi, anche lui prestatore di soldi a re ed imperatori come CarloV  e morto senza figli): acquisì le fortune familiari col fratello Nicolò (Nicolò era il figlio; 95 dice che il fratello era Luca; E.Parma dice che GB era figlio unico maschio).  Consentì nel 1565 l’istituzione di una scuola di canto e di musica- ponendo nei cartolari del Banco di san Giorgio un apposito multiplico; nonché   lasciò al Banco una enorme fortuna col fine della conservazione del porto, palazzo Ducale e dell’acquedotto, beneficiando monasteri, ospedali e lazzaretti.  Una sua statua, scolpita da Battista Perolli detto il Cremaschino (Pastorino-Vigliero scrive a pag.914 che è di Giambattista da Crema, ma forse sono la stessa persona), scolpita nel 1567 (Poleggi scrive nel 1565)),  troneggia tra i benefattori della Casa di san Giorgio, a Genova, nel palazzo omonimo. Sposò Maddalena Pallavicini da cui ebbe: primogenito GioFrancesco (che sposò Lelia Pallavicini dai quali nacque Maria poi sposa di Goffredo Spinola).; secondogenito Pasquale (descritto sotto quale erede della villa di SPdA); e  Nicolò (che sposo di Maria Lomellini, divenne padre di Caterina, poi prima moglie di GioVincenzo Imperiale). Morì nel 1581).   

 

L’artefice materiale del progetto ed erezione della villa fu l’architetto ticinese Bernardo Spazio (Pastorino&Vigliero e Tuvo&Campagnol dicono Bernardino (qualche altro Michele, inesistente per AA.VV.-scultura a Ge....vol.I e per SopraniRatti), seguace e collaboratore  dell’Alessi  - al quale per lungo tempo, ed ancora nel 1929 fu erroneamente attribuita la paternità del disegno e della costruzione-; gli studi di Mario Labò (1970) hanno definitivamente chiarito con documenti, che chi ha curato la “fabbrica”, fu l’architetto ticinese, già attivo nella vicina villa Sauli ed in Genova alla fabbrica di Carignano ed altre ville locali. Morì nel 1564).

  Si può accettare l’idea che l’Alessi abbia dato consigli al suo allievo, considerato le grosse difficoltà da superare  e gli stretti rapporti di lavoro tra i due.

Anno di inizio lavori è controverso: chi dice nel 1551. Chi (Parma e Ciliento) dal 1559 al 1567;  Poleggi  tra 1559 e 1570;  Stringa, SecoloXIX e Labò nel 1561; AAVV de “L’amministrazione…”:1562;  Tuvo.Campagnol: 1565;  Pastorino.Vigliero: 1651 (presumibile errore di stampa).

Ma anche l’anno  di completamento è differente: Stringa nel 1565; altri 1567 e  1570; Labò 1568; AAVV de  “L’amministrazione” nel 1580; Pastorino & Vigliero: 1665 (idem sopra).

 

Concepita con caratteristiche di imponente severa e  massiccia struttura ad impostazione cubica, occupante quasi 1000 mq di superficie, con pochissime sovrastrutture esterne, priva di dettagli ornamentali che aggiungano eleganza o delicatezza, col tetto a piramide, venne subito chiamata “la Fortezza” in contrapposizione quasi stridente alla “Bellezza” della villa Imperiale, e alla “Semplicità” di villa Sauli: tutte e tre identificate dalle altre ville con aggettivi qualitativi; costeggiano l’asse principale stradale –allora senza nome, oggi via N.Daste-, su cui si apre solo la seconda: la prima e la terza hanno il portone uno a levante e l’altra a ponente in forma speculare simmetrica, con abile e snellente proposta urbanistica e scenografica: tale – apparentemente banale - scelta dell’entrata “lateralizzata” fu progettata per preciso calcolo architettonico  e voluto distacco ciascuna dalle altre con appartata austerità, legati forse anche al caratteristico riserbo genovese, e favorita dal fatto che al di là della strada Larga, i terreni coltivati ad orto erano di proprietà di famiglia  (nel 1840 circa erano di Ansaldo Grimaldi, poi acquistati dagli Ansaldo). Infatti, considerato l’ampio terreno a disposizione, il fatto che le ville siano  state erette  nei limiti vicinali alla strada non può che essere voluto, quasi a formare un borgo nel borgo.

Queste “bizzarrie” sono considerate tipiche della mentalità dei Grimaldi.

Anche il piazzale antistante, fu volutamente studiato rialzato, sia per dare maggiore imponenza all’edificio qualora già non ne avesse, ma soprattutto per superare - con sforzo tecnico eccellente - il naturale dislivello del terreno, e giustificare la scarsa estensione del prato a disposizione. 

 

foto giugno 2009  facciata a nord                          facciata – ingresso ad est

 

La parte decorativa, porte, balaustre,  finimenti interni, e decorazioni varie, fu affidata a Gio Battista Castello detto il Bergamasco (pittore -progettista di architettura e di decorazioni a stucco-. Dopo soggiorno a Roma, associato al Perolli contrattò con GB Grimaldi per varie opere tra cui la villa. Eccellenti sue pitture sono in molti palazzi e chiese cittadine; sculture definite “di non basso carattere” compreso una in marmo, stucchi e ornamenti come nei palazzi degli Imperiali, e opere meravigliose lasciate nell’ Escoriale di Spagna; sono documentate alcune forniture decorative, tipo porte e balaustre, fornite nel 1565 su disegno dell’artista) che si fece aiutare da altri maestri antelami, e dal marzo 1566 da Battista Perolli (dapprima con lavori marginali tipo la decorazione della facciata, un poggiolo ed un busto marmoreo del committente; poi definitivamente nel 1567 con la partenza del Bergamasco per la Spagna).

Nel 1565 (oppure 1567, o 1580), morto lo Spazio, fu portata a termine da G.B.Castello, ancora attivo nella casa in altri lavori (qualche altro: Poleggi, Parma e Sagep76 -dicono Giovanni Ponzello, in quegli anni presente nella vicina Bellezza,  e che nella nostra villa sicuramente intervenne nel 1567 per lavori di sistemazione del terreno).

Il suddetto GB Grimaldi, committente della villa sampierdarenese,  con testamento del 4 giugno 1580 la lasciò al secondogenito figlio Pasquale (al primogenito GioFrancesco, lasciò quella in piazza della Meridiana).


Simonetta Valenziano scrive sul Secolo che Vincenzo fu ospite di Battino Grimaldi.   Boccardo, in L’età di Rubens pag. 27, scrive che chi ospitò il duca nella villa di SPdA furono Carlo Grimaldi con la moglie Battina Centurione Grimaldi (forse perché la prima edizione del libro del Rubens è dedicata a lui che era il nipote di Giulia).


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 12 lug.1607  Pasquale, e sua moglie Giulia Grimaldi (non corrispondono su Battilana), ospitarono Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, detto pure Vincenzo I (Pastorino&Vigliero dicono 1706.   Baldacci riporta un annale su cui è scritto “6 luglio 1607.... è venuto qua per farsi alla marina alcuni bagni per un ginocchio che ha offeso di catarri...., starà a Sampiedarena ove per la sua persona è stato apparecchiato il Palazzo del s.r Pasquale Grimaldo, et certi altri per la sua corte...”.  

V.Gonzaga opera di Franz Pourbus Jr

Galleria Rizzi


Vincenzo Gonzaga nel 1606 aveva progettato un viaggio nelle Fiandre, ma rinunciò e decise trascorrere l’estate a San Pier d’Arena. Presumibile che –nel frattempo- o aveva ricevuto un invito specifico- oppure –più probabile- era pressato dall’incombente bisogno di denaro da richiedere ai banchieri  (già intenso era il carteggio con Nicolò Pallavicino e suo cugino Domenico, con i quali aveva scambi di regali e con i quali già c’era una cordialissima corrispondenza preferenziale da tanto tempo, con reciproco scambio di oggetti vari, nonché aggiornamenti politici e di informazione: gioielli  (in uso gli argenti portati da un giardiniere genovese mandato a lavorare a Mantova, e le perle di cui non sempre c’era la disponibilità (per cui il duca fu invitato ad accontentarsi ‘quali sono possuti riuscire’: una dama mantovana aveva  visto il ritratto di Veronica Spinola Doria e voleva per sé un eguale ‘giro di perle’), giardinaggio (“alberi citronetti, gelsomini di Napoli, lemoncelli e naranci; siepi di mortella”), abbigliamento (vestiari, con grande arrovellamento di Nicolò, perché ignorava le misure opportune) come guanti, “camixie”, polsi a latuche, collari lavorati in oro ed argento, ‘rocchetti’ di tela di Cambrai (destinati a Ferdinando Gonzaga, figlio di Vincenzo e prossimo cardinale (1607); perfino un ben definito busto da donna che, non trovandolo sul mercato, fu inviato a Mantova ‘prelevandolo’ ad una parente ed inviandolo ‘di buona fattura ma usato’); animali da allevamento (cavalli di razza tipo ‘i Barbari’, cani mastini inglesi, una volta anche un ‘cammello novello per il bestiario del duca’, tutto accompagnato da descrizioni tecniche di un esperto d’animali), oggetti di tenore di vita (in genere, aggiornamento delle corti europee; per rimanere al passo con la moda); cibi (come formaggi locali e dolciumi))-

Un mulo, era arrivato a Genova da Mantova (‘dal collo pienotto ma con un bel portamento’), inviato al marchese Antonio da Passano; delle perle se ne era interessato anche Giulio Spinola (che fu rimproverato perché la collana era ‘troppa rada’).  

Arrivò a Genova (scendendo dai monti lungo la via Postumia, a Pontedecimo fu incontrato dalla maggior parte della nobiltà genovese, in un giorno piovoso “che bagnò tutti ben bene” per cui fu d’uopo accorciare le cerimonie e la consegna di doni od omaggi ufficiali), ufficialmente sia per prescrizione medica di sabbiature ed aria marina, essendo sofferente di podagra ad un ginocchio (dapprima, per questa malattia dai medici era stato indirizzato alle terme di Spa), sia per diletto, ovvero come riportato dai cerimoniali “attendendo a giuocare et a darsi buon tempo” specificando che “fu da molti ill.mi ss.ri privatamente invitato”. Preferì venire in Liguria in realtà perché oberato dalle spese (necessarie per rendere sempre più splendida la sua reggia  e per la costruzione della cittadella di Casale) per le quali non trovò altro sistema che ricorrere al prestito di un banchiere genovese (come già facevano i sovrani spagnoli ed il papa stesso): in fondo era già in relazione economica con i Serra, gli Spinola, i DaPassano, e tra tutti,  maggiore fu il rapporto con Nicolò Pallavicino.

Comunque, per questa visita “non vuole cerimonie, ne complimenti, professando solo di voler conversatione di Giovani per rispetto del Gioco, e di Dame per recreatione dell’animo, essendo in età d’anni 42 ha seco una bellissima corte di molti Gentilhuomini a se affetionati”. Quindi, con questo spirito, partecipò ‘solo’ a parecchie feste (perché gli davano l’occasione di conoscere genovesi ricchi ai quali tutti chiedere soldi (il nobile Ansaldo Cebà, preferì regalargli un poema intitolato a suo nome “il Gonzaga”)), ad una battuta di caccia al cervo (nel bosco di Madonna del Monte, gliene portarorono al tiro ben tre capi, le cui carni –fatti prosciutti- furono inviati a Mantova),  a vari incontri al gioco del ‘rapé’ (d’azzardo e proibito dalle leggi locali; molti nobili –sapendo questa sua debolezza- lo ‘spennavano’ di ingenti somme, costringendolo a chiedere ‘rifornimenti’ a Mantova, finché non gi giunse una lettera dalla moglie che gli indicava “se il signor duca si volesse sbrigare sarebbe cosa molto utile alla sua borsa ma molto più alla sua reputazione”).

Vi rimase sino al 24 luglio (Baldacci riporta un brano dai cerimoniali sui quali è scritto “et avendo passato quasi tutto il mese di Agosto, se ne tornò al suo Stato, senza essersi mai più trattato di visita pubblica”).

Col duca -(già venuto a Genova nel 1592, ed allora alloggiato in piazza Fontane Marose dopo sorteggio dal “bussolo”, da Francesco Pallavicino; ora però giudicato un po' lontano dal mare e quindi scomodo; ed anche il 25 ottobre 1600 di ritorno da Firenze dove aveva fatto visita alla cognata, regina di Francia. In quest’ultima occasione fu ospitato da Barnaba Centurione preferendolo all’invito di andare ospite in palazzo Doria “onde schiffar” l’incontro col conte Diara figlio del Contestabile di Castiglia e Grande di Spagna)- si accompagnarono sessanta persone suddivisi in tre diversi palazzi: uno per i duca ed i suoi pochi intimi; uno per  “i signori che accompagneranno Sua Altezza e che non saranno compresi nella lista della sua compagnia e del suo seguito”; un terzo per la servitù, mulattieri e guardie. Tra i primi, ospitati nel nostro borgo ci fu anche un figlio (anche lui già ospite dall’ott.1606 di Nicolò Pallavicino, accolto all’arrivo con una grandiosa festa -con dame riccamente abbigliate -protrattasi fino alle tarde ore della notte); il segretario del duca, chiamato Chieppio; il famoso compositore-cantante-poeta Francesco Rasi (1574-1621) giunto alla corte dei Gonzaga dopo lungo soggiorno fiorentino, e che alcuni mesi prima della partenza aveva impersonato il protagonista nell’ Orfeo di C.Monteverdi; l’artista PietroPaolo Rubens (di ritorno da una missione in Spagna per incarico di VincenzoI Gonzaga (cantato da Verdi nel Rigoletto). Dall’anno 1600 era al seguito del duca: si erano incontrati occasionalmente  presso un orefice di Venezia ove il duca era andato per comperare una scimmietta d’oro in equilibrio su una altalena, da regalare a sua figlia Eleonora (scimmietta, che il Rubens incluse nel ritratto della bimba che aveva due anni, e che lei indosserà anche quando diverrà imperatrice d’Austria).

Era già stato a Genova nel 1604; in quell’occasione aveva dipinto -appena trentenne- la tela della ‘Circoncisione’, da affiggere sull’altare maggiore nella chiesa del Gesù nel 1607-per i fratelli Pallavicino: Giulio (1559-1635. Primogenito di Agostino q.Francesco. Il suo ritratto vedi L’Età di Rubens pag. 63),  Marcello (sacerdote, prefetto della casa Professa dei gesuiti) e Nicolò (finanziere del Gonzaga da cui nel 1602 aveva acquistato il titolo marchionale per il feudo di Mornese, e che allora doveva rimborsare le spese sostenute nella missione in Spagna; diverrà padrino del terzogenito del Rubens)-.

Evidentemente però il trentenne pittore, seppur protetto dal duca, doveva essere una figura ancora poco considerata, di accompagnamento minore e non di fama neanche tra i suoi colleghi: infatti dai numerosi carteggi di questa visita ducale mai emerge il nome del Rubens (sia i ‘cerimoniali’ genovesi, sia quelli mantovani, sia le lettere del Chiabrera ad un altro pittore Bernardo Castello, e quindi interessato).  

Nel 1606 Rubens era a Roma, ed assai malvolentieri doveva tornare a Mantova dal Gonzaga suo datore di lavoro; questi non solo con cronica mancanza di puntualità nel pagare lo stipendio ma anche maldestro  nell’affidargli incarichi poco graditi come acquistare tele di altri e rifiutare le sue adducendo essere in bolletta. Molta è la corrispondenza ritrovata negll’archivio mantovano, con Gerolamo Serra, Ambrogio Spinola, Giulio Spinoila

Da Roma che venne qui da noi –non si sa se direttamente da Roma o da Mantova; e pare che da qui tornò direttamente a Roma  Quando si trovò a SanPierd’Arena, comunque -approfittando del tempo libero non impegnato dagli uffici di corte- usò questo secondo soggiorno per aggiornarsi in architettura,  e riproporre in disegni  ed incisioni (non è chiarito se da solo o più probabile con l’aiuto di uno o più ‘geometra’ diligente e scrupoloso) -con la pianta e le strutture- tante tra le migliori ville genovesi:  la Fortezza è stata riconosciuta in un disegno della prima edizione, denominato “Palazzo D”,  documentata con nove tavole, più di qualsiasi altra villa genovese, e con una sezione staccata e specifica alla tav. 71 per il bagno; è su essi che si evidenzia pure l’esistenza di un affresco decorativo della facciata d’ingresso -attribuito a Perolli- e che in seguito scomparve. La prima edizione del libro con disegni ed incisioni, intitolato “palazzi di Genova” uscì a spese del pittore, nella prima metà di giugno del 1622, con lettera dedicatoria a Carlo Grimaldo, uno dei nipoti della padrona Giulia). Il “Palazzo C”  corrisponde alla vicina villa Spinola, in quel tempo di PaoloAgostino. Non appare descritto il terzo palazzo ospitante, di Nicolò Pallavicino** (dal Rubens chiamato ‘Pravecino’). Oggi gli originali –non completi- sono ospitati nella biblioteca del Royal Institute of British Architects. Sappiamo che il Rubens a metà settembre era a Roma, quindi non seguì il duca nel ritorno, ma da qui andò verso sud (Roma), da solo, a cavallo.

L’arrivo del duca di Mantova non fu quindi solo per sua salute e  svago  (da buon donnaiolo, aveva lasciato a casa la duchessa; nei ‘cerimoniali’, ricorrono frequente frasi tipo ‘festini di dame’, ‘moltitudine di dame’, ‘gentil donne all’intorno della puppa (poppa) della galera’), e come già detto per rafforzare bilateralmente la già efficiente rete di relazioni finanziarie, -il tutto sottolineato da frequenti scambi di doni specialmente con il carissimo amico Nicolò Pallavicino.

Mentre le giornate trascorrevano in conversazioni (tra cavalieri e membri del numeroso seguito, dame, sacerdoti), oppure in giochi (carte: a Pegli, dopo un banchetto, giocò contro il cardinale, vincendo in coppia 1700 scudi d’oro), banchetti, musica (il Rasi, accompagnandosi col suono i arpe e col canto; è assai probabile abbia proposto l’ascolto dell’opera di Monteverdi accompagnandosi con l’arpa, cercando di stupire i genovesi con le sue “miracolose” capacità di produrre effetti sonori sfruttando la tecnica dell’eco, naturale nella sala della cappella. I musici, secondo l’affresco dell’Ansaldo, erano sistemati sui ballatoi nei pressi del cornicione del salone);  gite (in città,  la neo eretta -dai Pallavicino- chiesa di s.Ambrogio o del Gesù visitata con Nicolò ed accompagnato da un solo paggio; nei nostri dintorni invece la villa Pavese -ora Franzoniane, o la villa Doria a Pegli); ed il 25 luglio, festa di san Giacomo, grande euforia  per il “barcheggio” (partenza per una gita in barca di tutto il giorno, con mangiare sulle spiagge, tra suoni e canti; otto galee trasportarono il doge, senatori, gentiluomini e dame, da Carignano a Sturla; da lì a Sestri P e ritorno); il Duca pare non partecipò, ma assistette alla sosta fatta nel pomeriggio presso l’approdo alla marina della villa, dove fu fatta festa e spettacolo con ‘lanci’ di salami e di frutta dalle galee -raccolta dai marinai che la ripescavano per rioffrirla alle dame- e grande accorrere di leudi e di paesani “divertiti ed interessati alle copiose ed abbondanti ‘confettioni’ che piovessero dalle navi”; ed alla sera, in cappella o nella chiesa vicina,  messe cantate, preghiere o cori (una “compieta” eseguita a tre voci accompagnate con tromboni, flauti, “corneti ed altri istrumenti”; una volta un giovane putto cantò il “nunc dimittis” ed un “magnificat”, accompagnato dall’organo e da un basso, “con tanta armonia che pareva una melodia celeste”) .

Di tutte questi avvenimenti clamorosi, ne scrisse pure Gabriello Chiabrera il 4 sett.1607, in una lettera indirizzata al pittore Bernardo Castello.

     Nel 1745 (6 giugno) alloggiò nella villa Francesco III, duca di Modena. Il regnante già era venuto a Genova come turista; e 25 anni prima la moglie, Carlotta d’Orleans, fu alloggiata a S.P.d’Arena con 600 persone al seguito, in villa Lomellini. Stavolta lui era in armi, generalissimo delle armate spagnole di S.M.Cattolica. Proveniente dal levante, accompagnato da 10 cavalieri e 40 fucilieri a cavallo, raggirò la città passando per la strada di Pino, e da Campomorone scese a S.P.d’Arena dove fu alloggiato nel palazzo del mag.co Agostino Grimaldi q. Silvestri. Qui giunto andò a cena e solo il giorno dopo ricevette una delegazione del Senato (sei patrizi, tra cui lo stesso padrone di casa a capo) che arrivati in carrozza gli portava ‘i complimenti’ della serenissima Repubblica. Per altri quattro anni il Duca personalmente fu alleato dei genovesi contro le Armate Austro-tedesche; ma l’anno dopo il Governo genovese abbandonato dagli alleati francesi e spagnoli, dovette cedere agli austriaci senza opporre resistenza, maturando però l’episodio del Balilla.

Nel 1757, sulla carta del Vinzoni, è ancora documentata l’appartenenza alla famiglia Grimaldi, non specificato il nome, compresi i terreni al di là a levante della crosa Larga.

Nel 1800, i francesi assediati dagli austriaci, ancora comandavano la piazza di San Pier d’Arena usata come fascia protettiva per evitare eventuale assedio sotto le mura; nei continui scontri a fuoco, moltissimi erano i feriti: la municipalità locale dovette provvedere in stato di totale sudditanza a reperire due “ospedali per le truppe”:  la Fortezza divenne in quegli anni l’”ospedale dei francesi” creandosi epidemie locali (un dottor Capponi descrive “febbri biliose, putride o nervose” anche tra i civili, causa le nulle capacità igieniche, talché quasi tutti i soldati ed un ottavo dei cittadini colpiti, soccombeva. Ovviamente inutili le rimostranze degli abitanti: le autorità avevano ben altro da pensare, visto che le cose volgevano in negativo: il 20 apr. di quell’anno, mentre le navi inglesi bombardavano indisturbate il borgo, le truppe austriache comandate dal gen. Melas -attestato a Sestri-,  erano giunte tra i vigneti del Polcevera, costringendo i francesi a “barricare tutte le strade  ... conservando solo una piccola apertura allo sbocco del ponte con ostacoli pronti ad essere messi in opera immediatamente”).

Dopo questi fatti, negli anni attorno alla metà del 1800, fu acquistata dal conte Agostino Scassi figlio di Onofrio.

Un chirografo del 27 ott.1849, dimostra che la villa fu poi affittata dal conte Agostino Scassi proprietario, al cav. Giuseppe Antonio Castelli con un contratto di 5 anni. Prossimi alla scadenza, il 9 ago.1854, fu affittata all’Azienda delle Strade Ferrate con un contratto di sei anni  (in un precontratto di locazione si legge: “l’anno del Signore mille ottocento cinquanta tre ed alli quattordici del mese di maggio nella città di Genova:- Si premette che per la costruzione della stazione a servizio della strada ferrata in questa città essendo stati designati i locali denominati quartieri dell’Annona e di San Paolo ora servienti (sic) di Caserma alle Truppe di presidio in Genova si rese necessario di procurare altri locali per l’aquartieramento (sic) delle Truppe ed a la fine essendo stati prescelti alcuni palazzi nell’abitato di San Pier d’Arena fra essi si comprese quello di spettanza degli eredi del fu Conte Onofrio Scassi : Che....”), per alloggiarvi temporaneamente parte delle truppe del presidio di Genova, comandate dal gen. Alfonso La Marmora  (l’arch. Matteo Leoncini andò per conto loro a controllare lo stato di conservazione dell’edificio, giudicandolo positivamente;   risulta anche che il conte, approfittando della scarsezza di alternative di locazione in San Pier d’Arena, abbia giocato al rialzo del prezzo con l’amministrazione militare imponendo un affitto di 9 lire al mese; questa dovette accettare giocoforza,  dopo aver sentito il parere dell’ Intendente Generale di Genova ritenendo la cifra esorbitante, avendo pensato anche ad una espropriazione per utilità pubblica, ma rinunciando a rivalse pur di ‘non dividere e sub dividere’ le truppe in molte più piccole residenze. Pare anche che fu in questa occasione che avvenne la distruzione del bagno ottagonale, anche se la villa in generale non ebbe a subire altri gravi danni strutturali (parte del giardino, verso il mare, appare in quell’epoca   di proprietà di un Dellepiane, ed un magazzino già affittato a Tommaso Traverso).  Nella relazione  si rileva  che la attuale via N.Daste ancora non aveva nome, e viene chiamata genericamente “strada interna”, mentre viene regolarmente citata la “strada Larga”. Comunque la villa viene considerata posta a termine della via DeMarini; anche la sovrastruttura della ferrovia, previde un sottopasso di m.6 per la ‘st.com.Larga’.

In seguito, lo Scassi la utilizzò consentendo la trasformazione in fabbrica di conserve; e così la vide nel 1875 l’Alizeri nella sua visita “A chieder l’ingresso, vedremmo nel pian terreno e officine e caldaie a bollire conserve alimentari, e nelle ampie sale un ingombro di casse e di scatole a chiuderle e suggellarle. Così volle l’avvicendarsi dei secoli....”.

Divenne poi proprietà di Nasturzio (in via J.Ruffini), (si presume sia Silvestro, fabbricante di conserve alimentari  negli anni attorno al 1900, dapprima come affittuario poi proprietario).

Ancora nel 1922 circa, DeLandolina scrive “ora v’à una fabbrica di salse. Quello che fu un ricetto agli svaghi ed a’ riposi estivi patrizi risuona ora di tutto il fervore del lavoro”.

Dal 1923 è posta sotto tutela e vincolo della Soprintendenza alle Belle Arti; (e dal 1934 anche la cappella, chiamata impropriamente dalla Soprintendenza ‘Abbazia dei Grimaldi prospiciente al giardino di Villa Scassi’; a meno che una abbazia già esistesse, e sul suo sedime fu costruoito il palazzo).

Nel 1924, il Comune di San Pier d’Arena, propone un mutuo di   1.400mila lire, per l’acquisto del palazzo con case e terreni annessi;  con l’impegno di porre restauri per dedicare decorosi locali per gli uffici pubblici allora albergati in ambienti inadeguati (si prevedevano  la regia Pretura, l’ufficio di conciliazione, il commissariato di P.S., ecc.; progettando anche di utilizzare il terreno annesso per costruire un grandioso mercato all’ingrosso di frutta e verdura : mercato che dovrà essere circondato da doppia fila di case ad uso abitazione civile, di cui tanto difettava la città), nonché liberandolo dalle casupole che -in lungo volgere di tempo- si erano “abbarbicate ai fianchi della villa”.          

Questa convenientemente restaurata nei serramenti, rifatti alcuni pavimenti, ritoccati e ripararti i portali di ardesia, riprenderà l’antico splendore e la sua mole quadrata, in degno riscontro alla leggiadria delle vicine.

Da allora, è di proprietà del Comune, oggi di Genova. Per sfruttare le aree, e sistemare adeguatamente la viabilità,  si previde dall’amministrazione fascista del 1926, comperare anche la proprietà Sauli (5370 mq, per altre 1milione250mila lire), così da allargare via Larga a 10 m. ed aprirne un’altra altrettanto larga parallela a ponente di fronte a villa Scassi e, nel centro, aprirvi il mercato. Non tutto fu realizzato come previsto, perché si era all’atto di entrare nella Grande Genova.

Il 4 giu.1944, un’incursione aerea, determinò rotture parziali del tetto, con crollo di alcuni soffitti, e guasti alla facciata.

Nel 1950 ospitava l’istituto scolastico comunale  “scuola tecnica e di avviamento professionale a tipo industriale maschile di San Pier d’Arena”

Nel 1961 era sede della scuola tecnica e di avviamento professionale a tipo industriale  maschile, dedicata a G.Garibaldi; e dell’istituto serale per macchinisti navale C.Colombo.

Sede della scuola media Nicolò Barabino fu abbandonata perché giudicato pericolosa sia per certe strutture instabili sia per la presenza eccessiva di topi.

I lavori di ristrutturazione, altalenanti per problemi di economia,  iniziati nel 1989 circa portarono all’utilizzo per le scuole “Casaregis” -con sede centrale in via Daste- utilizzando un solo piano (le classi 4.a e 5.a , più responsabili), pur sempre costretti a dividersi in succursali più o meno comode.

Nel 2002 il salone ha ospitato un ritrovo per il carnevale mascherato;  dopo i carri allegorici sfilati in via Cantore,  nel pomeriggio riunione dei bambini con pentolaccia ed in serata gran ballo in maschera.

Nel 2003, vista la scadenza dell’obbligo della messa in opera dei servizi di sicurezza per una scuola, giudicata eccessivamente alta di costo, si inizia a prevedere un uso diverso dello stabile: da scuola a museo

Nel febbraio 2004 nel gran salone fu organizzato il ‘martedi grasso’ con un ballo in maschera. A fine anno si scrive del previsto –per fine 2006- abbandono della ‘scuola Casaregis’; per divenire –concesso in comodato gratuito- centro della ‘Direzione Didattica Regionale’ (già chiamato Provveditorato agli studi). Il trasloco dei 300 ragazzi negli edifici di pza Sopranis, ha creato rimostranze e cortei.

 

L’ esterno:  di aspetto esterno severo e povero, ha proporzioni rigorose; ma la utilizzazione degli spazi interni e la loro altimetria, dimostrano una geniale capacità e risoluzione  che erano tipiche nell’Alessi (riscontrabile per esempio,  con le dovute varianti, ma pur sempre ‘autoritarie’, nel rapporto loggia -ricca di stucchi- e salone come nella villa Cambiaso a Genova) che ha fatto mantenere così a lungo l’equivoco dell’architetto disegnatore).

 

Sulla facciata è andata definitivamente perduta la decorazione del GB Perolli. Sulle altre facciate le rare decorazioni mettono in risalto le due logge: una è posta sulla facciata nord, con balconcino, a tre fornici ampissimi, relativa ad una sala del piano nobile; l’altra è aperta sul lato a levante, a piano terra, a costituire l’ingresso. Questo, -che appare sopraelevato rispetto il piano stradale- e raggiungibile con una scala, che ancora a metà del 1800 era a due rampe di una diecina di scalini cadauna, di pietra di Finale, con ovvi “muriccioli di sponda”; oggi, anche per favorire l’uso scolastico, tali rampe non esistono più e lo sbalzo di altezza è superato da una scala a raggiera con scalini bassi, lunghi e leggermente pendenti-. Portano ad un loggiato centrale a tre fornici, a cui corrispondono  sopra le finestre e mezzanini dei piani elevati; ai due lati lievemente aggettanti rispetto la parte centrale della facciata, ai tempi del Rubens, c’era una decorazione con colonne corinzie  sino alle due estremità mentre al piano nobile corrispondevano a delle lesene decorate; furono eliminate in un restauro successivo, lasciando a nudo la parete e munendo il finestrone posto ai due lati della loggia con solida inferriata con sopra le finestre e mezzanini dei piani superiori.  Il tutto venne  distribuito in modo da non togliere il serioso senso di saldezza delle strutture,  anzi evidenziando in modo migliore la sua struttura “maschia”, e risultando “più fortezza”.(come già detto, sopra l’ingresso, la facciata fu fatta decorare da Battista Grimaldi  con un affresco -disegnato, e prodotto con la tecnica del chiaro e scuro, da Battista Perolli; doveva conferire un aspetto più leggiadro e meno arcigno, alla visuale d’ingresso; però il tempo ha distrutto  tutto).

     

Rubens  pianta piano terra         sezione verticale 1                   verticale2                         

  

sezione verticale 3          sezione verticale 4           sezione verticale5

La struttura interna: nei fondi troviamo vari ambienti, già usati come cucina e refettori, con acqua attingibile dalla cisterna con pompa a mano, ed un cesso e cantina.   Il piano terra  è tutto orientato est-ovest: dopo il loggiato dell’ingresso, c’è un ampio ballatoio col pavimento di ottagoni d’ardesia alternati a quadrelle di marmo; è separato dal vestibolo, da tre arcate chiuse da tramezze in mattoni (erette dal Castelli; come pure egli aprì due nicchioni ai lati nord-sud, ove prima erano due sedili in stucco).

Rubens - il bagno ottagonale

Nel centro del lato ovest, vi era un bagno ottagonale (allora chiamato ‘stufe’a dimostrazione della maggiore attenzione ad esse per l’acqua calda che alla funzione),  ripreso da quello dell’Alessi per la villa di famiglia al Bisagno, e documentato dal Rubens, rappresentava la più nota caratteristica della villa per  il tocco particolare della raffinatezza e dello sfarzo che si voleva raggiungere (  era composto da un vano ottagonale centrale e con la vasca , circondato da più ambienti tra loro collegati e comprendenti spogliatoio, tiepidario con la stufa,  altrove spesso decorati con affreschi o mattonelle); purtroppo è stato manomesso in modo irreparabile, ed è quindi giocoforza prendere solo atto che esisteva.

  

quattro immagini della loggia

Lo scalone disegnato dallo Spazio, è centrale e con una rotazione a 90° verso nord all’apice da accesso al piano nobile: per primo alla bellissima loggia dalla quale si spaziava verso i monti e le altre ville. Appena finito il palazzo, nel 1565 la volta a botte del loggiato doveva essere decorata da due maestri della stuccatura, Antonio Lugano e GioPietro del Lago di Lugano (non nominati in AA.VV.-Scultura a Genova.vol.I); ma qualcosa successe perché il lavoro dopo due anni fu  invece degnissimamente eseguito da Battista da  Carona (il fratello Andrea non appare citato) di cui esiste la bolla di commissione del lavoro datata 1567, per  un lavoro di suddivisione in cassettoni di stucco bianco snelliti da due riquadri a lunetta -compiuto entro il 1570-1, quando il Carona partì per la Spagna- (Carona è un paese nei dintorni del lago di Como; si sa che è proprio dalla regione del comasco -e Canton Ticino- che provengono in questi tempi   i  migliori artisti del marmo e della pietra : scultori, architetti, lapicidi, “pichapetra”  rivestono in Genova un ruolo primario quali progettisti, costruttori, ristrutturatori, decoratori). Sulla lunetta era stata fabbricata sempre a stucco una “historieta di relevo da maestro Luchetto Cambiaso” (di cui rappresentano uno dei rari studi non ad uso pittorico ed eseguita per contratto personalmente dal “maestro Lucheto Camblaxio”). Le immagini in altorilievo rappresentano delle “divinità marine in convito ”  (qualcuno vi legge  le “Nozze di Peleo e Teti”: Peleo era un re, condannato ad esilio perché divenuto assassino; dopo molte peripezie, morta la prima moglie, si risposò con  Teti, così bella che Giove l’aveva eletta a dea: fu quindi l’unico mortale a sposarsi con una divinità; e dal matrimonio nacque il famoso Achille che morì nell’assedio di Troia),  ed “il carro di Nettuno(qualche critico -come anche M.Labò- dice che il bassorilievo rappresenta il “Quos ego” corrispondenti alle parole scritte sull’Eneide di Virgilio e profferite da Nettuno contro i venti, scatenati dall’ira di Giunone contro Enea; tema riproposto dal Cambiaso in palazzo Giustiniano in Posta Vecchia).

M.Labo dice che collaborò anche il fratello Andrea da Carona (pure lui però non citato nel libro di scultura su detto vol..I: un omonimo compare nell’elenco fornito dai Consoli dell’arte, all’ufficio dei Padri del comune -dei 104 maestri -”magistri antelami” - presenti a Genova nel 1486 (impossibile sia lui quindi);  TuvoCampagnol dice Antonio, ma poco probabile visto che era già attivo nel 1510-).

Due panchette di ardesia -ai lati della finestra- permettevano intrattenimenti e conversazioni in luogo con vista amena.

Un ampio salone, rivolto a sud verso il mare, è lungo 18 m. ed era il più grande fatto a Genova di quell’epoca; si impone per la solenne serietà dell’insieme, non arricchito da decorazioni né dipinti, in perfetto accordo tra il committente che desiderava qualcosa di imponente e l’artista che crea una solenne ma semplice struttura: spiccano così solo i portali, perché ornati da pietra nera d’ardesia. Battista Grimaldi, aveva previsto anche l’arrivo di mobili, conosciamo prodotte da un Passano due credenze, (chiamato “Passiano”, fu progenitore di una vasta famiglia di ebanisti, divenuti  famosi  per i lavori di intaglio del legno e perfezione degli oggetti fabbricati).

     

Nel feb.1996 il salone ha rivissuto i costumi e le usanze degli antichi proprietari, rievocati in una festa carnevalesca in costume.

I pochi soffitti affrescati (da G.B.Castello (1509-1569); o da Lazzaro e/o Pantaleo Calvi secondo E.Parma)  riguardano alcune stanze poste attorno al salone ed a cui si aprono, oggi aule scolastiche; hanno immagini a carattere mitologico e guerresco con presumibili riferimenti riguardanti le imprese  della famiglia committente (di queste:- 

 

il ratto di Elena                                            la vittoria

-nella 1ª sala a sud, le  “imprese di Scipione” sono le meglio conservate (nel riquadro centrale: continenza di Scipione, ovvero il rifiuto dei doni offertigli in cambio della liberazione della fanciulla; nei laterali: Scipione nominato console; quando incontra Annibale prima della battaglia di Zama; scena della battaglia di Zama; scena di assedio (di Cartagena?).

-nella 2ª sala a sud il riquadro centrale raffigura un re in trono attorniata da riquadri minori di scene di battaglia: sono tutti i pessime condizioni e di difficile lettura ed interpretazione.

Nella 3ª sala a sud  -ove attualmente è la segreteria a fianco della loggia- tutti dipinti ispirati alla storia troiana, di levatura tecnica giudicata mediocre, attribuibili a B.Perolli e collaboratori sotto la guida -e qualche ritocco- di G.B.Castello; invece a Lazzaro e/o Pantaleo Calvi ed aiuti, secondo E.Parma:  sul riquadro centrale racchiuso da una cornice a finto stucco come sorretta da otto grandi putti di finto marmo, posti su una mensola col capo coperto da un vaso della volta a padiglione c’è il “giudizio di Paride”, mentre dei riquadri poligonali  si leggono “il ratto di Elena”, “una scena di sacrificio (Ifigenia?)”, “la presa di Troia”, “la fuga di Enea da Troia in fiamme con Ascanio ed il padre Anchise sulle spalle”. Agli angoli delle semplici grottesche e sulle pareti un paesaggio con ruderi.

Nella 1ª saletta del piano nobile posta a nord-est sul soffitto si vede “la vittoria (o la fama) che incorona due personaggi” (un guerriero con la punta della lancia rivolta a terra ed un vecchio): il dipinto fu realizzato forse da Lazzaro  Calvi  che negli anni 1570 avevano bottega con la numerosa famiglia di artisti; attorno, circondati da grottesche, tondi con delle divinità mitologiche di Giove, Nettuno, Plutone, Saturno; ed agli angoli finte nicchie con figure allegoriche nude su sfondo dorato.

Nella 2ª sala a nord il riquadro centrale rappresenta la “Sibilla che mostra ad Augusto la Madonna col Bambino”, circondata da riquadri minori raffiguranti “Augusto in trono col piede sul mondo ed attorno i popoli sottomessi e inginocchiati”; “scena di battaglia”;  “giuramento dei triunviri sul mondo”; “una battaglia navale”. Circondati a loro volta da grottesche  ed agli angoli da figure allegoriche, di cui due avvolte da un drappo, e due seminude.

Nella 3ª sala a nord, il riquadro principale propone la storia di “Orazio Coclite sul ponte Sublicio contro gli Etruschi”; i quattro minori rappresentano “Marco Curzio si getta nella voragine” (la leggenda vuole che si precipitò nella voragine apertasi nel Foro, dopo la sentenza degli àuguri che essa non si sarebbe richiusa finché Roma non vi avesse gettato dentro quello che più era a lei caro); “due condottieri nei pressi di un accampamento, di cui uno traccia un cerchio per terra”; “un sacrificio o condanna di un giovane guerriero davanti ad un re anziano seduto in trono”; “supplizio di Attilio Regolo”.

Agli angoli semplici grottesche e candelabri .

Nella sala centrale posta a nord, vi è una loggia a tre fornici, con eguale terrazzino (a cui oggi manca una colonnina ed il buco  è coperto con un cartone). Labò dice che c’è un’unica loggia a sud, con la vista del mare***

Il   giardino, in  origine arrivava sino al mare; ancora a metà del 1800 era cintato con addossati 128 sedili; a sud della villa c’era la cisterna con “attingitoio”. Attualmente è limitato al piazzale antistante l’ingresso, purtroppo cementificato, asfaltato per utilizzo a posteggio, con delle colonnine delimitanti verso via Daste in condizioni disastrose e vergognosamente indecorose.

Il teatro: a partire soprattutto dal 1750 circa, ebbe un notevole incremento non solo con spettacoli di musica e lirica, ma anche con commedie, melodrammi e  comico. Iniziato nelle case patrizie, quando anche i tempi non erano del tutto sereni (assieme al gioco del biribis ed al cicisbeismo che a Genova trovarono il massimo della loro applicazione (ne hanno parlato il Parini, Stendhal, l’Alfieri, affermando che a Genova ‘spettava lo scettro della galanteria italiana’), si allargò in molti oratori, chiese, palazzi, e baracconi,  ove si iniziò a fare spettacoli sempre più di attrattiva, con la richiesta partecipazione di valenti professionisti (di cui  si facevano mecenati i più ricchi cittadini, e con i quali collaborano i rampolli delle famiglie stesse). Così venivano rappresentati testi di Racine, Voltaire, Molière, Goldoni, Paisiello, Cimarosa, e di tanti altri allora in voga (per esempio divenne famoso nel 1750 e seguito, il DeFranchi quale produttore lui stesso di commedie ed anche traduttore dal francese e in genovese (ricordata “la locandiera” di Goldoni, divenuta “la locandiera de Sampé d’Aren-na”)) .

Del teatrino di palazzo Grimaldi, si ha notizie sin dal 1749: venivano  offerti spettacoli spesso richiesti dagli abitanti stessi;   quindi è probabile che più frequenti fossero l’attività lirica ed il teatro comico (questo organizzato da dilettanti o anche da compagnie  girovaghe)

Sono del 1779 (2 gennaio), gli avvisi riguardanti il “Teatro della crosa Larga” (in alcuni testi  viene chiamato semplicemente “ Teatro di San Pier d’Arena” come se fosse l’unico  negli anni dal 1779 al 1827; c’era invece anche quello della “Loggia”): “lunedi scorso in San Pier d’Arena da una società di quelli abitanti si è dato principio a proprio trattenimento ad alcune rappresentazioni teatrali nel Palazzo della ecc.ma ed ill.ma Famiglia Grimalda . Eglino si propongono di procurarsi quella sì onesta e lodevole ricreazione in tutte le feste fino a Quadragesima, e  più in un’altro (sic) giorno della settimana. É desiderabile che la loro istituzione sia incoraggiata dal pubblico gradimento e che serva d’esempio ovunque domina l’oziosità “. E’ scritto chiaro quindi che fosse ospitato in questa villa, considerato che già  vi era un teatrino di intrattenimento, ma  -di contro- c’è la difficoltà di concepire un vasto spazio per il pubblico ovvio gli spettacoli fossero dapprima rivolti solamente alla classe dirigente ed all’aristocrazia con un fasto ed eleganza da non avere eguali in tutta la riviera, e quindi eseguiti dentro la villa (probabile sia qui, quanto riferito da Belgrano circa una rappresentazione in San Pier d’Arena di una commedia  titolata ‘li comici schiavi’ scritta da Gio Gabrielle Anton Lusino –pseudonimo di Anton Giulio Brignole Sale-, stampata a Cuneo nel 1666 da Strabella ed a spese di Giuseppe Bottari di Genova); ma quando lo spettacolo iniziò a coinvolgere la cittadinanza ha più logica  concepire il teatro come “vicino” alla villa, pur sempre nel terreno di proprietà, quindi allestito  in qualche baracca o capannone -destinato anche a feste popolane-   ad imitazione di quello interno  limitato “per i signori”;  qualcuno altro   non si sbilancia accettando ambedue le ipotesi  )

Però ogni tanto doveva prendere la mano agli organizzatori, se nel 1791 si protesta contro “l’indecenza... sfacciataggine...corrutela del costume”; episodi “disdicevoli” accadono nei palchetti: insomma per taluni, il teatro è sede di perdizione: “ in San Pier d’Arena ... mescolano l’indecenza del popolo genovese e la sfacciataggine del farastiere colla prostituzione della Nobiltà dei due sessi. Teatri e casino che hanno saputo portare la corrutela del costume sino nelle capanne già innocenti dei vicini pastori i quali ora ripeton solo le ariette de’ musici lor famigliari e si addomestican tranquillamente a seguitarne i suggerimenti più scandalosi”. E non parliamo della paura di eventuali incendi considerata la necessità di usare candele in abbondanza. E’ ovvia la necessità di continue delibere da parte delle autorità, per regolamentare l’attività di questi teatri, specie quelli pubblici: sono  noti dei documenti datati 3 ago.1779 di autorizzazione da parte del Comune di San Pier d’Arena al capo di una  compagnia, Lorenzo Ergento “di poter lavorare purché le prime quattro rappresentazioni siano “Giovanni e denari”,  “ Roberto, ossia l’uomo virtuoso” , “ la locandiera” , “l’assassino di Scozia” ).

Ed altro del 01 giu.1800  -in pieno assedio- “si permette al cittadino francese Florentin Montignani di aprire in San Pier d’Arena, mediante la gratificazione convenuta di lire due a sera, a vantaggio dell’Ospedale, con l’obbligo di presentare anticipatamente l’opera che si dovrà recitare”; e del 14 gentile.1803: ”si permette ai cittadini Onorato Tubino e Giuseppe Caffani, a nome della società dei dilettanti dare onesto divertimento di sceniche rappresentazioni per il corso del presente Carnevale, nel Teatro della Crosa Larga”; del 26 giu.1819, il sindaco consente “al sig. Antonio Morassi di poter dare un pubblico divertimento di bussolotti nel Teatro della Crosa Larga, purché osservi le regole del buon costume, tanto nell’agire che nel parlare, e si prenda almeno un gendarme per invigilare il buon ordine e non permettere che si fumino pipe o sigari né nel teatro né nelle scale...”

Rimase in attività fino al 1827 (probabilmente fino a quando si decise di affittare la villa).

 

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PALESTRO                                      via Palestro

 

Oggi non più a San Pier d’Arena; corrisponde all’attuale via Santo Bertelli.

Fu nell’anno 1900 che fu proposto  alle  autorità il nome di ‘ via Palestro’, al vicolo posto tra -allora erano- via Vittorio Emanuele e via san Martino, e  le case n° 34A di proprietà Galezzo, 34B di  Rovegno e 34 C di Pittaluga e C..

La proposta fu accettata e la prima targa in marmo fu applicata nel genn.1901 (quando contemporaneamente via san Martino era  divenuta via A.Saffi).

Nel Pagano 1902 unico compare al civ. 34 c’era una delle tre fabbriche di fiammiferi in legno, quella di Ferrero Giovanni  (c’è ancora nel 1912, non compare più nel Pagano/19).

Nell’elenco delle strade di San Pier d’Arena pubblicato nel 1910, la via appare delimitata da via Umberto I (v P.Reti) e via A.Saffi (v.C.Rolando) con civv. sino al 5.

In quello del 1927,  relativo alle strade della grande Genova appena unificata, appare in SPd’Arena di 4a categoria, ma – assieme a quella omonima di Rivarolo - candidate prossime alla variazione a favore di quella del Centro.

Nulla appare realizzato ancora nel 1933, sempre di 4.a categoria e con civv. sino al 5 (quando via P.Reti era divenuto via Milite Ignoto, e via C.Rolando era ancora via A.Saffi).

Fu con delibera finale del podestà del 19 agosto 1935 che fu cambiato la titolazione con l’attuale.

 

DEDICATA alla battaglia combattuta durante la seconda guerra di Indipendenza, nei pressi del comune pavese (posto a 121 m slm. Nella pianura lomellina, a levante del fiume Sesia, più vicino a Vercelli -12 km- che al capoluogo -58 km) il 30-31 magg.1859. 

Per due giorni si scontrarono gli austriaci del VII corpo d’armata,  guidati dal gen. Zobel, contro i franco-piemontesi, guidati dal gen. E.Cialdini.

Assisteva le operazioni personalmente anche il re Vittorio Emanuele II.

Dopo un iniziale ripiegamento, gli austriaci - forti del numero: 30mila contro 15mila- sferrarono un imponente contrattacco minacciando di scompigliare seriamente e definitivamente  le linee italiane; allora il re Vittorio postosi al comando del II reggimento di zuavi francesi assieme al loro comandante col. De Chabron, andò con essi ad un disperato attacco, rigenerando i fanti italiani e costringendo il nemico alla ritirata verso Novara. Ben 31 cannoni furono conquistati in assalti alla baionetta.

Così, sconfitte, le truppe austrianche dovettero, anche per il complesso delle successive operazioni,  ritirarsi ulteriormente oltre il Sesia fino al Ticino per riorganizzarsi, anche perché in contemporanea falliva un altro attacco austriaco - comandato da Gyulai - a Confienza; permettendo all’esercito francese di Napoleone III di puntare su Milano.

Il re -per il valore dimostrato e lo sprezzo del pericolo-  si meritò sul campo da parte francese la nomina di “nostro caporale”.

Nella zona fu costruito un ennesimo ossario per i Caduti, ed un monumento al Soldato italiano.

 

BIBLIOGRAFIA  

-Archivio Storico Comunale

-Archivio Storico Comunale  Toponomastica - scheda 3253-

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PALMETTA                                 piazza Palmetta

 

TARGA: piazza Palmetta

   

 

 

QUARTIERE ANTICO: san Martino

 

  INFORMATICO:   2819     CATEGORIA: 3

 da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   45100

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

  da google Earth, 2007

CAP:   16151

PARROCCHIA:  s.Giovanni Bosco

STRUTTURA:   la piazza è posta a ponente di via Walter Fillak, e comunica con essa tramite via  G. Salinero; è chiusa ad altri sbocchi, e possiede un transito veicolare rotatorio con senso antiorario (generalmente impossibile completarlo per le auto in sosta).

É servita da ambedue gli acquedotti, DeFerrari Galliera e Nicolay.

CIVICI     Neri= da 1 a 7 (esclusi 3 e 5);                     e da  2 a 4

                 Rossi= da 1r a 19r (compresi 9ab e 17a);    e da  2r a 10r

===civv.1 e 3 neocostruiti nel 1953; quest’ultimo da abitazione fu trasformato in magazzino nel ’77.  

STORIA 

IL TOPONIMO

   Il toponimo non ha un etimo preciso, e varie sono le interpretazioni, nessuna documentata e sicura.

   A mio avviso, sicuramente quello stradale si sovrappone a quello più antico della fine del 1700, riguardante la località.

==1==non un quartiere, ma tutta una ampissima fascia di terreno che in sezione est-ovest viene delimitata dal crinale del Belvedere sino al Polcevera. Mentre per la limitazione nord-sud vede due versioni -quali più frequenti adottate dagli storici-: 1A= comprendente il territorio tra Certosa e l’ attuale via A.Caveri.  A conferma di questa ipotesi, a mie mani alcune carte: la prima, del 1757 (ma preparata molto prima), di Matteo Vinzoni, non cita questo nome perché probabilmente ancora con esisteva; la seconda, dell’ ing. arch. Brusco, del 1781 (vedi sotto) pone il nome Palmetta  a nord, ovvero dopo, la chiesa di s.Martino – seguendo la strada, su quello che nella carta del Vinzoni era terreno dei Cicala; la terza, sempre del capitano Brusco ma del 1790, ove scrive “Principio della strada della Palmetta”  in corrispondenza dell’inizio dell’attuale via Vicenza. 

 


 

a monte della chiesa di s.Martino, la scritta ‘La Palmetta’

 

dic. 1781 - G.Brusco-Progetto per allargare la Strada del Mercato di San Pierdarena fino alla Palmetta -.

ASG.Raccolta cartogr. Busta 18 n.900 – particolare.


 

1B= versione molto più allargata, che - sempre dai confini nord del borgo, con Certosa - va a sud fino ad una ipotetica linea che passa per via GB Monti. Ambedue le interpretazioni, a fondo valle comprendono  i quartieri di san Martino (che iniziava dal quartiere Mercato) e del Campasso (che a sua volta comprendeva la piana di piazza d’Armi). (vedere ‘vico Governolo’)

==2==l’idea dell’esistenza di un palmeto nella zona, o singola e maestosa come ora in piazza Montano ed allora preciso punto di riferimento più della villa che la ospitava, ha una sua logica, vista la longevità di simili piante; anche se non è stata dimostrata una  precisa localizzazione di simile ornamento non spontaneo nella zona. In questa direzione interpreta DeLandolina, scrivendo che fu proprio nei giardini della villa Currò esisteva un palmeto “che nella dolcezza del suo clima vi giungono a fioritura”.

==3==Altra interpretazione è legata - come la frazione Palmaro a Pegli - alla cerimonia religiosa della domenica delle palme (quarta di Quaresima, iniziale della settimana santa culminante nella Pasqua, celebrata in memoria della trionfale entrata di Gesù in Gerusalemme Per la cerimonia religiosa si tagliavano dei rami da una palma che se esistente nella zona, la fece divenire punto di riferimento popolare; fino a che, morta la pianta, rimase il nome, mentre la cerimonia senza il materiale primo, fu sostituita gradatamente con la benedizione dell’ ulivo), eseguita per 600 anni nel piazzale dell’unica parrocchia esistente nel borgo. Unendo le due ultime interpretazioni, si può pensare che per la cerimonia religiosa si traessero i rami da una o più palme esistenti nella zona, divenuta così punto di riferimento popolare; fino a che, morta la pianta, rimase il nome, mentre la cerimonia senza il materiale primo fu sostituita gradatamente con la benedizione dell’ ulivo.

==4==Meno probabile un’ altra origine relativa alla parte di poppa di una nave in gergo chiamata palmetta (posta dietro al timone, e nelle navi a motore, sovrastante il tunnel dell’elica; zona riservata allo stivaggio della mercanzia delicata, fragile o di valore; un proprietario (Currò) che faceva corrispondere le preziosità della stiva alla sua villa).

LA LOCALITA’

Come già detto ne ‘il toponimo’, non potendo definire una posizione precisa, è divenuto uso la dizione “alla Palmetta”  per indicare genericamente la zona del Campasso, rione san Martino (dove era l’antica parrocchiale).

   A conferma, Tuvo riferisce che il 1 giugno 1825, «nello stradone di Polcevera, in località Palmetta, avviene lo storico incontro tra i re Carlo Felice e la regina Cristina con l’Imperatore d’Austria Francesco I. Con lui c’è il cancelliere dell’Impero principe di Metternich, il vicerè del Lombardo Veneto arciduca Ranieri e la viceregina; il corteo reale imperiale sfila lentamnente tra la folla plaudente seguito da un largo seguito di carrozze e cavalieri, mentre un cordone di truppe è schierato lungo la strada che conduce a San Pier d’Arena, sino a Genova. In piazza della Lanterna le truppe sono passate in rivista dai Sovrani. Indi il corteo raggiunge...(Genova, ove tutti saranno ospitati nelle lussuose residenze)...Nei giorni seguenti furono effettuate delle regate alle quali parteciparono equipaggi sampierdarenesi»

LA STRADA  antica

  Il nome – in un progetto del Brusco del 1790 – mirante ad allargare la attuale via Rolando (limando le proprietà e lasciando ristretto dove i palazzi) e ad aprire uno “stradone che passa fino à Rivarolo” indicava invece - in corrispondenza dell’attuale via Vicenza - “Principio della strada della Palmetta”.

  Nel regio decreto del 1857 la sovrappone a via W.Fillak: infatti la via a fondo valle che dalla porta Lanterna andava verso Pontedecimo, viene chiamata strada nuova Provinciale, e – nel tratto dell’attiuale zona di san Martino - anche “stradone della Palmetta”. A conferma, nel luglio 1861  un atto notarile riguardante una casa venduta a Certosa, conferma che essa è posta  “in capo al regio stradale, detto della Palmetta”. 

   Negli ultimi decenni del 1800, l’amministrazione comunale decise di dare il nome di via Vittorio Emanuele a tutta la strada che dalla porta Lanterna arrivava sino a Rivarolo ed oltre. Nel 1902 c.a, via V.Emanuele  venne a sua volta frazionata, e questo pezzo fu dedicato al re assassinato diventando via Umberto I. Ed è da questa strada, che il Novella nei primi decenni del 1900 descrive esistere una “via Palmetta” (quindi potrebbe essere qualsiasi di esse, tra le attuali via A.Caveri e  via G.Salinero).

LA PIAZZA attuale:  I primi palazzi che delimitarono una piazzetta, distaccandola così dalla strada principale, furono eretti nel 1888 per iniziativa di  imprenditori come i fratelli Rusca (proprietari delle cave di monte Gazzo) e soprattutti di Vignolo Agostino (giudicato “speculatore” perché dopo varie operazioni azzardate andò in fallimento, cosa estremamente grave sempre, ma  a quei tempi assolutamente dequalificante): in quegli anni, seppur in un momento di grave crisi, l’industria già insediatasi nella zona, aveva chiamato tanta manovalanza dalle regioni vicine, il più spesso poveri ed analfabeti, comunque tutti senza una abitazione decente e con gravi difficoltà a pagare una pigione adeguata. L’operazione fu resa possibile dalla lottizzazione dei terreni sia da parte delle ferrovie (che l’avevano ricevuto dal Demanio) sia da parte della Carrena stessa che aveva comperato più terreno di quanto gliene occorresse e così se ne disfaceva capitalizzandolo.

   Appare in uno studio comunale anteriore all’anno 1900, una piantina in cui si propone al Comune il toponimo di Palmetta ad una piazza allora senza nome, posta ad ovest di via Vittorio Emanuele (allora, tale via andava dalla Lanterna a Rivarolo ed oltre; ma qui si riferisce allo specifico punto corrispondente a via W Fillak), e creatasi tra i civici (di allora, 51 e 53: quelli delimitanti la piazza oggi); nel dic.1900 viene riproposta alla giunta, col nome di “piazza della Palmetta”,  confermando il nome popolare antico.

    Il desiderio di  non cancellare dalla memoria un nome storico, non significa che la palma –ammesso sia esistita nell’antichità- fosse ubicata nel posto. La titolazione stradale quindi, diviene puramente simbolica, come  via della Coscia.

   Una fonte dice che ospitò la prima pista per gare da ciclismo, negli anni inizi 1900;  la stessa cartina comunale di sopra, segnala un “vico della Pista” in una zona poco più a sud, tra via Miani e via Bezzecca: si presume quindi che in verità la pista fu eretta in quella zona vicina.

   Nel 1910, sulla pubblicazione edita dal Comune, la piazza è descritta ‘da via Volturno verso il Polcevera’, ed aveva civici sino al 5 e 6.

   Nella piazza, prima di essere riassettata,  vengono ricordati negli anni 1920-30 dei trogoli (posti all’estremità sud, ove le massaie andavano a lavare i panni, e ricordati anche da E.Morasso per i pettegolezzi che sopperivano ai giornali ed ai bollettini locali; evidentemente in quegli anni nelle case popolari non esisteva ancora il servizio dell’acquedotto nei singoli appartamenti: le chiacchiere tra comari, favorirono e diedero corpo ad una strana leggenda di fantasmi locali, che la  scarsa illuminazione e la fantasia alimentarono fino a divenire un fatto di interesse generale, dividendo i timorosi da spavalde ronde munite di nodosi randelli; finché non fu chiarito trattarsi di un amante notturno di una sconsolata moglie, di operaio che lavorava nei turni di notte)  e l’entrata di servizio delle corderie (poi della Feltrinelli. L’ingresso principale era in via UmbertoI a livello del civ. 44; vantavano la presenza di 200 operai -maggiormente donne-).

   Nel 1926, momento della unificazione di SPd’Arena con Genova, era l’unica piazza con questa titolazione e quindi non subì variazioni.

   Riconfermata nel 1933, viene descritta  di 5.a categoria, ma con civv. fino al 4 e 7.

   Nel Pagano/40, descritta “da via G.Salineri verso il Polcevera” non ha civv. neri ed ha un solo civico rosso: 4r=Tinelli M. carbonaio.

STORIA   Molto anticamente, erano comunque terreni poco abitati, insalubri nella parte più a nord, praticamente fuori del paese e lontani dal centro organizzato e su terreno scosceso. La carta del Vinzoni, e quindi ancora nel 1757, è significativa perché finisce quando descrive  la antica abbazia  di sanMartino: oltre, più nulla eccetto che erano terreni dei Cicala.

Lamentandosi già i paesani sampierdarenesi dell’eccessiva lontananza della chiesa parrocchiale, questi terreni a maggior ragione erano considerati  campagna brulla, acquitrinosa se pioveva e quindi poco produttiva e disabitata (considerando che tutti gli abitanti a San Pier d’Arena nel 1815 erano in 5345); spesso i radi abitanti si dovevano confrontare con i soldati, sia quelli che passavano andando a difendere i confini sia quelli delle guerre d’invasione: ambedue che razziavano tutto quello che trovavano, come bottino e paga, e che spesso per ottenerlo uccidevano e devastavano (difficile doveva essere -e rimanere- fedeli a “mamma Genova” con lei lontana e ben racchiusa nelle sue mura, quando a questi contadini toccava rimanere  lì a subire le angherie e violenze degli armati in gruppo; o -in alternativa- perdere tutti i beni se non anche la vita. Questo perché a fine di ogni guerra, tornavano i soldati genovesi per punire non solo chi avesse favorito o inneggiato alla loro presenza, ma anche chi era stato obbligato a collaborare).

   Per la comunità, il primo punto di riferimento, ovviamente era il parroco di san Martino.

 

   La zona fu travagliata nell’apr.1747: l’ingegnere francese Sicre, maresciallo di campo, applicando quanto già auspicato dal collega Jean-Ubalde de Pène, fece tagliare il territorio, dal torrente Polcevera  al Belvedere, con articolati trinceramenti tutti collegati, alternati da ridotte e postazioni di artiglieria rinforzati da muretti a secco: torneranno utili quando a metà maggio, 70 battaglioni austriaci e 12 piemontesi (60mila, contro 20mila genovesi aiutati da forze gallispani) arrivarono in zona e tra il 12 e 13 giugno attaccarono da tutti i lati Genova. I trinceramenti ed i forti ressero l’urto dei primi attacchi smorzando le prime velleità del nemico, che allora pose assedio da lontano; quando ormai la situazione era giunta agli estremi sopportabili, l’esercito nemico dovette improvvisamente e miracolosamente allontanarsi perché richiamato verso il Monginevro, attaccato da ingenti truppe francesi.

   Nel 1757  esce il libro del Vinzoni con la carta “dell’acquedotti” e relative  proprietà: si vede bene che mentre la fascia lungo la strada (via C.Rolando) è distribuita ad una decina di proprietari, la fascia sotto il Belvedere appartiene – da sud - ai magnifici: Lorenzo Lomellini, fratelli Pinelli, fratelli Grimaldi (GioGiacomo e GioBatta con le loro ville lungo la strada), Giuseppe Lagomarzino con la villa di via Caveri; signori Morci (illustri sconosciuti), magnifici Cicala e Sebastiano Pallavicini. Non passa inosservato che tutta la fascia del crinale da salita Millelire a Certosa  non è descritta nei confini di proprietà personali. Ancora più scarna, limitata a nord sino all’abbazia di san Martino e senza nomi, la carta dell’’Atlante del «Dominio della Serenissima...» del 1773.

   Nel 1781  l’ingegnere militare Giacomo Brusco su proposta delle Autorità locali, tentò risolvere la viabilità del centro del borgo, già allora ‘congestionato’. Propose un rettifilo -poi non realizzato- che si sovrappone all’attuale via C.Rolando e che superata la chiesa di san Gaetano, percorre un ulteriore tratto di duecento metri circa (con a ponente della strada la proprietà dei sig. Ghezzi, poi  altri 200 di proprietà ‘delli mag.ci Rovereti’)  sino all’abbazia di san Martino; oltre la quale, “al principio dello stradone di Rivarolo c’è una zona chiamata ‘la Palmetta’”.

Un’altra relazione di un architetto (Claudio Steracca?) del luglio 1790, che proseguì i progetti del  Col. Cap. Ing.re Brusco,  relativa sia all’eliminazione di tutti i torrentelli e canali d’acqua che attraversavano la via (oggi v.C.Rolando), sia al suo allargamento, scrive “la strada nuova slargata che dalla Piazza del Mercato di S.Pier d’Arena, passa à S.Martino, ed alla Palmetta...”. Ambedue puntualizzano essere punto focale della Palmetta, l’attuale piazza R.Masnata (anzi, la seconda relazione, scrive all’altezza dell’attuale via Vicenza ‘Principio della strada della Palmetta’)

     Ancora nel 1850 la zona era praticamente tutta campagna  con qualche rara casa di contadini, sparsa nei prati con orti e vigneti, tagliata da numerosi torrentelli scarsamente arginati, asciutti od impetuosi a seconda del tempo;  i più grossi prima che sfociassero nel Polcevera erano usati per alimentare dei mulini, anche lui senza argini, a volte in secca ed altre in devastante espansione; solo vicino ai ruderi della abbazia di san Martino, un maggiore agglomerato con le solite osterie.  Il passaggio della ferrovia a metà secolo, aumentò la popolazione locale e conseguentemente la lenta ma inesorabile presenza umana anche nella zona da bonificare; in quell’epoca di metà 1800 nacquero così lungo la strada rade casupole di artigiani  e poi le prime industrie (dei Maclaren & Wilson; in SPd’A si contavano allora circa 13mila anime; c’era  tra le rade case un palazzotto che Thomas Robertson (uno dei primi industriali del ferro ed acciaio) prese in affitto dal marchese Negrotto Cambiaso (proprietario della maggior parte dei terreni della Palmetta); scrivendosi che era aperto sulla strada tramite un giardino, potrebbe essere la palazzina Tuo, al civ.    di via W.Fillak). Ovviamente niente illuminazione, niente acqua in casa, niente scuole, tanta miseria e semplicità; la vita media non superava i 40 anni, essendo altissima la mortalità infantile.

   Alcune carte di fine ottocento-primo 1900, relative all’istituto don Bosco e purtroppo non vaste da allargare sopra  via Cristofoli fino al crinale; descrivono proprietari  dei terreni (ad est): 1876-92 a mare i Durazzo-Pallavicini ed a monte i Montano-Negrotto (i primi furono discendenti di due famiglie importantissime e di origini antichissime feudali: per i Durazzo in quegli anni era MarcelloIV -1821.1904-  che andò sposo –1847- a Teresa Pallavicini –1829.1914- figlia del grande Ignazio proprietario della casa di via Balbi e della villa a Pegli. I due ebbero un figlio, GiacomoFilippo che assunse ambedue i nomi –1848.1921- e che sposò in prime nozze  Masetti Giulia ed in seconde Matilde Giustiniani senza mai avere figli. Matilde quando restò vedova, sposò Pierino Negrotto Cambiaso); 1890-1907, a mare sempre i Durazzo Pallavicini ed a monte i Moro

     Dal 1900 in poi, ci fu un crescere disordinato di modeste fabbrichette (turaccioli, candele, sapone, mulini, cordame), e- con esse- le case per gli operai, magazzini, depositi, capannoni; e via via essendo zona di estrema periferia, tra gli onesti e timorati lavoratori, la massa dei più tristi: disoccupati, avventurieri, beoni, attaccabrighe, ladri, sfaccendati e contrabbandieri (allora c’era il dazio da pagare!).

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale  

-Archivio Storico Comunale Toponomastica - scheda  3267

-AA.VV.-Annuario.guida archidiocesi—ed./94-pag.426—ed./02-pag.463

-AA.VV.-Il palazzo DurazzoPallavicini-NuovaAlfaEditor.1995-pag.19

-Castruccio A&C-Ge. e paesi circostanti come eravamo-Mondani1983-

-Ciliento B-Gli scozzesi in piazza d’Armi-DeFerrari.’95-p.46car.50.60.69

-DeLandolina GC– Sampierdarena -Rinascenza.1922-pag,50

-Forti LC-Le fortificazioni di Genova-Mondani.1975-pag.99

-Gazzettino Sampierdarenese :  1/79.5

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag.140

-Lamponi M-Valpolcevera come eravamo-Mondani.1993-pag.2.5

-Morasso E.-I racconti del nonno***

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.berio.1900-pag.18.32

-Pagano/1933-pag.247; /40-pag.362

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.1377

-Poleggi E. &C.-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.9

-Schiaffino P-Parlar camallo-Il Lavoro-Genova parla-pag.38

-Stradario del Comune di Genova edito 1953-pag.131

-Stringa P.La Valpolcevera-Agis.1980-pag. 87 .96carta 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                 


PANCALDO                             via Leone Pancaldo

 

 

TARGHE: via – Leone Pancaldo

 

angolo con via G.Buranello

 

angolo con via G.Giovanetti

 

QUARTIERE ANTICO: Mercato

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2820    CATEGORIA: 3

 

 da Google Earth, 2007. 

In verde, ipotetico tracciato della via; con in fucsia,                

via GGiovanetti e giallo, via della Cella.

 

                      da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   45160

 

UNITÀ URBANISTICA:  26 – SAMPIERDARENA

 

 da Google Earth, 2007

CAP:   16149

 

PARROCCHIA:  s.Maria della Cella

 

STORIA:

Dall’amministrazione comunale  nella seduta del 22 ago.1907,   fu attribuito  - inizialmente come vicolo - il nome del condottiero alla neoformata strada  delimitata dalla costruzione dell’attuale lungo fabbricato con tre portoni eretto dai fratelli Girardo, perpendicolare alla ferrovia ed  aperto in via A.Doria e via Vittorio Emanuele. 

Il terrapieno della linea ferroviaria, con un cavalcavia specifico, passa sopra l’inizio della strada.

Lungimirantemente, l’obbligo era di iniziare le costruzioni tenendosi lontano 20m dalla ferrovia: questo permise in un secondo tempo l’allargamento della strada ferrata da due a quattro binari.

Nel 1910 si trova scritto nell’elenco delle strade cittadine come “vico Leon Pancaldo”, situato “da via V.Emanuele verso nord a fianco della via A.Doria, con numero civico estremo: 5”.

 E sempre ‘vico’ era nel 1926, all’atto della unificazione comunale di SPd’Arena con Genova; classificato di 5a categoria.

 


Da Venezia, negli anni 1925-30 venne ad abitarvi al civ. 5 la famiglia di Giacomo Buranello (una lapide vicino al portone, ricorda il personaggio. Vedi a ‘Buranello’).


Nel 1933 era divenuta ‘via’, seppur sempre di 5.a categoria e con tre civici neri.

CIVICI:

2007=   NERI= da 1 a 5

             ROSSI= da 1r a 15r (manca 11r;  in più= 1Ar, 3Ar, 9Ar)

                            da 2r a 6r

La strada inizia da via Buranello, sottopassando la ferrovia; prosegue carrabile comunale, senso unico viario diritta sino in fondo, laddove è chiusa. Strutturata a ┤,  dall’altezza del civico 3 (a metà percorso circa) può sfociare in via Giovanetti – ove sbuca sottopassando un collegamento a terrazza tra due palazzi di quest’ultima strada. Lunga m.103,24 e larga 2,4, con due marciapiedi.

Nel Pagano/40  il vico, che dipartiva da via II Fascio d’Italia a via G.Giovanetti, aveva civv. neri 1,3,5 ed un solo rosso: 7r fruttivendolo 

 DEDICATA

al navigatore savonese, che, in terra natia, ovviamente sarà stato chiamato Leone; ma   buona parte della bibliografia lo chiama Leon, per eutonìa o dal portoghese.

Incerta e non documentata la data di nascita:  in un censimento del 1531 è dato cinquantenne, quindi nato nel 1481; ma,  desunto dall’età da lui dichiarata alla Commissione di Valladolid, risulterebbe nel 1482;  lo studioso Belloro ha calcolato dovrebbe essere nel 1490.

  Da antica casata ligure, fu figlio unico maschio di agiato artigiano di stoffa e tessitore:  Manfrino, sposo di Battistina di Repusseno (o Repossano).

  Dovette seguire i corsi scolastici del tempo: grammatica, logica, retorica, ed anche scuola di vela – indirizzato dal padre, per andare a procacciarsi la lana in Spagna o Sardegna e per divenire infine maestro nella Corporazione dei ss.Gervaso e Protasio.

  Preferì la via del mare alle fiorenti attività familiari (Baldassarre scrive che LP “diè all’acqua una nave con felice presagio detta Vittoria”; e riporta da AM de’Monti, che Leon Pancaldo era “nocchiere, e Padrone della nave Vittoria del 1522”) e tale fu l’entusiasmo, da divenire rapidamente un esperto e stimato marinaio, ricercato tra la gente di mare per armare navi e spedizioni.

  Nel 1514 sposò in Savona la giovane Selvaggia Romana, anche lei figlia di un Antonio, accimatore di panni e socio del padre. Insieme abitarono nel quartiere di sant’Elmo, nei pressi della fortezza di Priamar.

  Ma 5 anni dopo, appena seppe che in Portogallo si approntava la spedizione di Magellano (Magaglianes), partì ad arruolarsi quale marinaio semplice assieme ad una ventina di altri italiani (su 230-265 marinai; Spotorno e Verzellino dicono sulla nave Vittoria, di 85 t., quarta per grossezza dopo  la ‘sant’Antonio’ di 120 t.; la ‘Trinidad’ di 110 t.; la ‘Concepcion’ di 90t) per il primo viaggio di circumnavigazione ed alla ricerca del passaggio verso il favoloso oriente (vedi Magellano).

Imbarcato invece sull’ammiraglia Trinidad (=Trinità), una delle 5 navi della flottiglia, salpò il 20 settembre 1519 (Lamponi scrive 10 agosto) dal porto di Sanlucar (o san Luccar) de Barrameda (vicino a Siviglia), dopo aver consultato gli astri. Il 3 ottobre furono a Tenerife; da lì verso l’America del  sud a cercare il passaggio al Pacifico (così poi battezzato da Magellano per le bonacce), che fu trovato dopo tanti tentativi percorrendo ogni insenatura, con solo tre navi al seguito, nel novembre dell’anno dopo: il passaggio dall’Atlantico al Pacifico non viene descritto nei particolari perché – presumo io - non consapevoli di questa ‘uscita’, dopo averne cercato a migliaia in ogni rientranza della Terra del Fuoco. Si data nell’agosto 1520 il passaggio attraverso lo “stetto di Magellano”.

Lamponi descrive un inedito episodio: lui navigante in acque dell’America, sogna un fuoco di sant’Elmo (alone luminoso visibile di notte in corrispondenza di punte; causato da aumento del campo elettrico in corrispondenza di forti variazioni atmosferiche tipo temporali) - temutissimo quale cattivo presagio per la nave dai marinai - mentre il reale fuoco si era avviluppato nella casa a Savona con la moglie salvata in extremis da un marinaio che – seppure autore dell’incendio - doveva riconoscenza ai Pancaldo.

La vastità del Pacifico fu superiore alle aspettative ed alle scorte di acqua ed alimenti. Allo stremo, solo a marzo del 1521 avvistarono terra: erano le isole Molucche (attuali Filippine), ove il 27 aprile Magellano perdette la vita in combattimento.

A questo punto le navi superstiti erano rimaste due; di esse la Victoria, comandata da Sebastiano El Cano, ritornò in patria attraverso il Capo di Buona Speranza. Mentre invece sulla Trinidad  - rimasta indietro per una falla ed assottigliandosi l’equipaggio - il Pancaldo via via divenne dapprima timoniere, poi nocchiero, fino ad essere il personaggio più eminente sulla nave.

Si scrive che, ancora presso le Molucche, fu catturato dai portoghesi arrivati provenendo dall’occidente, che lo trattennero prigioniero causa i pessimi rapporti con gli spagnoli, e trasportato in India da dove riuscì a fuggire assieme ad un altro marinaio ligure Juan Bautista e solo nel 1526 (altri scrive il 6 settembre 1522) tornare in terra europea  (dopo 1084 giorni, cioè dieci anni di lontananza, con 18 uomini su 74; e quando gli altri erano già tornati con la nave Vittoria (il comandante Elcano si era preso tutti gli onori e premi, compreso uno stemma gentilizio arricchito con un globo ed il motto ”primus circumdedisti me”. Solo la relazione del vicentino Pigafetta, che era sulla sua nave, riuscì a far conoscere ridimensionare l’usurpatore e dar lustro alla figura di Magellano ed all’impresa di Leon Pancaldo).    

Nel 1527 fu a Valladolid in Spagna, per partecipare ad un interrogatorio dove accennò a dei libri da lui scritti sulla navigazione fatta a dimostrazione delle sue capacità non solo marinare ma anche letterarie (pare che l’opera, non andò stampata e, lasciata in mani inesperte, perduta).   

Seppur allettato dal re francese perché ritentasse la strada dell’oriente, a dicembre dell’anno 1531 arrivò a Savona; con duemila ducati ricevuti dal re portoghese Giovanni III per l’impegno d’onore di non passare al servizio di altra corona, né dare carte, né istruire altri navigatori.

Così decise fermarsi a terra nella sua villa chiamata ‘la Pancalda’ in località Lavagnola (alla confluenza tra il Lavanestro col Letimbro). Questa casa era munita di torre di avvistamento; posta vicino ad un pozzo; poco discosta dal Duomo in zona Scarzeria e dalla casa della famiglia Crema;  sulla facciata fece dipingere un affresco con il suo ritratto con uno astrolabio in mano, circondato da simboli marinari  dall’immagine delle isole vedute, e da una scritta sotto riportata).

Nel 1534 (altri dicono nel 1535, ed altri nel 1537), legalmente sciolta la promessa fatta al re portoghese, riprese il mare per una nuova spedizione usando una galea, la Santa Maria, forse di sua proprietà (assieme ad un galeone  del genovese Pietro Vivaldi, con merci genovesi) diretto in Perù; purtroppo fallì prima ancora di arrivare allo stretto di Magellano causa una tempesta che lo fece tornare verso il Rio de la Plata; qui, sbarcato per andare alla ricerca di fasciame per riparare la nave, fu assalito da  indigeni selvaggi,  ed ucciso  (un’altra versione - essendo fragili o nulle le testimonianze dei pochi sopravvissuti - sostiene che nel tentativo di raggiungere la riva prima su una scialuppa e poi a nuoto, morì annegato. Baldassarre, che sostiene questa seconda versione, aggiunge che la nave tornò a Savona e passò agli eredi; mentre invece la casa (posta in un terreno vicino al pozzo, e poi incorporata nel palazzo dei signori Vercellini) fu divisa -per pio legato- tra i padri Minori (o Minimi) Conventuali e l’oratorio di s.Catterina).

     Morì quindi nei vasti mari attorno al Rio de la Plata, nel 1538-40.

A Savona,  la torre trecentesca affacciata sul porto, fu intitolata a lui (eretta per vedetta ed a difesa dai saraceni, detta pure ‘dei piloti’ (perché stazione del servizio fisso di pilotaggio portuale) ed attuale simbolo cittadino.

   Sulla torre ci sono due scritte, una sopra lo stipite della porta «in mare irato, in subita procella, invoco te, nostra benigna stella» che si legge e scrive in italiano e parimenti in latino, dettata dal savonese Gabriello Chiabrera.  Invece su una targa serbata nell’atrio del palazzo degli Anziani si riportano le parole che lo Spotorno dice fossero fatte scrivere dallo stesso Pancaldo sulla facciata di casa sua:

«io son Leon Pancaldo Savonese, // ch’il mondo tutto rivoltai a tondo: //  le grand’Isole incognite, e il paese // d’Antipodi già vidi, e ancor giocondo // pensava rivederlo, ma comprese // l’invitto Re di Portugal che al mondo // di ciò lume darìa,  perciò con patti, // ch’io non torni mi diè duo mil ducatti».

   Si attribuisce al Pancaldo anche una discreta vena letteraria. A parte il libro del memoriale della navigazione con Magellano (detto ‘roteiro’), andato perduto, ed a parte la conoscenza delle discipline nautiche e geografiche, pare fu anche un rozzo poeta come dimostrato dai versi scritti (una ottava) sulla facciata della casa, e poi riportati all’Anziana’ quando la casa di via Scarzeria fu demolita.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale  in palazzo Ducale 

-Archivio Storico Comunale  Toponomastica - scheda 3271

-AA.VV.-Annuario-guida archidiocesi di Genova-ediz/94.426—/02.463

-Baldassarre&Bruno-Schedario degli uomini illustri in Savona-1981

-DeLandolina  GC-Sampierdarena- Rinascenza.1922-pag.50

-Enciclopedia  Motta

-Enciclopedia Sonzogno

-Enciclopedia dei liguri illustri- vol.I-ERGA   

-Il Secolo XIX quotidiano.- 17.06.06 +

-Lamponi M.-Sampierdarena-Libro Più.2002-pag.72

-Lamponi M.-Leggende, miti e arcani di Liguria-LibroPiù.2004-pag.127

-Miscosi G.- Genova e i suoi dintorni-Fabris 1937-pag.159

-Novella P.-Le strade di Genova-manoscritto bibl.Berio.1930circa-(pag.18)

-Pagano/33-pag.247; Pagano/40-pag.362

-Pastorino&Vigliero-Dizionario delle strade di Genova-Tolozzi.’85-p.1384

-Poleggi E. &C.-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.34

-Spotorno G.-storia letteraria della Liguria-1826-vol.IV-pag.170

-Tuvo&Campagnol-Storia di Sampierdarena-D’Amore.1975-pag.100
PANTERA                                        via della Pantera

 

 

   Unica segnalazione è sul Dizionario delle Strade di Genova, quale nome antico di via F.Anzani.

   Senz’altro è un nome non legalizzato dal municipio cittadino, come anche “via Airone”.

  Quindi è un termine popolare per designare la località, con riferimento a qualche avvenimento che era accaduto nella zona: in questo caso, presumibilmente, o un gruppo di saltimbanchi nomadi installatosi nei prati ancora non edificati, o -più probabile- al possesso degli Spinola di una simile bestia, regalata loro da qualche stravagante collega, con il quale  intercorrevano rapporti di traffico marittimo nelle terre esotiche. Tra i nobili signori, sono noti scambi di cani, asini, cavalli, scimmie; può non stupire che qualcuno  volesse distinguersi con un animale simile. Il problema poteva essere dove tenerlo; e dove meglio se non in campagna?

  Non si ha conforto di nessun’altra fonte.

  Via F.Anzani, prima di essere così intestata, era stata ufficialmente chiamata “via A.Cattaneo”.

  Una via e salita omonime sono a Genova, ufficialmente riconosciute nel 1927 in zona san Fruttuoso; laddove però abbondano strade intitolate ad animali da zoo: via dell’Orso, vico Leone, ed anche via del Pavone, e del Castoro.

BIBLIOGRAFIA

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.59 

Non c’è sul Novella

 


PAPA                                                via del Papa

 

È una strada che dalla zona Fiumara (prima della demolizione degli stabilimenti Ansaldo) sbucava in zona aeroporto, usufruendo di un ponte proprio -da allora anche lui chiamato ‘ponte del Papa’- e passando all’interno delle acciaierie, delle quali è proprietà. 

  Ovviamente non è un nome ufficiale riconosciuto dalla toponomastica, ma fu così chiamata perché su suggerimento dell’arcivescovo mons. Siri fu usata nel 1985 solo per due giorni, il 21 e 22 settembre, per accompagnare papa Giovanni Paolo II, appena sceso dall’aereo, nell’interno dell’Italsider in crisi, fino ai capannoni del laminatoio a freddo dove parlò di fronte a tremila operai; e poi  (credo però proseguendo via mare) per arrivare a Genova

  Venne riutilizzata nel 1994 quando si diede il via alla ristrutturazione del ponte di Cornigliano mentre era in atto anche il ‘restyling’ del ponte dell’autostrada. Si dovette far ricorso a questo percorso, in orario 11-15, per i camion (oltre 400 giornalieri) che uscivano dal porto e dall’autostrada stessa.

            

  Tutta l’area stradale venne promessa essere venduta entro il 1999 alla città; venne così ‘requisita’ dalla Prefettura che la affidò in gestione al Comune per disciplinare il traffico (intersezione con la via ferrata, con  cavi  ad alta tensione e condutture dell’acqua e del gas) valutandola di urgente realizzazione essendo fondamentale per snellire il traffico –non solo quello pesante- da via Molteni e via Cornigliano,  realizzando la ‘nuova strada a mare’ (suddivisa in quattro lotti, così suddivisi:  il 1° che sarà il tunnel sottomarino; 2° la zona dell’elicoidale; 3° Lungomare Canepa con viadotto sul Polcevera; 4° dal torrente all’aeroporto, attraverso le acciaierie (già finanziato con 80milioni per 2°-3°-4°, di cui metà dell’Anas che attende per affidare gli appalti appena il prefetto ed il tribunale decideranno in merito al ricorso); 5° dalle acciaierie a Multedo. 

  A bloccare i lavori è stato un ricorso dell’Ilva di Cornigliano al Tar nei primi mesi del 2003, poiché il lembo di terreno necessario è di loro proprietà (dal punto di partenza del ponte sulla riva destra).

  Il ponte ferroviario sul torrente (eretto negli anni ’30), è stato demolito in due tempi; il secondo, messo in atto il 27 sett. 08 con 32 cariche esplosive  (=18 kg di esplosivo) collocate sui pilastri di supporto, scoppiate alle 13,50. L’operazione è stata diretta dall’esperto Danilo Coppe coadiuvato da specialisti della brigata paracadutisti della Folgore su richiesta della Prefettura. Per evitare schegge ed onda d’urto, la zona di esplosione è stata ‘fasciata’ da materassi e bolle d’acqua specifici.

A fine 2009, solo su il Cittadino si legge che il presidente della Regione Burlando ha promesso che questa strada verrà riattata entro il 2012 (nel 2007 si parlava entro 2011)  essendo i lavori principali nel tratto dopo il torrente, ove a Cornigliano erano gli elettrofiltri delle acciaierie (ora demoliti) e la bonifica del terreno. Il nuovo  ponte, ad unica campata, sarà alla fine e prolungamento di lungomare Canepa.

 

BIBLIOGRAFIA

-Il Cittadino 27.12.09

-Il Secolo XIX- del   agosto (?)1994 + 22.6.03 + 28.09.08

-La Repubblica - del 19.1.04
PARODI                                           via Rosetta Parodi

 

 

TARGA: via – privata – Rosetta Parodi

                                                        

 

angolo con via W.Fillak

 

QUARTIERE MEDIEVALE: san Martino

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2821    CATEGORIA:  3

 da Pagano 1967-8

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   45880

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

 da Google Earth 2007. In giallo, via Vicenza; fucsia, via Campasso

CAP:   16151

PARROCCHIA:  s.Giovanni Bosco

STRUTTURA:   doppio senso veicolare, da via W.Fillak verso levante, chiusa all’apice.

È strada privata.

Nel 1999 fu ristrutturato l’edificio con  i civv. 2, 4, 6 rossi.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

CIVICI:   neri=   da 1 a 9

                rossi=   da 1r a 27r     e 6r (mancano 2r e 4r)

===civ. 4r   Nel Pagano/33  era l’officina di riparazione motori elettrici di Bressan Domenico.

===civ. 9r   La trattoria ha radici antiche di tipo osteria-tavola calda per gli operai: osteria Barbieri (1930). Nel Pagano 1950 è descritta osteria  di Albanese Giovanni; divenuta poi ‘da Piera’ (Bonfigli, fino al 1979), ‘i 2 G’ dopo allora, e forse cambiando gestore,  l’ultimo nome è rimasto.

   Nella scheda toponomastica si segnala solo una ristrutturazione del 1999 per cui i civv. 2, 4, 6 rossi furono cancellati.

Nel Pagano/40, la via che si staccava da via delle corporazioni e finiva chiusa, aveva solo numeri rossi: 3r=rip.calzat.; 7r carbone; 9r osteria Barbieri.

 

STORIA: tal sig. Parodi Gerolamo iniziò nei primi anni del 1900 a costruire dei palazzi che dalla via principale via Umberto I  formarono inizialmente un semplice distacco.

   Nel 1910 la strada non era ancora inclusa nelle via ufficiali del Comune. Ma come ‘vico’ viene aggiunto a penna negli anni immediatamente posteriori, con itinerario compreso tra via Umberto I e la proprietà Tuo; e con civv. sino al 7

   Nel 1912, il costruttore  pose al Comune di San Pier d’Arena domanda ufficiale di qusta titolazione. La proposta, è evidente, fu accettata. 

Così comparendo unica nell’elenco delle vie della Grande Genova (1926),  non subì variazioni nella unificazione dei nomi.

Nel 1933 era di 5ª categoria e con  civici neri sino al 7.

 

DEDICATA  Per la strada che si era formata, il costruttore pensò dare il nome della defunta moglie Rosetta, ricordata in vita per azioni filantropiche da lui stesso sostenute e continuate, e che volle  meritassero di essere tenute in considerazione per pubblica riconoscenza.

   Per avvalorare il patteggiamento, ed affinché l’Amministrazione comunale  si impegnasse al riconoscimento indefinito in avvenire, aggiunse generosamente la allora considerevole somma di lire mille, quale oblazione a favore della Congregazione di Carità. Tale scelta non poté essere contraddetta dall’Amministrazione pubblica (anche appunto perché strada privata), ma non fu riconosciuta via, quanto solo “vico”.

DeLandolina/1922 scrive che fu “gentile pittrice genovese, sposata in Moro, vivente” (potrebbe allora essere stata una moglie dei Moro che avevano la villa nei terreni sopra, da via Caveri, e quindi -anche questo terreno- era loro). Vigliero  dice, credo erroneamente ma possibile: che era la madre.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale in palazzo Ducale

-Archivio Storico Comunale Toponomastica - scheda 3320

-AA.VV.Annuario.guida archidiocesi—ed./94-pag.427---ed./02-pag.464

-DeLandolina GC- Sampierdarena –Rinascenza.1922-pag. 50

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002-pag. 141

-Novella P.-Guida di Genova-Manoscritto bibl.Berio-1930circa-(pag.18)

-Pagano/1933-pag.247; /40- pag. 364; /50-pag.394

-Pastorino&Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-p.1402

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.9
PASCOLI                                           via Giovanni Pascoli

 

TARGHE:    via – Giovanni Pascoli

                     strada privata

in angolo con via G.Balbi Piovera

 

in angolo con scalinata Beccaria

 

QUARTIERE ANTICO: limite tra Coscia e Mercato

 da MVinzoni, 1757. Ipotetico tracciato della via (con giallo, corso O.Scassi; celeste via GBPiovera) a ponente sul terreno del principe di Francavici, ed a levante del duca Spinola.

 

 

 

 

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2822,    CATEGORIA: 3

 da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   45940

UNITÀ URBANISTICA: 28 – s.BARTOLOMEO

  da Google Earth, 2007. In giallo via GBPiovera.

CAP:   16149

PARROCCHIA:  s.Maria delle Grazie

STRUTTURA:   da via G. Balbi Piovera, a scalinata C.Beccaria; senso viario unico, opposto alla numerazione, da ponente a levante.

===civ 5a: fu assegnato a nuova apertura nel 1975

   Pochissimi gli insediamenti artigianali, nessuno commerciale.

   Nel dic.03 ed ancora ago.04 si legge sul Secolo che la via è stata inclusa nell’elenco di quelle ‘private di interesse pubblico’ con programma di divenire municipalizzata (ovvero accorpamento comunale gratuito in cambio di manutenzione e servizi quali illuminazione, fognature, cassonetti spazzatura, asfaltatura, ecc.).

STORIA: La strada, neoformatasi con la costruzione dei caseggiati nella proprietà Piccardo, come traversa dell’asse principale indirizzato verso il costruendo ospedale (allora via E.De Amicis), ebbe dalla Giunta sampierdarenese ufficiale titolazione dopo scelta e delibera  del Comune il 16 set.1914, riconosciuta con itinerario ‘parallelo a corso Roma - in basso -‘.

   Il Pagano/1925 vi colloca al 2-3 Repossi Emilio che – ancora nel 1933 - si interessa di medicinali (presumo un grossista o rappresentante)

   Nel 1926, all’atto della unificazione della capacità comunali delle delegazioni nella Grande Genova, risultando unica dedicata al poeta, rimase immodificata.

   Nel 1933 era di 5ª categoria e con civici sino al 6 e 7 ed, allora, era privata.

   Nel 1958 il Comune preparò il terreno per la posa dell’asfalto, però non addivenendo ad un accordo, abbandonò il fondo in modo inagibile perfino al traffico pedonale.    foto anni 60 Gazzettino Sampierdarenese

   Il passaggio a strada comunale è avvenuto alla fine degli anni 1990.

CIVICI

2007= NERI   =da 17             e da 26

           ROSSI =da 3r19r  (manca 1r;  aggiungere 5Ar, 13Br)

                           il 6r            (mancano 2r, 4r)

 

   La strada è in pieno centro cittadino, ma l’essere stata autonoma per lungo tempo ha favorito, come in tutte le vie popolari in cui manca la spettacolarità della monumentalità, quei legami affettivi tra gli abitanti, che creano sentimenti comuni, paralleli a quelli descritti dal poeta a cui è intitolata.

   Nel Pagano/40, limitata come oggi, civv. neri da 1 a 7 e da 2 a 6; rossi 5r commestib.; 7r carbone; 9r fruttiv.; 11r macellaio; 13r bottiglieria; 17r latteria

   Nel Pagano/50 l’unico bar è al 17r., di Parodi M.

 

DEDICATA   al grande poeta italiano nato a san Mauro di Romagna (Forlì) il 31 dic. 1855 (dal 1932 il paese si chiama san Mauro Pascoli).

 

 


Trascorse l’infanzia alla Torre, nella tenuta del principe Torlonia, essendone il padre l’amministratore (quindi piccola borghesia rurale).

Iscritto presso gli Scolopi, quando raggiunse i 12 anni gli fu ucciso il genitore senza una motivazione conosciuta, e l’omicida rimasto poi impunito: al ragazzo vennero a mancare così i mezzi diretti per progredire negli studi ginnasiali.


 Fu indirizzato e vinse una borsa di studi con la quale potè finire il liceo ed iscriversi all’Università di Bologna dove fu allievo del Carducci.

Però la famiglia trascorse anni difficilissimi: non solo inizialmente fu privata del sostegno economico, ma poi anche sottoposta a tragiche pene che conseguirono in successione: per primo, costretti ad abbandonare la casa a favore del nuovo amministratore; poi la morte di quattro fratelli e della madre - e conseguentemente il peso della gestione dei 4 fratelli rimasti (conosciamo i nomi: Maria- chiamata Mariù è quella che rimase con lui più a lungo; Ida che, morì di pochi mesi e non viene contata se non perché rinominata nell’ultima; Margherita, Giacomo, Luigi, Raffaele, Giuseppe, Carolina).

Questi avvenimenti pesanti, seppur frequenti in quell’epoca senza assistenza, cambiarono decisamente il carattere del giovane, rendendolo molto sensibile e permeato di sfumatamente malinconiche.

Iniziò a scrivere sonetti  e poemi anche in latino, riuscendo con facilità ad esprimere  con parole belle e dolci, i sentimenti comuni.

A 21 anni, frequentando A.Costa, si iscrisse all’Internazionale Socialista dei lavoratori, iniziando a scrivere articoli sul loro giornale “il Martello”: quando l’associazione fu sciolta per legge, la sua ostinazione a difenderla – accusato di ‘grida sovversive’ - gli valse due mesi di carcere (1879), anche se poi fu assolto per inesistenza di reato.

Dopo questa parentesi politica  solo simpatizzò per i nazionalisti.

Riprese gli studi e si laureò (1882 -36 dice nel 1891) in lettere, divenendo professore di latino e greco nei licei di Matera, poi di Massa, Livorno, Roma. 

Vincendo il premio internazionale di poesia latina, istituito dall’accademia di Amsterdam, divenne noto e riconosciuto anche lodevole narratore:  fu così ricercato da atenei universitari, promosso professore a Bologna (1895), e poi a Messina (1897), Pisa (1903) e - succedendo al Carducci, di nuovo a Bologna (1905).

Con i sudati risparmi e la vendita di alcune medaglie d’oro vinte nei concorsi poetici, riuscì a comprarsi una casa in Toscana, a Castevecchio di Barga, dove visse con le sorelle Ida e Maria; e dove tutt’ora è sepolto pur essendo mancato a Bologna il 6 apr.1912.

Ampio lo scrigno dei suoi scritti: da libri per la scuola, ad antologie, studi danteschi, composizioni latine, articoli per giornali e patriottici, poesie: tutto pervaso da uno stile basato sulla dolcezza e semplicità, sulle piccole cose della vita  comuni a tutti ma espresse con desiderio del bene, con voce umile e spontanea, con forte serenità nel dolore e di fronte ai grossi sacrifici compreso la morte; riuscendo così ad descrivere quasi musicalmente, questi sentimenti interpretati e vissuti da tutti.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio storico Comunale di palazzo Ducale

-Archivio Storico Comunale -Toponomastica, scheda 3324

-AA.VV.-Annuario, guida archidiocesi-ed.1994-pag.427; ed.200-pag.464

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno

-Gazzettino Sampierdarenese :  9/73.12

-Il Secolo XIX : 25.11.03 + 23.08.04

-Lamponi M:- Sampierdarena – Libro Più.2002- pag. 199

-Novella P.- Guida di Genova- manoscritto bibl.Berio.1930 c.a.-(pag.17)

-Pagano -Annuario genovese-ed.1933-pag.248; /40-pag. 364; /61-pag.324

-Pastorino-Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.1403

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav. 35

 

PASTRENGO                                     via Pastrengo

 

Attualmente non più a San Pier d’Arena, ma in Castelletto. Corrisponde all’attuale via Dattilo.

   Da una carta del 1790, si chiamava “vico dei Disperati”: nel dicembre dell’anno 1900, il regio Commissario straordinario propose alla Giunta comunale il cambio, col nome di vico Pastrengo, e fu accettato.

  Iniziava da via A.Saffi (via C.Rolando), parallela a via Carlo Rota;  portava alla zona chiamata “Fornace” così popolarmente detta per l’esistenza nel posto di un largo appezzamento argilloso, materiale necessario per  la  fabbrica di mattoni; e si fermava chiusa,  presumo al confine ovest della proprietà con villa seicentesca Lomellini -poi Bocci, oggi distrutta – (localizzata dove ora è il civ. 20 di via G.B.Monti), e di cui era la strada di uscita verso l’asse principale di via Mercato (oggi via C.Rolando).


   Prospiciente, ancora nel 1904 c’era in quell’epoca il convitto-collegio Dogliani, ospitato in un palazzotto settecentesco che ora non esiste più.


il collegio  Dogliani è la villa bianca al centro della foto subito sotto gli alberi

 

   Nel 1910 è classificata sempre “vico Pastrengo” con numeri civici solo pari sino all’8 e, sempre da via A.Saffi, portava genericamente “verso la collina”.

   Il Pagano/25 segnala al 5r la tipografia ‘la Poligrafica, telef. 41-478, esistente ancora nel 1933; --- e Calderoni Primo & C. che riproducono disegni--- al 13r una seconda tipografia, di Riva Giovanni;--- al 20-22r Bagnasco Cairoli si interessavano fino ancora nel 1933 di macchine e trasmissioni;---  al 28r della ‘via’, l’impresa edilizia del costruttore Capello Filippo, ancora attivo dopo la guerra;--- al 6-10 una fabbrica modelli e puleggie (sic) in legno di Almonte &.C. che vive ancora nel 1933 (nel 1919-20 erano Almonte e Pizzocolo in via P.Cristofoli);--- Non precisato il civico: negozio di giuocattoli (sic) di Paoloni Giuseppe anche lui attivo ancora nel 33.

   Nel 1927 venne pubblicato l’elenco delle strade delle delegazioni tutte unite allora nella grande Genova: SPd’Arena si trovò a confronto di una omonima dedica in Centro, e per questa ’via’ si dovette programmare il cambio.

   Nel 1933 appare ormai ufficialmente classificata “via”; ed anche i limiti sono ben definiti arrivando dall’attuale via C.Rolando ‘a via P.Cristofoli ed a via G.B.Monti’; era di 4ª categoria ed aveva civici sino al 5 e 14. Al civ. 5 c’era un “Circolo ritrovo sociale”, ed all’8 una sede dell’ist.Palazzi. 

Per il Pagano/33:  al 5r quello di riproduzione disegni, di Calderoni Primo & C (da molto tempo ed attualmente il via A.Cantore) in coesistenza con la tipografia “La Poligrafica¨”.

   Nel 1935 la delibera del podestà datata 19 agosto 1935 decretava la sostituzione con il nome  ‘via E .Rayper’ poi limitato al tratto che da via L.C.Farini  sfocia con una scalinata di raccordo in via G.B.Monti.

   Durante il periodo bellico, viene ricordato l’episodio di alcuni partigiani che nel sett.1943, con una carretta trasportavano armi e munizioni: nella strada c’era una caserma della G.N.R. di Salò (ovvero Guardia Nazionale Repubblicana), dove ora ha una sede locale la Telecom; riuscirono a passare senza destare sospetti alla guardia, e non essere così controllati,  guadagnando un altro nascondiglio in via T.Grossi.

 

DEDICATA alla località veronese dove il 30 aprile 1848 avvenne una battaglia riguardante la prima guerra di Indipendenza.

Iniziò subito dopo le 5 giornate di Milano,  in virtù di un rapido avanzamento delle truppe di re Carlo Alberto verso il Mincio (messo in atto per eliminare sul fianco sinistro la minaccia degli austriaci, guidati dal maresciallo J.J. Radetzky, attestati appunto in Pastrengo). Lo stesso re, il giorno 30, guidando all’assalto le truppe piemontesi, e favorito da un risoluto intervento di uno squadrone di carabinieri a cavallo - accorsi a difenderlo - costrinse il nemico a ritirarsi oltre l’Adige.

 Già le terre erano state terreno di battaglia nel 1799 con i francesi vincitori sugli austriaci

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale Toponomastica - scheda 3340

-AA.VV.-Contributo di SPd’Arena alla Resistenza-PCGG.1997-pag.36

-DeLandolina GC-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag. 50

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno  

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio.1930circa-(pag.18)

-Pagano/1925-pag.1809; /1933-pag.248.1694

-Pastorino&Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-p.1408

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova-Forni.1986-pag.264

-Tuvo T.-Sampierdarena come eravamo-Mondani.1983-pag.79


PAVANELLO                           giardini  Camillo Pavanello

 

 

TARGA: San Pier d’Arena – giardini – Camillo Pavanello – primo olimpionico d’Italia – 20.10.1879-7.7.1951

 

 

 da MVinzoni, 1757. In giallo, via CRolando; fucsia via Currò, celeste, chiesa di sGiovanni Decollato (don Bosco).

 

                        

   da Pagano. 1961                                                da Google Earth, 2007

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA – n°: 46290

 

UNITÁ URBANISTICA: 25 – SAN GAETANO 

STRUTTURA: vasto rettangolo di verde alberato (agli estremi nord-sud sono lecci, nel centro sono platani) racchiuso tra via P.Reti, via B.Agnese, via D.Storace. Questo giardino, confrontabile con foto vecchie, appare più volte ristrutturato, sia nella disposizione delle aiuole che nella qualità, quantità e distribuzione degli alberi.

    Da mare a monte, e solo a levante, nei giardini si aprono: un cancelletto secondario che da adito alla “scuola materna statale N.Bacigalupo”; un altro cancello offre l’ingresso all’ “Istituto Magistrale Statale Piero Gobetti”, alla “scuola elementare di stato A.Cantore”, alla “direzione didattica n°3 di Sampierdarena II” . Nel centro il cippo militare.

CIVICI

UU25 = non ne ha. Viene indicato 0 e X.

 

===Civ. 25 di via P.Reti: Un cancello è l’entrata del “liceo classico G.Mazzini” statale  (vedi in via P.Reti).

===Un penultimo cancello, il più a nord porta alla “scuola civica vespertina” (sorte come volontariato in città nella seconda metà del 1800 trovò maggiore solidità ed organizzazione con l’interesse della duchessa di Galliera che nel 1897 destinò un congruo lascito al fine di una ristrutturazione più qualificata. In SPd’Arena, favorite da amministratori lungimiranti come P.Chiesa, si moltiplicarono grandemente fino ad avere centinaia di insegnanti per fornire alle giovani elementi utili alla vita quotidiana in orario pomeridiano non scolastico), ad un “patronato ACLI” ed alla locale “associazione nazionale carabinieri sez. Mario Tosa. MOVC” che nel 2010 si è trasferita in locali della Croce d’Oro.  L’ultimo all’estremo nord  porta all’asilo nido comunale “le Mongolfiere“.

 

STORIA: 

-Dalla carta del Vinzoni, del 1757, il terreno faceva parte della grossa proprietà del Magistrato degli Incurabili (vedi in Abba).

-Nel 1863 il terreno era divenuto di proprietà del sig. Badano Pietro. Per la somma di L.45mila, questi lo vendette in quell’anno al Comune locale.

-Pocvhi anni attorno al 1900 (1891-1908): doveva essere solo una piana a terra battuta ed erba, che veniva genericamente chiamata “vecchio giardino pubblico in via Vittorio Emanuele (san Martino) con entrostante alberatura”; esisteva dentro l’area una casa comunale d’abitazione. 

La Cooperativa di Produzione e Consumo, in un capannone eretto al limite della proprietà, delimitava la nascente via B.Agnese e, nel dicembre 1903, godette del diritto di prospetto sull’uso del giardino: viene descritta la  erezione in quegli anni di una vera pista ciclabile (lo sport del ciclismo o meglio le ‘corse velocipedistiche’ erano ancora agli inizi ma già attiravano sempre più folla di spettatori in un’epoca in cui non esistevano praticamente distrazioni pubbliche ed era necessità di tutti uscire di casa per vivere insieme i giorni festivi);  qui trasferita dal Campasso (vedi via san Fermo), e prima di essere riedificata all’altezza del civ. 47 di via A.Cantore (vedi).

In quello stesso anno fu dato appalto al sig. Carnevale Paolo per la costruzione dell’edificio scolastico.

   Lamponi descrive una prima gara ciclistica avvenuta a fine secolo, nel largo prato non ancora delimitato dalla scuola (precisa 31 maggio 1885, ma poi scrive che fu effettuata in via UmbertoI strada che ebbe quel nome dopo la morte del re avvenuta nell’anno 1900, e promossa dall’Universale a favore del monumento a Garibaldi che sarà innalzato nel 1905); comunque è invece importante la descrizione della festa: per la gente finalmente qualcosa di diverso dalle solite sfide marinare: dal passo della  Lanterna un corteo sempre più folto e festoso, con bandiere, gonfaloni, banda, sindaco con giunta,  accompagnò i dieci atleti sino allo spiazzo ove era stata aperta una pista e per tifare il casalingo Tortarolo (poi primo professionista ligure) o il forte Giorgio Davidson (scozzese venuto a Genova per vendere rifiniture marittime) o il milanese Loretz (primo campione d’Italia); il pranzo era all’aperto o dalla Gina, le selezioni diedero ragione ai più forti come Davidson e Cesare Buttalo; il premio fu probabilmente un umile alloro.

      

   il monumento, posto davanti alla scuola

-Anno 1905, sindaco N.Ronco. Venne inaugurata la scuola N.Barabino, in severo stile neoclassico, con due entrate raggiungibili ciascuna da doppia scalinata esterna; a voce si dice che dapprima fu intitolata a P.Chiesa (più probabile a N.Barabino, morto pochi anni prima); il giardino fu arricchito, il 30 ottobre, col monumento al pittore N.Barabino (poi, ed ormai  da  molto  tempo,   fu spostato nella piazza omonima): era intervenuto personalmente il re d’Italia Vittorio Emanuele III con la regina Elena, preceduti da una quadriglia di carabinieri a cavallo e con un seguito di una quarantina di carrozze, dopo il benvenuto del sindaco Nino Ronco, in un’ala di folla  urlante “viva il re” arrivarono ai giardini ove con bandiere e vessilli erano presenti tutte le associazioni e migliaia di cittadini; la banda del Risorgimento suonò l’inno reale e fu fatto cadere il telo che copriva la statua; visitarono la nuova scuola e si intrattennero con alcune persone (la bimba Rina Benedetto recitò una poesia; i membri della Croce d’Oro furono passati  in rassegna con le loro attrezzature; i ginnasti della Sampierdarenese - col presidente prof. Sckulteky – primario chirurgo nell’ospedale locale -  fecero alcuni esercizi).

   

Non esistonoancora i palazzi civ.2 e 4 di via B.Agnese;  troneggia la torre dei Pallini

 

Il re era giunto in città soprattutto per la posa della prima pietra del prolungamento del porto ed inaugurare la stazione di Brignole.

In quell’anno, negli uffici pubblici cittadini, si installavano i primi telefoni.

-Anno 1923 (24 maggio): Fu l’anno quello, in cui anche a Genova, il desiderio di risuscitare l’orgoglio nazionale attraverso il richiamo quotidiano di un simbolo, stimolò l’erezione di molti monumenti ai caduti e di parchi della Rimembranza.

 Il primo parco fu inaugurato a Firenze nel febbraio di quell’anno; l’idea di onorare i Caduti dedicando loro un albero fu raccolta e copiata in tutta Italia; a Genova, essendo stati i morti in guerra più di 5mila, la maggiore difficoltà si ebbe nel cercare un’area vasta abbastanza; i quotidiani raccolsero l’idea di una specie di plebiscito popolare e di raccolta fondi; in contemporanea si iniziò a progettare il più grandioso monumento ai Caduti di piazza ora della Vittoria, allora chiamata piazza di Francia.     

 San Pier d’Arena era ancora comune autonomo; prospiciente alla strada -divenuta via Milite Ignoto (via P.Reti)-  venne  ufficialmente chiamato “parco della Rimembranza”, per portare onore ai concittadini caduti in guerra; ad alcuni di essi (non si sa con quale scelta; ancora nel dicembre dopo, in san Gaetano fu celebrato solennemente il ritorno delle salme di sei militari parrocchiani), fu dedicato un albero (il nome e cognome fu scritto su una piastrina di metallo da applicarsi dagli alunni delle scuole su ogni pianta interrata durante una solenne cerimonia.  Per l’occasione, l’ edificio venne  imbiancato, e ribattezzato - intitolandolo  “scuola Antonio Cantore”. Anche la palestra, in quell’anno, fu riattata.

 

cerimonie anni 1920-30

   

inaugurazione bandiera del sindacato ferrovieri. C’è scritto    militi della Croce d’Oro degli anni ‘50

1929, ma se c’è ancora il monumento, è di molto prima

Si progettò anche per l’erezione di un monumento ai Caduti ed al generale Cantore in particolare (già dal 1917, esponenti locali della Croce Rossa italiana (GB Botteri fra essi - vedi) avevano avanzato l’idea di meglio onorare la figura del generale;  un primo concorso del 1 febb.1923 fu annullato perché i bozzetti non apparvero degni della scelta ; un secondo concorso, indetto il 14 mag.1923 proponeva di base un monumento alto 9 metri : vinse lo scultore Guglielmo Gemignani che si impegnò per 200mila lire ad erigere nel “campo della Rimembranza” il monumento -alto 12 m, con basamento in travertino e la parte scultorea in bronzo - da porsi in atto entro il 27 mag.1927. L’assorbimento di San Pier d’Arena nella Grande Genova, seppur il comune fosse in attivo e quindi capace di spendere tale cifra, fu determinante di sospensione dell’incarico, che finì nel nulla).

    

   In attesa di realizzare il monumento, al centro fu posto il cippo che doveva essere temporaneo e che invece si vede ancor ora: fatto di pietra rosa tenue di Cortina d’Ampezzo (capoluogo del “monti pallidi”) porta la scritta “a secolare ricordanza dei nostri umili eroi- XXIV-V-MCMXXIII” (come detto, la pietra dei “monti pallidi” è  di un meraviglioso ed inconfondibile rosa marezzato, che un qualche bischero negli anni 1995 coprì di vernice bianca per renderla – a suo ignorante avviso - più evidente: e più assurdo fu che nessuno si promosse per eliminare lo scempio di cui si ravvedono ancora nel 2003 le tracce.) è sormontato dall’urna bronzea con la fiamma, opera dello scultore Lavezzari a cui era stato dato l’incarico il 13 aprile. In un periodo politicamente incline a rivalutare enfaticamente il grande sacrificio compiuto da moltissimi per l’unità d‘Italia fu posto in onore dei “caduti della guerra 1915-18” e del nostro più grande concittadino il generale Antonio Cantore: molto semplicemente vi fu inciso “a secolare ricordanza dei nostri umili eroi XXIV-V   MCMXXIII  (una targhetta affissa da “i combattenti”, ricorda genericamente anche “i caduti della guerra 1940-1945”).

  Anche il medaglione con l’effige in bronzo del generale fu affidato allo stesso scultore Lavezzari con l’intenzione di porlo in una nicchia nel centro della facciata della scuola (nell’enfasi, non fu forse spiegato che il generale mai portò il berretto da alpino perché essendo alto ufficiale dell’esercito aveva in dotazione, per uso ufficiale che ordinario, un berretto con visiera tipo cheppì: quello che fu ovviamente perforato dalla pallottola che lo uccise).

Le parole ‘San Pier d’arena – al primo dei suoi caduti – Antonio Cantore – MDCCCLVI-MCMXV-MCMXXIII’

   Nell’aiuolina alla base, arredata dal guerresco simbolo di 4 ogive, residui probabilmente della prima guerra mondiale, giace un grosso sasso,  qui portato dai monti della Forcella dove fu colpito a morte il generale; su esso c’è scolpita una frase                 

                               RICORDO . SACRO . DOLOMITICO .

                       TINTO . VERMIGLIO . SANGUE . CANTORE .

                        GRUPPO . A. N.A. . CORTINA . D’AMPEZZO .

                                ALLA . SEZIONE . DI . GENOVA .

                                     FRATERNAMENTE . OFFRE .  

                                              15 . IV . 1931 . IX

il tempo ha reso illeggibili queste parole, salvo –  forse per strana fatalità - il nome “Cantore”;  per i politici è una fortuna che sia scomparsa la parola “sacro”.

È stato arduo a trovare il  testo  neppure all’Assoc. Reduci di via Giovanetti sanno alcunché;  ed abbiamo constatato come apaticamente non è stata promossa nessuna ricerca sulla storia, né di essa, né della cerimonia di inaugurazione, né delle ultime disposizioni postbelliche.

  Dietro al cippo invece, una grossa nicchia (di grezzo cemento eretta nel secondo dopoguerra quando fu anche rifatta la scuola poiché prima del 1945 i marmi erano appoggiati ai muri esterni) con al centro un marmo contenente in altorilievo bronzeo il busto del generale, circondato da sei alte stele anch’esse di  marmo con incisa la lunga sequela di nomi dei nostri soldati caduti nelle due ultime guerre mondiali, molto ipocritamente … a memoria: in realtà morti due volte. Diventano tre volte se si include anche il Pagano ed i vari libri su Sampierdarena che neanche citano il complesso (del monumento, targhe a ricordo dei Caduti delle due Grandi Guerre, e lapidi varie; non da tutti, viene menzionata solo la cappella del cimitero).

In fondo, sono stati degli illusi. E pertanto… non degni di memoria osannata. Infatti sono morti, sacrificati con l’illusione di togliere un potere e così salvare la Mamma, la Famiglia, la Patria!; e non accorgersi di farne instaurare un altro a cui delle tre Femmine, gliene importa nulla. I  governanti, una volta in poltrona, scarsamente mirano a riformarsi a vantaggio di altri -come i cittadini stessi-, comunque mai a fare leggi che potrebbero indebolire la loro posizione  o intaccare la loro sostanza. Per questo sono occorse orribili guerre distruttive o ribellioni altrettanto violente, necessarie per scalzare un potere; ma ahinoi, per lasciarne instaurare uno nuovo diverso ed in genere sempre più autocratico comunque non riformabile se non con un’altra guerra. A spirale perversa.

 

 ---I giardini vennero allora racchiusi da alta cancellata (ricuperata quale ferro utile, nell’imminenza della seconda guerra mondiale come quella che racchiudeva villa Scassi sul davanti).

---Nel 1938, al limite nord dei giardini, fu approvato costruire in via Martiri Fascisti una “Casa della madre e del bambino”; aperta sui giardini della Rimembranza, su terreno donato dal Comune alla federazione provinciale dell’ONMI ( opera nazionale maternità ed infanzia; il progetto, dell’ing. Camillo Nardi Greco e dell’arch.Lorenzo Castello , prevedeva un edificio in stile fascista, definito semplice,  razionale e senza conferire l’aspetto di un ospedale). Fu inaugurata il 28 ott.1940 (celebrativo della marcia su Roma). Nella guida del 1961 è ancora chiamato OMNI. La palazzina, ristrutturata completamente nell’’87 dopo 5 anni  di lavori , ora viene chiamato ‘asilo nido la Mongolfiera’  tutt’ora è attiva per ospitare con attrezzature moderne i bambini delle donne che lavorano; come tale appare vincolata e tutelata dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria. Nei vani sul dietro vengono ospitati vari servizi sociali; vi hanno sede anche gli  ‘Amici della montagna’: tutti però si aprono in via Battista Agnese.

   Negli anni subito postbellici, la parte a mare, spesso era occupata da un giostraio; ma già in tempi antichi sia “Fagiolino” o “Padella” allietavano con le loro battute le serate  (con seggiole a pagamento) o i giochi dei bambini (“al vostro buon cuore”).

Fagiolino, al secolo Giovanni Peironi, decedette all’ospedale di Bolzaneto nel marzo 1976; nei tempi d’oro del  mondo del tendone divenne un clown famosissimo nel circo Palmieri, musicista assurdo, originale pagliaccio, il clown capace di far ridere chicchessia. Ritiratosi dal circo, scelse diventare Fagiolino e richiamare il pubblico nelle piazze cittadine (qui nei giardini o vicino al Baraccone del sale  o in piazza Palmetta).    

Anche  Padella, al secolo Mario Bensi,  lavorò da giovane nel circo Palmieri, decise formare una sua ’arena’ personalizzata dedicando la sua vita a fare il clown per quello definito “ teatro per i poveri”: per tutto il periodo bellico e dopo, riuscì a far ridere i bambini e sorridere o distrarre chi era rimasto in città, prima che la TV non costringesse la cittadinanza al ‘tutti comodamente a casa’. Portava la paglietta con nastro tricolore e tutti i vari discorsi (tra i quali viene rammentata la storia e prodezze della sua cavallina, finivano con una solenne “gnaera”.  La sua bonaria semplicità, lo rese figura caratteristica cittadina. Morì sessantenne, dopo lunga malattia, nel 1972”

---Nei primi anni 60, le vecchie scuole in pesante stile neoclassico furono abbattute perché insicure -seppur non direttamente danneggiate dai bombardamenti-; molti  alberi sostituiti  (da tutti lecci, i più divennero platani); il monumento “arricchito” da stele marmoree con i nomi dei soldati caduti nell’ultimo conflitto   ( dall’etica antica del  “pulcrum est mori pro patria” , si passò -fino alla seconda guerra mondiale- ad un reverenziale rispetto per chi diede la vita per l’Italia : e fino ad allora queste stele avevano per i giovani una logica di ammirazione e di monito ; da dopo gli anni settanta, abbandonata quella che si chiamava  ‘educazione civica’ ovvero del rispetto altrui e delle cose comunitarie, lasciando le nuove leve al libero arbitrio rappresentato soprattutto dal concesso soddisfacimento di ogni personale interesse fino al prevalente egoismo ,  menefreghismo,  ed insensibilità , si è reso questi elenchi di morti neanche fastidiosi -sarebbe sempre una reazione- ma solo delle fredde ed inutili pietre : i  valori dei sacrifici si sono spostati altrove . Qualcuno -probabilmente vecchio e  ormai citrullo- per cercare di rinverdirne il lustro, alcuni anni fa coprì stoltamente la pietra del monumento e del sasso con vernice bianca, occultando il rosa pallido e delicato della roccia naturale, segno che anche chi ha ancora rispetto di queste cose,  non capisce più  niente); le aiuole rifatte in forma diversa e- a parte quelle centrali arredate con arbusti sempreverde- genericamente poco curate, viali asfaltati. Nel 1964 fu inaugurato il nuovo edificio, nel quale è ospitato nella parte a nord anche il liceo classicoG.Mazzini qui spostato dalla villa Serra-Masnata di via Cantore.

---I giardini furono dedicati dalla Giunta Comunale all’atleta Pavanello con delibera del maggio 1993,  essendo stato proposto alcuni anni prima, al compimento dei 100 anni della società Sampierdarenese.

---Nel 1994, onde limitare lo smog da scarichi di marmitte e l’inquinamento acustico specie dalla vicina via P.Reti, fu racchiuso ai tre lati da una apposita barriera metallo-plastificata, che tuttora resiste anche alle scritte, con discreto risultato.

---Nell’anno 2000 si procedette all’ultimo ed innovativo ‘restyling’ dei giardini eseguendo un completo ridisegno strutturale per una spesa di 900milioni circa (arch. Stefano Ortale; appaltatrice la soc. EsoStrade). Tagliando circa una ventina – dei 35 esistenti - di grossi alberi di platano, si è dato spazio ad una pista ciclabile ed una di pattinaggio lievemente sopraelevate con aiuola attorno; sono state messe a terra numerose piantine di sempreverde e promessi qualche alto fusto come una canfora ed altri lecci; e nel lato a mare sono stati installati dei servizi igienici chiusi autopulenti, nel lato a monte castellature di giochi per bambini con pavimentazione di gomma ad assorbimento d’urto.

 

quattro fotografie dell’anno 2000

 

 

Fu inaugurato il 5 giugno 2001.

   2001

 

Nel 2006 una impresa ha progettato la possibilità di costruire interrati dei box per auto. Il progetto, seppur bocciato dal CdCircoscrizione, viene riproposto nel 2007 e ribocciato.

        

anno 2000                              e 2006

   Attualmente è uno dei pochi giardini aperti anche di notte e quindi genericamente “abbandonati” all’educazione dei singoli (ahinoi!); rimane  posto ideale per i bambini che escono sciamando in sicurezza da scuola, per i giovani che si ritrovano tra loro, e per portare a spasso i cani (paletta e sacchetto obbligatori, anche se il cartello intima che i cani vanno portati al guinzaglio e con museruola se mordaci; a parte qualche fatto sporadico ed individuale mugugno “sembrano una discarica” ...le cartacce delle merendine non le buttano i cani...,  si può dire che la cittadinanza è soddisfatta. Nel 2002 si segnalarono frequentazioni notturne pericolose, sporcizia, siringhe e bottiglie vuote.. ed ovviamente non si propone affrontare il problema –non facile d’accordo- ma solo chiudere, come salita GB Millelire). Il monumenmto è affiato alla cura della Associazione Nazionale Alpini di via Giovanetti

Nell’estate  2009 avviene la decisione di chiuderli, alla sera.

 

DEDICATA all’atleta della società ginnastica Sampierdarenese, che partecipò alla prima olimpiade -nel 1900 a Parigi- unico italiano: allora la ginnastica comprendeva oltre gli esercizi artistici, anche l’equilibrismo e l’acrobatismo.

Nato a Terni il 20 ott.1879 ove ad 11 anni era già iscritto ad una palestra, venne nel 1899 a San Pier d’Arena in via Rayper al 14.11b, per entrare come operaio meccanico alle acciaierie Ansaldo di Cornigliano.

Nel tempo libero, iscrittosi alla palestra, (che in quegli anni era ospitata -chi dice in stanze della scuola elementare in piazza san Martino , usando il piazzale antistante per gli esercizi...all’aperto;  chi in via Manin e successivamente in via della Cella , in un grande locale,  forse una stalla, attiguo alla sede della Croce d’Oro);  divenne rapidamente così bravo, tanto da essere candidato da Enrico DeAmicis, presidente della società, al concorso internazionale di ginnastica artistica che si sarebbe svolto a Parigi dal 29 lug.1900; (a tutti gli altri componenti della squadra venne ritirata dalla Federazione Nazionale l’iscrizione prima della partenza, perché il programma appariva troppo difficile e mirato a mettere in inferiorità i ginnasti nostrani) per cui per caparbietà ed a proprie spese della Sampierdarenese,  fu l’unico a raggiungere il terreno di gara davanti alla giuria internazionale (composta da 30 membri francesi, 18 stranieri di cui nessuno italiano). Vinsero i primi 27 posti, tutti atleti francesi; lui -che su sei diversi esercizi (liberi ed obbligatori ai 4 grandi attrezzi: cavallo-anelli-barra-parallele, nonché corpo libero, salto in alto ed in lungo, salto in lungo del cavallo, salita alla fune, sollevamento di pesi: una pietra di 50 kg. da terra in alto per 10 volte) era arrivato primo in quello a corpo libero ma era caduto in quello delle parallele -la motivazione fu data alla sbarra, bagnata e resa scivolosa dalla pioggia- si classificò 28°, primo di tutti gli stranieri. Ricevette una corona di alloro, una medaglia d’oro, una targhetta di platino e due ceramiche di Sèvres per la società (che tutt’ora possiede). 

 

La delusione arrivò al ritorno in patria, ufficialmente in lutto nazionale per la morte di re Umberto I; ma l’evento ginnico venne onorato dai colleghi locali e di Cornigliano,  con una cena alla trattoria della Gina del Campasso; ma soprattutto perché la Federazione rifiutò di giudicare quella gara come l’Olimpiade; solo 50 anni dopo, dopo tanta ed amara indifferenza dei responsabili, il Comitato Internazionale Olimpico nella persona del segretario generale Otto Mayer, confermò che il concorso parigino era parte integrante della seconda Olimpiade moderna (la prima era stata tenuta ad Atene nel 1896, per iniziativa del famoso barone DeCoubertin): così anche il CONI nello stesso anno confermò all’atleta il titolo di olimpionico d’Italia (col numero 306 e non uno come sarebbe stato di diritto). Dopo il successo parigino, proseguì l’attività agonistica, diventando poi direttore tecnico della sua società negli anni di massimo splendore con le olimpiadi di Anversa del 1920. Fu poi anche giudice di gara e giurato nazionale. 

Morì nel 1956.

 

 

BIBLIOGRAFIA 

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica ,  scheda 3343/a

-Autore sconosciuto-Dattiloscritto chiesa s.Gaetano&Bosco-vol.I-pag.206

-AA.VV.-SpdA nella sua amministr. fascista-Reale.1926-p.15modelli monumento  

-Gazzettino Sampierdarenese : 2/72.2 + 4/76.9 + 5/78.19 + 3/80.3 + 9/85.11+  4/86.8 + 6/87.11 + 5/89.8 + 8/91.7foto + 7/94.7 + 8/94.14 + 07/02.9 + 07/03.6 + 09/03.8 +

-Genova Rivista del Comune: 4/23.365 +9/32.901foto +11/38.80  +11/40.95

-Il Secolo XIX 24.07.09 p.25 + 

-Lamponi M.- Sampierdarena- Libro più.2002- pag.153

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio 1930circa-(pg.8.14.20)

-Parpodi-1891-1991 cento anni di storia SGC Sampierdarenese. 10.17   +

-Pagano/1950- pag.36; /1961-pag.560.575.577

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio. 1995-tav.21

-Secolo XIX: 19.01.99 +23.6.00 +5.7.00 +6.6.01 +10.05.02pag. 29  +14.3.03 

-Tuvo T.-Sampierdaena come eravamo-Mondani.1983-pag. 67foto

-Tuvo.Campagnol-Storia di S.P.d’A-D’Amore.75-p. 37.290foto di Pavanello. 293 non citato EMotta; Esonzogno; Oltre un secolo di Li.SecoloXIX;


PEDEMONTE                                   via Giacomo Pedemonte

 

 

TARGHE

San Pier d’Arena – via – Giacomo Pedemonte – musicista-compositore – 1894-1963

   via L.Dottesio

   angolo via A.Cantore

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia

 da MVinzoni, 1757. In giallo, via LDottesio (via Demarini); celeste, via GBCarpaneto (via Fossato sBartolomeo), verde, a levante villa GB.Negrone; a ponente proprietà Nicolò Pallavicini con, in rosso, villa.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:  posteriore

 da Pagano 1967-8. L’area ancora occupata dall’oleificio

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   46430

UNITÀ URBANISTICA: 28 – s.BARTOLOMEO

 da Google earth, 2007. In giallo via di francia; fucsia via LDottesio

CAP:   16149

PARROCCHIA:  s.Maria delle Grazie

STRUTTURA: senso unico viario in discesa, all’opposto della progressione dei civici che va da via L.Dottesio a via A.Cantore.

Nel SecoloXIX di nov.03 ed ago.04 si legge che la strada è inclusa nell’elenco delle ‘vie private ad interesse pubblico’ e quindi programmate a divenire municipalizzate con acquisto gratuito in cambio di manutenzione ed inserimento nei servizi comunali (illuminazione, cassonetti spazzatura, fognature, asfalto, ecc.).

 

da monte a mare                                                                 da mare a monte

CIVICI non ci sono rossi

2007= NERI   = da 1→7        e da 2→32 (compreso 24C)

 

 

Modello in compensato degli alunni delle scuole medie.

 

===al civ. 3, la villa Negrone - Moro.

L’elenco dei palazzi vincolati e protetti dalle Belle Arti (oggi ‘Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria’)  fa leggere la tutela dal 1964 al civ. 1 di via Dottesio (civ.3 di v.Pedemonte), chiamato “Palazzo ex Piccardo Rovereto”. In effetti in questa costruzione (alla fine del 1800, al civ. 25  di allora quando quel tratto di strada era ancora via DeMarini (vedi)) abitarono: la sig.ra Piccardo ved. Rovereto (e dovrebbe corrispondere a questa villa, se in contemporanea ai civv 26-27 seguenti, abitava il marchese Pallavicini); poi, nel 1908, l’industriale Moro Tomaso e Figli. (invece, sempre a fine 1800 un altro ‘cav. Piccardo Giovanni (forse fratello della precedente) abitava ai civv. dal 28-29 di via DeMarini: qui era il cancello che tramite un viale faceva arrivare alla villa che era  più in alto, in zona Montegalletto, ove ora è la ‘torre’ detta dell’ospedale).

Non si conoscono data di costruzione  né committente, né architetto progettatore; posta sull’asse principale stradale, dalla struttura cubica e dalla loggia angolare si può arguire un’origine della metà del cinquecento, in epoca para-pre alessiana.  Dall’antica planimetria vinzoniana del 1757, allora, apparteneva a Gio Batta Negroni.

Il palazzo aveva due ingressi, e fu considerato principale quello aperto sul retro rispetto la strada principale (oggi in via G.Pedemonte);  -come per villa Scassi- si presume sia effetto di una ristrutturazione posteriore della porta che dava adito ai giardini; comunque in seguito a questa decisione il portone, recante il civ. 1 di via Dottesio, venne chiuso addirittura murando la porta ed il civico fu  soppresso nel 1973.         

A ponente della facciata a mare  si nota un ampio corpo basso, a terrazzo, (che ospitava la cappella gentilizia come si deduce dalla cartina settecentesca del Vinzoni)  che la collegava con la  seguente affiancata villa dei Pallavicino poi Moro (oggi il terrazzo, e quest’ultima villa sono stati demoliti lasciando di essa solo la facciata col portone: aprendosi in via Dottesio è descritta a quella via). Il giardino, in origine stretto, irregolare e di scarsa estensione, era orientato verso nord-est alla collina (ed il suo lato  a levante, costeggiava la salita san Bartolomeo allora non ancora “del Fossato” ed oggi via Carpaneto); oggi se ne conserva una piccola parte, rappresentata dalla  piazzetta sita davanti all’ingresso nord, divenuto il principale: ripristinato assieme alla villa,  è caratterizzato dalla presenza di un saggiamente ben conservato

Comprendeva nella parte finale in alto una torre, anch’essa cinquecentesca, con aspetto caratteristico ottagonale e con eleganti archetti pensili su peducci e aperture centinate; oggi inglobata in edifici ottocenteschi in via GB Carpaneto. ciottolato a mosaico bianco e nero alla genovese.

La facciata a mare, dalle ampie finestre appare tripartita ( 3 al centro con terrazzo e due ai lati,  caratteristica distribuzione  dettata poi come imperativa dall’Alessi).

  

All’interno, il piano terra è caratterizzato da due atri centrali contigui, relativi ai due ingressi (sulla strada e sul giardino); al piano superiore nobile, la scala -con piani in ardesia- sfocia in una loggia nell’angolo sud est visibile dall’esterno di via Carpaneto per i grandi fornici separati da una colonna ionica centrale e per il balcone sorretto da plastici mensoloni cinquecenteschi che nell’insieme creano un piacevole aspetto della facciata; il salone, posto a monte e contornato dalle sale più piccole, non ha più alcuna decorazione dipinta. I pavimenti sono ad ottagoni  di ardesia mentre appaiono di grossi riquadri in marmo quelli dei pianerottoli. 

  

                                       oleificio Moro con torre ottagonale      piazzetta anni 1970

Nella seconda metà dell’ottocento, la villa subì il declassamento ad uso industriale, essendo stata acquisita dall’oleificio Moro che nei terreni retrostanti costruì la grossa fabbrica e raffineria. 

Il palazzo, riacquistato in tempi più recenti dalla società di Navigazione C.I.M.A.srl, fu ripristinato ad uso uffici, senza che fossero alterati i caratteri architettonici e decorativi: nell’insieme, ha molte affinità architettoniche con la villa vicina Pallavicino-Gardino.

Negli anni 90(?) fu occupata dalla EdiSoftware, società a responsabilità limitata, gestita da tre ingegneri (Marco Abergo, Enrico Pedemonte, Massimo Ferrari)

STORIA:  Siamo ancora dentro il quartiere della Coscia. Prima che lo stabilimento Moro Tommaso e figli - che si apriva in via Bottego al civ.1 - di raffineria e produzione (inscatolamento in recipienti di latta lavorata e litografata) di olio d’oliva, olio di semi, e sapone occupasse tutto il terreno che oggi ospita questa strada, c’erano orti coltivati a vigna, frutteti ed ortaggi.

Solo con la demolizione dello stabilimento e successiva bonifica del terreno, fu aperta dopo il 1970 questa nuova strada che praticamente passa in corrispondenza dell’interno dell’ex stabilimento.

Il 12 marzo 1973 una delibera comunale stabilì il nome attuale; una parte di civici rossi passarono da via A.Cantore alla nuova via e da allora i numeri civici sono in successione continua senza distinzione del colore; nel ’74 furono assegnati a nuova costruzione il civ. 16 ed  il  1-3-5.

DEDICATA al musicista nato a Pontedecimo il 12 nov.1894, e morto a Genova il 7 genn.1963.

Essendo stato già indirizzato dal padre Giovanni – organista nella chiesa parrocchiale di san Giacomo - alle nozioni musicali da quando aveva sei anni, dopo aver finito degli studi tecnici decise di iscriversi al liceo musicale N.Paganini, ove si diplomò nel 1913. Si trasferì a Milano, per perfezionarsi al conservatorio G.Verdi.

Tornato a Genova, occupò l’incarico di organista nella chiesa di sant’Ambrogio; di professore della cattedra di organo allo stesso liceo Paganini; e - dal 1936, anno in cui fu approntato l’organo nella Cattedrale – collaudatore, concertista ed organista contitolare.

Compose numerose opere musicali per cori religiosi e non, per orchestre e soprattutto per organo; vengono ricordati nel dic.51  concerto nella sala del Maggior Consiglio del palazzo Ducale e,  postumo nel 1964 un polifonico vocale all’auditorium della Fiera del Mare.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica , scheda 3355

-AA.VV.-Annuario, guida archidiocesi-ed.1994-pag.428; ed.2002-pag.465

-AA.VV.-Catalogo delle ville genovesi-Bertelli.1967-pag.147

-AA.VV.-Le ville del genovesato-Valenti.1984-vol.IV-pag.23

-Frassoni E.-2 secoli di lirica a Ge.-CARIGE- vol.II-pag.481

-Il Secolo XIX :  del 25.11.03 + 23.08.04

-Internet-

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag.28

-Pagano –Annuario genovese- ed.1961.pag.1566

-PastorinoVigliero-Dizionario delle strade di Ge,-Tolozzi.1985-pag.1413

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio 1995-tav.51

non citato da

Enc.Sonzogno

Enc. Motta

AAVV-oltre un secolo di Li

Arte organaria in Liguria

Giazotto-la musica a Genova   


PELLEGRINI                                   via Antonio Pellegrini

 

TARGA: via – Antonio Pellegrini

 

angolo con via del Campasso

 

QUARTIERE ANTICO: Campasso

 da MVinzoni, 1757. In celeste via Vicenza-Campasso; in verde ipotetico tracciato di via APellegrini nei terreni Cicala.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2823.   CATEGORIA:  2

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA -  :   46540

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

        

da Pagano 1961                                                         da Google Earth, 2007

 

CAP:   16151

PARROCCHIA:   Sacro Cuore di Gesù

 

STORIA:  Compare già così titolata nel 1926 all’atto della unificazione del comune di SPd’Arena con quello genovese, e classificata di 4a categoria. In quel tempo omonima dedica esisteva per una strada di Cornigliano, che fu obbligata a cambiare.

Il Pagano 1919 colloca al civ.2 l’unico veterinario cittadino, dr. Briccola Luigi attivo ancora nel Pagano/25.

 

STRUTTURA:  rettilineo di circa trecento metri,  praticamente diviso in due tronchi: il primo, è senso unico viario -dall’altezza della chiesa e via Campasso, sino a metà percorso- quando si innesta da ponente via S.Spaventa nella quale il maggior traffico stradale prosegue - sempre come senso unico. Il secondo tronco, continua il òprecedente verso monte, è chiuso in fondo  ed è doppio senso viario.

La ripida pendice della collina di Belvedere tagliata orizzontalmente dall’autostrada, fa da sfondo verde ed un po’ selvaggio al paesaggio.

                 

 

   A lato nord della chiesa, in una iniziale  vasca -collettrice (studiata dal geom. Lastrico del Comune) posta alla confluenza del rio Belvedere con il rio  detto Pellegrini-, inizia un  torrentello anonimo, che corre lo stesso itinerario naturale interrato sotto la strada  di via Campasso; attraversa via Fillak e percorrendo via  Chiusone (vedi), sfocia nel Polcevera. Attualmente in parte si unisce alla tubatura delle acque bianche della zona, così inviate al torrente tramite il collettore di via Capello e via Porro.  Spesso i due rivi,  nelle giornate piovose, entrano in piena;  e prima -quando esisteva solo una iniziale camera sotterranea, troppo spesso si intasava di detriti determinando lo straripamento ed arrivando ad allagare l’intera zona, favorita dall’’effetto imbuto’ della obsoleta tubatura finale di via Chiusone maggiormente ristretta; in questo vano, dopo l’8 settembre vi si rifugiarono 13 ex militari che cercavano sfuggire ai tedeschi e fascisti.

   È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

   Nello stesso spiazzo a lato della chiesa, vi sono quattro cancelli: uno, il più a ponente, chiuso ed arrugginito, aggiustato nell’anno 2001, si apriva nel vico del Diavolo (vedi) che portava ad una villa signorile, detta “o cason”, distrutta per la costruzione del ponte autostradale, e che all’interno era decorata con dipinti sui soffitti.    A fianco, il secondo cancello apre ad un viottolo di recente fattura, che salendo lungo il fianco del colle - forma dei giardinetti (e pertanto vengono chiusi da un vigile urbano alla sera); arriva sino a Belvedere 2, alle case di via Baden Powell.

Terzo, è quello della villa Torre. Il quarto,  a mare della casa , è il civico 1A

 

in basso, i primi tre cancelli     il percorso che sale verso via Baden P.        civ. 1A             

 

CIVICI   neri= da 1 a 19  (compresi 1ab, 3a, 9a, 11a);       e da 2 a 8 (escluso 4)

               rossi= da 1r a 17r    e da 6r a 12r (compreso 6abe, ed 8b)

 

Nel Pagano/40 la strada andava ‘da via S.Spaventa a v. Campasso ai monti” sono citati solo i civv. rossi: 3n Macelleria; 5n latter.fruttiv; 7n Asilo infantile del Campasso; 11 calzol.; 13n coop C Rota vend. n.13; 13 Dopolavoro «Pietro Avellini».

  civ. 1

==== civ. 1:  Il terzo cancello, dà adito alla antichissima “villa dei Torre”, col termine villa inteso come casa di campagna; ancora nel 2003 abitata dalla fantastica Eleonora Torre (da giovane fu partigiana, chiamata ‘Ivonne’ delle SAP cittadine, ed ora semplicemente ma con fermezza ‘la Nora del Campasso’ perché decisa ed agguerrita nella difesa del rione e degli interessi dei più deboli. Il padre, fu ucciso dai fascisti in maniera subdola e col giustizialismo tipico degli impuniti di allora. Personaggio caratteristico della zona appunto per il carattere ‘dolcemente impetuoso’ che la portava a contatto con i dirigenti sociali –specie politici- presso i quali difendeva gli interessi degli abitanti in genere e delle persone che si erano rivolte a lei in particolare).

 

villa Torre dalla piazzetta d’ingresso                                      la fossa di raccolta dei due torrenti

La casa è intesa come ‘villa alla genovese’, ovvero casa di coloni-pastori-contadini; viene descritta vecchia di oltre 3-400 anni, e forse anche di più.  Alle spalle ha due o tre fasce coltivate ad orto; poi il pendio sale piuttosto rapidamente verso Belvedere concedendo piccole fasce in alto (una con pollaio).

Il terreno è tagliato da un torrentello: esso passa di fianco ed a mare della casa –laddove è profondo circa un metro e più, scavalcato da un ponticello ‘artigianale’,  il cui alveo in certi casi di piogge pesanti è insufficiente e lo faceva straripare allagando anche la piazzetta davanti alla chiesa ed oltre-.

 

il torrentello, che ancora ‘tiene’                                        2ª / Zona Mil / M . 500       

Anche sul muro di questa casa, come altre disseminate nella città (una vicina, è anche in via del Campasso) è una targhetta della “Zona Militare m. 500” relativa alla distanza dal forte e quindi – forse - limite demaniale.

===civ 1A appare di recente costruzione   

===1r, assieme al 3r, posti nell’angolo da cui inizia la strada, porta sullo stipite l’incisione “macelleria” e “spaccio municipale” relativi all’uso di case popolari con relativi servizi. Forse fu qui che lavorò nel periodo attorno alla guerra del ‘45 il macellaio Borghi del Campasso (un grosso e pesante omone,  attivo atleticamente nelle gare di ciclismo ma con la caratteristica di cercare di arrivare ultimo, e vincere così più numerosi premi di consolazione; come poi, più famoso perché in gare di più alto livello, il famoso Malabrocca).

                                         

civ. 1r-3r-5r-

 ===civ  2:  l’ex macello civico. 

         

anno 1920 circa                                                                                                   Borghi

Su questo terreno, nel primo 1800 si ergeva uno stabilimento che produceva  glucosio (vedi via del Glucosio- dava nome omonimo alla strada che da li, arrivava al via Umberto I (attuale via W.Fillak); strada che fu annullata, sepolta sotto il terrapieno della ferrovia; un passaggio a voltino viene segnalato essere esistito sino alla fine del 1900, ma in via Campasso, 200metri più a nord della strada ).   

   Nel 1901-2, in occasione di un riscontro di alcuni casi di vaiolo in cittadini immigrati dal napoletano, e nel dubbio di una epidemia, si pensò aprirvi un lazzaretto affinché fosse un po’ meglio isolato ma anche attrezzato, rispetto un altro provvisorio aperto a Promontorio e dimostratosi inefficiente.

    Fu nel 1907 che la civica amministrazione deliberò aprire  un edificio adibito a  macello civico unico per la città di San Pier d’Arena. Prima di allora non è chiaro come avvenissero le macellazioni- alimentando le varie interpretazioni relative alla ‘crosa dei buoi’: se alla marina c’era già un qualcosa di attrezzato, o avvenissero autonomamente a livello di singolo macellaio, come si può pensare in tutto l’800 quando gli abitanti del borgo erano appena qualche migliaio; il problema nacque evidentemente con la moltiplicazione esponenziale dei residenti-.

                                            

 anno 1980                                                     anno 2000

 

       Una assai anziana signora, nel 1998 ricordava nel posto un laghetto e vicino una casa tipo colonico con orti.

All’inizio l’edificio fu chiamato in gergo popolare “ammazzatoio” e come tale compare nel Pagano/1921 telefono 41008 (nel Pagano/20 non c’è; nel P/1925 c’è la fabbr. ghiaccio chiamata S.A.I.F. Soc.An.Industrie Frigorigene); in forma ufficiale fu titolato  ‘Macello civico’ (e così fu scritto ai lati di un grosso stemma cittadino sampierdarenese, con grosse lettere sopra il portone centrale dell’edificio a due piani, e con architettura di stile tipico classicheggiante di primo 900).   La costruzione, aveva annessa una ciminiera, perché autorizzata a bruciare le carogne di bestie non sane, specie di muli e cavalli usati allora come normale mezzo di traino cittadino.

   Dal 1 genn.1923 il mattatoio fu in gestione alla soc.an. Industrie Frigorifere,  società privata  con una convenzione stipulata dal comune locale (era previsto nel contratto una gestione per 25 anni); nel 1933 il comune di Genova disdisse il contratto perché ritenne  lesivo ai propri interessi che un privato gestisse uno stabilimento di proprietà civica, in concorrenza con quelli propri e gestiti direttamente, ed in più percependo delle somme per questa attività.

   

cinque foto dell’anno 2007

 

                     

 

   Negli stessi anni, tutta questa attività venne spostata e concentrata in unico stabilimento in val Bisagno, cosicché l’edificio sampierdarenese fu trasformato in deposito per i servizi funebri comunali  (carri e cavalli).

   Dopo la guerra. lo stemma fu poi distrutto (forse era accompagnato da simboli fascisti), e fu mutato con un altro più piccolo di Genova assieme alla scritta ‘mercato uova e pollame’. Infatti l’edificio, rammodernato con una spesa di oltre 32milioni, fu destinato al ‘nuovo mercato all’ingrosso delle uova e pollame’: fu inaugurato il 20 febbraio 1955 dal sindaco Pertusio e giunta con assessori; comprendeva 23 posti auto per i commercianti, una sala per contrattazioni uso borsa merci, locali per il veterinario, per la direzione, per lo scannatoio del pollame, per la cottura del mangime, un ufficio dazio, la banca BNL e vari box di 65mq per i venditori . Era previsto anche un raccordo con la linea ferroviaria vicina, costruendo una rampa di accesso verso il parco, programmato quale allora il maggiore e più attrezzato mercato specifico in Italia.  Come ‘ex Mercato ovoavicolo del Campasso’, l’edificio è tutelato e vincolato dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

L’attività e licenza relativa al pollame, era stata dapprima gestita dall’Annona comunale, poi passato in gestione a privati.    Nel 1982  una petizione del ‘Comitato ambiente del Campasso’, preoccupato per i rumori dovuti al carico e scarico merci nelle ore notturne,  e per gli odori cattivi, determinò un ordine del giorno del Consiglio comunale che sfrattava le strutture invitandole a sgomberare i locali al più presto, e prospettando una destinazione delle strutture a uso sociale (parcheggio o casa protetta per anziani; o cedere a privati. Venne escluso la destinazione a posteggio dei nomadi). Da allora comunque, appare chiuso ed inutilizzato. 

foto 2011

interno, visto dalla saracinesca d’entrata. Foto 2011

 

===civ. 3a: chiesa  cattolica parrocchiale , dedicata al “sacro Cuore di Gesù al Campasso”: nel marzo 1930-XV, un regio decreto autorizza la Chiesa parrocchiale di Certosa di acquistare il terreno, per quello scopo. Il 4 dic.1939 il card. Boetto Pietro , arcivescovo di Genova, emise un decreto di costruzione di una Vicaria autonoma nella località del Campasso, resasi necessaria per la cura spirituale di un centro che -già allora- superava i tremila abitanti, abbastanza lontani da una propria chiesa parrocchiale. Quindi, la erigenda chiesa, allora aveva già il terreno necessario (una parte del demanio; un’altra più piccola parte comprata dalla famiglia Marchese che lo teneva a prato; ed una terza parte già di proprietà della curia ricevuta in lascito. La Curia ed i Marchese, si scambiarono reciprocamente in accomodato un tratto di terreno, concedendo l’uno dove ora è il campanile e ricevendo dove ora è il cancello per proprietà privata).

 

 

   Nell’attesa, fu aperta una Vicaria autonoma e provvisoria (decreto arciv. Del 4 dic. 1939 con vigore dopo 17 dic.) ma decorosa cappella da iniziare il culto dove è il civ. 7 al piano terra, e provvista degli arredi necessari, compreso un conveniente appartamento per l’abitazione del sacerdote.

   Il tutto rimase però inattivo, sino al 31 mag.1940 (giorno festivo del Sacro Cuore di Gesù), quando l’Arcivescovo riprese il decreto e lo firmò l’8 giu.1940 (due giorni dopo, alle ore 18, Mussolini dichiarò guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna) dopo aver constatato che presso la Curia esisteva un deposito di lire capace di provvedere alla dote del nuovo beneficio parrocchiale .

   Si aggiunse che il decreto sarebbe entrato in vigore il 16 giugno, sancendo così per quel giorno,  l’erezione della nuova parrocchia e prevostura, denominata Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù al Campasso, con un nucleo di assistibili di 1600 abianti. Fu tolto allo scopo  una parte di territorio alla parrocchia di san Gaetano ed una parte alla parrocchia della Certosa di Rivarolo. Fu dato l’incarico a don Bartolomeo Tubino (poi trasferito a Certosa), seguito da don Natale Traversa (bolzanetese di nascita -8.8.1914-, divenne sacerdotge nel 1938 e fu inviato come cappellano militare a seguito del corpo di spedizione di truppe alpine in Russia, ove nel 1941 meritò un medaglia d’argento ed una Croce di Guerra, al VM. ed il grado di tenente. Al rientro in patria, scrisse un libro di questa drammatica esperienza, titolato ‘Croce sul petto’; e divenne prima parroco nella natia Bolzaneto (dove –aiutando i partigiani- fu individuato dalle forze nazifasciste e costretto alla latitanza-) e poi prevosto al S.Cuore del Campasso quando la chiesa era ancora da costruire; rimase sino al 1955 quando passò a Voltri. Morì nel 1999).

Da allora, il parroco  dovette ricorrere a varie sedi provvisorie nei dintorni, compreso l’uso dei locali ove ora è l’asilo in via Pellegrini  7pt (e qui la segnala il Pagano /1961);  e dove poi si aprì un negozio di piastrelle  al 17r (la ditta Edilcentro di Carcare).

   La prima pietra fu posta nel 1950. La chiesa fu eretta in un anno su disegni dell’ing. Senise, dall’impresa Sfondrini. Fu consacrata il 17 marzo 1951 alla presenza di mons. Siri , allora arcivescovo di Genova, lo stesso che pochi mesi dopo (17 giugno) benedisse il nuovo altare maggiore.

   E’ ad una sola navata, delle dimensioni di m.12x8 (Lamponi dice 12x18+4 di abside); con un solo altare principale. Tipico il campanile, eretto ad L e con le campane poste in finestrelle.

   Possiede un marmoreo bassorilievo posto sopra il portale; una tela del sampierdarenese Traverso dedicata al sacro Cuore di Gesù, ed una statua lignea della Madonna della Guardia,  scolpita ad Ortisei.  Pregevole anche il battistero.  La parrocchia è la più piccola (1380 anime) delle nove del Vicariato sampierdarenese; il prevosto attuale, dal 1979, è don Antonio Pietro Picollo (incaricato dalla Curia arcivescovile dell’ Ufficio per la disciplina dei Sacramenti -matrimoni-. Nel 2007 nominato monsignore).

===5r è il negozio che pospetta a nord dentro la lunga aia dei 5 civici sudescritti. Sullo stipite ha inciso “consorzio agrario”. Naturalmente oggi non è più adibito a questa funzione anzi, come i civici rossi precedenti appare chiuso da molti anni.

 

=== civv. 3-5-7-9-11.  L’ing. Adriano Cuneo studiò i progetti di utilizzo delle aree, dando inizio nel 1921 alla costruzione del grande edificio,  posto a monte dei macelli; l’impresa edile fu il  Consorzio Ligure delle Cooperative (che poi nel 1930 si fuse per formare lo IACP - oggi si chiama ARTE: il presidente ing.Sirtori dovette in quegli anni affrontare la grave crisi degli alloggi, legata all’accrescimento abnorme della popolazione, in seguito all’immigrazione straordinaria dovuta allo sviluppo industriale: alla sua fondazione, il Comune cedette all’Ente una casa già costruita in via Pellegrini ed un’altra in via Spaventa, nonché 500mila lire ed alcuni lotti di terreno per 53mila mq , già edificabili da molto tempo ma non messi in atto per difficoltà economiche). Il grosso complesso in cemento armato, copre un’area di 1150 mq., con 6 scale, a sette piani, 107 alloggi (per 414 vani).

 civ. 7

===civ.6, progettato nel ‘38 dall’ing. Braccialini, realizzato nel ‘40, eretto in muratura dall’impresa SAF.Liberti, copre un’area di 647 mq, ha due scale, un cortile, 6 piani, 47 appartamenti. (132 vani). Fu inizialmente utilizzato per accasare degli emigrati francesi, dei quali ancor nel 2001 rimangono alcuni degli eredi.

 

===civ. 7 Durante la guerra, nelle cantine ospitarono un rifugio rinforzato. Nel 2007 (ma da oltre un decennio), al piano terra (int.1 e 2) si trova l’ asilo materno comunale, chiamato “scuola dell’infanzia G.Govi” del Campasso. Ebbe inizio dal 1922 un servizio per l’infanzia -dapprima nei fondi del civ. 3 (sotto il negozio con la scritta ‘macellaio’), poi al 13-. Il calo demografico già nel 1998 minacciò la chiusura (come avvenuto per la scuola elementare). Nel giardino, un ciliegio -forse selvatico- fiorisce a primavera con intenso colore rosato meraviglioso.

 

 

===civ. 8 fu edificato nuovo nel 1959

===civ.9 e 11 furono riparati nel 1945.

===civ. 7r: anteguerra, vi aveva sede uno dei vari  spacci della cooperativa di consumo C.Rota (nel 1933 erano in  via A.Doria 37r e 79r, corso D.Alighieri, 42r, v.GB.Monti 14r, via DeMarini 1, e via UmbertoI al 147r).

Tra questo civico ed il 9r c’è la colonnina funzionante di una fontanella, ancora antica con la pigna in vetta. Raccoglie acqua potabile dalle falde soprastanti che già anticamente (quando non esistevano i palazzi) era sorgiva.

 

===civ. 8r:   il circolo ricreativo “Pietro Avellini”. 

Nato col nome di “ club amici del Campasso”  nel 1919, in una sede vicina all’attuale: sempre in via Pellegrini ma al civ. 15, che rimase sinistrato durante un bombardamento aeronavale all’inizio del conflitto 40-45 e quindi qui trasferito subito dopo.

 

In data 21 genn.1925 fu sciolto dall’autorità di pubblica sicurezza (fiduciario di zona era un certo Lucchesi), applicando un  decreto prefettizio che imponeva la liquidazione di tutti i debiti e crediti, e di cessare tutte le attività consegnando tutte le iniziative e beni a qualsiasi altra istituzione locale purché sempre e solo con scopi di ricreazione.    Risorto nel 1937 nei locali attuali (che sono dello IACP-Arte),  ai soci rifondatori fu imposto di cambiare colore della bandiera sociale (che era rossa) ed il nome da dare : “circolo ricreativo Pietro Avellini” (un non bene conosciuto caporale alpino tanto che in alcuni testi è chiamato Avellino, nativo di Pegli; morto valorosamente  combattendo tanto da guadagnarsi la Croce di guerra alla memoria negli anni 1935-7 nell’ A.O.I. (Africa Orientale Italiana): evidentemente in Etiopia (la conquista di queste terre in quegli anni, associate alle colonie dell’Eritrea, Somalia ed Oltregiuba per circa 6 anni fino al 1941 costituirono l’Impero coloniale italiano, con capitale ad Addis Abeba). Stranamente e paradossalmente risultò poi che fosse di ideologie politiche  assolutamente non  affini al regime fascista).

Il circolo, che prima era aderente all’ ENAL, successivamente al 4 dic.1971 aderì all’ ARCI; all’art.1 del proprio statuto, riconosce voler essere “strumento di lotta per la crescita democratica del Paese e per la affermazione culturale e politica e sociale del lavoratore e del cittadino attraverso una effettiva pluralità di partecipazione alle decisioni e alla conduzione della società civile.  ... ecc”.

In seguito, in seno al circolo, si è formato anche un attivo “club Sampdoria”.  Subito dopo il cancello d’ingresso, una lapide ricorda i soci caduti in guerra.

 

=== civ. 10r   posto sotto la scuola fu costruito dalla famiglia Laffi, ad uso lavorazione di materiale elettrico, con otto operai. Negli anni 1954 fu rilevato dai fratelli Garobbio, Cosimo e Giuseppe, ex fabbri in carpenteria che lavoravano (per l’Italsider, per la Fulgor Cavi) materiale come macchinari e presse per la lavorazione dell’acciaio,  arrivando ad avere oltre 30 dipendenti. Dopo essi, dal 1957 vi ebbe sede l’officina di Francesco Gallo & Figli, piemontese genovesizzato dal 1935, specializzata nella costruzione ed installazione di arredamenti di bordo, e per l’edilizia pubblica e privata . (dalle porte o vetrine corazzate, a divisori, cabine vetrate o metalliche e stands fieristici), producendo materiale che andava anche all’estero (Germania, Arabia); i due figli negli anni ’80 aprirono una officina in altra sede. Attualmente è adibito a deposito cartaceo della banca Popolare di Novara e della banca d’Italia .

   Attualmente vi ha  un deposito-archivio cartaceo di una,  o forse più, grandi banche.

 

===civ.13-15r  nel 1933 c’era un club “Amici Campasso”

===civ. 15: nel febb.1917  esisteva solo questa casa popolare, di proprietà comunale; in questa data, la casa ed il terreno attorno fu ceduto all’ EACP ( ente autonomo case popolari) già ben  diviso in lotti edificabili. Lamponi vi segnala la sede di un ‘circolo la Ricreazione’ negli anni 1930 non segnalato dal Pagano/33.

Distrutto da una bomba durante la guerra, fu edificato nuovo nel 1954.

Proveniente da salita Angeli, per lunghi anni vi abitò il pittore-scultore, nonché poeta e scrittore Galotti Francesco, espressivamente forte e caratteristico, poco conosciuto nella sua stessa zona perché persona schiva, mite ed introversa (nativo di Fermo, AP, il 5 apr.1921, venne a Genova nel 1936 per diventare ansaldino e nel tempo libero allievo alla scuola di disegno e modellato in legno. Durante il periodo bellico, fu soldato del regio esercito e poi partigiano sui monti di Montemarzo (AT) con nome di battaglia ‘iena’, e  (forse) prigioniero. Dalla guerra tornò gravemente malato ed invalidato da non poter riprendere l’attività operaia: seppur disoccupato iniziò a produrre significativamente, e tentò la via del professionismo artistico esponendo in molte rassegne e mostre ottenendo riconoscimenti e premi. Insegnò bozzetto grafico ed ornato nell’Istituto don Bosco ed al Vivaldi di Genova. Nel 1952 aprì il ’cenacolo artistico dell’Acquasola’ quale sala riunioni, mostre e conferenze per artisti, e dal quale emersero tante firme autorevoli nel campo dell’arte –come Giannetto Fieschi-. Malgrado lavorasse nella cupa miseria non ottenne alcun finanziamento dal potere civico, proprio per quella umiltà dignitosa, generosa e non invadente che lo caratterizzava. Non amava il soldo se non come elemento di sopravvivenza ed era sempre pronto e primo ad aiutare con presentazioni, mostre gratuite gli artisti nullatenenti). Morì il 9 dic.1984).

 

===civ. 17, fu progettato uguale al 6 e realizzato in contemporanea, anche se appare abbia 45 appartamenti (125 vani). Fu anch’esso utilizzato per ospitarvi degli sfollati, già residenti nella zona della Centrale del latte; ma anch’esso ebbe l’ala di nord-ovest distrutta nei bombardamenti.

 

 ===civ. 19, raggiungibile solo salendo un’erta scaletta, fu assegnato ad una nuova costruzione nel 1965, adibita a scuola elementare, succursale dapprima della Cantore e poi della industriale Ludovico Ariosto di Certosa. Dismessa, fu occupata nella primavera del 1994 dal Centro Civico Zapata, la cui liberazione avvenne solo con l’uso della forza pubblica. È stata giudicata non agibile con continuità causa la presenza di amianto nelle strutture; è quindi stata offerta in gestione ad un circolo ARCI Musicale di Pegli che la ha usata saltuariamente. Nel 2008 si parla di vendere o abbattere, essendo inagibile ed irrecuperabile (costoso e complicato) da parte del Comune, proprietario-.

 

 

STORIA:  la strada già esisteva prima dell’anno  1900 .

   Alla data del 1910 già la titolazione era stata ufficializzata: lil nome compare nell’elenco delle strade pubblicato in quell’anno dal Comune, con civici sino al 4 e 7 (ma in pochi anni a seguire divennero civv. sino a 2 e 19) nel percorso ‘da via G. Bruno (via Campasso) alle nuove case popolari’ . In altro documento si precisa: “strada che da via G.Bruno corre tra il mattatoio e le case popolari”.

   Notevole fu il contributo dei campassini alla resistenza negli ultimi anni del conflitto mondiale, ed il tributo di sangue sia sotto i bombardamenti che nelle azioni belliche o ‘trasferiti’ in Germania.

 

DEDICATA  all’illustre politico avvocato, nato il 16 mar.1843 da Didaco ed Anna Di Negro, a Costantinopoli (oggi Istàmbul; nacque così lontano perché il padre -avvocato pure lui, genovese del sestriere di Prè,  era là in fuga in quanto –escluso dall’amnistia- era stato condannato a morte a Genova per aver partecipato attivamente ai moti dell’aprile 1849, assieme a G. Avezzana, C. Reta, G. Morchio; tutti poi graziati da altra amnistia).

Tornato in Italia dopo la morte del padre, completò gli studi a Pisa, esercitò la prima avvocatura a Costantinopoli e, dopo il 1870 tornò definitivamente a Genova, ove ben presto si fece amare, ammirare, ricercare.


     Di una magrezza spettrale, con occhietti penetranti come punte d’acciaio, geniale e generoso, di carattere bizzarro e singolare, con uno stile originale sia nel parlare, sia nel comportamento, sia nel vestiario (sceglieva abiti in forma perennemente austera ed altrettanto sempre con la tuba in testa -una delle ultime in città, e la più celebre assieme a quella di Nicolò Garaventa, narrano che non se la levava neppure a  letto-; e che tenesse due sigari accesi contemporaneamente per poterli afferrare di qua o di là a seconda della mano occupata  nel momento).


   Come avvocato penalista, quando discuteva le cause,  creava e regalava emozioni a non finire perché era un ottimo oratore, pieno di impeto e di spirito critico arguto; le sue arringhe facevano affollare le aule per ascoltare i suoi detti, ricchi di sarcasmo, battute salaci e bei motti  (oggi si chiama humour: la raccolta di essi, chiamata “Pellegriniana”, ne ricorda alcuni:  notando l’età dei deputati al senato, disse che “il Senato è la camera di moribondi”; “a Milano non c’è nebbia ma solo fumo di risotti”; oggi forse sciocche, ma a quei tempi come sempre ancor oggi,  certe battute salaci creavano una curiosa sete di  anticonformismo e di  disprezzo delle rigide regole dei bigotti e benpensanti) .

    Come politico, era favorevole ai repubblicani, ma aperto alla collaborazione con i socialisti, si schierò sempre a favore del popolo e degli scioperanti nei periodi iniziali di rivendicazioni umanitarie dapprima, sindacali dopo con i diritti dei lavoratori; difese Stefano Canzio nel processo il 10 mar.1878 ritorcendo sulla polizia il contegno scorretto verso il corteo che si avviava a commemorare Mazzini a Staglieno; per lunghi anni non ci fu adunata popolare -anche a San Pier d’Arena- a cui non fosse invitato per essere ascoltato; nell’anno  1900, dopo il regicidio a Monza, vennero stretti i freni libertari e sciolta la camera del lavoro: assieme a Pietro Chiesa ed al sindaco Bettinotti fu alla testa degli scioperanti per recarsi dal prefetto ed ottenere con sagacia e fermezza un successo all’imponente movimento operaio.  Candidato nel 1882 nel 1° collegio di Genova, nella lista dei Repubblicani-radicali contro il candidato governativo (quando faceva parte del Comitato democratico radicale (assieme a F.Campanella, V.Armirotti e F.Gattorno) ed al governo era Depretis),  ebbe 5000 scelte ma non vinse.  Fu invece vincitore della campagna elettorale a deputato per la Camera nel magg.1886 (16ª legislatura) la vittoria politica dei repubblicani fu schiacciante, risultando primi in due collegi di Genova - di cui uno al Pellegrini (abitante in via s.Lorenzo), uno a Lazzaro Gagliardo –ed in quello di San Pier d’Arena con Valentino Armirotti-.

 

Il 19 dicembre 1900 il Prefetto riscioglieva le organizzazioni camerali di Genova e di Sestri Ponente, le leghe dei lavoratori del Porto e quelle metallurgiche-navali. La risposta operaia non si fece attendere. Il 20 mattina entravano in sciopero 7 mila portuali; e nella stessa giornata la sospensione del lavoro si allargava a macchia d’olio ai cantieri, alle fabbriche, ai servizi, ai trasporti urbani; si estendeva agli stabilimenti metalmeccanici di Sampierdarena, Cornigliano, Sestri e Prà; e coinvolgeva oltre 25 mila lavoratori, provocando l’arresto di tutte le attività economiche. Dinanzi alla paralisi completa della città e della zona, le autorità dovevano ammettere la loro impotenza. Il 22, il governo si trovava costretto a intervenire per sconfessare l’operato del prefetto: e il giorno seguente, le organizzazioni disciolte si ricostituivano in un’atmosfera di trionfo. A Genova, intanto, gli operai procedevano alla rielezione dei membri della disciolta commissione esecutiva della Camera del Lavoro. Il seggio, stabilito nell’ex-oratorio di San Filippo, era presieduto da Pietro Chiesa; dieci tavole con altrettante urne erano state disposte nella sala. Le operazioni di voto, cominciato per alcune urne già alle 17, continuò fino all’una dopo mezzanotte, alla luce di poche candele, non essendovi nell’oratorio né luce elettrica, né gas. La scena, all’indomani, fu descritta dal Corriere Mercantile con queste significative parole: chi entrava in quella semioscurità, rischiarata da poche fiammelle giallognole e vedeva quel via vai di operai seri e composti che si recavano alle urne riceveva l’impressione tale che difficilmente potrà dimenticare. Pareva un episodio grandioso, per la sua imponenza, della Rivoluzione francese. Al banco stettero quasi sempre l’On. Chiesa e l’Avv. Pellegrini, quest’ultimo dominante la folla con il suo cilindro, in abito rigorosamente nero e guanti, che al mattino forse erano stati bianchi, ma che alla sera non avevano più un colore definibile. I votanti furono 9.200 circa e pochissime furono le schede bianche o nulle. Tutti i candidati presentati dai dirigenti delle leghe furono eletti con votazione plebiscitaria e con scarti di voti insignificanti, risultato questo, che dimostrò, più che la disciplina e la compattezza dei lavoratori, la loro consapevolezza del valore di quelle elezioni:
   Nel 1901 (21ª legislatura) nel secondo collegio di Genova, anche perché animatore del grande sciopero del porto dell’anno prima, vinse senza dover ricorrere al ballottaggio,  su Luigi Arnaldo Vassallo, grande direttore del giornale “Il secolo XIX”,  designato dai monarchici).

    Caduto nelle elezioni del 1904, tornò alla Camera nel 1905 (22ª legislatura)  eletto nel collegio di Pesaro.

   Abitava a Genova, in via san Lorenzo.

   Si spense a sant’Ilario in una modesta villa,  ove una lapide lo ricorda amico del popolo. Preparandosi a commemorare il centenario della nascita di Mazzini, il 20 aprile 1905 fu trovato morto a letto: stava annotando una frase su diritto e privilegio, da un libro di  Rousseau: “l’uno viene dalla natura, l’altro dalla violenza o dalla frode; l’uno è istrumento di vita per tutti, l’altro è per pochi istrumento di sopraffazione e di prepotenza: il diritto è l’eguaglianza; il privilegio è un  uomo in piedi fra cento inginocchiati”.

   La diagnosi postuma dei medici fu di “malattia di cuore e conseguente paralisi cardiaca”.

 

BIBLIOGRAFIA

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-AA.VV.-1933-1983 Liceo Classico «G.Mazzini»-DonBosco.1983

-AA.VV.-1886.1996 oltre un secolo di Liguria-Il SecoloXIX-pag.95

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-Genova,  rivista  comunale: 1/33.31  +  7/42.37  +  3/55.47.62

-Google-SamuniE.-la FIOM a Genova, nascita e sviluppo di un sindacato...

-IC –Il Cittadino-settimanale,  del 07.10.97

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag.141

-Macaggi G.-Antonio Pellegrini-Casa Ed.Italiana-

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-Tuvo&Campagnol.Storia di Sampierdatrena-D’Amore.1975-pag.272.

-non citato Enciclopedia Motta


PENSA                                    via Romolo Pensa

 

 

TARGHE:

San Pier d’Arena – via – Romolo Pensa – caduto per la Libertà – 1899-1943                   

  

angolo con via G.Buranello

   angolo piazza Treponti

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia

 da MVinzoni, 1757.

Ipotetico tracciato di via RPensa.

In giallo, villa Grimaldi la Fortezza.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2824

 da Pagano/1961

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   46840

UNITÀ URBANISTICA:  26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth, 2007.

CAP:   16149

PARROCCHIA:  s.Maria della Cella

STRUTTURA:  strada comunale carrabile, senso unico viario da piazza Tre Ponti a via G.Buranello, lunga m.29,8 e larga m.8. Ai lati, i marciapiedi sono larghi m. 1,30, però nel tratto sotto la ferrovia non ci sono.  È zona di mercato con bancarelle all’aperto.

È stato presentato un progetto di trasformazione totale della zona mercato; nel 2010 non è ancora in atto.

STORIA:   Nei primi anni del 1900, la strada era delimitata da uno stabilimento descritto ‘deposito ferri’, e nel sottopasso vi transitavano su un binario  dei treni provenienti da un raccordo a mare (ed attraversante un cortile - posto di fronte in via Buranello - di proprietà dei figli di Enrico Forni, legnami).

   Il piccolo tratto di strada fu intestato al Pensa dopo l’ultima guerra mondiale con delibera della Giunta Comunale del 29 settembre 1946;  precedentemente non aveva nome ed era un tratto facente parte prima di tutto di via Vittorio Emanuele, poi della piazza Treponti (denominata il 23.2.34) a cui ha sottratto i due civici prospicienti.

Negli anni 2000 esisteva un’altra targa, poi sostituita non so quando, nella quale non c’era il nome della delegazione mentre era estesa la data della morte: via – Romolo Pensa – caduto per la Libertà – 1899-30.9.1943.

 

CIVICI:

2007=  NERI  =   1   e   2

            ROSSI=  da 1r a 7r (compresi 1Ar ed 1Br)

                            da 2r a 8r (compresi 2Ar e 2Br)

 

DEDICATA al barista con esercizio in piazza N.Barabino, nato a San Pier d’Arena il 14 sett.1899, di carattere generoso e gioviale, da sempre di idee antifasciste e mazziniane. Dopo il 25 luglio 1943 alla caduta del fascismo ed all’occupazione nazista, fu tra i primi a concepire e mettere in atto il concetto della necessità di una ribellione armata.

    Troppo il divario organizzativo ovviamente; così solo accettò di nascondere delle armi nei fondi del suo bar “san Pietro”. Probabilmente una  delazione o il fatto di essere già segnalato perchè ingenuamente aperto nell’espressione delle sue idee e sentimenti,   determinò il 30 sett.1943 un organizzato accerchiamento notturno di tutto il quartiere con perquisizione sistematica di tutti i caseggiati, cercando armi abbandonate dai militari in sfacelo organizzativo dopo l’armistizio, e prelevando così anche tutti i sospetti (una ventina di persone). Quando giunsero al bar, il proprietario fu obbligato ad aprire per il controllo e, nelle cantine fu ritrovato il materiale bellico nascosto.

Qualcuno dice che seduta stante il Pensa fu fucilato: non credibile perché sarebbe stato più vantaggioso una dimostrazione più plateale e legale, intimidatoria e atta a  scoraggiare i più deboli; perché sarebbe stato più utile raccogliere informazioni; ed infine anche perché - ma non so - sino a che punto l’ufficiale tedesco avesse  possibilità di decisione di fucilare seduta stante: in quei tempi tutto era possibile. 

Un’altra versione vuole che il Pensa abbia tentato una reazione di opposizione alla perquisizione o di fuga o di esasperazione, scatenando il fuoco dei mitragliatori tedeschi della Wermacht.

Fatto fu che, colpito alla colonna vertebrale, dette ai presenti l’impressione di essere spezzato in due cadendo piegato all’indietro fulminato.

È così considerato la prima vittima partigiana di San Pier d’Arena.

Intanto in città si perfezionava l’attività della resistenza: sia continuando a ricuperare armi e nascondendole per un prossimo futuro; sia reclutando gli sbandati ex militari (favoriti da una legge che voleva per loro un nuovo reclutamento nelle file nazifasciste -pena la deportazione-), e favorendo il ricongiungimento sui monti con formazioni militarizzate; sia organizzando le fila del servizio , con la costituzione dei primi comitati (il CLN -cioè Comitato  di liberazione nazionale - nacque in via XX Settembre il 9 sett.43;  i GAP -ovvero Gruppi di azione patriottica- , nati a cavallo tra la fine del ‘43 e l’inizio del ‘44;  ed i SAP  -Squadre di azione patriottica-, comparse nel giu.44).

 

 

 BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Ferrovie

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica , scheda 3384

-AA.VV.-.Annuario guida Archidiocesi- ed/94-pag.428; ed/02-pag.465

-AA.VV.-Contributo di SPd’A alla Resistenza-PCGG.1977-pag.32-5

-AA.VV.-35° SPd’A

-Gazzettino Sampierdarenese   :  4/93.5  

-Gimelli G.Cronache militari della resistenza…-Carige.1985-vol.I-pag.51

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag. 72

-Pagano/1961-pag.446

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.1426

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.51    

-Stradario del Comune di Genova-ediz./1953-pag.135

 

  


PERASSO                   vico G.B.  Perasso                                           

 

  Era il nome dell’attuale via Nicolò Bruno, traversa  posta all’inizio della via Sampierdarena , fatta ad angolo retto che da verso monte si apre infine in  via A.Prasio.

  Nel febbr.1914 fu proposto all’approvazione del  Sindaco l’annullamento  della precedente titolazione di “vico Francesco Domenico Guerrazzi”, da sostituirsi  con “vico Pittamulo” oppure “vico Balilla”: evidentemente prevalse il secondo col nome completo, visto che anche il Novella lo segnala come “vico Giovanni Perasso Balilla, da via Cristoforo Colombo“, a via J.Ruffini.

   Ancora esisteva nel 1926 quando il comune di SPd’Arena fu unificato con quello genovese; allora era classificato di 5a categoria

   Ancora esisteva nel 1933, da via C.Colombo a via J.Ruffini.

  Con delibera del podestà del 19 agosto 1935, onde evitare omonimie con Genova centro, fu sostituito con il nome attuale (che, dal ‘35 fino al ‘46 sbucò in via Palazzo della Fortezza).

DEDICATA  (vedi anche a Balilla) al giovane quindicenne che  in Portoria il 5 dic.1746  dette il via - col suo gesto- alla ribellione popolare contro l’oppressore: divenne il simbolo di una fierezza e dell’amore all’autonomia che sempre ha contraddistinto la storia genovese.

      Lo storico Accinelli, vissuto in quell’epoca, descrisse il tentativo dei soldati di Maria Teresa d’Austria di farsi aiutare dai presenti a rimuovere un cannone presumibilmente diretto verso la Provenza -prelevato molto probabilmente alla batteria della Cava ed infossatosi nel terreno fangoso davanti all’antica chiesa di santa Caterina Adorno in Portoria (se era uno di quei cannoni posizionati alla Cava, era per difesa della città dal mare; su essi –come consuetudine per protezione divina- era stato inciso come dedica il nome di un santo; pare che quello che scatenò la rivolta fosse dedicato a santa Caterina: una strana doppia coincidenza, e ben chiaro messaggio  per chi era presente)-.

    Il ragazzo, o meglio ‘un figgieu de stradda, un battuso’,  afferrato un sasso, gridò la famosa frase ‘che l’inse’ accendendo l’insurrezione che evidentemente covava da tempo ed aspettava solo l’innesco (VEPetrucci scrive:  ’son segùo comme l’òu, che quande o l’è arrivou a casa, s’ò l’ha contòu da prïonâ, so mamma a gh’ha daeto de segùo un lerfon”).

   Si accetta e non si discute più che - quale scintilla  esplosiva - avvenne il gesto del sasso, per testimonianze vicine al fatto come tempo, (l’ambasciatore veneziano a Genova il 1747, ed un’opera storica del patrizio GFrancesco Doria del 1748; Pasolini scrive che la sassata provenne dalla rabbia per il sequestro di un cesto di mele che lui stava cercando di vendere e che  sfogò poi su quelli del cannone).

Ma si è ancor oggi perplessi su molteplici fatti concernenti, storicamente non ben definiti:

--- “Che l’inse!”   Si è perplessi della frase di rabbia che accompagnò il sasso: corrisponde a:  ‘ e che! incominciamo!’. Primo a farne accenno, fu il francese Bastide, nella sua ‘storia della Repubblica di Genova’ del 1795.

---  Per il nome del ragazzo, esiste l’assoluta  inesistenza di prova certa.

Già il problema sorse a metà del secolo del 1800 e nel 1865 sotto forma di polemica tanto che il Consiglio municipale più volte si trovò a doversi pronunciare in merito. Ma in seguito, approfondite ricerche fatte fare dal governo Mussolini, portarono ad una commissione di alte personalità della cultura locale (Ernesto Codignola (uno dei maggiori pedagogisti italiani - 1865-1965); Volpicella; Nurra; Morando; don Gioachino Ridella; cap. A.Burlando e don Rebora (rispettivamente podestà ed arciprete di Montoggio); nonché altri 26 studiosi; in tutto 33) che si impegnarono a fondo negli archivi e rifecero il punto dei ritrovamenti; ma  non riuscirono ad apportare nulla di nuovo:

=il ritrovamento di  un libretto anonimo (scritto in latino maccheronico ed intitolato ‘bellum genuense’, probabilmente scritto da un prete che partecipò all’insurrezione, quindi testimone dei fatti quantomeno in genere di quei giorni, e che anche rimase ferito vicino a porta san Tommaso), nel quale il sacerdote scrisse che il ragazzo era soprannominato “Mangiamerda”(sappiamo da altre fonti come a quell’epoca questi - a volte terribili - soprannomi erano in uso per tutti gli uomini della plebe, e facevano carico di una scelta fatta quando il bimbo era appena nato e quindi nell’impossibilità di scegliersi qualcosa di diverso). Ovvio che il Duce, quando apprese questa chiarificazione storica, impose il silenzio e la non diffusione facendo perdurare il ‘falso’ mito storico, in quanto aveva bisogno di una figura giovanile che esaltasse le virtù militari insite nell’animo e nei geni della “stirpe” italica.

=il nomignolo Balilla compare per la prima volta nel 1755 in una libera traduzione dialettale della Gerusalemme Liberata, scritta da Agostino Gastaldi: ’si parla di due personaggi del popolo che hanno mostrato coraggio nella guerra del 1746’; tale Alessandro Gioppo (una nota precisa: pescivendolo che in quei giorni  fece parte del Quartier Generale del Popolo) e tale Balilla (senza alcuna nota né spiegazione)’.

=solo nel 1845 Michele G. Canale scrisse sull’almanacco ligure ’Omnibus’, che il Balilla si chiamava Perasso. E l’anno dopo, un opuscolo, precisò il nome di Giovanni Battista. Orlando Grosso fece rilevare che Balilla era un usuale diminutivo di GB, e che era anche il grado minore dei confratelli delle casacce, tipo ‘baciccia’, ‘ballin’ e ‘balletta’,  ancor oggi in uso per indicare affettivamente un piccolo.

=nel 1845 Mameli usò per la prima volta il nome Balilla in un suo componimento; e lo ripropose nel 1847 nell’Inno d’Italia“…i bimbi d’Italia si chiaman Balilla…”.

 

=definito ed accettato che si chiamasse Perasso GianBattista, le ricerche trovarono due GB Perasso, quasi coetanei:

-- un giovane originario di Montoggio nato l’8 aprile 1729 (fu trovato all’Archivio Storico anche un altro simil-omonimo, Gio.Batta Perrazo, contadino, pure lui ‘della villa di Montoggio’ che nel 1753  fu processato e condannato a 2 anni di remo, catena al piede, per contrabbando di 3 libbre di sale effettuato l’anno prima. Il padre perorò la causa del figlio adducendo precedente buona condotta e che raramente aveva abbandonato il paese d’origine). Questa dato anagrafico venne confermato nel 1851 da don Giuseppe Olivieri che precisò aver chiarito che - sia il prete che il ragazzo  erano di Montoggio, frazione Pratolongo (non Porto-lungo come suggerisce DeLandolina); -che questi era figlio di Marc’Antonio e di Gerolama (o Geronima) ed all’epoca del gesto avrebbe avuto poco più di  17½anni (una nipote di questo, fu cameriera di C.Cabella e gli donò una attestazione manoscritta del nonno), -e che  il giovane era in Portoria per apprendere l’arte del tintore.

--L’altro, in seguito ad altra ricerca compiuta nel 1865 nei registri della parrocchia di s.Stefano, nato il 26 ottobre 1735 (il SecoloXIX scrive 1736), alle ore 9 da MariaAntonia Prodi (Parodi) e da un popolano, Antonio, in vico dell’Olivella, ma all’epoca dei fatti abitante in vico Capriata di Piccapietra; e quindi all’epoca del fatto, di 11 anni (ulteriore documento accerta che questi morì a quasi 46 anni).

--Il SecoloXIX ne propone un terzo, nobile o almeno di lignaggio,  emerso agli archivi di san Lorenzo, figlio di AntonioMaria (console dei Tintori della seta a Genova) e da Antonia Maria Parodi (omonima della popolana!).

--Al Museo del Risorgimento è conservata una prova di identità, risultata falsa, nelle ricerche effettuate dalla Soc.Lig.St.Patria nel 1927.  Porta scritto una descrizione dei fatti che sarebbe di pugno del giovane. Pieno di strafalcioni e dialettalità, porta scritto «Io peraso deto u balila o incunminciatoa tirare un sascu e mi rispusero andiamo avanti i mio sio mi dise a speta un pocu che vengo mia no portato una bandiera lo presa in mano mi sono miso a gridare andiamo avanti altra nun dico che il popolo lu sa a dio a tuti». Nicoletta Perasso (a servizio di Edoardo Cabella figlio del senatore Cesare) donò al padrone questa carta;questi la donò al Comune nel 160° dell’insurrezione; ma la carta su cui è scritto questo documento autoapologetico è stato appurato era stata prodotta nel 1832.

   DeLandolina nel 1922 scrisse –senza specificare da dove traeva tale notizia- che nacque ”a Porto-lungo (Genova)”. Pasolini invece scrive che il paese è Montobbio, vicino a Torriglia ed al lago Val Noci: ma ciò appare errato per ambedue.

  

 

Intanto Vittorio Emanuele Bravetta (scrittore di numerosi libri) musicava per l’ONB (opera nazionale balilla), si scrive in occasione del primo centenario della ribellione, una canzone molto orecchiabile e facile che divenne l’inno fascista:

 

 

Fischia il sasso, il nome squilla                                                                                                            
del ragazzo di Portoria                                                    Fiero l'occhio, svelto il passo,
e l'intrepido Balilla                                                           chiaro il grido del valore:
sta gigante nella storia                                                    ai nemici in fronte il sasso
Era bronzo quel mortaio...                                              agli amici, tutto il cor                                                              
che nel fango sprofondò,
ma il ragazzo fu d'acciaio
e la madre liberò
                                                         
  

     La doccia fredda proviene da due lati: uno, da subito il dopoguerra; dopo il periodo  del regime fascista, durante il quale il monello era stato ricuperato con aulica ed esagerata raffigurazione, al fine di proporre un ideale fortemente di parte, anche se storicamente dubbio: l’uso di questo soprannome durante il ventennio per inquadrare i più giovani in divisa in tutta Italia, ne ha dopo offuscato la limpidezza reale e prettamente genovese. 

Scrive Dolcino che sulla base del suo monumento, quando i tedeschi nell’ultimo conflitto mondiale occuparono Genova, mano ignota scrisse “chinn-a zù, che son tòrna chi”.  Ancor ai tempi attuali a distanza di quasi sessant’anni è prevalente l’interpretazione del simbolo vissuto in quel ventennio; e se ne ha ancora soggezione: è quindi ancora troppo recente.  Nel popolo ed a ‘palazzo’ viene vissuto con una non poca avversione; alle celebrazioni del 5 dicembre, il Comune depone una corona di alloro, ma il Sindaco di persona non è mai venuto. Anche se Genova, come popolo ribelle mantiene un record nazionale,  e lo ha sempre dimostrato anche nelle annuali lotte sindacali e recentemente  nelle dimostrazioni del G8, il mal uso di quei tempi ne frena anche il solo parlarne.

   D’altro lato, anche gli storici moderni, freddi e disincantati come Paolo Lingua scrivono  che l’insurrezione fu genericamente di popolo e non legata ad una particolare scintilla; il mito del Balilla fu inventato nel periodo risorgimentale quando politicamente era necessario fomentare l’opinione collettiva contro l’Austria.

     Cosicché è un nome bifronte, di quelli che sono legati a fatti storici dimostrati, ma fu deformato due volte, e solo a vantaggio di parte; cosicché meno se ne parla e meglio è (come l’”inno a Roma”), o quantomeno, non se ne inneggia.    Ma se ciò è accettabile per l’Italia in genere, favorire questo equivoco è  a svantaggio della nostra migliore tradizione di indipendenza, ardore impetuoso e ribelle ai soprusi, di qualsiasi colore.

      Dolcino scrisse giusto: non importa chi fu: è un simbolo. Non quello proposto da Mussolini, ma quello del carattere del genovese, insofferente del sopruso del più forte chiunque esso sia, ribelle alla perdita della libertà intesa come bene primario ed assoluto della vita dell’uomo

 La storia è impietosa, ma sicuramente si riprenderà la dimensione veritiera.  L’unico vero pericolo è che, dello spirito e della fierezza popolare degli antichi genovesi poco importa ai moderni abitanti,  ormai sufficientemente “imbastarditi” dall’immigrazione selvaggia (prima nostrana, poi foresta). Un emigrato, nel dic.2006 dal Brasile chiede al Secolo chi fu, perché “oggi purtroppo quasi nessuno si ricorda chi fu Giovanni Battista Perasso, abbreviato Balilla. Credo addirittura che qualcuno pensi che fu un personaggio dell’era fascista”. La risposta di Maggiani è stata «era un ragazzino (o forse no?) abbastanza sconsiderato da fare quello che nessuno tra i genovesi aveva ancora avuto il coraggio di fare o di dire: mandare al diavolo gli odiati e odiosi occupanti austrotedeschi. …Che il Balilla sia esistito davvero…significa in fondo ben poco…così è stato arruolato per fare il suo dovere di simbolo…Poi, …poi è scomparso, almeno per questi tempi così poco propensi alla rivolta, alla sconsideratezza, all’eroismo»

   Quindi - secondo me - a conclusione delle considerazioni su scritte, ne viene che alla lunga, soffocare le tradizioni, anche se bifronti, è un danno più grosso di quello che si vuole parare. 

 

BIBLIOGRAFIA

 

-A Compagna-Bollettino per i soci- : 6/96.tutto  +  2/97.5

-Agosto A.-La questione  del balilla...-Atti SLSP.1979.fasc.I-pag.301-

-Arichivio Storico Comunale in palazzo Ducale

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica scheda 3395

-DeLandolima GC -Sampierdarena- .1923-pag.29 (chiama: ‘via Balilla’)

-Dolcino M.-Storie di Genova-Frilli.2003-pag. 80

-Gazzettino Sampierdarenese  06/03.2

-Genova, rivista municipale :   1/34.10

-Il SecoloXIX quotidiano-  del 8.12.04 + 16.12.06

-Lingua P.-Breve storia dei genovesi-Laterza.2001-pag.194

-Morgavi G.-Rievocazioni genovesi-Bozzi.1961-pag.147

-Novella P-Strade di Genova-manoscritto bibl.Berio.1930ca-(pag. 17)

-Pagano/1933-pag.248

-Pasolini A.-Semmo da taera de Colombo-NEG.1990- pag.51

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova- Forni.1986-pag.43

-Sisinni F- Atti-SocLiStPatria.1980.II-pag.14

-Volpicella L.-relazione-Soc.Lig.StoriaPatria.1930-vol.LVII-pag296

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PERLASCA                                    via Giorgio   Perlasca

 

TARGHE:

via – Giorgio Perlasca – salvò ebrei deportati – 1910 – 15-8-1992

via – Giorgio Perlasca

    

                                                                                                

angolo ovest con Ponte di Cornigliano                angolo est con via R.Pieragostini

 

 

lato ovest con Ponte di Cornigliano

 Da Google Earth 2007.

In giallo via R.Pieragostini

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA – N°: 47030

UNITÁ URBANISTICA: 24 – CAMPASSO

il percorso, da antica cartolina

STRUTTURA:  Inizia subito prima del Ponte di Cornigliano, ed è estesa lungo in fianco sinistro del Polcevera, fino a  Rivarolo ed oltre.

È stata  così titolata agli inizi del 2005, senza particolari cerimonie, al punto che praticamente nessuno sa - ancora dopo un anno - di tale denominazione, sulla scia di emozioni televisive, cinematografiche e di mai troppo tardivi riconoscimenti (nel suo piccolo, anche il nostro parroco del Fossato ha allora corso gli stessi rischi ed ha ottenuto medesimo risonoscimento, senza – ovviamente - rinomanza nazionale).

Per un tratto di circa 500 metri, si affianca, a ponente, a via Argine del Polcevera, dalla quale è separato dal guard rail e da una rete metallica che si interrompe in corrispondenza di via Campi.

È quindi strada solo di percorrimento veicolare, mirata a snellire il traffico verso l’entroterra (che, fino ad allora, passava solo per via W.Fillak,  nell’interno tra le case).

               

L’imbocco iniziale dovrà essere allacciato a Lungomare Canepa in modo da sbloccare l’ingorgo asfittico di via Molteni e Pieragostini. L’operazione non era fattibile senza prima liberare l’area di Cornigliano (avvenuta a fine 2006).

Oltre il ‘confine’ di nostra pertinenza (in linea con il centro di via Campi), un tratto di strada è formato a conca, per un sottopassaggio: quando piove intensamente esso è soggetto ad allagarsi, necessitando di pompe idrovore per il prosciugamento che funzionano se c’è corrente.

 

CIVICI    nel nostro territorio, non ha civici

 

DEDICATA a

Giorgio Perlasca, che  nacque a Como il 31 gennaio 1910. Dopo qualche mese dalla sua nascita, per motivi di lavoro avendo funzione di segretario comunale, il padre Carlo trasferì la famiglia a Maserà (Padova).

   Negli anni liceali, animato da spirito nazionalista ed idealizzando questa idea nella versione dannunziana e nazionalista, arrivò a litigare con un suo professore che aveva condannato l’impresa di Fiume, facendosi espellere per un anno da tutte le scuole del Regno.
   Nel 1935 aderì al fascismo. Coerente, partì volontario prima per l’Africa Orientale (Abissinia. Guerra italo-etiopica del 35-36) e poi per la Spagna, dove combattè come artigliere al fianco delle truppe del generale Françisco Franco.

   Tornato in Italia nel 1939, entrò in crisi con il fascismo per due motivi: l’alleanza con la Germania (asse Roma-Berlino del 36; patto d’acciaio del 39, e contro la quale l’Italia aveva combattuto solo vent’anni prima); e le leggi razziali (entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani).


  

Smise così di essere praticante fascista, senza però mai diventare un antifascista.
   Impiegato in una azienda triestina  che trattava importazione di carne dai Balcani, scoppiata la seconda guerra mondiale, dal governo italiano fu inviato nei paesi dell’Est come incaricato d’affari
con lo status di diplomatico per comprare bestiame per l’Esercito italiano. A Belgrado nel 1941, vide le prime colonne di deportati (ebrei e zingari), rimanendo fortemente scosso.   L’armistizio (8 settembre 1943) lo colse a Budapest (Ungheria, allora alleata ai nazisti, ma


ancora comandata –dal 1920- dal dittatore Miklos Horthy von Nagybanya-1868-1957 già comandante della flotta austro ungarica nel 1918).

Provando maggiore responsabilità verso il giuramento di fedeltà al Re, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana: fu così internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici.  In contemporanea, a metà ottobre 1944, gli ungheresi – sino a quel momento ancora guidati dal su detto reggente, ammiraglio Horthy- firmarono un armistizio con l’Unione Sovietica, il governo venne rioccupato dai nazisti ed il dittatore arrestato e internato in Baviera; i tedeschi ripresero potere affidando il comando ad un loro collaborazionista fascista di nome F.Szalasi, capo dei nazisti ungheresi chiamati “Croci Frecciate”. Come da dettame centrale, egli iniziò le persecuzioni, violenze e deportazioni verso i cittadini di religione ebraica.

   In corrispondenza, si prospettò per il Perlasca il trasferimento in Germania; così, approfittando di un permesso per visita medica, fuggì  nascondendosi presso conoscenti e poi presso l’ambasciata spagnola, usando un documento che aveva ricevuto in Spagna al momento del congedo (questo, recitava: "Caro camerata, in qualunque parte del mondo ti troverai, potrai rivolgerti alle Ambasciate spagnole"). In quella sede, fu aiutato trasformandolo cittadino spagnolo, con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca collaboratore dell’ambasciatore Sanz Briz, il quale – come già facevano altre potenze neutrali: Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano - rilasciava salvacondotti per proteggere i cittadini ungheresi di fede ebrea, ricoverandoli momentaneamente in ‘case protette diplomaticamente’ (si rileva che queste operazioni non sempre erano disinteressate: alcuni  funzionari vendevano a caro prezzo questi salvacondotti e non sempre poi avevano la forza né la volontà di pretenderne il rispetto).

A fine novembre Sanz Briz dovette lasciare l’Ungheria, portandosi a Berna per comunicare più facilmente con Madrid (ma soprattutto per non riconoscere de jure il governo filo nazista di Szalasi, che chiedeva lo spostamento della sede diplomatica da Budapest a Sopron, vicino al confine con l’Austria).

Il giorno dopo, il Ministero degli Interni nazista - venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz - ordinò di sgomberare le case protette. Fu allora che Perlasca, ricoverato nella sede dell’ambasciata spagnola di Budapest rimasta momentaneamente senza il capo responsabile, si ribellò e prese la decisione. Trovandosi ‘alle corde’ dalla necessità e sfruttando il caos governativo del pre-disfatta, assunse ‘motu proprio’ la responsabilità di autonominarsi sostituto-capo della sede, presentando credenziali, carte intestate dell’Ambasciata e timbri autentici facendo esistere una precisa – ma falsa - nota di Sanz Briz che lo nominava suo sostituto per il periodo della sua assenza (favorito dal conoscere bene l’ambiente della diplomazia, frequantandola da anni); ed ingiungendo ai nazisti di chiarire tale situazione presso il  loro Ministero degli Esteri, giocando sulle estreme difficoltà dei normali contatti internazionali.

Con tali credenziali, e con l’aiuto-consenso di altri ambasciatori, degli impiegati e del legale dell’ambasciata (l’avvocato Farkas, di origine ebrea. Questi riuscì a sfuggiire ai nazisti, ma non alle truppe sovietiche, che lo uccisero quando subentrarono in Budapest nel gennaio 1945) ordinò ai nazisti di sospendere ogni loro iniziativa; fu creduto e nel clima confuso legato alla ormai prossima disfatta, ed in assenza di comunicazioni precise, il bluff funzionò. Usò questo potere, per fornire agli ebrei un certificato personale attestante che la persona era “cercata ed attesa in Spagna da parenti diretti; che il trasferimento verso la penisola iberica era stato interrotto da impossibilità di viaggiare; e che nell’attesa era sotto protezione dello stato spagnolo”

Le operazioni di sabotaggio (incendio del ghetto e trasferimento verso i campi di sterminio) contro gli ebrei (rinchiusi in cinque casermoni posti sulle sponde del Danubio in località di fronte all’isola Margherita) furono fermate. Non solo li salvò burocraticamente, ma intervenne anche pagando i funzionari affinché fossero riforniti di cibo; organizzando fra loro un abbozzo di resistenza militare;  girando la città su una Buik diplomatica in una città piena di macerie, cecchini e freddo invernale; andando alla stazione ferroviaria a ricuperare i ‘viaggiatori’ diretti ai campi; trattando col governo nazista e le autorità di occupazione per evitare incursioni da parte dei ‘nylas’.              

Così, giocando con il tempo che i nazisti chiarissero l’inghippo; con il caos di quei giorni e con lunghi tempi burocratici, tra il dicembre 1944 e gennaio 1945  salvò dalla fame e dal trasferimento più di 5000 ebrei ungheresi mettendoli in attesa di emigrare in Spagna.

   Fu fortunato, perché prima di essere scoperto avvenne l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa.  Perlasca fu arrestato dai russi, ma chiarite le sue generalità, fu fatto rientrare finalmente in patria –passando attraverso i Balcani-, e tornando ad essere cittadino italiano qualunque, e soprattutto non raccontando a nessuno la sua storia.
   Solo alla fine degli anni ’80, furono alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che iniziarono chiedersi chi fu quel diplomatico spagnolo che le aveva salvate. Le testimonianze si sovrapposero e divennero così numerose che Giorgio Perlasca non potè nascondersi ulteriormente nel suo silenzio.
Fu così cercato e ‘scovato’: tra essi vengono citati i coniugi Eva e Pal Lang, ambedue sopravvissuti a quei terribili giorni, che promossero in Italia un viaggio collettivo, con meta Padova e la pubblicazione del rischio gratuito del bluff. 

Israele lo proclamò Giusto tra le Nazioni e, invitandolo a Gerusalemme -ove piantò un albero sulla collina dei Giusti- gli riconobbe la cittadinanza onoraria.

A ruota seguirono gli altri Paesi: in Italia la vicenda venne fatta conoscere al grande pubblico da Enrico Deaglio con la trasmissione televisiva Mixer e pubblicando il libro "La banalità del bene". Dallo Stato gli fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Civile ed il titolo di Grande Ufficiale della Repubblica. In Ungheria, a Budapest una scuola alberghiera porta il suo nome ed il governo, dopo una apposita sessione del parlamento, gli concesse la Stella al Merito, massima onorificenza nazionale. La Spagna gli concesse l’onorificenza di Isabella la Cattolica. Gli Stati Uniti lo accolsero come un eroe.  Alla domanda di un giornalistia  sulle motivazioni e sul perché lo aveva fatto, rispondeva : "Lei cosa avrebbe fatto al mio posto, vedendo migliaia di persone sterminate senza un motivo, solo per odio razziale e religioso, ed avendo la possibilità di fare qualcosa per aiutarli?". E ad un altro che gli chiedeva "Lo ha fatto perché cattolico?", lui credente anche se non praticante, rispose: "No. Perché sono un uomo".

Morì il 15 agosto del 1992. È stato sepolto nella terra nel cimitero di Maserà a pochi chilometri da Padova; sulla lapide, a fianco delle date, un’unica frase in ebraico: “Giusto tra le Nazioni”.

 

Innumerevoli i riconoscimenti, di associazioni e di fondazioni private; in moltissime città europee vi sono vie e piazze che portano il suo nome. Dicembre 1944 – Gennaio 1945: i 45 giorni di Jorge Perlasca.

Da Internet si riassume: “nelle vesti di diplomatico regge pressoché da solo l’Ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile “impostura” che lo porta a proteggere, salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati in ‘case protette’ lungo il Danubio. Li tutela dalle incursioni delle Croci Frecciate, si reca con Wallenberg, l’incaricato personale del Re di Svezia, alla stazione per cercare di recuperare i protetti, tratta ogni giorno con il Governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilascia salvacondotti che recitano “parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non verranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà qui sotto la protezione del governo spagnolo. Li rilascia utilizzando una legge promossa nel 1924 da Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (di antica origine spagnola, cacciati alcune centinaia di anni addietro dalla Regina Isabella la Cattolica) sparsi nel mondo. La legge Rivera fu dunque la base legale dell’intera operazione organizzata da Perlasca, che gli permette di portare in salvo 5218 ebrei ungheresi”. Dopo l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia.
Da eroe solitario diventa un “uomo qualunque”: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà. Negli anni Ottanta: la scoperta di un uomo Giusto. Grazie ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca esce dal silenzio.
Le testimonianze dei salvati sono numerose, arrivano i giornali, le televisioni, i libri, e lo stesso Perlasca deve recarsi perfino nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma proprio perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché tali follie non abbiano mai più a ripetersi”.

BIBLIOGRAFIA

-Brizi.Cirnigliaro-Percorsi ‘resistenti’ in val Polcevera-Brigati.06-pag.89

-Il Secolo XIX di : 12.9.05

-Internet-Google


PESCATORI                             piazza Pescatori

PESCHERIA                             piazza Pescheria

 

Non è facile localizzarle - essendo descritte genericamente “a lato mare della via Cristoforo Colombo” (via San Pier d’Arena).

Non chiariscono la posizione,  i documenti ritrovati:

-   Il 27 dicembre 1900 il regio Commissario straordinario A. DeBenedetti, propose alla giunta comunale il nome di “piazza  Pescatori” per quella piazzetta da via C.Colombo, detta popolarmente “delle cucine economiche”; e di “piazza della Pescheria” allo slargo popolarmente conosciuto anche come “largo della Pescheria”.

-  Il 26 genn.1901, il cittadino Grosso Francesco protesta in Comune opponendosi alla targa di ‘piazza Pescheria’ ad un terreno posto vicino alla pescheria comunale, ma - a suo dire - di sua proprietà.

- Nel 1910 vengono citate ancora entrambi  le piazze, segno che esistevano e quindi di non assenso al ricorso fatto.   Piazza Pescatori aveva un numero civico; piazza Pescheria  aveva l’1 ed il 2; ambedue erano ‘da via C.Colombo al mare’.

- A conferma, De Landolina scrive che nel 1919 il sindaco Bettinotti Mario (che fu il sindaco più giovane, da poco tornato dalla grande guerra) in piazza Pescheria aveva fatto costruire in riva al mare «una piccolissima saletta con un certo gusto architettonico per la vendita del pesce, che mai, al contrario, vi si è visto»: probabilmente, la su citata “pescheria comunale”.

-  Ancora DeLandolina 1923 scrive che la piazza Pescatori era il punto di partenza ed arrivo per «lanciare le reti  per la pesca per ammainarle al ritorno».

-   Nell’elenco delle strade stilato nel 1927 subito dopo l’unificazione dei comuni nella Grande Genova, compaiono esistere ambedue le nostre piazze (classificate di 5a categoria) ma ambedue soggette ad essere variate essendovene una corrispondente omonima nel Centro.

-  Nel 1933, Novella ed il Pagano, confermano ancora la presenza di ambedue, logicamente sempre da via C.Colombo verso il mare; era di 5.a categoria con un civico la prima e tre la seconda.

-  Il Pagano cita al 5r di  piazza Peschiera (che però non esiste da noi, presumo sia stata Pescheria) di un altrettanto non meglio specificato  club “cooperativa Pescatori ed amici”; ed al civ. 8  la tipografia di Reale Federico (vedi anche in via P.Cristofoli); e il calderaio Casazza del 1921

  Non c’è accordo:

   a)--- Lamponi propone decisamente essere stata titolazione della piazzetta dei Minolli; a mie mani ho nulla per smentirlo se non la deduzione fatta prima e che in quegli anni essa aveva già un nome: piazza Savoia.

  b) considerato che in un documento d’archivio datato inizi 1900, la pescheria municipale era al civ. 50 (di allora), e che il teatro Ristori era –sempre per la numerazione di allora - al civ. 26; il palazzo municipale al 56-58-59, e quello del sale al 61, che il Grosso (di cui sotto) aveva case al 39 e 42-3-6: si può localizzare quindi, subito prima a levante del palazzo comunale, in corrispondenza ove ora  dove c’è il palazzotto della Salvamento.

  c)---Nel Pagano/1921 compare al civ. 1  di piazza Pescheria, l’officina meccanica di Casazza Angelo & figlio – lo stesso sarà nel Pagano/1933 - lavorazione in rame ed altri metalli.

L’officina dei calderai Casazza, sappiamo era in fondo a via Colombo, sul fianco ad est del palazzo con attuale civico 52, allora tutto di proprietà del Casazza Angelo: e quindi potrebbe essere in questo tratto la Nostra piazza – ancor oggi senza nome proprio, facente parte di via SPdA, posizionata meno di cento metri prima che finisca e di fronte ad ove sfocia via Pacinotti.

Nel Pagano 1933 è sempre Casazza Angelo e figlio; ma in Piazza Pescatori 1 di SPdArena; telefono 41-124. Vedere foto specifiche.

Forse lo stesso Casazza Angelo – ma non credo – e quindi un omonimo, che in questa data ha stampato  un opuscolo –numero unico- per la chiesa della Cella, ove si dichiara «Arti grafiche Sampierdarena - soc. an. – stabilimento cromo-lito-tipografico – stampati di Lusso e Commerciali / Forniture complete per Uffici / Cataloghi illustrati – Opuscoli / tricromie – Etichette in rilievo; impianto speciale per la Lavorazione di Scatole—Fornitori delle Scatole per lo Zucchero di Stato. Telef 49.25».

 

 

 

proprietà della Civica Biblioteca Gallino  

 

tubo di ferro sagomato, lungo 7 metri

   Queste due denominazioni, in epoca sconosciuta furono soppresse e le piazzette furono incorporate con via C.Colombo.

 

 

DEDICATA a:     San Pier d’Arena, fin dal più  antico, è sempre stata terra di abitazione di pescatori, dai tempi della cappella votiva a san Pietro -poi divenuta di  sant’Agostino alla Cella - quando la spiaggia era praticamente deserta,  alla creazione del porto che ha distrutto in pochi mesi più di mille anni di storia.

   Regolamentazioni più precise si hanno da dopo il 1100 con la conservazione dei documenti: è di allora il nome  del lastrone piatto  e levigato generalmente di lavagna, tipica dei monti liguri su cui i pescatori poggiavano la merce (valeva anche per il grano, l’olio ed altre merci), detto “clapa o ciappa” e, da lì “chiappa” per indicare poi genericamente e tipicamente la pescheria  (a Genova abbiamo la zona della Chiappella, vico e porta delle Chiappe, salita Chiappa e Chiapparolo ,piazza  Chiappazzo  e via Chiappeto e Chiassaiuola).                      

Come vi venivano battuti i pesci venduti ancora vivi, era divenuto oggetto di berlina e quindi di punizione far battere più volte il sedere su un lastrone similare: le cosiddette “patte in ciappa“ (nato per i pescatori che non si attenevano alle regole, si estese anche per i debitori comuni, i falliti, i ladruncoli, i servi infedeli o che comunque non stavano al loro posto -maschi e femmine-: dal mercato ittico un lastrone fu portato a Banchi e negli altri mercati, affinché le punizioni di sculacciata passiva fossero di pubblica visione).

  Già nel 1200 e fino oltre il 1400 i pescatori erano dotati di strumenti come “canne, scandagli, bilance, nasse, tramagli, rezzagli, palamiti (o palangari), sardare (o sardellare), sciabiche e tonnare; ma soprattutto di reti che costituivano un bene patrimoniale soggetto a vebndite, eredità o affitti alla pari di case e terreni”.

   Più fitte e precise le leggi dai primi anni del cinquecento, soprattutto al fine di proteggere la popolazione dall’abuso della vendita di prodotto non fresco; così, appena sbarcati, per vie obbligate e senza intrattenersi per vendere a privati, dovevano raggiungere le pescherie, pena sanzioni e sequestro;  non potevano farsi sostituire sul mercato da altri rivenditori se non dopo un certo orario; dovevano mantenere un contegno senza schiamazzi; potevano alzare i prezzi solo nei giorni comandati di magro; i pesci “posi” del giorno prima dovevano essere segnalati; punizioni varie erano previste per gli inadempienti , come dapprima multa, poi raddoppiata, poi tratti di corda, ed infine addirittura galera.

    È del 1692 una ‘grida’ del Magistrato dei provisori delle Galere, da leggersi “ne luoghi soliti e consueti, e particolarmente anco in la Chiappa doue si sogliono vendere i Pesci, nella Piazza del Guastato, nelle spiagge della Foce e di San Pier d’Arena…”:  nel foglio vengono stabilite le pene contro i trasgressori delle disposizioni, e contro i frodatori della gabella sui pesci: da 5 anni di bando o ‘relegatione’ a 2 anni di carcere o ‘galea’.   

Secondo tradizione, furono i pescatori di San Pier d’Arena  che soccorrendo una nave in tempesta, oltre ai naufraghi salvarono una statua della Madonna che portarono in chiesa (pare proveniente dall’oriente, fuggita dalla furia distruttrice -già  iniziata nell’VIII secolo- degli Iconoclasti; ma gli esperti la fanno risalire ad arte del seicento). Per tre volte la sacra effige scomparve dal sito, e fu ritrovata su un castagno a Coronata: interpretando la volontà divina,  fu lasciata nel santuario.

   Dello studioso Armando Di Raimondo il ritrovamento di un esposto fatto scrivere nel 1778 dai pescatori del borgo, contro De Marini G.B., Magistrato della Polcevera, residente a Rivarolo; nel loro esposto, segnalano che pretendeva quotidianamente per sé, famigli e collaboratori, approvvigionamento di pesce fresco a prezzo così stralciato da non essere conveniente se non per dovere di sudditanza. La questione andò al Senato che chiamò il Magistrato: egli si difese in modo arrogante e – da nobile intoccabile – negando ogni abuso e disprezzando ironicamente i poveri sudditi.

   Ma è da un nostro  concittadino, Rebora, e dai suoi studi che si sente smentire che la pesca era l’alimentazione preferita dai sampierdarenesi; essendo invece preferenziale come alimentazione, la pastorizia e gli animali da cortile.

Nella Pieve di s.Martino esisteva un altare apposito e gestito da loro con i proventi del lavoro domenicale (è descritto nella guida del CentroOvest-Remedi).

 Già dal 1925 sull’arenile di Prà, si organizzò un Palio marinaro tra cittadine e paesi limitrofi, laddove i pescatori esercitavano la loro valenzia e forza muscolare: la passione per queste sfide era molto sentita, e rappresentavano l’attrazione più forte. Cosicché dopo la guerra, nel 1955,  il Comune di Genova istituì il “Palio di san Pietro” (oggi Palio di Genova) nell’ambito di una più vasta manifestazione “Vita all’aria aperta”. Allo scopo si dotarono i 12 singoli concorrenti (Voltri=verde; Prà=rosso; Pegli/Multedo=bianco.granata; Sestri=bianco.nero; Cornigliano, SPd’Arena=bianco verde; Foce/sGiuliano=rosso blu; Boccadasse=, Sturla/Vernazzola=giallo; Quinto=blu; Nerv=arancio; sIlario)Capolungo=viola), di un gozzo da regata (a 22 palmi; in legno di mogano e cedro; costruiti tutti eguali in un cantiere di s.Margherit; lunghi m.6,5; pesanti 300 kg;). La prima domenica di giugno, 4 vogatori locali (di punta) ed un timoniere (alla guida di scia ovvero vogante in piedi col volto in avanti); da davanti alla chiesa di s.Pietro (patrono e protettore dei marinai (escluso 1996 a PortoAntico; 1997 e 2000 a calata Zingari; 1998 alla Foce;1999 a Nervi; 2000° Prà)  vogano per un miglio marino (= tre giri di boa) per infine arenarsi per far salire il ‘mozzo d’arrampicata’ scaòlando la corda ad infilare la bandierina nell’apposto vaso posto alla sommità di un rialzo di 4-5 m. Nel 1986 i gozzi in legno furono sostituiti da quelli in vetroresina, lunghi 5,65 e pesanti 195 kg. Ed eliminata la ‘scia’.   Il vincitore, per un anno tiene il “Batacchio bronzeo” del XVI secolo – scuola del Cellini- che ornava il portone nord del Palazzo del Principe e regalato dagli eredi

 

                                                         la zona fotografata testimonia la teoria c) come localizzazione

 

 

 

 

 

malgrado l’intestazione della cartolina, metto          la presenza a distanza del pontile di Giunsella

 in discussione sia la nostra spiaggia per quel           testimonierebbe giusta la localizzazione c)  

pontile in mare che non abbiamo mai avuto

 

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale palazzo Xducale

-Archivio Storico Comunale -  Toponomastica schede 3411 e 3417

-Benozzi.Caminata-L’Oratorio di Coronata-Inchiostri Ass..1999-pag.48

-DeLandolina GC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.51

-DiRaimondo A.-La Podestaria di Pol.-Bollettino ACompagna-1/2010-p.5

-Lamponi M.-Sampierdarena-LibroPiù.2002- pag. 68

-Maira Niri M-La tipografia a Genova…-Olschki.1998 - pag.471

-Novella P.-Strade di Genova-Manoscritto bibl.Berio.1930circa-(pag.18)

-Pagano/1933-pag.248.873

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di ge.-Tolozzi.1985-pag.1437

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova-Forni.1990-pag. 92.268-9

-Raimondi P.-Proverbi liguri-ed. LaStampa1992-pag. 9

 


 

PESCE                                      via Pierino Pesce

 

 

TARGHE

via – Pierino Pesce – caduto per la Libertà – privata - 1898-1.5.1923

                                                         

 

 

QUARTIERE ANTICO: Canto

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2825    CATEGORIA.   2

 Da Pagano 1961

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   47200

UNITÀ URBANISTICA:  26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth 2007. In giallo via TMamiani

 

CAP:  16149  (primitivamente era 16151)

PARROCCHIA:   s.Maria della Cella

STRUTTURA:   senso unico stradale, da via T.Mamiani a via F.Avio.

Strada comunale carrabile, lunga 48m e larga m.8,90, con due marciapiedi larghi m. 1,22.

Nel novembre 03 la strada si legge nell’elenco delle ‘vie private di interesse pubblico’ e quindi in programma di municipalizzazione gratuita per, in cambio, manutenzione e servizi vari come l’illuminazione, cassonetti della spazzatura, fognatura. L’elenco fu ripubblicato nel 2004; ma nel 2011 ancora tutto appare fermo.

STORIA: La strada nacque nell’area prima occupata da capannoni industriali dell’impresa di GB Carpaneto; è quindi praticamente presente, dai tempi della formazione e nascita di via F.Avio (vedi), ma evidentemente rimase senza un nome finché la Giunta comunale deliberò la denominazione attuale il 26 aprile 1946.

CIVICI:

2007=   da 1 a 13  e  da 2 a 20   

essendo la numerazione senza distinzione tra neri e rossi, e non esistendo portoni di abitazione, tutti i civici vanno intesi come rossi.

 

===civ. 5 : Dal 23 maggio 1980, inaugurata dall’allora sindaco Fulvio Cerofolini, ha ospitato la sede dell’archivio storico dell’Ansaldo - poi trasferito a Fegino di Cornigliano nell’apposita villa Cattaneo-Dell’Olmo- con tutti documenti sulle attività dell’industria, e che hanno  fatto oggetto di una annuale pubblicazione di un libro storico specifico.

===civ.6 il bar, che nel 1950 era di Pizzorno G.

===civv 1-3-5-7 furono assegnati a nuova costruzione del 1975

===civv 7-9-11 erano le porte di uscita di sicurezza del cinema-teatro Politeama Sampierdarenese eretto dove ora è il grosso moderno edificio a levante della strada che si apre in via Avio; furono soppresse nel 1972.

I nuovi 9-11 furono assegnati a porte prima senza numero, nel 1988.

===civ.16r nel 1961 era il bar Colombia; quando poco vicino c’era un chiosco vendita-rifornimento di benzina BP.

 

DEDICATA all’operaio nato a Visone (AL) nel 1898, da anni residente ed operaio, noto in città e soprattutto a Cornigliano quale attivo organizzatore comunista  delle rivendicazioni operaie. Fu uno dei primi martiri comunisti, contrapposto ai martiri fascisti creatisi negli scontri di strada provocati dalle squadracce nere, forti del numero, dell’arroganza e della protezione ‘in alto’: vincere intimorendo l’avversario con la violenza era uno dei sistemi per sradicare l’avversario (distruggere i centri di organizzazione incendiando-saccheggiando le sedi; seminando violenza, e quindi, spesso, la morte).

   Il primo maggio del 1923, festa dei lavoratori, a Coronata avvenne uno scontro con i fascisti, emergenti per violenza e numero: riconosciuto, fu isolato, catturato, percosso (e forse torturato per strappargli informazioni), sino alla morte.

Tale esecrabile avvenimento, passò quindi nel silenzio perché le autorità cittadine erano già schierate contro gli antagonisti del regime fascista; per cui ovvie le già in atto proibizioni di pubbliche attività da parte di qualsiasi organizzazione, e chiusura delle varie associazioni cattoliche, operaie e ricreative; arresti per i militanti dei partiti avversi e dei -per loro- sovversivi; nonché scioglimento dei Consigli comunali (anche a Sampierdarena avvennero delle dimissioni “spontanee”,  giustificate con la “inutile presenza di elementi socialisti che essendo contrari alle istituzioni, non tornano a vantaggio del Comune...e darebbero esca a violenze inutili...(seduta del 23 sett.1922)”.                 

In questo clima, di autorizzazione ad aggredire tutto ciò che non era “orbace”, il fatto che nel giorno della festa dei lavoratori un noto attivista rosso fosse sopraffatto e picchiato a morte rientrava in una volontà di normalità che - per chi dirigeva- neanche meritò un’inchiesta giudiziaria.

    Gli iscritti al partito fascista, forti di questa protezione, iniziarono a “regolare i conti in sospeso” con azioni di squadra,  mirate ad imporre il volere emergente ed eliminare sia i simboli che il nemico stesso : così divenne cronaca quotidiana  “ scacciare e mettere al bando tutti gli avversari che osano resistere”.  

   Nella ‘cronaca genovese’ del bollettino municipale ‘il Comune di Genova’ si riporta : “martedì 1° maggio – sulla collina di Coronata, in seguito a violento alterco fra due comitive di giovinotti, rimane ucciso da un colpo di rivoltella il ventiquattrenne Pietro Pesce, comunista.” .

 BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale Toponomastica - scheda 3414

-AA.VV.-Annuario, guida Archidiocesi-ed.1994-pag.429;ed.2002-pag.466

-AA.VV.-40° Anniversario della Repubblica-ATA.1986-pag.148

-AA.VV.-53° Spd’A

-Genova- bollettino municipale- 6/23.714

-Gazzettino Sampierdarenese  5/82.2

-Il Secolo XIX del 25.11.03 + 23.08.04

-Lamponi M.-Sampierdarena-LibroPiù.2002- pag. 110

-Pagano –Annuario genovese/ed.1961-pag.  329.446

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Genova-Tolozzi.’85-p.1436

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav. 33

-non citato su  Ragazzi Corallo-Chiavari-pag.227

                      AAVV-contributo di SPd’A


 

PICCARDO                                via privata Piccardo  

 

   Il nome, non ufficiale comunale, fu popolarmente accettato per indicare l’accesso (nell’attuale via L.Dottesio) alla proprietà del Piccardo, a cui si risaliva tramite l’attuale via Malinverni-via G.Balbi Piovera, e che oltre alla villa, portava anche alle suore di Carità.

Il Piccardo fu un imprenditore divenuto assai benestante e proprietario di tutta la zona a monte dell’attuale via Cantore, da via S.B.d.Fossato a via B.Piovera. In alto ove ora è il grattacielo, aveva la villa.

L’imprenditore a fine 1800 decise regalare al  Comune – forse in cambio di altri privilegi non conosciuti - il terreno necessario per aprire la strada oggi Balbi Piovera e poter così raggiungere l’ospedale altrimenti inutilizzabile con agilità per le ambulanze trainate a mano (alternativa sarebbe stata la ‘crosa Imperiale’ che, in linea diretta dal nosocomio a via Daste (ove era un cancello per entrare nella proprietà) comprendeva: via GB Botteri (senza i tornanti in alto)- angolo a ponente di via BPiovera e di via Pittaluga-via Malinverni).

BIBLIOGRAFIA

-Genova -Rivista municipale 
PIERAGOSTINI                              via Raffaele Pieragostini

 

TARGHE:

via Raffaele Pieragostini – caduto per la libertà – 1899 – 23-4-1945

                                       

a fine strada presso il Ponte

 

 inizio strada, angolo con Largo Jursé                               .      

QUARTIERE ANTICO: Ponte

 da MVinzoni, 1757.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2826    CATEGORIA:  2

 da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   48120

UNITÀ URBANISTICA: 24 – CAMPASSO

                                           26 - SAMPIERDARENA

 Da Google Earth 2007 

-in fucsia, il ponte di Cornigliano; rosso, via Eridania

e giallo, via P.Mantovani; celeste, via T.Grossi;

marrone, largo Jursé.

 

CAP:   16151

PARROCCHIA: s.Giovanni Bosco (nel Pagano 67-8 è attribuita a fantomatica s.Giacomo; in quello precedente è di s.Gaetano)

STRUTTURA: ampia strada a cinque corsie (3+2), a doppio senso  veicolare, che congiunge largo E.Jursè (alla Crociera), con il Ponte di Cornigliano (fino a metà, dalla Madonnina).

  

 la strada da tetto del gratticielo – anno 2002

È fornita dall’acquedotto Nicolay.

 

STORIA: Nelle prime carte dalla seconda metà del settecento, la strada già esiste importante, ma anonima; in quei metri era circondata da terreni ricchi d’acqua incanalata da essere capace di muovere le pale dei molini, e coltivati a frutteti ed orti (tra i più fertili della regione: come la piana d’Albenga ora).

   Dalla carta del Vinzoni, 1757, la strada ovviamente è anonima; appare circondata dalle seguenti proprietà:

--a nord, e dal ponte verso est- del sig. GB Grondona; + dei mag.ci fratelli Veneroso (con casa sulla strada. Non sappiamo chi furono; a Genova vengono descritti alcuni divenuti importanti: un Hieronimo (Gerolamo) Veneroso, 1691-1726, divenne doge -dei biennali, con berretta e corona regia- nel 1725; ma morì l’anno dopo. Invece suo figlio, GioGiacomo, fu doge dal 11.6.1754-6: nato da Giulia Rivarolo il 6.4.1701; ebbe un figlio Gerolamo anche lui; fu dapprima, assieme al padre che era commissario, a sedare le rivolte della Corsica; poi Magistrato della Mura, doge, di nuovo MdM progettò piazza Acquaverde, poi MdGuerra; morì a Chiavari il 17.XI.1758. Non è scritto per nessuno dei tre, che avessero dei fratelli) + parte di quella vasta proprietà -da arrivare sino a vCRolando- dell’ecc.mo Domenico Spinola.

 

Nella foto sopra, scattata nelle prime decadi del 1900, compare a sinistra una villa, (dalla struttura seicentesca; sulla carta vinzoniana  compaiono, sulla strada: nel terreno dei Grondona, un molino (e quindi non sarebbe); in quello dei Veneroso una casa di proprietà di R.do Ambroggi. Se ne dedurrebbe che fosse dei Veneroso, visto la loro importanza, ma un ramo collaterale di quelli su descritti. Si legge che dopo, divenne una proprietà dei Serra, anche loro non specificati meglio (vedi sotto al civ.5)).

--a sud invece, la proprietà del rev. Stefano Ferrari, con sei case sulla strada: le prime due di sua proprietà; la terza del mag.co Crosa; quarta e quinta del mag.co Caste(llo), la sesta dei Veneroso.  

   Come appare nel 1846 su una carta ora all’Archivio Storico Comunale, il pezzo dalla Crociera al ponte, viene chiamato  genericamente  “strada Provinciale di Ponente”.  

   Il primo nome della via, in origine di memoria fu ‘via san Cristoforo’ (vedi): per tutto il tratto dalla zona Mercato (dietro palazzo Carpaneto, inizio di via C.Rolando) al ponte; a conferma, il regio decreto del 1857,  la cita (per esso la strada della Marina arriva sino alla Crociera) con questo nome.

   Nei primi anni dopo la prima grande guerra, 1918-9 circa,  il Consiglio comunale di san Pier d’Arena volle cambiare la titolazione in “via Cesare Battisti(vedi), ancora tutta estesa dal ponte alla villa Carpaneto.   

 

da via Pacinotti, lo stabilimento Molini Alta Italia           foto Pasteris 1911

in basso, un ingresso Ansaldo

   Ma con l’avvento della Grande Genova, per evitare doppioni con l’omonima del centro, la  lunga strada fu spezzettata in più parti ed il tratto corrispondente -con delibera del podestà del 18 ago 1935- fu battezzato “via Monte Corno(vedi).

    Sulla parte a mare sul ponte c’era la costruzione del dazio, per la esazione della tassa comunale (con peso pubblico per veicoli da carico); controllava anche lo scalo treni a monte (solo merci, ed a piccola velocità); cessò la sua attività nel 1945 circa.

 

 barriera del dazio

   Nel punto di passaggio tra strada e ponte, dove a monte ora si innesta la strada lungo il torrente (via Perlasca), fu aperta una stazione ferroviaria (nel 1967, civico nero) detta ‘scalo merci  piccola velocità’ (Nel 1933 la città vedeva due stazioni merci, una questa: denominata PV e quella del Campasso, ove arrivavano veicoli o merci in piccole partite senza vincolo di peso. Nel 1963 è chiamata “di Genova-Campi (per merci)”).  Le merci arrivate per ferrovia vedevano il trasporto e la consegna in città tramite società in possesso di camion; una di esse descritta nel Pagano è la soc.an. Lanati E.& C. (con una sede anche a Terralba. Forse la genitrice della più potente omonima casa di spedizioni con sede negli anni ‘60 in via Balleydier, 50).

 

piazzale d’ingresso all’area                     lato verso il torrente

  

area scalo merci verso nord

 

   In terreno della ferrovia, prospiciente sulla strada a monte del ponte Cornigliano, c’era una palazzina a due piani, eretta nel 1945 poggiando su grossi plinti poligonali essendo la base il terreno sabbioso del torrente; in esse c’era un bar eufemisticamente chiamato bar 2000 (nel 1950 di proprietà di Albalustro P.), ma che fu demolito alla fine del 1995 per lo sbocco della nuova strada.

   Dopo la seconda guerra mondiale, con delibera della Giunta comunale la via (5 luglio 1945) e lo slargo iniziale (24 apr.1956), furono dedicate ai partigiani Pieragostini e Jursé.

 

CIVICI

Nel 1965 fu adottata la numerazione continua, ma ancora negli anni 70 venivano distinti i colori.

Nel 1969 fu assegnato il 61. Nel 65,  a nuovi edifici, dal 25 al 55.

2007=Uu24= NERI  = da 1 a 73 (compresi 65ab, 73c; esclusi 11,13,19,21,23). 

                      ROSSI= nessuno

           UU26=NERI = solo civ. 80  

                                   

A mare si apriva la vecchissima strada di ‘via al Ponte di Cornigliano’ poi inglobata nello stabilimento Ansaldo; di esso ora (giu/02) rimane solo il cosiddetto ‘palazzaccio’ che ultimamente ha ospitato a lungo la ‘Ansaldo Industria’ a sua volta composta da varie aziende che, iniziato nel 1997 lo smembramento, sono autonomamente ciascuna in via di trasloco verso il WTC,  la Torre Shipping o altrove.

         

anno 1990 – la facciata su via Pieragostini

  

                                                 anno luglio 2000 la facciata del CCRT lungo via Pieragostini

 

 

anno dic. 2000, tutto demolito                                                2003 - unico rimasto

===prima della demolizione di tutti gli stabili per fare il ‘complesso della Fiumara’,  sulla strada si affacciva il lungo stabilimento della  CCRT Cavi’.

===rimane il fianco del più vecchio – restaurato - palazzotto dell’Ansaldo STS,  che si apre in via Mantovani.

  

===civ.      è il penultimo nato nel complesso: il grattacielo –fatto a schermo televisivo (vedi foto da google)- detto  Torre Selex Comunications’. In alcuni piani si elaborano progetti di natura militare e quindi soggetti al vincolo del segreto.

  I civv. a mare furono soppressi nell’anno 2000 per demolizione.

 

A monte

Nella pianta del Pagano/67, i civici 1 e 5 sono a est di via T.Grossi; e subito ad ovest di essa c’è il 15

===civ. 5 fu eretto nel 1906. Ancora agli inizi del 1900, nel suo sedime esisteva un ‘palazzo Serra’, con le fattezze esterne della villa sei-settecentesca (aspetto cuboide, con tetto di ardesie a cupola), non descritta in alcun libro e visibile nella foto sopra. Non abbiamo trovato a quale Serra appartenne (erano dei Serra quella poi Monticelli di via della Cella; e quella Doria Serra-Masnata di via Cantore).

===civ. 1r il caffè Ligure. Ancora presente nell’elenco SIP del 1971.

===civ. 5r nel 1950 c’era la trattoria di Riccardi E.

===civ. 9r nel 1950 c’era il bar di Pesce R.

===civ. 15r nel 1967 lampadari e fonderia artistica Vaccari Valerio

===civ.17r nel 1950 c’era la trattoria di Ricci V.

===civ. 67 ancora nel 71 c’era l’Istituto Nazionale Trasporti

===civ. 71 ancora nel 71, la cooperativa Nino Repetto

 

DEDICATA   al partigiano nato a San Pier d’Arena il 5 mar.1899 (controversa è la data precisa: alcuni dicono 3 maggio) da Giuseppe (operaio alla fonderia di Multedo, e residente in via Daste in una modesta casetta al civ.  dove ora è apposta una lapide; militante socialista, indirizzò il figlio ai principi mazziniani facendolo partecipare alle riunioni di partito) e da Gatti Clotilde. Ebbe una sorella di nome  Colomba.

   Col padre frequentava i circoli operai e si imbeveva dei discorsi di PChiesa, di L.Calda, dell’Internazionale e dell’Inno dei Lavoratori.

    Instradato così politicamente dal genitore, seppur molto attirato dagli studi, per ragioni economiche dovette andare a lavorare nella bottega di artigiano di uno zio, fino a che arrivò all’epoca del servizio militare –1917- che svolse come motorista dell’aeronautica, al deposito aviatori di Torino, senza prendere impegno alcuno al di fuori di questa attività. Solo dopo il congedo –1920- ed al rientro a Cornigliano, trovato lavoro –1922- come operaio alla san Giorgio di Sestri Pon. si iscrisse al Partito comunista,  allora già clandestino, partecipando attivamente e responsabilmente attivandosi in prima persona (anno in cui il PNF iniziò la ‘legalizzazione’ del suo operato). Intanto si era trasferito di casa a Cornigliano in via della Libertà.

   Nel 1925 venne scelto come coordinatore del congresso provinciale genovese (in preparazione di quello internazionale a Lione) entrando a far parte della dirigenza del partito a cui dovette dimostrare estrema fedeltà adoperandosi in mille impegni di media importanza (incarichi cospirativi, università a Mosca e Spagna, centro estero a Parigi).

   Raccolse così varie condanne dal Tribunale Speciale, tra cui una di 5 anni di detenzione nel febb.1929 inflittagli a Roma ed incarcerato a Padova il 21 luglio (conseguente ad un arresto avvenuto il 6 nov. 1927, accusato di aver ricostituito il partito comunista che già era stato “schiantato” assieme agli anarchici dal nuovo regime con le leggi speciali del 1926). Ne scontò una parte,  uscendo nel nov.1932 per amnistia  ai detenuti politici, in corrispondenza del decennale fascista. Per 2 anni -1933-4-, visse a Genova, non riassunto dalla san Giorgio ed occupandosi in una officina sampierdarenese.

   Agli inizi di sett./1935, su richiesta del partito, espatriò in Francia da dove a novembre col nome di Gianni Licarini, da LeHavre partì per Mosca. Qui frequentò per tre anni la scuola universitaria leninista (organizzata come un collegio, a gruppi di 20, insegnava unità e continuità ideologica a tutti i fuoriusciti, futuri dirigenti; studiavano la filosofia marxista, economia politica, leninismo, storia operaia internazionale e locale, storia del pensiero, rivoluzione francese e russa, il PCI e lingue); e poi frequentò l’accademia militare Tolmaciov di Leningrado  (corsi di teoria militare). Lasciò l’URSS nel marzo 1938.

   Intanto, nel gennaio/1938 il Tribunale Speciale lo aveva ricondannato assieme ad altri 70 comunisti, in contumacia, per l’attività e per aver firmato un articolo intitolato “per la salvezza dell’Italia” pubblicato due anni prima su giornale francese.

   Rientrato a Parigi, era considerato un politico-militare di assoluta e provata fedeltà: pressoché subito andò a militare (col nome di Gianni DiGiorgio; assieme a Togliatti) come combattente volontario nelle file delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna (il partito fu dapprima reticente a concedergli l’autorizzazione,  poi lo indicò – per un anno -  quale addetto ai servizi radio di Barcellona, e ad importanti missioni locali di partito (1936.39).

  Tornato in Francia, lavorò in fabbrica; ma nel gennaio1942 fu arrestato dai nazisti che curarono il trasferimento – 12 febb. 42 - a Roma, consegnandolo agli italiani: il Tribunale Speciale lo ricondannò a 18 anni, di internamento: iniziò a scontare la pena a san Gimignano, accusato sempre per reato politico, avendo continuato a mantenere contatti con i movimenti comunisti internazionali soprattutto con quello russo che lo aveva già ospitato.

    Dopo poco più di un anno però, dopo i fatti del 25 lug.1943 (arresto di Mussolini; governo passato a Badoglio. Si pensava che a Roma, Badoglio ed il re sarebbero sicuramente rimasti,  sotto controllo degli alleati; al contrario il nord Italia, invaso dai tedeschi avrebbe richiesto una lotta contro essi. Il 30 ago da Regina Coeli  rientrarono anche Buranello, Fillak e tutti gli altri), fu scarcerato il 18 agosto.

   Rientrò a Piòvera (AL) dove viveva la madre sfollata; ma pochi giorni dopo era a Genova con l’investitura ufficiale già decisa a Ventotene: di segretario della Federazione locale, ovvero di dirigere i comunisti genovesi e savonesi. Fu il primo a dedicarsi alla reazione attiva, alla ‘svolta militare’, mettendola in atto secondo i rigidi insegnamenti ricevuti, di estrema osservanza alle direttive centrali. Dovette scalzare dal comando gli operatori preesistenti (in particolare il dirigente Dellepiane, che –non arrestato- aveva però ‘vivacchiato’ adattandosi e sopravvivendo nelle estreme difficoltà locali senza un progranna né una visuale più vasta; definito inopportuno ‘attesista e quindi opportunista ed indegno di militare nelle fila del partito’, venne eliminato al vertice).

   La prima riunione per riorganizzare il partito fu il 24 ago 43 in una trattoria sulle alture di SBdFossato (Promontorio?), fino alla sua elezione a segretario politico del comitato federale genovese. 

   Il giorno dopo l’8 settembre, nella confusione generale, la riunione fu al Campasso nel retrobottega di Achille Marsanasco: l’epicentro storico  dell’organizzazione comunista genovese fu in piazza Masnata: qui conversero tutti i responsabili del partito e fu decisa l’attività armata partigiana  di scontro sociale, militare, politico ad oltranza (non lavorare, sabotare la produzione di guerra, interrompere ogni relazione tra operai e occupanti) contro i tedeschi ed i fascisti di Salò, coordinando la nascita dei movimenti di resistenza partigiani di montagna e cittadini (nacquero a fine ottobre i GAP ‘gruppi di azione patriottica’ (che nell’ottobre iniziarono uccidendo un capomanipolo della milizia sestrese, ed a gennaio ’44 due ufficiali tedeschi con conseguente fucilazione di 8 antifascisti incarcerati); ed i ‘comitati clandestini di agitazione’). Si scrive che il 20 settembre 43 a villa Scassi si incontrò con i proclamatori dello sciopero dei tranvieri,  per coordinarli ed appoggiarli con atti dinamitardi sulle rotaie; nella seconda metà di ottobre fu sostituito alla dirigenza, da R.Scappini (che raccoglierà poi la firma di resa tedesca); a lui viene assegnato la organizzazione del partito per tutta la provincia.

      Nel giugno 1944 fu nominato Ispettore regionale del T.I.I. (Triunvirato insurrezionale internazionale del PCI), con l’incarico di difficilissime e sofferte decisioni (tipo quella di ordinale la fucilazione per rappresaglia di cento prigionieri , 80 tedeschi e 20 fascisti: i tedeschi avendo subito sette morti in una azione dei GAP genovesi, avevano ordinato la fucilazione nel campo di concentramento di Fassoli di 70 detenuti), e di abile sarto nel cucire le necessità della città (con una visione ‘nazionale’) e della montagna (con necessità più spicciole e locali).

     Promosso al grado di tenente colonnello, dal 1.7.44 il PCI elesse il gen. Rossi Cesare quale comandante e Pieragostini fu vice comandante  regionale della sezione operativa in seno al Comando militare regionale (il CMR era composto da 7 membri, uno indipendente (il comandante, gen. Rossi) , e gli altri corrispondenti ai vari partiti politici presenti: per i comunisti il nostro (col grado di vice comandante), socialisti, partito d’azione, liberali, repubblicani e democrazia cristiana. Designati dal CLN Ligure (comitato di liberazione nazionale), divennero i coordinatori delle varie zone belliche regionali: Pieragostini in particolare, riuniva periodicamente tutti i comandanti operativi della zona (divisione Cichero, 58a brigata, 3a brigata, brigata di manovra, 57a brigata,  brigata Giustizia e libertà , divisione Lombardia)).  

   Il 23 settembre 1944, lo vediamo presiedette un convegno di tutti i comandanti di brigata al fine di dare ordine alla ‘guerra per bande’, ciascuna slegata alle altre dopo i rastrellamenti; fu costituita la nuova ‘brigata Oreste’, il cui comando si stabilì a Rocchetta Ligure

   Infatti il nemico reagiva alle stimolazioni con i noti rastrellamenti sui monti, riaprendo una ferita organizzativa, non ancora messa a fuoco: furono di nuovo necessarie intense consultazioni per ricostituire l’organico. Girando tutto il territorio ligure, riuscì a dare l’impronta militare  a tutte le formazioni partigiane, specie durante il rastrellamento nella zona di Gorreto (ago-ott 44) dove personalmente ed attivamente partecipò alle fasi di sganciamento, guadagnando la stima di tutti.

   Col soprannome di Lorenzo Rossi, distinto rappresentante di azienda manufatturiera sita oltre la linea gotica, può andare ad appuntamenti vari senza destare sospetti; può interessarsi di relazionare su tutte le iniziative politico militari -nazionali ed internazionali-; di stabilire i compiti delle varie formazioni partigiane anche extra regionali (dal 1 ott.43 al 30 giu.44 fu ufficialmente ‘capo servizi collegamenti’ di 2mila uomini); di preoccupandosi di riunire tutti i commissari del PCI (partito comunista italiano). Lo scopo era di organizzare operazioni atte a creare nel nemico permanente stato di allarme ed insicurezza; anche nei momenti terribili dei rastrellamenti, cercò di favorire le situazioni di sganciamento e ricupero, sottolineando delle capacità militari e dimostrandosi scrupoloso osservatore di tutte le varie componenti di ciascuna operazione bellica -dal cibo ai rifornimenti, dai sabotaggi alla costituzione di “squadre volanti” aventi il principale scopo di colpire in aree cittadine, compresa la famosa “giornata della spia” (30 nov.44).

   Questa vita intensa, pericolosa e violenta, ben poco gli concesse agli affetti personali quali il semplice manifestarsi alla compagna della sua vita (Lina Fibbi, pure lei  organizzatrice dei GAP):momenti fugaci, rapiti ai bombardamenti ed al tipo  di vita di ambedue; da una sua lettera dal carcere, scrive di “aver cura del nostro prossimo figlio...educalo alla scuola di suo padre e alla tua, e chiamalo Gianni”.

   Attivamente ricercato, fu fatalmente catturato il 26 dic. 1944 (Pastine scrive a marzo del 1944; Antonini “a partire dal 1° dicembre”) assieme a quasi tutta la direzione dell’antifascismo ligure: tal Leopoldo Trotti, il generale Cesare Rossi, il col. Alfredo Amoroso ed il Nostro (per aver commesso l’imprudenza di essersi recato a casa un compagno che aveva mancato ad un appuntamento perché appena arrestato: la casa era sorvegliata dagli agenti del commissario Veneziani). Furono incarcerati nella sez. IV di Marassi e sottoposti a processo (che Pastine giudica illegittimo perché i membri  giudicanti -essendo militari dipendenti dal legittimo governo regio, e fedeli ancora per giuramento al re- avrebbero dovuto riconoscere lo stato di prigioniero di guerra e non di morte come invece voleva la legge militare) che si concluse con diverse condanne a morte, eseguite con rapidità.

  Pieragostini, marcato col n° 2959, giudicato prigioniero ‘eccellente’ (ovvero utile per eventuali scambi nell’atto del ripiegamento), fu intanto sottoposto quotidiamente -per 4 mesi- a torturanti interrogatori nella ‘cella di rigore’ del primo piano della Casa dello studente a san Martino.

   Tanto resistette e dovette subire, fino al momento che il nemico nel pomeriggio del 23 aprile 45 e nella persona di Hengel attuò la ritirata, in fuga verso il Brennero, con le SS tedesche ed italiani -con famigli- al seguito. Allo scopo, fu usato come ostaggio assieme ad altri 25 detenuti (tra cui anche il gen. Ernesto Rossi; fra essi politici e membri di missioni alleate, chiusi in una corriera partita da Marassi alle 15,30 del 23). Seppur gravemente denutrito, tumefatto dai pestaggi, ferito e piagato, rappresentava - come tutti gli altri - pur sempre una importante pedina di scambio in caso di scontri con i partigiani.

   Dopo pernottamento a Novi, il giorno dopo, quando la colonna si trovò poco prima di Bornasco (PV) -una frazione di Vidigulfo nel pavese- fu attaccata da aerei americani (o inglesi): fu colpita anche la corriera con i detenuti uccidendo il gen.Rossi, mentre il Pieragostini benché ammanettato ed incatenato con l’anarchico Ponte, tentò la fuga. Ma le SS comandate dal serg. Lungman, riparate ai bordi della strada in un fossato, uccisero entrambi a colpi di mitraglia. I sopravvissuti invece, portati a san Vittore a Milano, furono liberati tre giorni dopo.

   In vari documenti si parla di generica ‘morte per bombardamento’ (Gazzetta Ufficiale del 4 apr.1970 per medaglia d’oro-vedi sotto); in altri di ‘morte per fucilazione’ (foglio matricolare e carabinieri)

   In data 24 apr.1945, ignari della sua morte, il CLN Ligure lo designò prosindaco -assieme ad un esponente del PRI - nella giunta comunale costituenda con la liberazione di Genova (sindaco fu nominato Faralli Vannuccio del PSI) .

   Fu insignito della medaglia d’oro al valor militare «alla memoria» per attività partigiana: “PIERAGOSTINI Raffaele di Giuseppe, classe 1899, da San Pier d’Arena. - Patriota di purissima fede, si dedicava fin dall’inizio all’attività partigiana divenendo uno dei principali comandanti e organizzatori delle più agguerrite unità della sua zona e sostenendo alla loro testa asperrimi combattimenti che procuravano al nemico, ingentissime perdite. Nel corso di un violento rastrellamento nemico, riusciva, grazie alla sua intelligente capacità operativa ad organizzare una brillante resistenza ed il successivo sganciamento riordinando con energia ed abilità le formazioni sbandate. Ricercato attivamente veniva infine catturato e sottoposto ad atroci torture per varie settimane perché rivelasse le importanti informazioni in suo possesso. Il suo nobile animo resistette con stoicissimo (sic) al dolore nulla rivelando sulle formazioni partigiane e sui commilitoni e trovando la forza di confortare i compagni di prigionia ed infondere loro la fede nei destini della Patria. Portato quale ostaggio dal nemico in ripiegamento e gravemente debilitato dalle gravissime sevizie subite, trovava la morte durante un bombardamento. Si spegneva così un nobile animo di patriota e di combattente. Bornasco (Pavia), 24 aprile 1945”.

 

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                                                .
PIETRA                                   salita (della) Pietra

                                                 via della Pietra

                                                 vicolo della Pietra

 

 La toponomastica non prevede specificare che con questo toponimo si sottintendono due caratteristiche ormai scomparse (il quartiere e la salita) più altre due ancor oggi in atto (la via ed il vico). 

 Pastorino dà per certo che l’etimo proviene da “una pietra miliare romana, oggi scomparsa”.

 Mentre per gli “s”torici (quelli con la ‘s’ minuscola) è facile intuire che in questo tratto ci fosse  una pietra miliare romana, dalla cui presenza ne è derivato il nome, essendo tale cippo, purtroppo, scomparso nel tempo, agli “S”torici appare ovvio non tenerne conto.

 Combacerebbe essere il  2° miglio romano (1 miglio romano =1480 metri circa), componendo la distanza dal ‘mercato di san Giorgio’;  posta sulla linea Aurelia-Postumia, cadrebbe poco prima del bivio:  passaggio del torrente per Borzoli, e prosecuzione verso il confine nord-ovest del territorio (limite poi anche della Curia di SPdArena).

 

 

==QUARTIERE: Prima  del 1900, era genericamente una vasta zona (rione, quartiere)  misconosciuta a troppi “Storici” qualificati. Viene citata e quindi intesa più come territorio, che come strada precisa. Nelle varie divisioni locali in quartieri, mai ufficializzati e quindi lasciati all’uso del popolo, è uno dei più ricorrenti ad essere citato.

 Ancora nel 1953 era tutta nel  territorio di San Pier d’Arena (escluso il civ.2 che era a Rivarolo), e lo era da novecento anni quale uno dei nostri tre ‘quartieri’ storici.

Attualmente appare tutta  attribuita a Rivarolo.

==SALITA: Corrisponde a salita V.Bersezio.

  I vecchi sampierdarenesi la chiamavano “a  möntâ da prîa”, da Rivarolo al Belvedere - e forse anche agli Angeli.

  Nel registro della Curia arcivescovile di Genova, Belgrano riporta uno scritto in latino dell’anno 1074 riguardante terreni di proprietà della chiesa di s.Siro, da ‘locare’:  “...et petimus in sancto petro in arena in loco qui nominatur bruceto de superiore capite (cioè come confine superiore) petra nadia...” (in questa frase ci sono alcune parole che lasciano confusione: bruceto=avente; un Bruxeto, è a Molassana. Nadia è intraducibile ed inspiegabile; forse nigra,  per la pietra di Promontorio; comunque nadia nell’indice del libro viene data per ‘salita della Pietra’).

  In una nota spese datata 1789, si legge l’acquisto da parte del Municipio, a Savona, di 7mila mattoni detti da “carroggio”, per fare il fondo della salita Pietra.

  Nel 1813 vengono segnalate due ville signorili, munite di cappella privata per le funzioni religiose: di Davilli GB posta nella salita della Pietra, e di Piuma Domenica (i cui eredi vedi nell’elenco dopo, al civ. 8 e 14c; quest’ultima, nella carta del Vinzoni appare essere nella ‘via’ e non nella ‘salita’ ). La famiglia patrizia dei Piuma, si scrive arrivò a Genova nel 1400 (non si specifica da dove venne). Si formarono due ceppi, dei quali uno ascritto all’Albergo dei Promontorio ma che si estinse nel 1634; un altro che aveva case in via Prè, fu ascritta all’albo doro della nobiltà nel 1759, ed ebbe poi un Carlo Maria (1837-1912) insigne professore di matematica nel nostro Ateneo.

  La presenza di una strada col  nome di Pietra, è ovviamente riconosciuta  in San Pier d’ Arena  anche nel   regio decreto del 1857. il quale per primo fissava le strade dei borghi e città, già nominati ed ufficialmente da riconoscere.

  Solo all’inizio del secolo 1900  divenne ufficialmente “salita Pietra” tutta la crosa che dall’incrocio con via Giordano Bruno (via del Campasso) saliva sino al quadrivio di Belvedere con forte Crocetta   (e nel 1901 fu estesa  sino al corso dei Colli: in questa data le fu imposta -con quel nome- la prima targa in marmo, ed aveva civici- non corrispondenti agli attuali- sino al 2 e 31). Tutto il terreno a monte della strada sino agli spalti di forte Crocetta in questi anni apparteneva alla fam. Galleano (viene descritto esistere nel 1813 una villa omonima, nella zona “da via S.Gaetano” possedente nell’interno del fabbricato una signorile cappella religiosa privata. Importante questo nome perché in alcune carte, la zona viene definita “Galleano”); mentre nella parte a valle compaiono le case coloniche – dal basso in su - dei Sibilla, dei Bozzolo e dei Piazza.

 

  Della stessa data, un elenco delle case cita i proprietari: al n°  1, 3 e 12, case Degola Matilde;  2, Monticelli GB; 4e 4a, Tubino Luca; 4a anche Roncallo Domenico; 5 e 6, eredi di Eanrin; 7, Molinari Stefano; 7a-b Pizzorno e C; 8 e 14c, Piuma; 9-10, Timone Santo; 14,14a-b,15 e 16 eredi Campoantico; 17, 18,19 avv.to Sibilla; dal 20 al 23 fratelli Bozzolo; 24 e 25 Piazza Luigi; 26 eredi Frassinetti.

  Pochi anni dopo, probabilmente assieme a tante altre nel 1935,  la titolazione della via fu annullata e modificata denominandola al Bersezio.

  Cento metri prima dell’apice –ove è il quadrivio- c’è ancora una cappella dedicata alla Madonna, descritta in salita V.Bersezio.

 

==VIA: è la continuazione verso nord,  discendendo salita V.Bersezio nella quale si innesta via del Campasso; ed arriva a via B.Brin.

1757- Nella carta del Vinzoni, è descritta – poche decine di metri dopo l’innesto di via del Campasso- la villa del M.co Dom.co Piuma (vedi sopra ma femmina, a ‘salita – 1813’)

  Quando -subito dopo il 1910- la salita venne intestata a V.Bersezio, con l’antico nome rimase solo il tratto in piano della ‘via’, ed il confine con Rivarolo era determinato da via Bercilli, posta in territorio di proprietà di Enrico Zella,  che vi fece costruire nel periodo 1911-14 i civv. dall’1 al 9.

  Nell’elenco delle strade pubblicato dal Comune nel 1910 appaiono ufficializzate sia “salita Pietra”, dalla via omonima alla salita Forte Crocetta, con civv. fino al 2 e 31, e “via Pietra”,  dall’incontro di salita Pietra e di via G.Bruno fino al confine con Rivarolo Ligure, possedendo civici  fino al 14 e 15.

  Il Pagano 1911 segnala il forno per pane di Dellacasa Luigia al 12r, ancora attivo nel 1921 (non più nel 1925) ; ed al 22r quello di Gualco Agostino ancora attivo nel 1925.

  Nel 1921, venne aumentata una tassa  comunale di Sampierdarena alla ditta ‘Devoto A. (conserve alimentari’ esistente nella via. Non presente nel Pagano 1912, viene  segnalata dal Pagano/19 e 20 (“Devoto A.&C. stabilimento conserve alimentari, tel. 31-92 “presente anche alla voce “esportatore”), e non più dal Pagano /21).

  Nel Pagano 1925 si segnalano: senza civico: i bottai Bozzano e Benedetti ancora presenti nel 1933 – e lo stabilimento di Garibotti Marcello (industria e fabbrica di  sacchi tel 41364, casella post.1671); al civ.14 la fabbrica di turaccioli di Jacquillon Giuseppe la cui carta intestata, la prima in nostro possesso, porta la data del luglio 1907 ed era: “Grande stabilimento // per la Fabbricazione di Turaccioli // a coltello ed a macchina ed a smeriglio // Società anonima cooperativa // Sampierdarena, via della Pietra, 14 – esportazione”. Nel 1909 una fattura diventa con nuova intestazione: “(identico inizio; e solo “Cooperativa Turaccioli” + sovrapposte due dizioni stampate in rosso “medaglia d’oro / esposizione internaz. Pisa 1907” ed a fianco “Croce insigne e medaglia d’oro esposizione Roma 1908”).  Nel 1910 compare il socio “De Caria & Jacquillon / ditta Cooperativa Turaccioli”-  come nella foto sotto (in Internet viene chiamato Del Caria, ma la carta su detta è firmata a mano De Caria Enrico). Quindi l’azienda dimostra essere già attiva almeno dal 1907 (tel. 49-70) e lo sarà ancora nel 1933, tel.41170.

Problematico è localizzare la villa riprodotta: dal disegno sembra imponente, seicentesca, con dietro ampio parco cintato e ninfeo (attualmente via della Pietra è prosecuzione a nord di via del Campasso, da dopo il bivio con salita Bersezio, anticamente ‘salita della Pietra’: ma i palazzi che fiancheggiano  a ponente – dove i numeri pari - questo tratto di strada, oggi di competenza di Rivarolo, non lasciano intravedere che lì ci fosse una villa di tali dimensioni). Comunque nel Pagano/40 la ditta è riportata al civ. 10.

 

 

  Nell’elenco del 1927, stilato subito dopo l’unificazione comunale, compaiono: una ‘via Pietra’ sampierdarenese ed una ‘via della Pietra’ rivarolese; ed il ‘vico chiuso della Pietra’ sempre rivarolese; tutti e tre di 5a categoria. 

  E nel 1933 è invece precisato “via della Pietra”, a San Pier d’Arena,  da via A.Ristori a via (sic) Bersezio ed a via A.Saffi, con civici sino a 13 e 16, e di 5.a categoria. Vi si aprivano un negozio di bottaio (di Bozzano e Benedetti);  al 9r una cartoleria (di Boccalero Giuseppe); al 14 la fabbrica di turaccioli di Iacquillon Giuseppe.

foto 2011-civici pari a levante-area dove forse ci fu la villa di Jacquillon; compreso dove il palazzo arancione in stile anni 1940; non combacia lo spazio tendenzialmente ripido

 

   Nel Pagano/40 è assegnata a SPdA e va da via Campasso e via B.Brin; civ. nero solo il 2  ed il 10 di Jacquillon G. Ditta di A.Mansueto fabbr. turaccioli. Dei rossi: 2r sacchi, olii e ditta guastavino&DeGiovanni; 3r latteria; 7r bottiglieria; 9r tabacchi; 12 parrucch. u&d; 13r fruttiv.; 18r commestib.; 22 carbome e legna; 24 commestib.

  Dopo l’ultimo conflitto mondiale, 1945, eliminato il dazio, evidentemente  i confini sono stati modificati, accorciati per noi di un due-trecento metri (anche a ponente di via Fillak, il confine attuale è dettato da via Campi, quando prima comprendeva anche parte di via Frassinello), non si sa perché ma si suppone per motivi di numero degli abitanti.

  Anche la Toponomastica  include la via in ‘zona San Pier d’Arena – Rivarolo Ligure, da via Campasso a Benedetto Brin’.

  Nel Pagano 1950 al 5-7r c’era l’unico bar, allora di Gandolfo I.

  Il civ.1 fu demolito e ricostruito nel ’63; civ. 4 eretto nel 1954;  civ. 7 costruito nel 1951; civ. 8 demolito nell’’86; civ. 19 eretto nel 1952; civ. 11a nel 1954. Nelle schede della toponomastica con si segnala la demolizione della villa di Jacquillon.

 

==Un VICO omonimo, “vicolo detto della Pietra”, è descritto in documenti conservati all’Archivio Storico Comunale, anteriori  al 1900. È descritto vagamente “da via Vittorio Emanuele (vFillak) verso il Polcevera”, quando la lunga via andava dalla Lanterna a Rivarolo compresa. Da una cartina allegata, sembrerebbe localizzabile poco più a nord dell’attuale via Bezzecca, quindi dove era via san Fermo, ma non si hanno ulteriori informazioni.

 

STORIA:   Si può pensare, che prima dei romani, le comunicazioni con l’interno fossero assai scarse e che quindi la strada fosse solo un tracciato tipo sentiero-mulattiera.

Divenne strada – e come tale sarebbe la più antica di San Pier d’Arena-Certosa quando il percorso corrispose all’Aurelia romana (vedi) la quale - proveniente dagli Angeli e costeggiando sino a Belvedere, scendeva a Certosa  per raggiungere Rivarolo ( e da là o proseguire verso la Bocchetta o tagliare il fiume con il ponte e, salendo a Borzoli  scendere a Sestri per proseguire verso ponente).

CONFINI: Come già detto, dopo l’ultimo conflitto mondiale, evidentemente  i confini sono stati modificati, accorciati e, per noi notevolmente ridotti (vedi via del Confine e via Frassinello).

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale in palazzo Ducale

-Archivio St.Comunale Toponomastica  -  scheda  3490

-DeLandolina GC-Sampierdarena-Rinascenza.1923- pag.51

-Gazzettino S.  :  9/82.9   +   9/92.3   +

-GrossiB&Poleggi-Una città portuale del medioevo-Sagep l1980-pag. 30

-Millefiore.Sborgi-Un’idea di città-CentroCivico SPdA.1986-pag.44   + 

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio.1930ca-(pag.18)

-Pagano/1933-pag.248; /40-pag.371

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.1458

-Stradario del Comune di Genova edito 1953-pag.139

-Stringa P.-La Valpolcevera-Agis.1980-pag. 92cartina   

-Vigliero BM-Dizionario delle strade di Ge-Tolozzi-vol.IV- pag.1485
PIEVE                                 vico Pieve di san Martino

 

 

 

TARGHE : San Pier d’Arena – vico – Pieve di san Martino –

                                                           

 

 

 

QUARTIERE ANTICO:  San Martino

 da MVinzoni, 1757.

In rosso la pieve di s.Martino vescovo;

fucsia, l’Oratorio; giallo via CRolando;

celeste, via ACaveri

 

 

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2828    CATEGORIA: 2

 da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   48400

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

 da Google Earth 2007.

in giallo via ACaveri; celeste CBazzi;

fucsia via Currò.

 

CAP:  16151

PARROCCHIA:  s.Giovanni Bosco

STRUTTURA:   da via Carlo Bazzi a via Currò, con teorico doppio senso veicolare: in realtà il vicolo è così stretto da creare problemi al transito di una vettura di più grossa cilindrata; comunque quando l’uscita in via Currò non è ostacolata da un posteggio scorretto, la via di accesso  più frequente e facile è da via C.Bazzi per alcuni fondi adibiti a box auto.

CIVICI  neri=  da 1 a 5

              rossi= da 1r a 29r    e da 2r a 4r

   Il Pagano/40 la limita come oggi; non cita civv. neri; un solo rosso: 11 Solia pastif.

STORIA:  dalla carta del Vinzoni si rileva come la ‘Parrochia di san Martino Vescovo’ confinasse a monte (a est) con la sua casa parrocchiale ed il suo Oratorio (disposti a L); e fosse ai piedi della collina - sul cui apice scorre la salita a Belvedere - e il fianco collinare occupato dai vasti possedimenti privati riguardanti: la zona di via Currò (di proprietà  “già dell’ecc.mo generale GioLuca Pallavicini, ora Rovereti”); quella di via Caveri (del mag.co Giuseppe Lagomarsino, con villa che corrisponderebbe al civ. 11 di detta via); seguite a nord dall’ ampio possedimento dei Cicala (iniziante poco prima di via Vicenza). 

  A ponente della strada principale (via san Martino, oggi CRolando), via GTavani -nella carta del Vinzoni- separava i terreni (che precedentemente erano del mag.co Giacomo DiNegri) del mag.co Stefano Lomellini  q.Carlo (lato a mare - vedi Daste 103) da quelli  della mg.ca Lomellini Giovanna (a nord).

  La stessa carta evidenzia come - per chi arrivava dal mare seguendo la via san Martino (via C.Rolando) - poco prima della chiesa si staccasse un’altra strada che dapprima tagliando tra i prati e poi  passando dietro ad una casa (posta nell’angolo con vico Cicala –via A.Caveri), portasse diretti alla antica abbazia parrocchiale (che andrà distrutta -e totalmente scomparsa- da dopo la fine del  1700).

  Le case che si aprono nel vicolo sono assai vecchie e quindi antecedenti a quel lungo caseggiato  che si apre davanti a loro in via Rolando ed il cui stile è degli anni 1910 circa. Restò e si confermò così  praticabile il retro della via principale, e chiamato solo “vico san Martino”, da via Currò a via Marsala (via C.Bazzi), con civici sino al 5,  per continuare ad accedere al pur lui antico Oratorio di san Martino.

Nel 1933 persistevano ancora queste denominazioni. Solo il 19 agosto del 1935 il podestà deliberò fosse chiamata come oggi.

                                            

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale palazzo Ducale

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica  scheda 3504

-AA.VV.-Annuario guida Archidiocesi-ed./94-pag.430; ed./02-pag.467

-Lamponi M.-Sampierdarena- Libro Più.2002- pag.142

-Novella P.-strade di Genova-Manoscritto bibl.Berio 1930circa-(pag.19)

-Pagano/1933-pag.247; /40-pag.372; /1961-pag.335.pianta72


PIGAFETTA                                   via Antonio Pigafetta

 

 

   Non descritta da nessun altro testo; solo il Dizionario delle strade di Genova segnala l’esistenza di tale via a San Pier d’Arena, posta da corso Magellano: forse è un nome che fu proposto e non accettato, per esempio forse a quel lungo emiciclo comprendente i vari palazzi tutti col civ 1. In sintonia, nella zona, con gli altri circumnavigatori.

 

DEDICATA al vicentino del 1491 che partecipò volontario, addetto alla persona del capitano, alla spedizione di Magellano. Patì con quel ruolo tutte le vicende della spedizione e della circumnavigazione fino al momento della morte del comandante. Fu ferito nell’isola di Natan (laddove Magellano fu ucciso);  e, solo nel 1522, poté tornare con i 17 compagni superstiti.

Solo per merito della sua relazione, a Magellano furono riconosciuti i meriti  della prima circumnavigazione, che – altrimenti - altri superstiti non avevano rivelato, anzi avevano aggiudicato a se stessi.

 Lasciò dettagliata narrazione scritta dell’impresa ed anche dei luoghi, popoli, flora, fauna, metereologia incontrate,  usando un linguaggio misto italo-veneto-spagnolo.

Fu fatto Cavaliere di Rodi.

Morì giovane, nel 1524

 

BIBLIOGRAFIA

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi 1985-pag.1464    

 

la strada non viene  citata da:

ArchivioCom.Top..      

Elenco comunale vie del 1910;

Novella;

Pagano1933;

Pescio A.;

Tuttocittà;

Stradario Comunale/1953 e  /VVUU;

      


PIRLONE                                        via Dario Pirlone

 

 

TARGHE:-

San Pier d’Arena – via – Dario Pirlone – medaglia d’oro al V.M. – 1914-1942

 

 

QUARTIERE ANTICO:   confine tra Castello e Coscia

N° IMMATRICOLAZIONE:   la strada è successiva alla applicazione

       

da MVinzoni, 1757                            Dal Pagano/1961 (ancora anonima)

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA -n°:   48850

UNITÀ URBANISTICA:  26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth 2007.            

la strada, è a ponente della villa Fortezza.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:   s.Maria della Cella

STRUTTURA: senso unico viario da via N.Daste alla piazza (del mercato di)  Treponti.   La dedica, fu decisa in Consiglio Comunale il 26 ott.1970. A seguito della nuova denominazione, il civ. 1 della piazza divenne civ. 1 della via.

 

CIVICI

2007=   neri= 1 e 2

 

DEDICATA 


al giovane sampierdarenese nato nel 1914 e morto eroicamente nei combattimenti di El Alamein, il 24 ott.1942.

Sergente maggiore del 185° artiglieria, effettivo della divisione Folgore, fu incaricato di una batteria anticarro.


La motivazione alla medaglia d’oro dice durante questa battaglia:            “comandante di un pezzo anticarro impegnato da forte formazione di carri armati nemica, riusciva, dopo strenua lotta, ad infliggere al nemico sensibili perdite, catturando con ardita mossa l’equipaggio di un carro colpito. Successivamente, avuto immobilizzato il pezzo, feriti tutti serventi, ferito egli stesso gravemente alle gambe, incitava i dipendenti a non perdersi d’animo e continuare a combattere con le bombe a mano ed i pugnali. Sopraffatto dal nemico, irrompente nella postazione, vincendo lo strazio del suo corpo martoriato, sorreggendosi con sforzo supremo sulle gambe maciullate, scaricava la pistola sul nemico gridando: ’voi non mi avrete vivo. Viva l’Italia’. Cadeva da prode”.   

Fu insignito di medaglia d’oro, al Valore Militare alla memoria.

LA FOLGORE:   A Tarquinia dall’azione del colonnello pilota Giuseppe Baudoin nei primi anni di guerra nacque una nuova divisione, idea che andava diffondendosi nell’ambiente para-aereo (i fallschirmjäger tedeschi), ovvero una forza di fanti-paracadutisti. Iniziando con 60 volontari, che sarebbero divenuti istruttori, e dopo tentativi -anche tragicamente finiti- di organizzare il lancio in gruppi, furono ben presto inviati –inizio 1941- alcuni a Cefalonia dove però non combatterono per immediata resa delle truppe greche; ed un altro gruppo in Cirenaica per proteggere la ritirata della X armata.  A fine 1941 il gruppo ebbe battesimo di “Folgore” e, via mare fu inviata in Africa ove dovette cambiare nome in ‘divisione cacciatori d’Africa’, togliendosi i fregi dei paracadutisti dalla manica e lasciando nei depositi paracadute e tutto l’armamentario specializzato.  Rommel provvide a schierare subito il reparto nel deserto, quale ‘unità d’assalto’.

Erwin Rommel, attaccando dalla Libia verso est, via via travolse le linee inglesi; e dietro al nemico in rotta che scappava, lo inseguì tanto che si allontanò troppo dai rifornimenti (che non potevano più venire direttamente, essendo cielo e mare praticamente in mano al nemico); mentre gli inglesi arretrando si avvicinavano al loro continuamente ben rifornito. Per esaurimento di mezzi, dovette fermarsi su una linea frontale che aveva inizio presso il piccolo centro chiamato El Elamein

La guerra. Agli occhi di oggi, la guerra combattuta dai nostri soldati appare spregevole perché di  aggressione, a fianco di un alleato che non disdegnava la sopraffazione violenta e gratuita (e moralmente perversa, visto i lager e le discriminazioni razziali), solo per testimoniare a se stessa le sue capacità di potere. Al punto che il commentatore televisivo si è espresso dicendo”è stata una fortuna che l’Italia abbia perso, se no chissà cosa poteva succedere...”.

A spiegazione, Maggiani scrive che là i soldati ci si trovarono volenti o nolenti, facendo il loro dovere e perché non c’era altro da fare se non sacrificarsi fino alla morte.

Questi ragazzi si trovarono a vestire il grigioverde –nella mentalità postbellica di quelli che si sono arrogantemente autoconvinti di averla vinta loro la guerra- per combattere la guerra di Mussolini (non della Patria); e quindi ben sta se hanno perduto,  e se sono votati all’oblio e al disinteresse dei giovani di oggi, venendo ricordati solo quelli.

E’ vero che molti soldati avrebbero preferito starsene a casa e vivere in pace; ma -mio pensiero- è  altrettanto vero che quei giovani erano là perché –se non loro, ma sicuro i loro genitori- prima di partire avevano inneggiato chi prometteva quelle conquiste. La colpa –se di colpe si deve parlare- non fu solo di chi decise, ma anche di chi consentì ed applaudì che quella decisione fosse presa. E per un verso o per altro, erano la maggior parte degli italiani, ivi compresi molti partigiani dopo o quantomeno i loro genitori.  Questo, non per giustificare il fascismo, ma perché la Storia deve essere obiettiva, e non di parte: è troppo comodo oggi scrivere –o lasciare intendere- che fu colpa di tizio e di caio: fu colpa nostra, di noi italiani...quasi tutti, ma...democraticamente... la maggioranza..

Mutismo e indifferenza, c’è ancora adesso, dopo 60 anni di tempo, in attesa di ridimensionamento

El Alamein è una località sulla costa della Cirenaica (Libia), 120 km a ovest di Alessandria e del Nilo. Il fronte iniziava dalla fascia litoranea e di approfondiva per 65 km all’interno- si arriva a MarsaMatruh, ove c’è una ampia zona collinosa nel deserto che prende il nome dall’arabo ‘Tel el alamein”  ovvero ‘colline dalle vette gemelle’.

PREMESSE: Rommel (per l’occasione nominato ‘la Volpe del deserto’) alla guida dell’esercito italo-tedesco e forte di solo 96mila soldati -dei quali 56m italiani-, 600 carri armati, 500 aeroplani- iniziò l’offensiva il 21 genn.1941 e fece arretrare l’esecito alleato guidato dal gen. Claude Auchinleck  (forte di 150mila uomini,  1200 carri e 1500 aerei) fino a quel punto della fascia costiera. Ma, la quasi totale assenza di rifornimenti (sia di rincalzi che di mezzi –soprattutto carri, benzina ed aerei) lo costrinse ad arrestare la marcia –che sembrava trionfale e prossima ad occupare il canale di Suez- a 105 km da Alessandria. 

Gli inglesi, anche loro disfatti ed usurati, approfittarono però di questa sosta per abbondantemente approvigionarsi, mentre W.Churchill affidava l’incarico al gen. Gott (ma questi perse la vita mentre veniva ad assumere il comando); fu sostituito dal gen. Bernard Montgomery.

Rommel tentò approfittare, e (30 ago) tentò un improvviso attacco con carri armati, che –mancando di supporto- fu respinto;  dovette così andare a Berlino –ufficialmente per ragioni di salute- ma in sostanza per rendere conto della situazione, lasciando il comando al vice, gen. Georg Stumme –che morì di infarto il giorno dell’attacco, mentre ispezionava le linee-. Il comando fu temporaneamente assunto dal gen. Von Thoma.

Furono gli inglesi che resisi consci della situazione degli avversari, iniziarono attacchi aereonavali alle basi, tra tutte Tobruk. Ma la reazione italotedesca li fece desistere.

Si stabilì quindi una linea di fronte -di truppe contrapposte ed in stallo- perpendicolare alla costa, che si addentrava per 50 km  fino ad arrivare alla depressione di El Quattara (che garantiva l’intransitabilità dei mezzi e quindi –reciprocamente- l’accerchiamento). Il fronte italotedesco vedeva: sulla costa un reggimento di bersaglieri, seguito in successione -dalla 164° divisione tedesca; div. Trento; div. Bologna; mezza brig.parà Ramcke; div. Brescia; altra mezza Ramcke; div. Folgore all’apice  dell’interno. Di rincalzo, nelle retrovie stavamno -a salire dal mare- la 70a div.tedesca, seguita dalla div.motor.Trieste, div. Littorio, 21a div. corazz. tedesca,  div. Ariete e –dietro alla Folgore- la div. Pavia (che insieme alla Brescia e la Ramcke, formavano il X corpo d’Armata).

La 185° divisione fanteria Folgore era comandata dal gen. Frattini, ed era composta dal 186° e 187° regg. paracadutisti associati al 185° rgt artiglieria-paracadutisti.

  frecce di attacco e  -in nero- zone da loro conquistate il 24 ottobre

 

LA BATTAGLIA Furono 5mila uomini, contro 15-20mila; cannoni di piccolo calibro, contro 300 mezzi corazzati....

Iniziò il  23 ottobre 1942, alle 20,42: gli inglesi, rinforzati in tutti i settori- e guidati dal generale inglese Bernard Law Montgomery,  iniziarono a sorpresa una controffensiva (chiamata Lightfoot), contando su molteplici situazioni di vantaggio non ultima l’assenza di Rommel, rientrato d’urganza il  25 ott.. Ma già il 26 ott. la situazione delle truppe italotedesche  era divenuta  drammatica. L’aviazione alletata troncava tutte le iniziative.

Lo scopo era un tentativo di sgretolare le difese italo tedesche mediante bombardamento serrato aereo-navale e terrestre, contando di 973 aerei contro i 340 dell’Asse; 3171 cannoni contro 2433, incuneamento di pattuglie nei campi minati, simulati sbarchi alle spalle tenendo l’avversario costantemente allertato e facendogli sprecare rifornimenti già al limite e senza prospettiva di reintegro.  Lo squilibrio di forze era modificato in peggio per noi:  196mila uomini contro 104; 435 autoblindo contro 119; 1029 carri armati contro 490 (di cui 279 M13 italiani inefficaci contro le corazze nemiche e con munizioni che appena scalfivano la corazza dei Grant e Sherman, mentre i Tigre tedeschi furono da Hitler concentrati verso la Russia.

Da quell’inizio, si combatté una grande battaglia che –in parallelo a Leningrado- praticamente decisero le sorti del conflitto in genere: in Africa, furono 10 giorni che iniziarono lo sconvolgimento ed infine il ribaltamento della sorte della seconda guerra mondiale; per tanti motivi sommati, ma soprattutto organizzativi, le forze dell’Asse dopo mesi di continue vittorie su tutti i campi di guerra dovettero ripiegare -seppur dopo strenua e logorante lotta- sopraffatti dal nemico più ben organizzato (d’altra parte Hitler stesso aveva sottovalutato l’impegno in Africa, concentrando mezzi e forze  sul fronte russo, dove perdendo, subì la seconda fatale debacle che lo costrinse a difendersi, sino alla disfatta totale).

Luserna-Dominioni scrivono, in una sorta di diario, che “...Gli italiani del 1942, ad El Alamein, posseggono una sola superiorità, ma essenziale: nelle truppe sono rimasti soltanto i soldati veri e gli altri se la sono tempestivamente squagliata..” ; ”....il giorno 24, con la luna piena “si scatena «l’ultima battaglia». L’inglese attacca a sud e a nord, ovunque con massiccia superiorità di mezzi. “...Le 4.30. Il tiro (inglese) anziché diminuire aumenta di intensità...Le 5.20. Il tiro avversario è durato esattamente un’ora...sta venendo avanti su due colonne, il nemico...falcidiati dalle (nostre) raffiche cerca riparo e lancia due razzi rossi...chiamano in soccorso i carri...eccoli, sono del General Lee...ma gli artiglieri vigilano...i pachidermi tentennano...poi ripegano a precipizio...tre volte i carri tentano l’attacco e tre volte vengono arrestati...in una uadi giacciono stravaccati tre o quattrocento inglesi, logorati dalla fatica e dalla sconfitta...chi siete? Credevamo che nessun uomo potesse resistere ad un attacco come il nostro”.   Doronzo, dei parà, nel suo libro non cita il Nostro; scrive una sua relazione, di quel 24 ottobre. Inizia il diario con un capitano artigliere  che al suo quesito circa i proiettili di troppo piccolo calibro e pericolosamente accatastati vicino al pezzo, gli risponde: «si,  hai ragione, ma vedi qui da noi valgono il doppio». E subito dopo “…gli artiglieri penso siano i più sacrificati perché…debbono vivere con quello che passa la sussistenza e, diciamolo pure, nella migliore delle ipotesi è sempre troppo poco. Aggiungiamo che i pezzi e il munizionamento se lo son dovuti portare fin qui a spalla e si parla di quintali trascinati su terreno sabbioso e irregolare… All’improvviso il cielo a est si accende come se lungo tutta la linea ci fossero cannoni che sparano simultaneamente…ci siamo di nuovo…passa un bel quarto d’ora e quelli non la piantano per niente…i colpi arrivano a migliaia…solo quando si schiarisce il cielo a est… lo spettacolo è terrificante, quello che era il terreno che noi conoscevamo non ha più nulla di terrestre, letteralmente coperto di buche come piccoli crateri dai bordi imbiancati dalle esplosioni…come posso essermi salvato?”;  e davanti innumerevoli carri armati colpiti (ne conta 11, ma poi ne vede uno qua vicino ’assai grande’, due che stanno  bruciando; e –più lontano- quattro di quelli grandi; e 15 di mezzi più piccoli,  camionette...).Infatti  la battaglia pare che si sia sviluppata ai fianchi, non coinvolgendo direttamente la sua postazione messa in mezzo tra i colpi inglesi e quelli italiani

Il nemico comunque è stato respinto.  Pirlone è morto.

Dopo la battaglia del 23-24, a fine mese, gli inglesi iniziarono a tentare di sfondare sulla costa; poiché a sud –nell’entroterra- ha devuto rinunciare a combattere contro la Folgore alla quale era stata offerta la resa con l’onore delle armi, ovviamente rifiutata.

E poi, “dal 28 ottobre il settore della «Folgore» è tornato tranquillo: paracadutisti e guastatori rafforzano le posizioni sconvolte, nell’euforia della rude vittoria: le falle sono turate. A nord le cose vanno male, ma essi lo ignorano...Ignorano la consumata decisione di sacrificare le truppe italiane del centro e dell’ala destra, pur di lasciare alle truppe tedesche dell’ala sinistra la libertà di ripiegare... A sud (il nemico) è ribattuto dalla  «Folgore»: «Interfectus est» direbbe Giulio Cesare, è fatto a pezzi. Allora concentra tutto il peso a nord e dopo dodici giorni riesce a sfondare.

La «Folgore», sino ad allora vittoriosa, è aggirata e condannata.

Il 2 novembre Montgomery ordinò l’operazione sfondamento ‘supercharge’.

Due giorni dopo, il 4 novembre, la Folgore, che da 5mila uomini ne contava 272 e 32 ufficiali, fu travolta.

LA FINE : Rommel ebbe l’ordine di disimpegnare prima le truppe tedesche e per ultime quelle italiane. Il 23 genn.43 le truppe italiane abbandonarono Tripoli; (agli inizi di febbraio von Paulus si arrenderà a Stalingrado); il 13 maggio le forze dell’Asse rimaste in Tunisia, si arresero.

Gli italo tedeschi persero 12mila uomini (morti+feriti+dispesi) e subirono 25 mila prigionieri; gli Alleati perdettero 23.500 uomini.

Uniti nella lotta (artiglieri, bersaglieri, carristi, piloti d’aereo), tutti fanno parte delle memorabile battaglia; da allora ed anche per loro merito, in particolare la Folgore (ai cui superstiti fu riconosciuto l’onore delle armi) il nome El Alamein è parola simbolo del coraggio. L’epitaffio, scritto su una lapide nel cimitero,  recita ‘mancò la fortuna, non il valore’.

La divisione Folgore ebbe quattro medaglie d’oro collettive -una per i singoli reggimenti- e 16 individuali; tra queste ultime, quella per il nostro sergente maggiore.

Quota 33  Sul colle più alto, sulle mappe segnato con quel nome, c’è un cimitero in piena zona dove erano nascoste oltre un milione di mine.

                     

il sacrario                                                                                                   francobollo 1998

 

        

 

      

i nomi degli sconosciuti           “ignoti a noi, noti a Dio”           i loculi

 

Eretto ad opera del conte arch. ten.col.Paolo Caccia Dominioni (alpino già comandante del 31 batt. Guastatori); questi, –riprendendo una iniziativa inglese già in atto durante il conflitto- dal 1959 (altrove si scrive 1949) assieme al serg.magg. Chiodini Renato, dedicò gli ultimi anni della vita al ricupero e riconoscimento dei caduti e per questo insignito di medaglia d’oro. Nel vasto cimitero di guerra italiano riposano 4814 soldati italiani (inj internet si scrive 4634) dei quali 1300 ‘ignoti a noi, noti a Dio’, e molti africani nostri coloniali (228, si precisa), che furono sconfitti, ma che diedero fulgido esempio di come si affrontano le responsabilità, anche se subite, e spesso non condivise (i tedeschi persero 10mila soldati, gli alleati 13.500).

Il Col., anche architetto, fece costruire il torrione nel quale riportare le salme -quali ormai ossario-. Vennero ricomposte nei locali attorno ad un salone centrale (ove è l’altare, ed ora il busto del colonnello) dopo aver smantellato il cimitero terreno (aumentando giorno per giorno, era diventata una inquietante e struggente distesa di croci); attorno, un recinto che fu completato con un ingresso con corte d’onore; nell’interno servizi, sala museo di cimeli, sala proiezione ed una sala allegata che ospita i resti di un centinaio di scalpellini pugliesi morti durante la costruzione della diga di Assuan nel 1903 (nel 1960-73 fu costruita -a monte delle cataratte- quella ‘alta’).

 

Nel lungo elenco compare il nome di una donna, la “inf. Maria”; che è presumibile sia nome e professione inventate,  non conoscendo la persona. I resti di questa donna furono ritrovati – vicino a quelli di due militi - durante la ricerca delle spoglie, nel deserto di el Qattara. Nessuno conosce perché fosse lì, né chi fu; comunque – raccolte le spoglie (operazione di ricupero delle salme già iniziata dagli inglesi a mezzo di nostri prigionieri) per non lasciare la tomba anonima le fu dato il nome inventato di “Maria“; e collocata assieme agli altri. Esistevano in servizio delle infermiere –monache: può essere; non crocerossine ufficiali, perché non c’erano; oppure la compagna di qualche ufficiale.

Nel 2002, il presidente della Repubblica Ciampi, considerato che dopo la vittoria in terra d’Africa gli Alleati riuscirono da là a sbarcare in Italia e decretare la fine del fascismo, ha espresso il suo apparentemente ambiguo  ‘grazie italiani, per aver perso’.

Nel 2008 si ha notizia che l’Egitto ha ceduto all’Italia l’area del cimitero-sacrario di ‘Quota 33’: nel deserto.

Il fratello risulta aderente all’associazione del Nastro Azzurro.

 

BIBLIOGRAFIA

-Albo dei decorati al Valor Militare-Ist.del Nastro Azzurro.1977- pag.167

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica , scheda 3536

-AA.VV.-Annuario.guida dell’archidiocesi-ed/94-pag.430—ed/02-pag.467

-Doronzo R.-Folgore! E si moriva-Mursia.1978-pag.97

-Gazzettino Sampierdarenese : 1/75.4  

-Il Giornale : 6.12.99 +                 

-Il Secolo XIX : 20 e 21.10.2002  +  17.06.06 + 10.04.08

-L’Alpino-rivista mensile dell’ANA- n.1/2008-pag.14

-Lamponi M.-Sampierdarena-LibroPiù.2002- pag. 72

-Luserna.Dominioni-I ragazzi della Folgore-Longanesi1972-pag.136.184

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Genova-Tolozzi.’85-p.1480

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.35.51

 

--  non citato Enciclopedia Sonzogno e Motta.

 


 

PISACANE                                   scalinata Carlo Pisacane

 

 

Il Novella  segnala la scalinata, dipartente “da via G.B.Monti” (ma poi divenuta, e lo segnala tra parentesi senza dire quando, “scalinata Gaetano Filangeri”).

Nel 1910 non era ancora ufficializzata; lo divenne (aggiunta dopo a penna sull’elenco delle vie) come “scalinata Carlo Pisacane, da via G.B.Monti verso la proprietà Palau”, con civici sino al 3.

Nel 1927 fu pubblicato l’elenco delle strade di tutte le delegazioni entrate a far parte della grande Genova: la scalinata è presente (classificata di 5ª categoria, con omonime dedicate a Sestri, Voltri ed in Centro): ma la titolazione fu lasciata solo in Centro per una strada più importante, posta tra viale B.Bisagno e piazza Palermo.

Ma nel 1933 sul Pagano è ancora segnalata tra le nostre strade, la “salita Carlo Pisacane”; come sempre, da via G.B.Monti, chiusa, di 5ª categoria, ma con civici sino al 7.

Fu con delibera del podestà datata 19 agosto 1935 che divenne “scalinata Filangeri” ( da vedere per i dettagli).

 

DEDICATA:    allo scrittore e patriota napoletano nato il 22 agosto 1818.

Di carattere amabile, delicato e fiero; deciso come soldato; inquieto e irascibile nei sentimenti. Di nobili origini – cadetto dei duchi di san Giovanni- dopo i primi insegnamenti in collegio preferì arruolarsi – 1839,  divenendo  - come il fratello


Filippo fedele al re di Napoli - tenente del genio nell’esercito borbonico.

Usò questa carica militare per poter insinuare negli alti gradi dell’esercito borbonico il concetto ed il desiderio dell’Italia unita e - determinatamente mazziniana.


Ciò gli valse che – in piena carriera – nel 1847 dovette fuggire via da Napoli (divenendo disertore).  Riuscì ad allontanarsi, accompagnato dalla donna amata (era Enrichetta Di Lorenzo in Lazzari, moglie di un cugino e madre di tre figli; corteggiata da quando lui era appena dodicenne e dichiarati tra loro nel 1845); assoggettandosi assieme a complicate peripezie.

Scapparono insieme a Londra (ove fu raggiunto da richiesta di estradizione, rifiutata dal governo inglese), poi a Parigi (arrestati per falso passaporto; lei incinta). Infine a Marsiglia ove lui (senza lavoro, accettò un comando nella Legione Straniera francese che lo portò in Africa ma senza combattere, essendosi arresi i momentanei nemici algerini; e quindi rientrato ben presto) e lei  (che  partorirà Carolina, bimba che i parenti non accettavano e ponevano come condizione per rientrare a Napoli che la affidasse ad un orfanatrofio; ma che troppo presto morirà a metà febbraio 1848).


Nel 1848 scesero insieme in Lombardia - raggiunti da notizie di moti e sommosse: Palermo, Napoli, Torino, Milano, (non viene citata Genova) – avendo avuto nomina di  ufficiale nell’esercito Sardo e  partecipare alla prima guerra di indipendenza ove fu sconfitto l’esercito piemontese; lui già si era ritirato perché in battaglia era stato ferito. Rifugiarono in Svizzera.


L’anno dopo lo troviamo – quale colonnello, capo di stato maggiore,  a guidare la difesa della Repubblica di Roma chiamato personalmente da Mazzini a far parte della Commissione di guerra (mentre lei assisteva i feriti nei punti di assistenza); sconfitto anche qui, dal gen N.Oudinot, fu da lui arrestato e imprigionato in Castel Sant’Angelo; liberato, fu ricostretto all’esilio a Lugano. Nel libro “La guerra combattuta in Italia  negli anni 1848-49”, edito nel 1851, stigmatizza le cause del fallimento: mancanza di una politica sociale popolare, che coinvolgesse le masse (coerentemente, nel frontespizio di un suo libro, riportò la frase di Giordano Bruno “non temete nuotare contro il torrente; è d’una anima sordida pensare come il volgo, perché il volgo è in maggioranza”).

Da Lugano, nel 1852 arrivò a Genova con Enrichetta, ove rimase per tre anni vivendo con l’insegnamento della matematica; accolto nel salotto di casa Benedettini, vagheggiava un rientro a Napoli; scrisse per giornali cospirando contro i Borboni: collaborò con ‘l’Italia del Popolo’ di Losanna (1849-50) con toni spesso assai polemici; dove l’affetto dell’adorata ma fragile Enrichetta divenne instabile seppur anno di nascita (28 nov. 1852) di una seconda bimba, battezzata Silvia; approfittò per compilare anche saggi e libri, scrivendo “Saggi storico-politico-militari sull’Italia”, in quattro volumi, i primi due dei quali (uno di 102 pagine e l’altro 179) pubblicati a Genova dallo ‘stabilimento Tipogafico Nazionale Antonio De Barbieri’, nel 1858  (gli altri due, a Milano con aggiunto il ‘Testamento politico’ scritto prima di partire per l’impresa);  si scrive che – specie i primi due – erano fortemente polemici, ed osteggiati quindi sia dai monarchici che temevano le mozioni a casa Savoia, e sia dai repubblicani per i toni socialistizzanti e critici di Mazzini – anche se ogni gesto e parola erano improntati di vera amicizia e unità di intenti col Mazzini (primario ideatore di Sapri), sino all’estremo sacrificio di se stessi.

Nel 1857 preparò (Mazzini e l’ambiente di Carlotta Benettini già l’avevano progettato) e comandò la cosiddetta “spedizione di Sapri”. Enrichetta, presagendo il dramma cercò invano di dissuaderlo. Si imbarcò come passeggero sul piroscafo ‘Cagliari’ e, al largo, appoggiato da Giuseppe Daneri, se ne impadronì facendo rotta su Ponza ove liberò i prigionieri politici ed i galeotti; con essi, sbarcò a Sapri ma, in località Sanza, fu assalito e annientato dallo stesso popolo che voleva liberare.

Nel partecipare alla progettazione della quale, commise l’errore che aveva criticato per Roma: l’appoggio della popolazione. La realizzò  il 29 giugno 1857, impadronendosi con un gruppo di amici della nave postale “Cagliari” mirando a sollevare il napoletano dal regime borbonico; lo sbarco a Sapri prevedeva una accoglienza positiva da parte della popolazione e spontaneo rafforzamento delle sue truppe da parte di volontari locali e prigionieri politici liberati a Ponza.

Finì  invece ben presto in un massacro, causa il mancato appoggio degli insorti locali e la non collaborazione del popolo, sommati ad una energica ed inaspettata reazione delle truppe borboniche. 

Con pochi superstiti cercò di sfuggire  puntando sul Cilento ma pochi giorni dopo (il 2 luglio) furono accerchiati a Sansa: nello scontro molti morirono, altri si arresero (vedi Carlo Rota); lui fu ferito e non volendo essere fatto prigioniero sapendo che riconosciutolo lo avrebbero trattato da disertore e traditore, preferì suicidarsi con un colpo di pistola (qualcuno dice che invece fu catturato e fucilato).

“Eran trecento giovani e forti...” così inizia la poesia di Luigi Mercantini del 1857, intitolata “la spigolatrice di Sapri” a memoria dell’impresa che seppur fallita, destò una maggiore attenzione e sensibilità al tema dell’unità nazionale, che fu utile nelle imprese successive.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archivio Storico Comunale Toponomastica - scheda 3538  

-DeLandolina GC-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.51

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno

-Fabbri L.-L’opera più rara di Carlo Pisacane-il Mese, 1944- pag. 446

-Genova, rivista comunale – 3/57.16foto

-Marasco G.- Carlo Pisacane, Enrichetta...-La Casana- 3/85-pag.35

-Novella P.-Strade di Ge-Manoscritto bibl.Berio.1900-pag.17

-Pagano/1933-pag.248

-Pastorino&Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.1482

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genpova-Forni.1986-pag.77
PISTA                                             vico della Pista

 

 

   Non è un nome ufficiale del Comune, però è scritto in alcune  mappe comunali della fine del 1800 disegnate con lo scopo di censire e designare i nomi alle strade della città.  Fa riferimento quindi ad un toponimo popolare, usato  probabilmente per indicare il luogo ove fu eretta nel posto la prima pista ciclabile genovese (prima di essere trasferita ai giardini ora Pavanello e poi ancora dove ora è via A.Cantore).

   Dalla mappa su detta si può localizzare a lato Polcevera di via W.Fillak;

 - o all’altezza e quindi corrispondere alla rientranza,  poco prima di via Bezzecca - lasciando così pensare che la pista occupava lo spazio occupato poi ed ora da un meccanico; 

- o all’altezza di via san Fermo, cinquanta metri dopo via Bezzecca, dove allora avrebbe occupato lo spazio ove ora è il civv. 11 di questa strada e dove -prima di esso- era uno stabilimento siderurgico e fonderia.

   Comunque in quella zona, sull’onda del grande entusiasmo per i velocipedi (poi divenuti bicicli ed infine biciclette), fu organizzata una primitiva pista, probabilmente in legno, di cui se ne conserva il ricordo.

   I primi gruppi dediti a questa attività sportiva,  nati a San Pier d’Arena, pressochè coetanei essendo sorti agli inizi del 1890, furono in seno alla Società ginnastica Sampierdarenese” ed alla “Raffaele Rubattino” (che poi nel 1894 si fuse con il “Trionfo genovese”) ambedue orientate prevalentemente verso l’atletica e la ginnastica, ma aperte a tutte le iniziative.

   La prima specifica società ciclistica a Sn Pier d’Arena fu la “sezione velocipedisti” della “soc. Barabino”, nata nel 1897.

   La prima serie di gare con carattere interregionale, avvenne nel 1885: queste società, con l’aiuto dell’onnipresente “società operaia Universale” e dell’Amministrazione comunale,  organizzarono  la manifestazione intitolata “San Pier d’Arena  pro-monumento a Garibaldi“  nei giardini ora Pavanello.

Da allora, il velocipede, da mezzo di distinzione per cittadini all’avanguardia e per attività di divertimenti, iniziò a divenire mezzo di trasporto per i meno abbienti  e di lavoro.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale palazzo Ducale

-Lamponi M.-Genova in bicicletta-Valenti 1977-pag..45     

 

 


PITTALUGA                           via Gerolamo Pittaluga

TARGHE:

-via - Gerolamo Pittaluga – scultore – sec.XVIII

-2 – 2829 – via – Gerolamo Pittaluga – scultore – sec. XVIII

   

angolo con via A.Cantore-ovest      

       

angolo con via G.Balbi Piovera  

 

angolo via A.Cantore est    su questa targa non si legge più la scritta “Già via E.Mazzucco”   

            

 

QUARTIERE ANTICO: Canto

 da MVinzoni, 1757.

Ipotetici tracciati: in verde, della via;

giallo, via BPiovera;  e rosso via  ACantore.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:  2829    CATEGORIA:  3

 da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°: 48940

UNITÀ URBANISTICA: 27 – BELVEDERE

                                          28 – s.BARTOLOMEO

 da Google Earth 2007

 

CAP:  16149

PARROCCHIA: NS delle Grazie

STRUTTURA:  


senso unico veicolare verso ponente; dagli inizi di via A.Cantore  ritorna in via A.Cantore - scorrendo parallela ad essa, a monte - prima dei giardini di villa Scassi. Tagliata a metà e incrociata, dall’inizio di via  G.Balbi Piovera. 

 È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

la strada vista da ponente a levante

 


CIVICI: vanno in crescendo da levante a ponente. I numeri neri, quelli dispari -posti a monte della strada- sono tutti nella mezza strada a levante.

I pari -posti a mare della strada- ambedue solo nella metà a ponente

2007= UU27 = solo il 47r

        =UU28= neri   = da 19 (mancano 3, 5; aggiungere 5A),

                                    da 24

                         rossi =  da 1r45r   (manca 31r)

                                      da 2r20r   (manca 16r)

 

===civv. 1 e 3 divennero tali nel 1954 quando in quell’anno fu cambiato l’assetto della strada: prima erano l’ 11A e l’ 11B di via A.Cantore. Furono ambedue demoliti nel 1957 e sul loro sedime l’anno dopo fu costruito un unico palazzo a cui fu assegnato il civ.1, posto a metà della scalinata che a levante la unisce a via B.Piovera (cosicché il civ. 3 non esiste più).

Il  Pagano ancora nel 1961 scrive che al tempo i numeri neri erano dal 2 al 4-dall’1 al 9.

===civ.2: preesisteva a tutte le variazioni legate alla costruenda nuova strada, perché eretto nel 1908 (come scritto sul frontale del portone). Il portone è, dei due a mare della strada, quello più a levante, in senso giusto per la viabilità odierna, ma in senso opposto per quella all’origine (giustificata però dal fatto che allora era l’unico).

===civ. 2r il Pagano/61 pone la ditta Alemagna panettoni

===civ. 4: posto sul lato a mare, è il più a ponente di tutti i caseggiati. Il portone ha la caratteristica di occupare –nella facciata - il più a ovest di due riquadri (ciascuno incorniciato da una mezza colonna ai due lati) ambedue uniti con un unico capitello frontale alla sommità (nel riquadro a levante, c’è una finestra). Questa scelta architettonica, di per sé inutile, lascia pensare che in origine –prima di ammodernamenti- ci fossero due porte, e forse per due scale

===civ.5: fu eretto nel 1955. È posto sulla scalinata, di fronte all’1.  Al 5r, nel 1961 c’era una officina meccanica  di Medica I.

===civv. 7 e 9 ebbero questa assegnazione nel 54; prima erano l’ 1 e 3 della via.

===civ.     eretto nel 1936 (XIV)

===civ.13r   nel 1961- L’autorimessa Sampierdarena

===civ 37r   nel 1961- L’autotr. ParodiP

      Alcuni insediamenti artigianali hanno sede solo nella metà strada a levante come alcune officine meccaniche per auto, un salone d’auto, la civ ===5Ar  la soc. Multilastic; ed una palestra di insegnamento professionale della danza, appunto chiamato “Spazio-Danza(è una associazione sportivo culturale nata nel 1991, e maturata in  scuola ufficialmente riconosciuta dal Ministero della pubblica istruzione. E’ divenuta negli anni un centro didattico territoriale di primaria importanza nell’insegnamento della danza in tutte le sue qualità, dalla classica al flamenco e liscio, dalla ‘danza del ventre’ al jazz, al ‘tiptap’, a quella ‘afro’, al ‘funky’, alla ‘latinoamericana’, ed a qualsiasi espressione in merito che l’uomo abbia inventato. Nel marzo 2004  l’aumento degli allievi ha indotto aprire una 2a.sede in via AdBozzolo 1, in angolo con via E.Degola, utilizzando uno stabile da tempo rinnovato esternamente ma abbandonato nella funzione commerciale).

 

STORIA:   La parte a levante è distinta in due diverse componenti: una, la ripida scala diritta verso il monte; la strada carrozzabile vera e propria, con senso viario parallelo a via A.Cantore.

La prima (e piccola parte della seconda), in origine erano parte del parco della sottostante villa Spinola. Rimane traccia del giardino, in una nicchia a ninfeo visibile non appena salita la prima rampa di scale che unisce la nostra strada a quella che scorre superiore, via G.Balbi Piovera.


 

 

 

 

Questo piccolo  ninfeo, che ha più di cinquecento anni, è stato assurdamente coperto anteponendogli, nel mezzo, una colonna in cemento che sorregge la cancellata

delimitante la proprietà del piano terra del civ. 1 Appare un orribile compromesso salomonico: sottintende che l’architetto che ha costruito l’edificio non potendolo distruggere perché difeso presumo dalle Belle Arti  e non potendolo neanche  inglobare nel giardino privato, piuttosto che lasciarlo fuori di esso al piacere visuale e storico dei passanti, ha con dubbia intelligenza inventato questa mostruosità architettonica: che i beni privati  abbiano priorità sui beni comuni e di rilevanza storica, mi appare strano). 


La scalinata, prima di essere inclusa nella strada in oggetto, faceva parte di un erto viottolo o scalinata a sua volta, che saliva a Promontorio, e che popolarmente veniva chiamata ‘via Montegalletto  (vedi).

La seconda, ha -a metà percorso- un micro rilievo a dosso da superare; probabile naturale asperità del terreno, non affrontato spianandolo, nei tempi in cui si lavorava senza ruspe meccaniche. 

                

la metà a levante, vista dall’incrocio con v.BPiovera       verso ponente con i civv. 2 e 4

La parte a ponente, ha anch’essa due caratteristiche ma  diverse dalla prima, anche se con sembianze speculari.

Una infatti, speculare alla scalinata della parte a levante, posta nella parte finale della strada, corrisponde ad un trattino di quella strada che nel 1800 era tutto un sentiero diritto, che dall’attuale via NDaste  saliva sino a Promontorio (si chiamava vico Imperiale (vedi) ed era un tutt’uno delle attuali via Damiano Chiesa-via GB Botteri-(non via MFanti) via Carrea; costeggiava a levante i muri di cinta della villa Scassi –già della famiglia Imperiale-. Con l’edificazione di tutta la collina e l’apertura di via Cantore e dell’ospedale, l’erta salita venne frantumata in tanti pezzetti e con  titolazioni diverse).

L’altra è la strada vera e propria che  nel tratto di nostro interesse cambiò ripetutamente nome a seconda delle ideologie politiche della giunta municipale: dopo vico Imperiale divenne via Jaurès; poi via Egidio Mazzucco (così era nel 1933;  poi questa titolazione fu trasferita  con delibera del podestà del 19 ago.1935 nella attuale v.C.Rolando); infine -e finalmente per fortuna senza faziosità-   via G.Pittaluga.  Quando sul colle (1915) fu eretto il nuovo ospedale, per chi voleva raggiungerlo dal basso, la salita Imperiale era la via di elezione: bisognava passare per l’attuale tratto a ponente della strada, e continuare salendo fiancheggiando sempre la villa Scassi. Solo dopo la cessione al municipio del terreno di proprietà Piccardo, che permise si aprisse la strada, divenne agibile alle carrozze seguendo i tornanti dell’attuale via G.Balbi Piovera.

Il palazzo ha i due portoni, aperti su questa facciata, appunto perché antecedenti all’apertura di via Cantore. Anche la attuale farmacia Cantore, si apriva su via Pittaluga (quindi nel retro rispetto ora; ma questo ingresso, dopo essere divenuto secondario, fu eliminato negli anni 70-80 circa).


Incastonato  dentro il muro che sostiene la via BPiovera in ascesa, c’è uno dei vespasiani ancora in funzione e relativamente decente.


DEDICATA  allo scultore del legno più famoso del nostro borgo, essendo nato a San Pier d’Arena il 21 magg. 1689 (altri scrivono 1691 circa). Di genitori di condizione economica modesta, essendo istintivamente portato al disegno e poi a modellare il legno, fu indicato a Pietro Ciurlo (allievo di A.M.Maragliano e che pure lui viveva nel borgo-vedi); ne divenne allievo e per innata bravura riuscì poi a divenire superiore al maestro. Infatti, staccandosi dalla bottega del maestro, ne aprì una propria ed iniziò ad assumere direttamente commissioni da privati e da congregazioni religiose. 


Ci ha lasciato a testimonianza della sua bravura un “Crocifisso” (nella  chiesa della Cella), ed un gruppo “crocifisso con Madonna e san Giovanni Evangelista” eseguita per la chiesa di santa Sabina (antichissima del IV secolo, fu rifatta due volte: dopo l’incursione araba del 936 e nel 1547 rinnovata architettonicamente e negli arredi; affrescata nel 1846, fu poi sconsacrata nel 1931, demolita nel 1939, al suo posto eretto un cinema. Però per fortuna ricostruita ex novo in via Donghi, ove si conservano tutt’ora queste opere d’arte), ambedue unici della sua produzione conosciuta scolpiti in grandezza naturale.


Ed altrettanto  unico esistente in  patria, è un bassorilievo in legno lavorato con avorio (nel tabernacolo sull’altare maggiore della chiesa cappuccina della SS.Concezione: decorò le formelle in legno, scolpendo con tecnica finissima ed a bassorilievo la resurrezione di Gesù).

Conosciamo finiti all’estero: un altro bassorilievo (tratto da un disegno di Luca Cambiaso, già di proprietà di Stefano Passano: alla sua morte, fu venduto a collezionisti inglesi); un tabernacolo per la chiesa dei cappuccini di Lisbona (trattasi di un bassorilievo con episodi dei sacri Libri, tratto da disegno dell’abate Lorenzo De Ferrari);  una statuina di  sant’Antonio (in origine per l’omonima chiesa di San Pier d’Arena); ed altri bassorilievi.

Purtroppo l’artigianato dell’intagliatore del legno ha lasciato traccia storica labilissima, né attendibile né documentata, limitandosi la storiografia –solo il Soprani in pratica, e poi il Ratti- ad intagliatori per le chiese (il coro o pulpito), ma assai imprecisa nei riguardi del lavoro per statuine del presepio. In questo campo, pare che il Pittaluga iniziò ed acquisì fama scolpendo statuine tendenzialmente grandi ed in particolare quelle degli animali al punto che per definizione, viene riconosciuto come  l’animalista del presepio genovese.

Seguendo la moda  che faceva divenire tradizione il presepio nelle case dei nobili, poi predilesse eseguire prevalentemente i “lavori in piccolo”, che lui vivente, gli diedero maggior guadagno ma che più facilmente si sono disperse. Di sua produzione vengono citate quelle conservate al museo civico di Villetta Di Negro, ed in poche chiese di Genova. Caratteristica divenuta  innovativa a quei tempi,  era di modellare e rendere mobili le parti del corpo scoperte, lasciando invece fisso e da rivestire di abiti il manichino centrale: questo permetteva di far assumere alle statuine i gesti e l’atteggiamento più consoni alla posizione fatta assumere nello scenario e nello stesso tempo concedere alle signorine nobili, usando ritagli di stoffe per i loro vestiti, esercitarsi nell’arte del cucito modellando gli abiti per i personaggi, gareggiando in maestria e fantasia.

A quarant’anni di età, fu colto da una grave malattia degli occhi, che offuscandogli la vista, compromise seriamente la sua attività. Di carattere mite e religioso, sopportò con rassegnazione per tre lunghi anni questo martirio, finché le intense cure di un valente oculista, gli permisero di tornare alla sua arte.  Marito esemplare, rimase uomo pio e mite: pensando di essere ignorante in tutto, appariva sottomettersi a tutti cercando di non contraddire i sentimenti altrui; fu ottimo padre per i suoi sette figli  (il Soprani dice che non ne ebbe alcuno) che allevò seguendo i principi di rettitudine e religiosità che ispirarono la sua vita.

Si spense  nel nostro borgo, il 14 mag.1741 (altri come il Soprani scrivono: “per violenta malattia, nel 1743, al cinquantesimosecondo del viver suo”) a poco meno  di  53 anni.

Già da molti secoli prima, dai tempi delle Crociate, essendo la spiaggia di San Pier d’Arena rinomato cantiere di navi di tutte le stazze, ed essendo in uso abbellire gli scafi con sempre più pregiati intagli e sculture, la scuola locale di questi artisti del legno fu sempre all’avanguardia ed assai ricercata: il Novella ricorda altri due valenti artisti intagliatori: Giuseppe Forlano e Filippo Santacroce (quest’ultimo fu incaricato di abbellire la poppa della galea capitana della Repubblica, scolpendovi l’arrivo a Genova delle ceneri di san Giovanni Battista)

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica, scheda 3546

-AA.VV.-Annuario guida Archidiocesi- ed./94-pag.431; ed./02-pag.467

-AA.VV.-Scultura a Genova e in Liguria-Carige-vol.II-pag.287

-Gazzettino Sampierdarenese: 6/88.9

-Galassi MC.-Venite adoremus- Tormena.1993. pag. 39.57

-Genova,  Rivista municipale: aprile/37.33

-Grosso&Bonzi&Marcenaro-Le casacce e la scultura lignea-Goffi.’39-p.25

-Il Secolo XIX del 31.1.04 +

-Lamponi M.- Sampierdarena – Libro Più.2002 – pag.199

-Novella P.-Strade di Genova-Manoscritto bibl.Berio 1930circa-(pag.7.11)

-Soprani&Ratti-Vite de’ pittori, scultori e…-Tolozzi.1965-vol.II-pag.289

-Pagano/1933-pag.247; /1961-pag.338

-Pastorino&Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi 1985-pag.1484

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.35

-Rosselli B&E-Santa Sabina restituita alla città-LaCasana 1/1985-pag 39

-Stradario del Comune di Genova ediz.1953-pag.141

 

-non citato su  Enciclopedia Motta e Sonzogno  + Paolo Novella  + 


PITTAMULI                              vico Pittamuli

   Il 2 febbraio 1914, al sindaco venne sottoposto la necessità di cambiare nome al vicolo, già denominato’Guerrazzi’, oggi dedicato a Nicolò Bruno.       

Allo scopo vennero proposti due nomi a scegliere: vico Balilla oppure vico Pittamuli. Fu scelto il primo, e del secondo non ci appaiono altre alternative nella toponomastica di San Pier d’Arena.

Citato anche dall’ Accinelli, partecipe all’insurrezione e quindi testimone diretto,  Pittamuli è il soprannome di un altro eroico ragazzo di dieci anni (undici scrive Quinto) che, anche lui, compì un significativo gesto di ribellione alle truppe austriache e che coronò l’ insurrezione di massa, in altra parte della città: due giorni dopo l’episodio del Balilla, mentre in città sempre più lievitava la ribellione all’invasore, per ordine del Botta un corpo di trecento soldati (stanziati dal Bisagno) aggirando le mura tentarono riunirsi al generale (attestato a SanPierd’Arena); ma gli abitanti di san Vincenzo, accorti della manovra iniziarono a bersagliare i granatieri costringendoli a tornare indietro fino al ponte di sant’Agata ove si riunirono con altri che sloggiavano la zona di santa Chiara. Nel proseguire la ritirata, lasciarono asserragliati in una osteria vicino al ponte un distaccamento di cinquanta soldati a retroguardia. La folla pose assedio da lontano a quella posizione difensiva, e stazionava finché il ragazzo partì per primo scaricando una pistola (a dieci anni?) e con una fiaccola atta a  incendiare le masserizie ricuperate dai soldati e messe a difesa del posto. Così presi tra il fuoco interno e la folla urlante, la guarnigione preferì arrendersi ai Bisagnini.

   Evidentemente a corto di soldati, nei disegni del Botta era attendere i rinforzi, chiamati dalle riviere e da Novi; tentò di comandare il Senato affinché provvedesse lui a  disperdere i rivoltosi, ma questi non cadde nell’errore di proteggere l’odioso ed inviso invasore;  ed il popolo ormai in armi e con sorprendente compostezza militare gestita da pochi ma validi capipopolo, riuscì a sloggiare gli invasori da tutti i punti ove erano attestati e farli fuggire fuori delle mura, spedendoceli a SanPierd’Arena in rovinosa e rabbiosa fuga. Da qui asserragliato, non però raggiunto da truppe sufficienti, anzi perdute anche le  molte che in città si erano arrese, dovette ritirarsi verso la Bocchetta,  lasciando orribili segni del furore e della rabbia

BIBLIOGRAFIA

-Bargellini M. -Storia popolare di Genova-Monni.1870.vol.II-pag.487

-Pastorino.Vigliero-Dizion. Delle strade di Ge.-Tolozzi 1985-pag.1484

-Quinto GB.-Le targhe delle strade-Pagano.1979-pag.176


POLCEVERA                                    via Polcevera

 carta del Vinzoni del 1757

Primitivo ed antico nome  dell’attuale via Giuditta Tavani.

In una ‘laus’ dell’anno 1144, firmata dai Consoli per richiesta dell’arcivescovo di Genova, venne riconosciuto che fino al torrente tutte le terre di fronte alla proprietà dell’arcivescovato (l’abbazia di san Martino) erano di proprietà della Chiesa. Fu probabilmente in questo terreno che si aprì il primo cimitero, in riva al torrente ed in zona circondata da pioppi (’albera’) e non cipressi; i ricchi venivano sepolti in chiesa; solo i poveri finivano nella terra e – probabilmente – in fosse comuni non esistendo ancora la cultura cimiteriale impostamolto più tardi, da editti napoleonici.

Nella carta del 1757, compaiono i nomi dell’allora proprietari: a monte della strada il mag.ca  Lomellini Giovanna con una casa, ed a mare Lomellini Stefano q.Carlo con due case sulla strada principale.

Nella carta dello stesso Vinzoni del 1773 ma nell’Atlante del ‘Dominio della Serenissima...’, ripropone il tracciato della strada, che arriva perpendicolare al torrente dove piega  per costeggiarlo sino al ponte di Cornigliano (qui era un molino; e la strada proseguiva sino al mare con il tracciato chiamato ‘della crosa del ponte’ di Cornigliano.

Esistendo nella strada a metà del 1800 tre abitazioni di un Daste (al 4b, 4d, 4e della numerazione di allora), e sempre in considerazione dell’uso di definire una strada in rapporto al punto pìù noto di riferimento -non esistendo ancora i nomi comunali-, era d’uso chiamare “vico Daste”(vedi) anche quel tratto vicino (è scritto: “ a notte di via Polcevera”), che poi dopo fu ufficialmente chiamato via Calatafimi ed oggi via C.Orgiero. Invece negli anni vicino alla fine del 1800 i proprietari delle  case furono: al civ. 1 Ballestrero, Bisio e C; 2, Bruno, Gardella, Roncallo e C; 4 e 4a Parodi Andrea e C; civ. 4b Somano; 4c e 4d Bianchi e C.

Sarà in quegli anni che – costruendo la ferrovia – la via fu soprapassata dalla strada ferrata,  lasciando uno stretto percorso a tunnel che probabilmente ripropone la dimensione della strada originale.

Nel dic. 1900 il regio Commissario straordinario propose alla Giunta comunale la conferma del nome di “via Polcevera”: evidentemente fu ottenuta, perché è del genn.1901  l’apposizione della prima targa in marmo, eseguita da una impresa locale (Barabino-Calvi-Rebora) e, come dice il documento,  posta nella strada “da via Vittorio Emanuele (via W.Fillak) a via Garibaldi (via Pacinotti+Spataro)”: quindi era compreso anche il voltino sotto la ferrovia.

 

 

Nel Pagano 1902 unico esercizio è quello di Oneto Domenico che ha una delle tre fabbriche locali di fiammiferi in legno.

Nel 1910 era ancora via Polcevera, “da via Umberto I verso la Ferrovia”,  con civici sino a 3 e 4, ufficialmente riconosciuta  dall’Ufficio di Anagrafe e statistica del Comune. 

Il Pagano 1911-12 vi segnala(ambedue non presenti dal 1919), una fabbrica di fiammiferi in legno, di Oneto Domenico---; ed il forno di Bunioli Giuseppe.

Negli anni subito a seguire (1914 circa), tale denominazione fu annullata a favore direttamente di Giuditta Tavani.

Ma, come sappiamo il Pagano/20-25 ancora vi include  –non specificato il civico- la rivendita n.6 di sale e tabacchi di Porcile Maria.

Per il Polcevera torrente, e la Tavola del Polcevera, vedi “Argine”.

 

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale    in palazzo Ducale

-Belgrano LT-il registro della Curia arcivescovile-Soc.LigStP-vol.II-p.71

-Novella P.-Strade di Ge.-Manosritto bibl.Berio.1930ca-(pag.17)

-Pagano/1925

-Vinzoni M-Il Dominio della serenissima Repubblica di Genova-1773-


PONTE                                      crosa del Ponte

 

 

Se la strada romana per le riviere saltava completamente le spiagge di San Pier d’Arena  e Cornigliano, passando nell’entroterra, via Rivarolo-Begato-Sestri; e se pure i traffici di ogni genere tra i vari borghi rivieraschi, anche per questi brevissimi tragitti, erano sempre favoriti via mare, è innegabile che fin dagli anni prima del 1000 si sentì il bisogno di comunicare anche via terra, essendo il borgo già ben strutturato (nel 1039 - è documentato - aveva anche un servizio di guardia).

Tre strade confluivano al Ponte: quella centrale più antica e diritta; quella dalla parocchia proveniente, da nord, costeggiante il torrente ed usata pressoché solo per le funzioni ecclesiali da parte di chi abitava nella zona della foce; e quella  proveniente dalla marina: quest’ultima,parallela al mare, poco prima del torrente, tagliava verso l’interno e attraverso prati, orti, frutteti, rigagnoli con molini, si congiungeva – con un percorso a scalino - alla prima.

È quest’ultimo tratto che prese il nome di “crosa del Ponte”,

Nei primi anni dell’ottocento, divenne “strada comunale del Ponte”, affiancata dalle proprietà di Dufour Lorenzo, Rolla Francesco e Pratolongo Rocci (quest’ultimo nella sua villa possedeva una cappella religiosa privata, sinonimo di nobiltà e distinzione sociale), e segnando il tracciato di quella che poi, dopo lo sconvolgimento del territorio per le fonderie Taylor-Prandi (poi Ansaldo), diventerà nel 1901 via Bombrini: in quella data fu infatti proposto il cambio del nome, “da vico Ponte di Cornigliano  a  via Bombrini, per tutta la strada che da via Cristoforo Colombo va all’ingresso principale dello stabilimento Ansaldo e, attraversando via Operai fiancheggiando lo stabilimento suddetto, prosegue fino sotto al Ponte di Cornigliano”.

L’ampliamento progressivo della fonderia, successivamente ingloberà ed accorcerà la strada, sino al totale sconvolgimento con il programma attuato alla Fiumara nel 2000.

   BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Castronovo V.-Storia dell’Ansaldo-Laterza.1994-vol.I-pag.  107cartina

-Gazzettino Sampierdarenese : 9/92.3

-Novella P.-strade di Genova-manoscritto bibl.Berio .1930-pag.16
POPOLO                              via Popolo d’ Italia

 

 

La strada corrisponde alla attuale via A.Carzino.

Fu così intitolata, nel periodo dell’era fascista (durato dal 1919 al 1943-5) eliminando il nome di Goffredo Mameli per decisione del podestà espressa con delibera il 19 agosto 1935, secondaria alla necessità di unificare tutti i nomi della Grande Genova.

Con successiva delibera della Giunta comunale del  19 lug.1945 anche questa titolazione fu cambiata, con la dedica attuale ad Alfredo Carzino.

DEDICATA: corrisponde al nome del giornale quotidiano del partito fascista: era stato fondato a Milano  e diretto da Benito Mussolini, portavoce ufficiale del nuovo partito nato dopo la marcia su Roma.

Ma aveva iniziato la tiratura molti anni prima, dal 15 novembre 1914, con articoli interventisti nella previsione del prossimo conflitto mondiale: anche per questo, dieci giorni dopo, Mussolini fu espulso dal partito socialista. Le due citazioni (tratte la prima da Napoleone e l’altra da Auguste Blanqui) che corredavano il frontespizio, erano eloquenti sulle intenzioni : «La rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette» e «Chi ha del ferro, ha del pane».

Il giornale, come detto, nacque come quotidiano con lo scopo di supportare la minoranza interventista del Partito Socialista italiano.    Oppositori erano i neutralisti del Partito Socialista Italiano,  ed i pacifisti (tra questi ultimi la Chiesa, guidata da Benedetto XV, ovviamente attaccati sulle pagine del giornale e tacciati quali ‘conigli’; l'arcivescovo di Milano condannò vietando la lettura del quotidiano ai fedeli, mentre il Vaticano condannava lo Stato Italiano per omessa censura arrivando a suscitare quasi un caso diplomatico).

È altresì noto che per far uscire le pagine, Mussolini  accettò non piccoli finanziamenti da industriali interessati all’entrata in guerra: sia italiani (alcune documentazioni attestano il versamento di contributi provenienti da industriali italiani, tra i quali spicca il nome di Filippo Naldi, direttore del Resto Del Carlino, il quale permise la realizzazione del giornale in sole due settimane  procurando sia mezzo milione di lire per le prime spese; garantendo la distribuzione tramite le Messaggerie Italiane e cedendo due dei suoi redattori. Nonché di alri interessati all'aumento delle spese militari per lo sperato ingresso in guerra dell'Italia; fra questi  i gruppi Agnelli e Ansaldo), che francesi e inglesi (già dal 1917 arrivavano 100 sterline a settimana, per l'impegno di boicottare eventuali manifestazioni pacifiste in Italia).

Conclusa la guerra, il 3 ago.1918 venne inaugurata in via Palestro la redazione genovese del giornale, presente lo stesso Mussolini, intorno al quale si erano ormai concentrate le varie forze militari che, nel gennaio succesivo si organizzarono nei “fasci di azione rivoluzionaria”.

Nel contempo, finiti i finanziamenti, si dovette procedere ad una riconversione sia di scopi che economica (tornavano reduci, soldati ed ufficiali; c’erano i morti da onorare; ma soprattutto tanti i mutilati; ma poveri loro, con le finanze statali vuote; si stava creando il caos governativo; non sottacendo una sempre maggiore influenza delle idee comuniste. Il giornale scelse cavalcare la tigre dei rimpatriati, prponendo una riorganizzazione del lavoro (i sindacati erano sul piede di guerra: specie quando l’Ansaldo, da parecchie decine di migliaia di operai, dovette licenziarne molti per ‘diminuzione di richiesta’) e, di conseguenza, una nuova struttura dello Stato

Nel 1922 si creò il partito, ed il giornale divenne portavoce ufficiale del PNF Partito Nazionale Fascista e dell’opera politica di Benito Mussolini.

A fine anno (1 nov.1922) a Benito succedette alla direzione il fratello Arnaldo (vedi); e dopo la sua prematura morte nel dicembre 1931, la direzione toccò a Vito Mussolini (figlio di Arnaldo – e quindi nipote di Benito; carica prevalentemente onorifica perché quasi mai presente, poco attento alle necessità del giornale ed anche poco prolifico come giornalista, al punto che nel 1945 fu processato ma assolto).

I luoghi della Redazione e Direzione, sia quello centrale milanese che quelli periferici, vennero chiamati "il covo" per il fatto che inizialmente erano ospitati in  cantine di normali stabili cittadini ove gli ex Arditi, legati a Mussolini, proteggevano il giornale da attacchi politici nemici.

Il quotidiano divenne, per tiratura, il terzo a livello nazionale.

 

Cessò la pubblicazione il 25 lug.1943 (altri scrivono il 26 luglio), per volontà dello stesso B.Mussolini, dopo che il Gran Consiglio si era pronunciato contro di lui, costringendolo alle  dimissioni.

Nel 1998 venne richiesta da Giuseppe Martorana (segretario e fondatore del movimento Nuovo Ordine Nazionale) al tribunale di Milano la riapertura del giornale. Nel 1999 con identico nome, venne rifondato ma quale periodico mensile, sempre con sede a Milano.

 

Era il giornale di partito, quindi con ideologia unilaterale – come tutti i giornali dei dittatori -  ovvia opera di propaganda usata a larga mano dal potere per suggestionare, incrementare ed esaltare il concetto di ottimale: delle scelte di vita,  superiorità dell’idea fascista,  forza e compattezza nazionale, ecc.. Altrettanto erano  usati la radio, le scritte murali, i raduni,  ed ovviamente le targhe stradali.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale -  Toponomastica , scheda 3636 

-AA.VV.-1886-1996 oltre un sec. di Lig.-SecoloXIX-pag. 173.201.205.354 

-Enciclopedia Sonzogno

-Pastorino.Vigliero-Dizion. Delle strade di Ge.-Tolozzi 1985-pag. 369


PORRO                                      via Enrico Porro

 

 

TARGHE: via - Enrico Porro – Privata

                  S.Pier d’Arena – via – Enrico Porro – 1859-1931    

 

inizio strada a sud, angolo con via V.Capello

 

a metà strada

fine della strada a nord, angolo con via W.Fillak

 

QUARTIERE ANTICO: san Martino

 

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2830   CATEGORIA:  2

 da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   50280

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

 da Google Earth 2007. in fucsia, via VCapello.

CAP:   16151

PARROCCHIA:  san Bartolomeo della Certosa

STRUTTURA:   da via V.Capello a via W.Fillak. Scorre parallela a quest’ultima con doppio senso viario.

Strada di proprietà privata.

Fiancheggiata da palazzi da abitazione ritmicamente uguali, allo scopo di albergare le famiglie dei ferrovieri (da ciò, il nome di “villaggio dei ferrovieri”).

Le case, solo sul retro, ovvero sulla facciata esposta alla strada principale, possiedono accennati elementi geometrici e decorazioni floreali tipo liberty, assai semplici  trattandosi di case popolari per il personale delle Ferrovie, a contorno delle finestre, con disegno diverso nei vari edifici.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera e Nicolay

 

da dare a monte                                                          incombente struttura

CIVICI

Nel 2007, dalla toponomastica di corso Torino:

NERI= da 1 a 11            e da 2 a 16 (compresi 2a, 6a, 10ab)

ROSSI= 20r  (mancano da 2 a 18).

   Nel Pagano/0 è citata, limitata da via V.Capello e via delle Corporazioni. Segnala solo civv. neri 1, 3, 5.

===civ. ___ si apre la palestra del dopolavoro ferroviario (con corsi di danza classica e moderna, ginnastica artistica dall’asilo all’agonistica, ginnastica della terza età ed esotiche orientali).

===civv. 2a-6-6a: assegnati a nuove costruzioni nel 1967

===civ. 4        assegnato a nuova costruzione nel 1968

===civ.  8   assegnato a nuova costruzione nel 1962

===civv.10-12-14-16 assegnati a costruzioni del 1960

 

STORIA:  Iniziati i lavori tra il primo e terzo decennio del 1900,  ancora nel 1932 si erigevano dei palazzi per conto delle Ferrovie dello Stato, non si conosce per opera di quale architetto. Occuparono gli ultimi prati residui rimasti liberi dell’antica “piazza d’Armi” il cui terreno probabilmente era già proprietà delle FF.SS..

La strada è racchiusa ai lati tra via W.Fillak ed un muraglione delle ferrovie,  che in fondo -a nord- diramano un binario per collegarsi col parco del Campasso tramite un ponte in ferro che chiude la nostra strada e poi passa sopra via principale (Fillak) e anticamente segnava uno dei confini tra San Pier d’Arena e Certosa.

Nel 1933 era collocata: “da via V.Capello”, chiusa, con i soli civici 1 e 3.

Con la costruzione (1961-7) dell’autostrada (vedi in ‘Camionale’) la strada non solo fu sormontata dal ponte Morandi, ma i piloni –studiati per salvaguardare lo scorrimento della via Fillak furono ‘quasi appoggiati’ alle case creando – nei poveri possessori degli appartamenti - un incombente muraglione di cemento eliminando ogni altra visuale.

Come scritto sopra, molti sono stati rifatti nel dopoguerra.

Fa ancora parte del quartiere del Campasso.

 

DEDICATA  All’ingegnere nato nel 1859 e morto nel 1931, progettatore della prima linea ferroviaria della Liguria-Piemonte.

Come descritto in via Buranello, nel 1840 re Carlo Alberto firmò una ‘Regie Lettere Patenti’ con la quale dava autorizzazione ad una società privata affinché intraprendesse gli studi necessari per la costruzione  di una strada ferrata tra Genova ed il Piemonte-confine lombardo. Questa società, fondata e composta da banchieri e negozianti diede l’incarico all’ing. Porro perché studiasse un progetto di massima: questi dopo il tempo necessario propose praticamente l’itinerario ancora attuale: da ‘fuori le mura’ o dal porto o da  San Pier d’Arena, lungo la valle Polcevera, iniziando a salire per piani inclinati da Pontedecimo-Riccò fino al livello di 340m slm, dove iniziava un tunnel lungo 1800 metri sotto il colle dei Giovi sino a Busalla, valle dello Scrivia, Serravalle, Novi, Bozzolo Fornigaro: qui una biforcazione. Una linea verso Bassignana per attraversare il Po e, attraverso la Lomellina raggiungere Pavia; l’altra arrivare ad Alessandria e proseguire per Torino lungo la valle del Po o del Tanaro.

   Nei pochi anni seguenti, sia il regio governo che la società, ebbero modo di cambiare buona parte delle regole iniziali .Non si suppone per sfiducia; anzi nelle clausole del contratto con la società promotrice, si rileva fiducia della casa reale verso l’operato della società stessa, ma  più d’una e pesanti appaiono le precauzioni e le sanzioni, per questi motivi io credo il progetto iniziale del Porro fu sottoposto a consulenza del celebre ingegnere inglese Brunel che contava allora  il primariato mondiale di esperienza in quel ramo (il padre Marco Isambard Brunel, 1769-1849 era francese: rimase famoso per essere stato capo ingegnere di NewYork, aver costruito  a Londra la galleria sotto il Tamigi, aver firmato molti importanti progetti  portuali, navali e ferroviari. Più probabile quindi che il Nostro sia stato il figlio Kingdom Isambard Brunel, 1806-1859, nato a Portmouth, famoso per aver collaborato col padre alla progettazione della galleria sotto il Tamigi, per aver progettato ponti, opere portuali, e soprattutto linee ferroviarie divenendo ingegnere capo delle Great Western Railway per la quale progettò opere di ogni genere; finì la carriera in costruzioni di colossali piroscafi di stazza di molto superiore a quanto si riteneva sino ad allora possibile): dopo alcune dilazioni, nel 1843 questi confermò il tracciato del Porro tranne il  punto di attraversamento del Po.   Non si sa bene perché, ma anche la galleria dei Giovi fu aperta con inclinazione e lunghezza diversa, risultando alla fine quella attuale, lunga 3100 m..

Dopo di ciò nulla più si conosce di questo ingegnere progettatore, divenuto importante nell’ambito delle Ferrovie dello Stato: venne promosso Capo del compartimento di Genova. E con questa veste, che studiò i progetti delle linee ferroviarie in porto e nelle zone limitrofe al CAP specie nella nostra città (nell’interno del porto esiste una sviluppata rete ferroviaria che nell’insieme supera i cento km. E’ gestita da una Sovraintendenza specifica; San Pier d’Arena faceva parte del gruppo di san Benigno e possedeva sia la gestione merci in arrivo-partenza via mare con spedizioni  a PV (piccola velocità) ed a GV (grande velocità), oltre i parchi del Campasso (il più importante di tutti) e quello di Piazza d’Armi).

In più, forse progettò o comunque partecipò -in collaborazione con Vincenzo Capello- alla creazione del ‘rione dei ferrovieri’ nella zona del Campasso ai limiti con la via Campi, in un periodo in cui a San Pier d’Arena c’era ancora una “vorace fame di alloggi”.

In conseguenza,  la strada di accesso alle case dei ferrovieri fu dedicata a questo personaggio, pioniere delle strade  ferrate, quale ‘uno di loro’.

Potrebbe essere suo figlio, il prefetto della Provincia nel 1929, grande ufficiale dr Ettore Porro.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica, scheda 3640

-AA.VV.-Annuario guida Archidiocesi- ed./94-pag.432;  ed./02-pag.469

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno

-Genova, rivista municipale del dicembre 1932

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag. 151

-Michelucci GC-125mo anniversario della ferrovia…-ALG.1978-pag.18

-Millefiore.Sborgi-Un’idea di città.C.Civico SPdA 1986-pag. 54scheda18

-Pagano/1933-pag.248- /40-pag. 379; /1961-pag.344

-Pastorino Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi 1985-pag.1506

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova- Marsilio 1995-tav.10

 

Non citato da Enciclopedia Sonzogno e Motta


 

 

POSTA                      piazza della Posta

 

   è un nome popolare, dato all’attuale  piazza L.Settembrini alla fine del 1800 quando la piazza era senza alcuna titolazione ed apparteneva a via N.Bixio.

Prima del 1901 circa  fu ufficialmente intitolata a  Felice Cavallotti .

Il nome proviene dall’utilizzo del palazzo d’angolo verso la stazione, come sede di uffici postali. Dopo l’unificazione nazionale, il primo ufficio fu aperto in via Battista Agnese (che -nella numerazione provinciale-  porta il n° 205), mentre la  prima sede fu posta in piazza Modena (numero 207) da cui ben presto però gli uffici furono trasferiti nel palazzo di piazza F.Cavallotti.

Dopo questa sede, la direzione ebbe molti altri spostamenti prima di arrivare ai due grossi edifici di via U.Rela ed infine di piazza Monastero.

BIBLIOGRAFIA

 -Archivio Storico Comunale palazzo Ducale

 -Gazzettino Sampierdarenese : 5/88.1   

 -Novella P.Strade di Genova-Manoscritto bibl.Berio 1930circa-(pag.17)

 

  


POSTUMIA                                                                    via Postumia

 

 

 

il tracciato, da Genova ad Aquileia

 

 

NB: ne ho scritto due versioni, che vanno fuse:

 

DEFINIZIONE Lunga strada consolare,  trasversale rispetto la penisola, costruita negli anni  attorno al 148 a.C.. Ponendo perno a Piacenza: caratterizzata da due tratti distinti,  uno occidentale: di nostro interesse; ed uno orientale sino ad Aquileia sull’Adriatico,  testimoniato da un cippo migliare (vedi sotto).

L’itinerario occidentale, appare storicamente il più complesso per le travolgenti modifiche che ha subito nei secoli e per le notevoli incertezze che lo circondano.

 

IL CONSOLE incaricato da Roma di dirigere i lavori, fu il console Postumio Albino. Dal quale, il nome della strada. Ma, tanti sono i consoli romani che portano il nome di Postumio Albino.


A Verona è stato là trovato un cippo molto rovinato, conservato nel museo Maffeiano che segna chiaramente « S(purius) Postumius S(puri)  f(ilius) S(puri) n(epos) Albinus co(n)s(ul) CX(X)II Genua Cr(e)mo(nam) XXVII».          Da esso, il nome del costruttore ed i due capisaldi Genova e Cremona; la distanza di CXXII milia passuum.

 


 Sanguineti (riportando la tesi dello storico Serra) presuppone che abbia iniziato la strada  A. (che starebbe per Aullo, detto il Losco e che fu console in un periodo non preciso e fissato tra il 574 ed il 180 aC.); e proseguita da  S. (che sta per Spurio e che fu console 32 anni dopo il precedente).

 

LA DATA   I lavori per aprire un tracciato che congiungesse la pianura padana con la città di Genova,  è concorde il parere degli studiosi (Strabonio e Tacito) che  fu terminata nell’anno 148 avanti Cristo; facendo il conto –in estremo difetto- dei 32 anni di differenza nell’operato dei due autori e non esistendo atti sicuri e determinanti.

 

 

 

 

PREMESSE

A) Appare storicamente ed  in assoluto, anche se marginalmente, che sia stata la seconda strada romana  tracciata sul nostro territorio.

La prima è misconosciuta, probabilmente perché non fatta bene e rapidamente autodistrutta. Questo primo percorso, poi ovviamente abbandonato per non uso, appare essere stato già tracciato nel 218, 197 e 154  a.C. per il passaggio di truppe da Genova verso Piacenza e viceversa (episodio della seconda guerra punica e romano-liguri-leggi sotto).

Non va sottovalutata poi la priorità di una rete di comunicazione risalente ad epoca etrusca (testimoniata sia come insediamento, in Genova, rappresentata da abbondante ricchezza di reperti nella necropoli trovata -ove scorre via XX Settembre- a significato del porto quale emporio centrale di scambi per via mare ma anche per via terra,; e sia lungo la valle Polcevera avendo ritrovato tracce etrusche fino ai piedi della Alpi Cozie). A proposito, lo storico Braduel F. cita: “i porti sono per natura all’incrocio delle vie terrestri e acquee”.

B) esiste una consistente frangia di studiosi che non accetta né la data né il percorso, né altri particolari della storia seguente. Una gran confusione.

Infatti, tutti ovviamente, descrivono il percorso; ma quando si tratta di scendere nei particolari specialmente da Pontedecimo al mare, per quasi tutti i loro scritti ‘volano alti’ e scavalcano qualsiasi dettaglio: saltano questi 11 chilometri -fino a Genova- in un sol colpo. Ciò, in massima parte, è dovuto all’assenza di reperti tanginbili. Questo aspetto è stato affrontato solo dalla prof. Praga la quale ha percorso a piedi le varie possibilità, trovando uniche e molto vaghe vestigia, nessuna della strada ma di impianti databili romani e preromani, attraverso i quali –forse- passava il tracciato. Su questa base ella, alla fine, ha fatto le sue logiche deduzioni che però -a loro volta- sono insufficienti per dire che “fu così” senza lasciare spazio ad altre ragionevoli interpretazioni.

Un esempio della confusione è rilevabile nel librettino edito dalla Provincia, intitolato “Le rotte terrestri del Porto di Genova” nel quale, a pag 13  si presume -per la Postumia - un tragitto passante per salita degli Angeli, ma da qui salire verso Fregoso per arrivare a Begato; nella pagina seguente si accetta un’altra via che percorreva la sponda destra del torrente (dal Boschetto); mentre la foto grande espone salita al Forte Crocetta, senza spiegare che anch’essa  portava -tutta in costa- sempre a Begato, ma con passaggio non da Fregoso né da basso, ma alto sulla nostra spiaggia, ignorando comunque salita Bersezio e il toponimo ‘Pietra’.

C) Ovvie le successive frammentazioni della sua unitarietà di percorso variate nel tempo per le cambiate necessità di destinazione merci, topografiche, politiche, orografiche, ecc. (alcuni tratti vennero  totalmente esclusi forse perché pericolosi per brigantaggio o impercorribilità; altri variati per temporanei disusi; altri trasformati ad uso locale).

D) proponiamo una cronologia storica, mirata a capire le premesse alla strada.

---fine del VI secolo aC sono sicuramente attestati scambi commerciali ‘internazionali’ usando le vie marittime. Ma altrettanti, usando la via terrestre, verso l’area padana. La cospicua presenza di materiali artigianali (etruschi, fenici, cartaginesi, greco-tirrenici, nonché oggetti di provenienza golasecchiana, evidenziano già in quest’epoca stretti rapporti commerciali tra il  nostro capoluogo e la pianura padana con prevalente direttrice Valpolcevera (futura Postumia).

 ---fine III secolo, e tutto il II secolo aC.-.  è rappresentato  dalla fine della prima guerra punica e dall’espansionismo romano nella Liguria di allora (dal Po al mare) e nella Gallia Cisalpina,  mirato alla capillare penetrazione nelle regioni del nord dove la frammentazione etnica dei Liguri  costrinse Roma ad una serie di guerre tutt’altro che facili:

---anno 238 aC : T.Sempronio Gracco contro gli Insubri e altre tribù dell’interno

---        236      : L.Cornelio Lentulo  celebrò il primo trionfo ‘de Liguribus’. Lamboglia propone questa data come ‘fissazione’ di Genova quale porto ufficiale romano fortificato (assieme a Luni e Pisa).

---       233      : Q.Fabio Masimo sottomette la Liguria orientale (quando Genua era già ‘civitas foederata’ che ospitò l’accampamento romano impegnato contro i Boi ed Insubri).

---       222 aC : inizia la seconda guerra punica che vanifica i risultati =Boi ed Insubri si alleano con Annibale ed assaltano Piacenza e Cremona. Forse, nel 218 C.Cornelio Scipione sbarcò a Genova proveniente dalla Gallia (narrazione di Livio:”ipse cum admodum exiguis copiis Genuam repetit eo, qui circa Padum erat exercitus, Italiam defensurus”), per raggiungere la valle padana dove era Annibale. Genova (diventata non solo base navale ma anche caposaldo militare) viene assalita da Magone (205 aC); l’urgenza con cui dopo due anni Roma la fa ricostruire da Spurio Lucrezio con lo scopo di renderla capoluogo,  ne dimostra l’importanza.

G.Cera (pag.23) pone in questi anni (200 aC) il capolinea in Genova della ‘via Aurelia nova’; ed evidenzia come nel periodo tardo imperiale, secondo l’Itinerarium Antonini, mancando un collegamento diretto con Vado, l’Aurelia  rifaceva un tratto della Postumia: -dopo la città- la Valpolcevera ed un percorso interno passante per Libarna ed arrivante a Tortona da dove, per scendere a Vado, passava da Aquae Statiellae

---      197      : Q.Minucio Rufo partendo da Genova occupa militarmente la direttrice occidentale verso la pianura padana (previene così la nostra strada), assoggettando 15 tribù liguri dell’Appennino (tra i quali Litubium –forse Retorbido- e Casteggio) garantendo sia una linea di difesa continua tra i tre caposaldi  strategici militari (Genova e Piacenza-Cremona nel frattempo –190 aC- liberate dai Galli Boi da P.Cornelio ScipioneNasica) e  sia la nascita della via Emilia (187 aC). Prosegue così l’espansione verso il nordovest:

---anno 181 aC : vittoria sugli Ingauni

---      180       : deportazione degli Apuani

---      179       : sottomissione degli Statielli

---      166       : vittoria sui Liguri Eleates, definitiva nell’anno  158.

---      154 aC :  Q.Opimio partì da Piacenza verso Genova, per sedare la rivolta della tribù degli Oxibii e dei Deciati.

---      148        : Per collegare, e quindi  finalizzare, consolidare e far assimilare questo lento e difficile processo di romanizzazione, ecco nascere la POSTUMIA.

-         117        :la tavola del Polcevera

-         110        : la via Aurelia

-         100 ca,  : Strabone definisce Genova ‘emporio’ per i Liguri dell’entroterra (ovvero oltre Appennino). Lamboglia descrive un documento in cui a quella data Genova è definita ‘municipio di diritto romano, iscritto alla tribù Galeria’

-          13         : apertura della via Iulia

 

LO SCOPO accettato da tutti gli Studiosi, quello determinante di strada militare ovvero spostamento di truppe (con esse, definire il  controllo delle popolazioni indigene da assoggettare e stabilizzare la regione  premiando le tribù filoromane).

Se per Roma la stabilizzazione delle città costiere non fu facile, ma con caposaldi di certa fiducia e fedeltà, assai meno facile fu il riuscire a domare le varie tribù interne dell’Italia nord-occidentale, per definizione di tutti, dei Liguri. Ci riuscì a prezzo di rinnovate battaglie, quasi tutte vinte specie quelle in campo aperto –per un ottimale schieramento-, ma ciascuna con decine di migliaia di morti per indicare il grosso apporto umano che doveva essere ogni volta raccolto e trasferito: da ciò, per Roma,  la necessità di strade

Ma i romani non erano militari fine a se stessi: l’organizzazione armata aveva dietro altri importanti scopi: uno, creare una specie di confine con gli Insubri (che attraverso patti ‘foedera’, dimostrarono preferire il mantenere l’autonomia), e non ultimo  quello commerciale, anche se prevalente a senso unico; cioè usufruire dei territori per esportare si  cultura e sicurezza, ma importare gratis le materie prime esistenti nella zona. Quest’ultimo meccanismo si può applicare anche assalendo una nave, un borgo, una città, saccheggiandoli; conquistare il territorio è uguale; ma significa la volontà di stabilizzare il rapporto, crearlo duraturo e non fugace.

Quindi, raggiunse –una volta esistente- anche una non poca importanza commerciale per Genova ed il suo interno, testimoniata dalla Tavola del 117 a.C..che cita la strada ben tre volte a testimonianza di punto di riferimento.

Per fortuna della Repubblica di Genova, questa strada non fu mantenuta funzionante; cosicché in seguito se non fu mai sufficiente a inserirci nella storia dell’Italia che si sviluppò -per 1800 anni, nel bene e nel male- quasi solo e sempre al di là degli Appennini, ci preservò per molte volte inopportune invasioni.

 

LA STRADA

a) il progetto

Il tracciato fu progettato trasversale rispetto le strade che da Roma ascendevano al nord; e lo scopo era di collegarle tutte tra loro per ovvio più rapido spostamento delle truppe e migliore controllo del territorio.

Questo fa presupporre che i romani già possedessero delle mappe per avere una visuale d’insieme di un territorio così vasto. Comunque, localmente, il tracciato in genere doveva ricalcare quello dei sentieri vicinali, specie quando si trattò di traversare l’appennino.

b) schiavi il lavoro fu fatto fare da schiavi e prigionieri. Le battaglie, ne procuravano a sufficienza, quando ne saranno occorsi qualche migliaio; con tutta una organizzazione dietro. Personalmente, proporrei questa osservazione come una delle basilari: nell’aprire la strada, necessitarono molti operai e materiale; visto che le battaglie vinte e con esse le terre conquistate contemplavano non le coste ma l’interno, è più probabile che  da Libarna siano arrivati a Genova e non viceversa. Avvalorata dall’idea dell’usuale utilizzo –secondo mentalità militare romana- di trasferimenti via terra.

Probabilmente la strada fu iniziata in più punti, come è in uso anche attuale con plurimi appalti. Pertanto, a mio avviso, la massa di schiavi fu concentrata a Piacenza ed a Cremona, e da là iniziò l’immane sforzo costruttivo, verso Genova, durato molti anni. Se tale massa di gente fosse stata sbarcata a Genova, forse rimarrebbe traccia mnemonica di questo esodo ed operazione di grosso respiro.

Ai lavoratori, i militari dovettero far fare degli sforzi immensi e gravosi (possiamo immaginare l’Appennino con i suoi boschi e pendici rocciose o franose e ripide, d’inverno con diluvi che distruggevano tutto se non molto ben impiantato); lo dimostra che da alcuni studiosi fu chiamata ‘Erculea o Eraclea’ perché somigliante al percorso dell’eroe durante la decima fatica (vedi Aurelia);  ma è più saggio pensare che utilizzò i sentieri lungo costa già usati e che quindi non attraversò l’Appennino sia in senso mare-Po, che inverso come suggerì Tito Livio per un improbabile percorso risalente il Rodano, attraversante le Alpi Graie (da lui, che era greco), ridiscendente al mare (il percorso della Postumia) per scendere nel sud Italia e tornare in Grecia)

c) la direzione

Mille storici, mille ipotesi; nessuna certezza: leggendo la bibliografia si desume che ciascun autore cerca di impersonarsi nel console romano, e suggerisce dove ‘lui sarebbe passato’.

Non è quindi importante stabilire se Genova fu punto di arrivo o di partenza della strada; anche se tutto fa optare per la prima ipotesi. Perché erano già funzionanti le strade oltreappennino Flaminia ed Emilia; perché i liguri ribelli erano prevalentemente quelli dell’interno; e perché  per l’esercito romano - in caso di necessità di portare truppe in Liguria - i metodi potevano essere due, o via nave (la migliore, ma occorreva avere tante navi, e non sempre era facile averle libere e disponibili in quantità necessaria); oppure da Piacenza ‘calare’ verso il mare.

Per la seconda ipotesi opta che ‘le miglia’ vengono contate a partire da Genova (da Cipollina definita ‘umbilicus urbis Ianue’)  ed il primo miglio fissato in località poi chiamata s.Limbania, ove sorse l’abbazia di s.Tommaso. Secondo miglio è dove la definizione ‘Pietra’, posta alla fine del Campasso (la zona è comprensibile dalla base del Torrente, alla sommità del Colle omonimo se le merci transitavano in basso –d’estate- o a mezza-alta costa nelle piogge d’ autunno e nevicate;  e prima di arrivare a Rivarolo dove esisteva un ponte che (tavola Peutingeriana) portava ‘ad Figlinas’ ed al ponte del ‘Decimo Miliario’ (Pontedecimo= no essere decimo ponte ma decimo miglio=pons ad decimus lapidem).   

A) da Piacenza a Tortona. 

Quindi, dal monte al mare, con brevissimo accenno (perché poco interessa a questa ricerca tutto questo cammino,un lungo tratto e tutta una storia che coinvolge i confini della Repubblica e l’entroterra).

Possiamo far cenno che nel procedere in questa direzione, è ovvio che i vari cantieri aprirono punti di rifornimento e concentrazione del materiale necessario;  alcuni acquisirono struttura di borgo con relativo nome

Tutti d’accordo, gli Storici per il tratto: Piacenza →Camillomagnus→-Iria (Voghera)→Dertona (Tortona).

B) da Tortona alla Bocchetta

Qui iniziano le prime sostanziali varianti, tutte possibili, nessuna dimostrata. La vera Postumia ebbe un solo tracciato. Ma  perduta qualsiasi traccia, ognuno dice la sua. Al lato pratico, tante e diverse opportunità si offrivano a chi voleva arrivare al mare

Ma poiché il passaggio attraverso la Bocchetta è sempre stato privilegiato nel medioevo e rinascimento, sia nei viaggi dei quali rimane traccia (monaci, ambasciatori, eserciti invasori; siè invogliati a pensare che anche in epoca romana fu la via preferenziale, e corrisponda a quella della Postumia).

1) da Dertona,  il percorso poteva  seguire il fiume Scrivia. Lungo il quale avrebbe  trovavo -dopo Serravalle- Libarna. Sin qui, è ragionevole. Ma,  ma così seguendo, il fiume avrebbe portato da Busalla ai Giovi (Puncuh).

O proseguendo,  da dopo Isorelle al passo della Vittoria.

O arrivare a Casella dalla quale scendere da Crocetta d’Orero a Serra Riccò, e proseguire per s.Cipriano;  Per Miscosi, l’Eraclea era quella che da Libarna per la Valbrevenna (via breve) passava per Crocetta d’Orero (da Oeum), scendeva a Torrazza (dal latino Tauricia), risaliva al Garbo.  A Sarissola vantano una sosta di Liutprando nel ritorno a piedi con le ceneri di s.Agostino.

O a Montoggio (da dove calare in val Bisagno).

2) Da Dertona  seguendo →fiume Lemme (oggi con Novi, Gavi, Voltaggio):  si sale direttamente → fino ai 772 metri di quota della Bocchetta.

3) Da Dertona seguendo in parte il fiume Scrivia lato destro fino a Libarna (posta a XXXVI miglia dal caput viae) ed a  Pietrabissara; qui deviare per → risalire fino alla Bocchetta.

C) dalla Bocchetta a Pontedecimo

Pressoché tutti concordi nel trovare in Pontedecimo, il punto logico di stazione di posta (Pons ad decimum lapidem=ponte sul torrente al decimo miglio romano=14 km da Genova).

Dislivello enorme per quei tempi, forse mai superato nelle altre strade romane: dai 772 m/slm del passo, fino a PonteX . D’inverno doveva restare chiusa a lungo. D’estate era percorso da briganti. 

Dal passo, gli itinerari di discesa sono più d’uno: il più antico percorre dopo Libarna, Fraconalto e Bocchetta→ Reste (ex postazione romana di controllo della strada)→ Pietralavezzara (marmo verde)→tre possibilità: la più antica è →Campora (la Parascevi della Tavola bronzea)→Cesino (alberi di ciliegio; Sexino è citata nel 996 dC)→PonteX (con castello romano, più volte distrutto fino all’ultimo nel 1920).

Altre, più tardive, da Pietralavezzara→Campomorone (=albero di gelsi e/o castagne; toponimo trovato esistere dall’anno 1163); oppure Pietralavezzara→Langasco (sede dei Viturii Langenses; rimenzionata nel 993 dC); →Costagiutta→Paveto (XIII secolo); oppure Costagiutta→Fumeri e borgo Malopasso (XV sec.).

D) Da Pontedecimo a ....  Se multiple sono le tesi da Tortona a Pontedecimo, molto più complicate  e disponibili  -da questo borgo- a ventaglio, le possibilità di approccio a Genova.

Non esistendo reperti romani aC, ma solo dC,  ciascuna teoria  appare possibile.

Per il nostro borgo, non ci sono tracce né anteC né postC.

a) la maggior parte degli Studiosi, saltano qualsiasi riferimento fino a Fassolo (la chiesa di s.Tomaso-oggi distrutta- possedeva  tracce di epoca romana; anche a Prè sono state trovate tracce dell’epoca; così come lungo l’asse della linea costiera,  per toccare tutti i vari piccoli approdi e relativi insediamenti suburbani del ponente, fin  sotto la porta perimetrale a Banchi ed all’attuale piazza s.Giorgio.  Il tutto relativamente confermato da necropoli cristiane,ma, dC..) e fanno arrivare la strada a Genova tutta in un volo.

b) lo storico Cirnigliaro, da Pontedecimo fa salire la strada a san Cipriano, passare per Morego, torrente Secca, Cremeno, Begato, val Polcevera, Granarolo, Genova in piazza oggi san Giorgio. (Mi sembra un inutile sali-scendi attraverso i monti quando la strada lungo il Polcevera era molto più facile; forse, quando il torrente era in piena).

c) alcuni altri, scendendo sul lato destro o di ponente del torrente, fanno transito a Fegino (per riscontro di resti di un forno di cottura (fornace?)con ceramiche etrusche e comunque preromane. La tavola peutingeriana del 330 dC cita –e non a caso quindi-  ad Figlinas (dal sostantivo latino ‘figulina’ ovvero argilla, e quindi o cava o fabbrica di vasi- riporta la distanza VII miglia (=10,5 km, possibili corrispondenti alla Postumia).

Con due pareri diversi: - c1) alcuni studiosi negano poi un tratto verso Genova: secondo loro, essendo la strada a scopo militare e dovendo le truppe portarsi nel ponente ligure, a Fegino piegava  verso Sestri e proseguiva verso la Gallia. - c2) per altri appare sciocco non arrivasse a Genova ( perché capoluogo,  per rifornimenti tramite il porto, per ordini e messaggi da e per Roma, per la comodità dei consoli addetti alla strada; e quindi la fanno proseguire a  T: verso la città e verso il ponente lungo il mare.

Ma anche qui, c2a) alcuni proseguono diritti sino a Cornigliano restando sul lato destro; altri c2b) a Fegino attraversano un ponte e passano sulla sponda sinistra;  e sino alla città aprono un tracciato che sarà ricalcato dall’Aurelia.

d) Melli Piera (in Vie Romane in Liguria di Luccardini) propone: Pontedecimo- Morego- Cremeno- Campora di Geminiano- Granarolo-salita Angeli. 

e)Bassoli propone tracciato sulla dx del torrente ma si ferma al Boschetto; sulla sinistra, da PonteX arriva alla Certosa di s.Bartolomeo.

f) personalmente, propendo per la teoria 2b); a testimonianza, la Tavola deporrebbe –nella stagione favorevole- per una strada che scendeva col torrente Polcevera, almento sino al Torbella, probabilmente sul lato destro. Qui la strada si biforcava: a destra si poteva proseguire per la riviera di ponente (Fegino, Borzoli, Sestri) oppure, a sinistra passare con un ponte o un guado sul greto di sinistra, sino a Certosa. Qui la zona diveniva paludosa se il tempo volgeva a pioggia, pertanto –dovendo poi in ogni modo superare il colle di s.Benigno per arrivare a Genova-  non conveniva più proseguire sul greto ed arrivare alla spiaggia, quanto invece  risalire verso levante: o al Garbo (ed arrivare dall’alto al nostro Belvedere, passando dall’attuale forte Crocetta);  o alla Pietra (salendo per l’attuale salita VBersezio e per incrociare –sulla cresta del colle del Belvedere- la strada proveniente dal Garbo).

Il tempo –abbiamo scritto- faceva decidere il percorso (d’inverno era meglio la via a mezza costa; d’estate o quelle sui crinali o quella lungo il greto del torrente); ma anche altri interessi giocavano sul percorso da farsi: dove portare le merci (al porto o in una delle due riviere), a chi era indirizzata la carovana (dove veniva ospitata allo scioglimento), le gabelle, le stazioni di riposo, ecc..

Se così furono le cose, il tratto da Genova al Torbella fu identico per tre strade successive: primo per la prima Aurelia, (nata poco prima: nel 200 aC. per direttiva di CAurelioCotta); secondo per la Postumia; terzo per l’Aurelia rifatta poco dopo (110 a.C. da parte di EmilioScauri).

 da Quilici L & S – sicuramente errato il transito

‘entro’ il territorio del futuro borgo

 

TESTIMONIANZE IN EPOCA ROMANA

--La tavola del Polcevera. La via viene menzionata tre volte sebbene non influisca nella distribuzione dei territori tra le due popolazioni i quali sembrerebbero quindi antecedenti alla colonizzazione romana.

--Strabone. Storico che descrisse la posizione di Dertona (Tortona) riscontrandola equidistante tra Genova e Piacenza: 400 stadi, pari a 50 miglia romane. Purtroppo la sua descrizione non è contemporanea ma posteriore, e fa riferimento a successive trasformazioni che il percorso ebbe a subire specie la deviazione verso Aquae Statiellae che avvenne in epoca augustea (via Aemilia Scauri, poi Iulia Augusta).

--Tacito. descrittore nelle sue ‘Historie’ delle guerre civili tra Otoniani e Vitelliani della seconda metà del primo secolo dC. La strada ebbe funzione determinante per interventi a partenza da Piacenza (Placentia), Cremona, Bedriacum

TESTIMONIANZE IN EPOCA DOPO CRISTO:

anni 0-200 L’incremento economico portato dai romani, conseguente all’assoggettamento dei Liguri, durò fino al secondo secolo dC quando iniziò un declino commerciale con il ponente relativo a un declassamento iniziato con l’apertura della via Iulia (13 aC) che escludeva Genova a vantaggio del tragitto da Acqui a Vado. In questi due secoli, la strada mantenne efficienza inalterata nel settore periurbano fino all’intera Valpolcevera ma quasi solo per interscambi locali (come testimoniano le necropoli e gli oggetti ritrovati lungo il percorso; e fino al tardo medioevo con l’erezioni delle chiese importanti sul tragitto: s.Giorgio, s.Fede, s.Siro, s.Tomaso).

A questi ipotetici fatti commerciali corrisponde una lacuna di documenti e notizie d’archivio che rimarranno sino ai tempi di  Costantino.

Forse tutti hanno una ragione, perché occorre anche un minimo di distinguo per tempi successivi: sino ai tempi medievali il tracciato verso nord era aperto prevalentemente in alta mezzacosta se non addirittura sul crinale dei monti, sia per evitare il torrente non arginato (se non –a tratti- dopo il  secolo XV per le ville private), sia per attraversare i centri abitati generalmente eretti sull’alto dei pendii.

Nel 312 dC Milano diventa capitale dell’Impero; la Postumia viene riattivata per i rifornimenti (grano, olio) che dal porto erano destinati a Milano dalla quale dipendevano Genova e le province sicule ed africane. Pare che nell’occasione, molto più frequentato fu l’itinerario che da Morego e san Cipriano passava per il passo –oggi della Vittoria- e scendesse a Savignone.

Nel secolo, gli Itinerarium Antonini+ tabula peutingeriana+ itinerarium Burdingalense, in epoca tardo imperiale descrivono il tracciato –specie quello orientale- che appare aver già perduto buona parte della sua importanza, comparendo tratti di collegamento divenuti importanti e vitali ed altri caduti in totale disuso: così nell’alta val Polvecera è presumibile siano state create alternative multiple al tracciato ufficiale. La assenza di particolari accenni alla strada in questa epoca, fa supporre che la sua concezione unitaria sia divenuta già frammentaria; l’instabilità idrogeologica condizionò non poco la continuità del percorso, facendo perdere tracce ad esso pertinenti; ma anche ospizi e monasteri, dapprima eretti ‘fuori via’,  furono determinanti per variare il percorso.

Nel 408 dC lo storico Zosimo  racconta di emissari eunuchi inviati da Roma, che accompagnavano la moglie (era la seconda, si chiamava Termanzia ed era figlia di Stilicone) ripudiata alla propria madre a Ravenna: preferirono far vela a Genova e percorrere la Postumia.

Così, risulta che la strada fu poi sfruttata nel 535-554 dC.  dai Bizantini contro  gli Ostrogoti: Procopio scrive che nel 538  i Bizantini –comandati da Mundila, inviato del generale Belisario, giunti a Genova via nave con mille fanti- trasformarono le navi in carri, trainati con scivoli o ruote si inoltrarono occupando Acqui (la più nota; principale sede di vettovagliamento e concentrazione di eserciti) e Libarna (Già in declino), poi insediarono Tortona (favorita perché posta all’incrocio tra la Postumia, la AEmiliaScauri e la IuliaAugusta). Giunti al Po le ritrasformarono in barche ed attraversarono il fiume conquistando Pavia (Ticinum).e Milano. 

Nel frattempo -539 dC- il re d’Austrasia Teodeberto (figlio di Teodorico; morto poi in un incidente di caccia nel 548) dal Gottardo scese a combattere sia Goti che Bizantini: li sconfisse presso Tortona, li inseguì sulla Postumia passando per Genova (che saccheggiò) e poi ancora per l’Aurelia sino a Vado; qui la peste lo indusse a desistere l’inseguimento e tornare indietro.

Nel  569 Onorato, vescovo di Milano, scappò a Genova percorrendo la Postumia, strada previlegiata dai Bizantini che conservarono l’area a sud di essa,  sino ai primi anni del VII secolo.

Nel 590, la presenza dei Longobardi è ormai dominante, malgrado vaghi tentativi di riscossa dei bizantini.  Doventerà pressoché totale nel 603. Nel 590 Agilulfo –duca di Torino- alla morte di Autari (591) sposandone la vedova Teodolinda –politicamente vicina al papa Gregorio Magno e fautrice dell’espansione religiosa cattolica-  divenne  re dei Longobardi. Subito impose l’autorità regia sui duchi ribelli conquistando definitivamente Parma e Piacenza (per una decina di anni, si alternavano i possedimenti di queste due città) e così dilagando verso il mare usando strade già tracciate, in particolare la Postumia ed una della val di Vara, travolgendo i vaghi tentativi di difesa bizantini.

   È legato a questo V secolo, il percorso fatto dai santi Nazario e Celso, che in tre giorni da Genova arrivarono a Milano.

   Fu quando, Rotari re dei Longobardi, nell’anno 636 dC. volendo por definitiva fine alla dominazione bizantina, percorse la strada e –giunto al mare- distrusse la città di Genova e la sua fascia costiera fino a Luni e Varigotti; progressivo controllo amministrativo più che militare, fino all’integrazione graduale favorita dalla alta religiosità dei longobardi con l’espansione monastica. 

Ancora tutto da risolvere, il viaggio di Liutprando con le ceneri di s.Agostino dell’anno 725 circa, che da San Pier d’Arena raggiunsero Morego, il passo della Vittoria e scesero a Ponte di  Savignone

La Postumia si incrocierà -negli anni 1000- con la via Franchigena come percorso di 900 km. da Gran s.Bernardo (a 2474 slm) -Aosta-Ivrea-Vercelli-Pavia-Piacenza-Pontremoli-Aulla-Sarzana-Siena-Boilsena-Viterbo-Roma)

Se a partire dai secoli a cavallo del 1000 la spiaggia di SPdA si arricchì di cantieri, lo si dovette allo sfruttamento dei rigogliosi boschi dell’interno, specie di roveri molto adatti e pregiati per fabbricare navi; e di abeti (bianco) per i pennoni. Si dovette creare questa prima ‘via dei legni’, necessari anche per le capriate delle chiese, dei tetti e saloni delle case. Per il trasporto non esistevano mezzi se non quelli primitivi: dai colpi d’ascia, alle catene e puntoni per agganciare i tronchi e trasportarli trainati da buoi messi a coppie multiple. Si ebbe cura del selciato per permettere di far scorrere meglio le slitte o i carri (esempio ponendo le pietre non a piatto ma a coltello, che evitava nelle discese che il traino sfuggisse al controllo; e cercando le stagioni che permettessero il non facile scorrere sulle vie d’acqua). Solo l’esaurimento delle scorte dell’alta val Polcevera e la mancanza di una programmazione colturale portarono -nel rinascimento- alla necessità di rifornimenti più lontani, e recapitati sulla spiaggia via mare.

   In questo secolo, sempre per dimostrare un ‘vivace’ transito stradale, inizia e si consolida il potere vescovile nei territoiri oltre appennino: in cambio di protezione si fortificano con castelli i villaggi, i quali giurano fedeltà al vescovo, e curano sia l’agricoltura che i traffici commerciali (e con essi le strade) e le rendite (così Novi, Acqui, Visone, e decine di altri siti ancor oggi eretti nel basso Piemonte).

Abbiamo nel XII secolo l’inizio dell’espansione politica e militare genovese nell’oltregiogo. Direttrice privilegiata dai genovesi fu la val Lemme (Fiacone-odierna Fraconalto-, Voltaggio, Montaldo conquistati con la forza nel terzo decennio di quel secolo. Lo stesso castello del marchese di Gavi  pare fu acquisito non tramite regolare acquisto –come descritto dall’annalista Caffaro- ma ‘manu militari’. Ed altrettanto il castello di Parodi, che nel 1148 dal marchese Alberto Zuata fu ‘ceduto’ per metà (del castrum, della torre e della curia –quale territorio attorno ad un castello-) ai genovesi).

   Malgrado ciò ed in contrapposto, l’utilizzo delle strade andò scemando fino al quasi totale disuso; lo stesso Barbarossa negli anni 1152-62, senz’altro fu frenato dal venire a punire l’insolente Genova, non solo per le fortificazione prontamente erette, ma anche per le difficoltà di avvicinamento ed approvvigionamento.

Infatti la strada fu praticamente sempre trascurata dal governo genovese anche se divenuta l’unica carrettabile nei limitrofi verso nord della Repubblica, comprese Novi, Gavi ed Alessandria.

   Rimase così carrettabile locale (non ‘munita’ ovvero non lastricata né fortificata né servita da stazioni) per arrivare ai confini della Repubblica o nei possedimenti dei nobili: rimangono ancor oggi  i vari Castelli (di Savignone, della Pietra, ecc) dai quali pagare una tassa di passaggio. In effetti le grosse città (Asti, Gavi, Alessandria) e le piccole, divennero sede di pagamento di pedaggi a fronte di servizi di ospizio, cambio animali e ventaglio di ulteriori diramazioni. Ma per questo forse  i tragitti si moltiplicarono formando un intricato groviglio di percorsi secondari e alternativi. Così si spiega, che volutamente fu trascurata, essendo prevalente fonte di innumerevoli grattacapi tra i quali, sia gli ostacoli naturali (esondazioni, frane, crolli di ponti)  che umane (brigantaggio, pedaggi; ma peggio di tutti, che era altrettanto l’unica percorribile dai troppo frequenti eserciti invasori, specialmente piemontesi).

   Giustiniani visse la scoperta della Tavola del Polcevera (1506) e con essa un risveglio di interesse sul tracciato, che si era mortificato per carenza di informazioni, descrivendo sugli Annali (1537) il percorso sino alla valle Scrivia.        

   Con lui, altri autori descrissero la strada sia con perlustrazione dei territori sia con studi su manoscritti (Cluverio 1650 ca; Cellarius, Beretti.

   Nel marzo 1507 vi passò anche re Luigi XII col suo esercito, contro Genova quando era doge Paolo da Novi.  Ma in pratica, su quei sentieri, transitavano solo carovane di  mercanti, soldati di ventura, diplomatici con la scorta, religiosi in trasferimento di sede.

   Nel 1584, il tragitto era ancora percorribile solo da audaci avventurieri pari a quelli che traversavano l’Oceano. Il Senato decise un ammodernamento passando a ponente di Fraconalto (dove passava la precedente) in modo che fosse meno in salita e da renderla carrettabile, e che calasse più dolcemente su Campomorone, dove nelle prime decadi del 1600 fu eretta la ‘salea’ .

   A doppio taglio sempre la conservazione della transitabilità; il timore di accrescere le spese di mantenimento (frane, impaludamenti, ponti marcescenti) -anche se venivano coinvolti i paesi interessati-; e di  facilitare gli invasori.

  L’impervietà del tracciato e la rudezza della vita nell’entroterra, favorì non poco anche il brigantaggio lungo il percorso ed il grave pericolo della diffusione della peste. E non ultimo ma frequente  lo spadroneggiare delle stesse truppe genovesi mandate a difendere i confini e che passando per i paesi commettevano suprusi di ogni tipo (Tuvo Campagnol, propongono allo scopo  documenti sui quali si legge che  il Commissario, il nostro GioVincenzo Imperiale, segnala al Senato che i paesi si spopolano causa  i danneggiamenti delle soldataglie di passaggio. E nel 1625 Antonio Durazzo, scrive da Pontedecimo dell’identico problema: “...saccheggiate dalli soldati che passano li quali hanno fracassate le porte delle case...et rubate le biancherie, robe, denari et quello che hanno trovato in casa et quello che è peggio hanno sforzate moltissime giovani di detti luoghi pubblicamente...la valle è divenuta un bosco di ladri...”.)..

   Solo con grandi lavori di arginatura, nel 1585, fu realizzata una carrettabile sulla riva sinistra del Polcevera; così gli itinerari si concentrarono spostandosi più intensi in basso, lungo il greto, da Pontedecimo a Certosa

   Nel 1625 il duca di Savoia si vide costretto ad interrompere il tentativo di invasione e di occupare Genova, perché “ritrovò impossibile il condurre per esse (strade) le artiglierie. E molto arduo il bagaglio e le provvigioni…”.

   1632. L’erezione delle ultime mura e l’apertura di un limitato numero di porte (tre verso il Bisagno: san Bernardino, san Bartolomeo e Chiappe; una verso nord, di Granarolo; una verso ponente, la Murata poi gli Angeli), costrinsero molti sentieri a confluire trasversalmente da/verso le porte stesse.

   Riferiti al trienno 1637-9, la differenza degli introiti della gabella, per il transito attraverso la Porta di sTomaso e quella di sStefano, evidenzia: pedaggi per approvigionamento della città (£.34.607 contro 612); vino (£. 23.306 contro 23.200); grano (£.3.412 contro 198); carne (£.348 contro 16.464=maggiore per bestiame proveniente dal Piacentino).

   Riassumendo, nel XVII secolo, verso Genova di ponente, contiamo quindi quattro possibilità di percorso:

1)= da Ovada-Asti, Rossiglione, Masone, Turchino, Voltri. 2)= la antica via della Postumia, detta ora ‘della Bocchetta’ (Novi o Serravalle-Voltaggio-Fraconalto, Campomorone-PonteX, valle Polcevera-Genova o Sestri);  3)=oppure la via detta ‘dei Feudi Imperiali’, o Cannellona (gestita in prevalenza dai Fieschi, legati all’Impero ed a Vienna, percorreva da Ortona, Mongiardino, Vobbia,  Crocefieschi, Casella, Crocetta d’Orero,  Vicomorasso, Bolzaneto); 4)= oppure quella delle Capanne (Acqui,  Benedicta Capanne di Marcarolo SMartino di Paravanico, PonteX, Ceranesi- Lencisa- val Varenna,  Pegli).

   Ancora nel 1702 il re di Spagna, e nel 1711 CarloIII, da Milano intendendo imbarcarsi dalla nostra spiaggia per rientrare in patria, costrinsero il Senato a inutili ed effimere riparazioni. Lo stesso nel 1713 quando la carrozza della regina Elisabetta Cristina di Spagna (moglie di CarloIII), si riversò, mentre percorreva il greto del Polcevera.

   Gli austriaci dell’epoca balilliana, con a capo il Botta Adorno, la percorsero nel 1746  nei due sensi, assai avvelenati nel rientro per carenza di bottino (sicuramente cercarono, fuggendo, di rifarsi con i locali).

 Alla ‘pigrizia’ dei Padri del Comune, sopperì l’impresa privata, quando nel 1773 il doge GB Cambiaso fece aprire una strada carrozzabile (completata in tre anni e chiamata popolarmente ‘cambiaggia’) che, seguendo il torrente per otto miglia, arrivava sino a Campomorone (dove si allacciava la strada che saliva alla Bocchetta) per arrivare a Cremeno dove aveva la  villa..

 Agli inizi del 1800 il canonico Bottazzi individuò la posizione -sino ad allora sconosciuta- di Libarna e di alcuni tratti lastricati nelle sue vicinanze.

 Possiamo definire, sino a queste date -anteriori all’arrivo dei francesi- che il genovesato era tracciato quasi per intero solo da mulattiere, con due caratteristiche: una di essere tendenzialmente a mezza costa per evitare inondazioni in basso e nevicate in alto; l’altra di non avere una gerarchia determinante nel senso che le direttrici potevano essere multiple e –seguendo il ventaglio delle valli- ad andamento divergente,  senza tappe obbligate.

Ancora all’epoca di Napoleone, 1800, e poco oltre, la via tradizionale passava solo per la Bocchetta; anni in cui si scrive che era oggetto di transito di oltre 350mila muli all’anno.

  In quello stesso anno, il ‘Dipartimento di Genova’, nei progetti dell’amministrazione francese il tratto Genova-Sampierdarena, si sovrapponeva alla strada n° 14 (Aurelia, inaugurata quell’anno da permettere di proseguire in carrozza fino a Savona e Noli); e nella direzione nord, era interessato con una sola ‘strada n° 210: Genova-Alessandria’, per Campomorone-Bocchetta-Novi, ma con un certo interesse a realizzare una via detta ‘dei Giovi’ verso Busalla (inaugurata nel 1821: da Genova, venti ore per arrivare a Milano, venticinque a Torino).

   Solo nel 1813 Parigi programmò un piano regolatore della viabilità dell’Impero, comprendente l’apertura della via dei Giovi, che saliva solo a 469m con pendenza massima del 7%; il progetto prevedeva la partecipazione attiva dei comuni di vallata; il progetto però rimase sulla carta per mancanza di fondi, quando già l’imprenditore Mannati si era impegnato a realizzarla in due anni –a sue spese da Novi ai Giovi- pur di avere la gestione della strada della Bocchetta ed  un pedaggio ai due passi. Fu poi realizzato dal Piemonte dopo l’annessione forzata.  

   Nel 1837 Giuseppe Vallardi editò un libro di viaggi per l’Italia, indicando strade ed itinerari vari seppur non facendo alcun accenno al nome antico del tragitto. Nel viaggio da Torino a Genova, descrive completarlo in due giorni partendo di buon’ora ed arrivando prima che ‘chiudano le porte’. Passava per Asti, Novi, Ronco, Voltaggio, Bocchetta, Campomorone, Pontedecimo ove avveniva l’ultima posta prima di percorrere «‘la nuova strada fatta a spese della famiglia Cambiaso…perché in addietro si doveva passare a guado la Polcevera più di venti volte; ma ora si passa una volta sola sul ponte presso Campo-Marone (sic)…»

   Sono anni nei quali il tempo...vola lentamente: le barche a vela, i muli, le notizie in genere, i pellegrini e commercianti e gli eserciti, tutti misurano il tempo in  giornate  di viaggio. E questo ritmo, condiziona la vita quotidiana di tutti:  culturalmente, politicamente, economicamente, nel lavoro: anche in questo, la via del mare è sempre la più veloce, se il tempo è buono.

--Praticamente solo dal 1850 si ebbe la concezione di un tracciato topograficamente  unitario dal mar Ligure all’Adriatico, anche se funzionalmente diverso.

 
 
BIBLIOGRAFIA

(vedere quella dell’Aurelia)

-Bassoli G.-Peregrinarrando-guida2 e 4-Libro Più 2003-pag. 5

-Bernardini E.-La preistoria in Liguria-Sagep 1978-pag.184. 218

-Bianchi-Poleggi-Una città portuale nel medioevo-Sagep 1980-pag.30

-Cera G.-La via Postumia da Genova a Cremona-L’Erma.2000-

-Chiappe M.-Il Tigullio e il suo entroterra...-IPS.1996-pag.23

-Grendi E.-Introduzione alla storia moderna della R.DGe-Bozzi1976-p.21

-Lamboglia N.–Liguria Romana –vol.I-Pozzi 1939-pag.193.225

-Luccardini R-vie romane in Liguria-DeFerrari 2001-pag95

-Meriana&Ferrero-Le rotte terrestri del port di Ge.-Sagep.04-pag.12

-Milanese M.-Scavi nell’oppidum preromano di Ge-L’Erma 1987-

-MiscosiG.-Origini italiche- testimonianze...-Marsano1934-pag.369

-Pinelli AM-Liguria-da Dizion.Epigrafico di antichità romane-195_

-Praga C.-antica viabilità- conferenze.

-Presotto D-aspetti dell’economia ligure-SLSPatria-v.81-f.I-pag.149

-Riccardini E.-l’incastellamento...-Riscoprire Trisobbio-congresso’02-p.132

-Sanguineti A-Iscrizioni romane-Atti SLSPatria-v.III-f.II-pag266

-TuvoCampagnol-Storia di Sampierdarena-D’Amore.1975-pag.156

-Vallardi G.-Itinerario d’Italia-22a ediz.-f.lli Vallardi .1837-pag.43

 

Recentissimi, gli studi di Mannoni limitati all’area genovese (1983-5); e di Pasquinucci (1987) sul territorio della Valpolcevera.

 

 

 

 

 


PRASIO                                           via Andrea Prasio

 

 

TARGHE:- via - Andrea Prasio – caduto per la libertà – 1909 – 7-4-1944

   angolo via SPd’Arena

  angolo via G.Buranello

   angolo via G.Buranello

 

QUARTIERE  ANTICO: Coscia

 da MVinzoni, 1757.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2832

 Dal Pagano/1961

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   51020

UNITÀ URBANISTICA: 26 SAMPIERDARENA

  Da Google Earth, 2007- In giallo.via Palazzo della Fortezza; fucsia via LDottesio.

CAP:   16149

PARROCCHIA:   (civ.1)=NS delle Grazie---(altri)=s.M.della Cella

STRUTTURA: strada comunale carrabile, con senso unico veicolare, da via G.Buranello a via San Pier d’Arena; è lunga 56,3 metri e larga 4,7 con 2 marciapiedi larghi poco più di 1 metro.

 anno 2009

 

STORIA:   corrisponde alla parte a mare dell’antichissima via Larga.

Quando nel 1850 furono costruite la “strada ferrata” e la via ad essa affiancata oggi G.Buranello, la via Larga fu tagliata in due; e per completare “l’assassinio” storico, le cambiarono nome dedicandola a Jacopo Ruffini.

Il 19 agosto 1935, per evitare omonimie col centro, cambiarono il nome: con delibera del podestà divenne tutta ‘via Pialazzo della Fortezza’.

Dopo l’ultima guerra, con delibera della giunta comunale il 14 nov.1946 le hanno di nuovo cambiato nome: cambiano i tempi e cambiano i miti: al tratto a monte hanno  lasciato il nome precedente relativo all’antica villa  ‘via Palazzo della Fortezza’; al tratto a mare diedero il nome del partigiano.

                 

anni 70-80

 

CIVICI

2007= NERI   = 1                     e dal 2 al 4 compreso 2A.

           ROSSI = da 1r al 15r;    e dal 2r al 22r

   Nel Pagano 1950 vengono citate tre osterie al 1r di Lacqua Giuseppe (con bar detto Pinotto in via N.Barabino 15); 3.5r di Demasello A.; 13r di Orsi C.

 Nessun bar, né trattoria.

DEDICATA  al sampierdarenese nato il 7 apr.1909, operaio. Iniziò l’attività clandestina di ribellione frequentando i GAP (gruppi di azione patriottica), col nome di battaglia “Balilla”, rifornendo di armi e qualsiasi materiale potesse essere utile alle formazioni di montagna.

Riconosciuto in  questa attività clandestina, entrò nell’elenco dei ricercati per cui fu necessario scappare sui monti entrando a far parte della III Brigata Liguria. Durante il rastrellamento della Benedicta, fu intrappolato sui Piani di Praglia -in località Mezzano- e preso prigioniero: dopo averlo costretto a scavarsi la fossa, lo fucilarono sul posto, il giorno del suo 35° compleanno.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica, scheda 3687

-AA.VV.Annuario guida Archidiocesi- ed/94-pag.433; ed/02-pag.469

-AA.VV.-opuscolo 35° Spd’A

-Gimelli G.-Cronache militari della Resistenza-Carige 1985-v.III-pag.76

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag.73

-Pagano/1933-pag.555; 1961-pag.445

-Pastorino Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi 1985-pag.1527

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio 1995-tav.51

 

 

-non citato da Pagano1961

                     Pastorino.Vigliero


 PRATO                                         via Prato

 

Prima del 1850 e della ferrovia,  la strada posta perpendicolare al mare (cioè il tratto oggi via U.Rela) costeggiava a levante la proprietà della villa Centurione Carpaneto (di piazza Montano) fatta di orti, vigneti e frutteti ma in quel tratto lasciata a prato. Così prese questo nome popolare, e già lo ritroviamo ufficiale nel 1867 in una ‘statistica dei colerosi morti a domicilio’ (2 casi su 68 decessi, su 107 contagiati) per una epidemia scoppiata in quell’anno nel periodo dal 7 agosto-al 7 ottobre.

Dopo la cessione dei terreni e la costruzione dei caseggiati divenne strada assai frequentata, centrale, e che sempre ospitò interessanti negozi di commercianti: antico è quello dell’orologiaio.

 Sotto l’archivolto n° 69 della ferrovia, ed al civ. 10 della strada (di rimpetto al voltino, dalla parte a monte del viadotto), da più generazioni  fabbri ferrai (materiale ferroso greggio e finito, tubi in barre e tagliato, anelli pneumatici, nichelatura e smaltatura)  negli anni fine 1800 Roncagliolo Lorenzo  fu tra i primi  fabbricanti di velocipedi -poi biciclette, poi anche motocicli, mentre dei tre figli Emilio, Colombo e Cesare, gli ultimi due divennero attivi sportivi ciclisti e l’ultimo per più anni primeggiò a livelli nazionali. Furono anche fondatori -di alta statura morale-  della società sportiva Nicolò Barabino, antagonista della Sampierdarenese nelle specialità di scherma, ginnastica, atletica , bocce, ma senza rivali nella sezione velocipedisti.  Alla loro chiusura per cessata attività, nel posto fu eretto il Nuovo Cinema Splendor.

Nel maggio 1889 i fratelli Chiesa fu Francesco chiesero al Comune poter restaurare i civv.N. 3 e 4 di loro proprietà, rifacendone anche la facciata; malgrado i timbri di approvazione, l’operazione non fu attuata come da loro prospetto allegato (vedi via U.Rela).

 

 A fine secolo 1800, i proprietari delle case risultano essere stati: al civ.2 Barabino Giuseppe; 3, fratelli e sorelle Chiesa; 4 Morasso Salvatore; 5-6-8 Lagorara Carlo; 7e 10, Dellepiane Enrico; 9 eredi Tubino; 10a Serra Giacomo; 12, Figari Catterina in Ivaldi; 13 e 14 Casanova e C; 15-16-17 sorelle Fava; 18 Paulucci Augusto

Nel dicembre 1900, il regio Commissario straordinario incaricato dalla giunta comunale di proporre dei nomi per le nuove strade cittadine,  segnalò la possibilità di estendere il nome di “via Prato” alla strada a monte della ferrovia, per tutto il tratto est-ovest che sfociava in piazza Felice Cavallotti; mentre il tratto perpendicolare -che portava lo stesso nome- di dedicarlo a Urbano Rela; questa seconda parte fu realizzata  dopo, non si sa quando, senz’altro prima del 1910 quando aveva tre civici.

Così nel genn.1901, l’impresa Barabino, Calvi, Rebora, appose la prima targa in marmo, aggiungendo l’antico nome  di “via Prato” al tratto parallelo alla ferrovia.

Il Pagano 1902 segnala questi esercizi commerciali: civ. 2 Barabino Agostino  ha fino al 1912 negozio di foraggi ed osteria;---10  il negozio di legnami da costruzione di Serra Giacomo fu Nap. Ancora attivo nel 1919, tel. 5-99 (anche a Genova in via Scurreria) ;--- l’unico veterinario dr. Capati Gius. (c’è nel 1912; non c’è più nel 1919);--- 14  il negozio ‘Fotografia Pisana’, del fotografo Frediani Vittorio sino al 1919;-- al 18 Pretto Antonio lavora nelle conserve alimentari;---18B la fabbrica carrozze di Paolucci Augusto ‘successore Fava. 

   Era nato “in to Pròu”, all’incirca in questi anni, Sommariva Giovanni, detto Elio. Dal 1925 al ’40 praticò da protagonista nuoto (ma anche pallanuoto e calcio) nello stile dorso, rappresentando l’Italia anche in gare internazionali. Ebbe una medaglia al valor civile per aver salvato pericolanti in mare.

Nel Pagano 1908 vedi molti negozi segnati  del 1902.

Eguale il nome nel 1910, con altre parole specificato “dalla piazza Felice Cavallotti a  Levante a fianco della ferrovia”, sempre con civv. neri sino al 6.

Nel 1919 morì di influenza spagnola   in una casa della strada, a 33 anni, il pittore Arnaldo Castrovillari  (fiorentino, nato nel 1886) amico di D.Conte.

DeLandolina/1922 scrive si chiamasse ‘vico del Prato’.

Nella pubblicazione comunale del 1927 inerente a tutte le strade facenti parte delle delegazioni subentrate nella Grande Genova, compare a SPd’Arena la ‘via del Prato’, di 5a categoria, eguale ad una del Centro, di S.Quirico, di Struppa e di Voltri (nessuna sopravvissuta ai tempi d’oggi).

Ancora così si chiamava nel 1933 con due soli civici e sempre di 5.a categoria.           

Con decreto podestarile del 19 ago.1935, anch’essa fu cambiata divenendo via A.Orsolino, mentre rimase via Urbano Rela il tratto mare-monte tra via Vittorio Emanuele (oggi piazza Vittorio Veneto) e via Mercato (oggi inglobata nell’ultimo tratto di via A.Cantore).

Nel tratto lungo la ferrovia, fu aperto l’ingresso al cinema Splendor, di cui si parla in via A.Orsolino.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale    di palazzo Ducale

-Archivio Storico Com. Toponomastica - scheda 3697 (la chiama :’ via del Prato’)

-DeLandolina GC. – Sampierdarena -Rinascenza .1923 – pag.52

-Lamponi M.-Genova in bicicletta-Valenti.1977-pag. 47.53-4

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio-1900-pag.18

-Pagano/1911– pag.990 --- /1922-pag. 1037- --/1933-pag.248 
PRATO                                 prato dell’ Amore

 

Non fu una strada, ma un zona del borgo: è  citato per la prima volta nella località della Fiumara, quando nel 1847 vi sorse lo stabilimento di Taylor e Prandi (poi Ansaldo).

Non è dato sapere il perché di questo nomignolo popolare che però era presente per indicare una zona allibrata al catasto di Sampierdarena, ai numeri 176 e 178 nei quartieri del Canto e della Fiumara (ogni tanto chiamata anche “spiumara, o lazzaretto, o prato d’amore”) di  33.616 mq dei quali 1.156,9 occupati da «una casa padronale e tre coloniche, un baraccone ad uso saponeria, una piazzetta chiusa ed il resto era terreno ortivo, con canneto e vigna, posto  oltre la ‘Crosa dei buoi’ , nell’angolo tra il mare e la foce del torrente».  La terra, allora era  ricca di acqua sorgiva,  di produzioni viticole ed orticole tra le migliori (come oggi può vantare più solo la piana d’Albenga), di proprietà della marchesa Maria Oriettina Lamba Doria, moglie del marchese Fabio Pallavicini, ambasciatore del regno Sardo in Baviera.

Per il Taylor la zona appare l’ideale, sia per la cantieristica navale che per uno stabilimento di locomotive (da  fabbricare con un sistema perfezionato rispetto l’ideatore Stephenson , ed a prezzo ridotto).  Appena  l’Intendenza Generale di Genova pubblicò il manifesto di occupazione del suolo affiggendolo nel municipio di San Pier d’Arena dal 20 al 27 ago.1846,  scattarono le opposizioni dei proprietari: della marchesa  (che oltre agli orti  aveva affittati dei poderi alle famiglie Piccaluga e Ferrari; degli appartamenti  -tra cui uno ad un GB Derchi (non certo il pittore); ed un capannone a Salvatore Tubino per una fabbrica di sapone),  del sig. Pescetto proprietario di una fabbrica di amido, di Giuseppe Torre e Francesco Carena proprietari dell’antica e prospera corderia, forti di 50 operai e che temono le scintille; dei fratelli Rolla proprietari di una tintoria. Il Consiglio di Stato esaminò domanda, opposizioni e controricorso, e decise a favore di se stesso, cioè del Taylor dichiarando la sua iniziativa di pubblica utilità (al Cavour non era dispiaciuta l’idea di iniziare una produzione al servizio della propria marina militare e delle strade ferrate, in quegli anni in via di forte espansione; e degli inglesi si fidava più che degli italiani). Gli espropri seguirono una lunga procedura, ma il 23 giu.1847 si dovette firmare in palazzo Ducale. L’atto di cessione, destina 120mila lire al Pallavicini.

  BIBLIOGRAFIA

 -Montarese M.Genova secolo XX-ERGA 1980-pag63

-Gazzo E.-I 100 anni dell’Ansaldo-Ansaldo 1953-pag 76-80

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRETI                                  via dei Preti

 

Nome popolare dato al tratto trasversale a via Aurelio Saffi in proprietà Cristofoli, a cui nell’ anno 1900 fu ufficialmente  proposto il nome di Benedetto Cairoli.

Dopo disamina della giunta comunale, fu invece intitolata “via Giovanni Bosco”  (che solo dopo divenne ‘via san Giovanni Bosco’).

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale in palazzo Ducale     
 

PROVINCIALE                       strada Provinciale

 

 

Una volta istituiti i comuni negli anni attorno al 1800 sotto la guida del governo francese, divennero di competenza provinciale tutte le strade che uscivano dall’abitato.

Fu chiamata nel 1815 “strada provinciale per Torino” quella che poi divenne via Vittorio Emanuele ( attuale via W.Fillak).

Nel 1846 viene chiamata “strada provinciale di ponente” l’attuale via E.Degola.

E poi dopo anche per la ‘via di Francia’, aperta dopo aver fatto transazione col pio istituto del rev. Morando Gerolamo,  proprietario dei terreni nella zona a ponente tra lo sbocco di via Dottesio e piazza N.Barabino.

 

BIBLIOGRAFIA

-Autore non conosciuto-Dattiloscritto chiesa san Gaetano-vol.I-pag.83